MARCELLO DELL’UTRI


11.12.2004 Sentenza Dell’Utri

 

25.3.2013 Sentenza Appello Processo Dell’Utri

 


Documenti del processo per concorso esterno in associazione mafiosa
Altro:
Richiesta di archiviazione della Procura di Caltanissetta per Berlusconi e Dell’Utri PDF
Decreto di archiviazione del gip di Caltanissetta Tona per Berlusconi e Dell’Utri PDF
Richiesta di archiviazione della Procura di Firenze per Berlusconi e Dell’Utri PDF 
Decreto di archiviazione del gip di Firenze Soresina per Berlusconi e Dell’Utri PDF 


AUDIO deposizioni ai processi



  • La fotostoria di Marcello Dell’Utri: tra politica, libri e condanne  Nato a Palermo, nel 1941, intimo amico di Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri lo ha affiancato prima in Fininvest e poi in politica,fondando insieme a lui Forza Italia. Noto bibliofilo, ha affiancato a quella per i libri, la passione per il calcio, guidando la squadraBagicalupo di Palermo. Condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, secondo la sentenze era il “ponte” tra Silvio Berlusconi e Cosa nostra.

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I rapporti tra Silvio Berlusconi e Cosa Nostra

 


Marcello Dell’Utri (nato l’11 settembre 1941) Già Senatore per Il Popolo della Libertà , è stato anche membro della Delegazione parlamentare

italiana presso il Consiglio d’Europa e della Delegazione parlamentare italiana presso l’ Unione dell’Europa occidentale (WEO). [1]  Dell’Utri è stato riconosciuto colpevole di frode fiscale , falso in bilancio e complicità in complotto con la mafia siciliana ; la condanna per l’ultima imputazione è stata confermata il 9 maggio 2014 dalla Suprema Corte di Cassazione italiana che ha condannato Dell’Utri a sette anni di reclusione. La condanna è definitiva e non può essere ulteriormente impugnata. La terza sezione penale della Corte d’Appello di Palermo ha dichiarato Dell’Utri un latitante nel maggio 2014, quando è stato scoperto che era fuggito dal Paese prima della decisione finale del tribunale. [3] Dopo essere stato arrestato in Libano, il 13 giugno 2014 Dell’Utri è stato estradato in Italia. È stato ulteriormente condannato nell’aprile 2018 a 12 anni a causa del Patto Stato-Mafia .

Attività economiche e politiche Dell’Utri è nato a Palermo , in Sicilia . Dopo la scuola nella sua città natale, è andato a Milano per studiare giurisprudenza all’università. Dopo la laurea, Dell’Utri è tornato a Palermo per lavoro alla Cassa di Risparmio di Sicilia ( Sicilia Cassa di Risparmio ), ma nel 1973 è di nuovo a Milano dove inizia a lavorare per Silvio Berlusconi un’impresa edile s’ Edilnord . Verso la fine degli anni ’70 entra a far parte della Bresciano Costruzioni , ma nel 1980 viene chiamato da Berlusconi e lavora per Publitalia ’80 , l’ala commerciale della Fininvest.divisione televisiva, prima come manager e poi come presidente e amministratore delegato della società.

Fondatore di Forza Italia  Nel 1994 è stato uno dei fondatori di Forza Italia , insieme a Silvio Berlusconi e Cesare Previti ; Forza Italia era un partito di centrodestra a grande tenda , con fazioni liberali conservatrici, cristiano democratiche e persino socialdemocratiche, il cui scopo era raccogliere tutti i voti dello sciolto Pentapartito , la coalizione centrista di governo sciolta dopo lo scandalo di Tangentopoli . Nel 1995 Dell’Utri lascia Publitalia ’80, la società pubblicitaria di Berlusconi. Nel 1996 è stato eletto alla Camera dei Deputati italiana (camera bassa del Parlamento italiano); mentre nel 1999 è stato eletto al Parlamento europeo , di cui è rimasto membro fino al 2004. [4]

Nelle elezioni politiche del 2001 è stato eletto senatore al Senato italiano ed è stato rieletto nel 2006 e nel 2008. [1] [5]

Collusione con la mafia Nel 1973 Dell’Utri presentò Vittorio Mangano , già accusato di crimini di mafia, a Silvio Berlusconi , come giardiniere e stalliere a Villa San Martino di proprietà di Berlusconi ad Arcore , un piccolo paese vicino a Milano. Il vero lavoro di Mangano sarebbe stato quello di dissuadere i rapitori dal prendere di mira i bambini del magnate. [6] [7]

Nel 1996, Salvatore Cancemi , collaborante, ha dichiarato che Berlusconi e Dell’Utri erano in contatto diretto con i boss mafioso Totò Riina . I presunti contatti, secondo Cancemi, dovevano sfociare in una legislazione favorevole a Cosa Nostra, in particolare al duro regime carcerario 41-bis . La premessa di fondo era che Cosa Nostra avrebbe sostenuto il partito Forza Italia di Berlusconi in cambio di favori politici. [8]Dopo due anni di indagine, i magistrati hanno chiuso l’inchiesta senza accuse. Non hanno trovato prove per corroborare le accuse di Cancemi. Allo stesso modo, un’indagine di due anni, avviata anche su prove di Cancemi, sulla presunta associazione di Berlusconi con la mafia è stata chiusa nel 1996. [6] [9] Cancemi ha rivelato che la Fininvest , attraverso Marcello Dell’Utri e il mafioso Vittorio Mangano , aveva pagato Cosa Nostra 200 milioni di lire (100.000 euro) all’anno. [8] Dal 1973 al 1975 Mangano viene assunto come custode di scuderia presso la Villa San Martino di proprietà di Silvio Berlusconi ad Arcore. Durante un’intervista dell’8 aprile 2008, Marcello Dell’Utri ha descritto Mangano come un “eroe”. [10] Secondo l’ennesimo collaboratore della giustizia mafiosa, Antonino Giuffrè – arrestato il 16 aprile 2002 – la mafia si è rivolta al partito di Berlusconi Forza Italia per curare gli interessi della mafia, dopo il declino all’inizio degli anni ’90 del partito democristiano al governo (DC – Democrazia Cristiana ) – i cui leader in Sicilia si occupavano degli interessi della mafia a Roma. Il litigio della mafia con la Democrazia Cristiana divenne evidente quando l’uomo forte della DC in Sicilia, Salvo Lima, è stato ucciso nel marzo 1992. “L’omicidio di Lima ha segnato la fine di un’era”, ha detto Giuffrè alla corte. “Si apriva una nuova era con una nuova forza politica all’orizzonte che forniva le garanzie che i democristiani non erano più in grado di dare. Per essere chiari, quel partito era Forza Italia”. [11] Se fosse vero, le accuse potrebbero spiegare la piazza pulita della coalizione Berlusconi dei 61 seggi in Parlamento della Sicilia nelle elezioni del 2001. [12]

Dell’Utri è stato l’intermediario di una serie di sforzi legislativi per allentare la pressione sui mafiosi in cambio del sostegno elettorale, secondo Giuffrè. “Dell’Utri era molto vicino a Cosa Nostra e un ottimo punto di contatto per Berlusconi”, ha detto. [13] Il boss mafioso Bernardo Provenzano disse a Giuffrè che “erano in buone mani” con Dell’Utri, che era “una persona seria e degna di fiducia”. [12] L’avvocato di Dell’Utri, Enrico Trantino, ha liquidato le accuse di Giuffrè come una “antologia di dicerie”. Disse che Giuffrè aveva perpetuato la tendenza secondo cui ogni nuovo voltagabbana avrebbe attaccato Dell ‘ Utri e l’ex premier democristiano Giulio Andreotti per guadagnare soldi e privilegi giudiziari. [14]

Condanna di primo grado per collusione mafiosa (2004)Nel dicembre 2004 è stato condannato in primo grado per complicità in associazione a delinquere con la mafia (in italiano : concorso in associazione mafiosa ) e condannato a 9 anni nel 2004. [15] [16] Dell’Utri ha fornito “un concreto, volontario, consapevole , contributo specifico e prezioso agli scopi illeciti di Cosa Nostra, sia dal punto di vista economico che politico ”, secondo la motivazione della sentenza. I giudici lo descrivono come un ponte che consente a Cosa Nostra “di entrare in contatto con importanti circoli economici e finanziari”. Dell’Utri ha descritto la deposizione dei giudici come “un avallo acritico degli argomenti dell’accusa

La Corte d’Appello di Palermo condanna Dell’Utri a sette anni di detenzione per collusione con la mafia, fino al 1992 avendo agito da collegamento tra i boss mafiosi Stefano Bontade , Totò Riina , Bernardo Provenzano ed essendo un intermediario tra le organizzazioni criminali in Sicilia e Silvio Berlusconi. Una delle circostanze incriminanti è stata l’assunzione del boss mafioso Vittorio Mangano sotto le spoglie di un custode di scuderia nella villa di Berlusconi ad Arcore. La corte d’appello ha accertato che Marcello Dell’utri è stato intermediario e consigliere di Stefano Bontadefino all’anno 1980 e successivamente fino al 1992 a Totò Riina e Bernardo Provenzano per investimenti diretti a Milano, Lombardia e nord Italia finalizzati al riciclaggio di profitti illeciti provenienti da attività criminali mafiose e traffico di droga mediante operazioni finanziarie in società con sede nel nord Italia. [18] [19]

La Corte di Cassazione italiana ha condannato in via definitiva Marcello Dell’Utri a sette anni di reclusione. La terza sezione penale della Corte d’appello di Palermo ha dichiarato Dell’Utri un latitante quando è stato scoperto che aveva lasciato il Paese poco prima dell’imminente decisione definitiva della Corte di Cassazione. Al momento la sentenza è stata letta in Italia Dell’Utri era già detenuto in Libano e rapidamente catturato a Beirut in un’operazione congiunta di polizia guidata dall’Interpole forze di polizia libanesi. Gli investigatori lo hanno rintracciato in un hotel di lusso a Beirut, dove è stato arrestato dalla polizia. La Corte Suprema ha condannato Dell’Utri per aver agito da intermediario tra la mafia siciliana e l’élite imprenditoriale milanese, comprese le società di Berlusconi, dal 1974 al 1992. [3]

Dell’Utri viene localizzato e arrestato a Beirut ( Libano ) il 12 aprile 2014 da un’operazione congiunta guidata dall’INTERPOL e dalle forze libanesi. In data 11 aprile 2014 la 3a Sezione Penale della Corte d’Appello di Palermo, Sicilia, ha emesso un mandato d’arresto nei confronti di Marcello Dell’Utri su richiesta del Dipartimento nazionale investigativo antimafia , il quale ha dichiarato di aver ottenuto informazioni che avrebbe potuto fuggire prima del la sua udienza presso la più alta corte d’appello italiana a Roma il 15 aprile. [3]

Catturato in Libano (2014) A seguito dell’emissione di un mandato di arresto europeo e di un avviso rosso internazionale da parte dell’Interpol , Dell’Utri è stato localizzato e arrestato a Beirut , in Libano , in un’operazione congiunta che ha coinvolto l’ intelligence libanese e il dipartimento investigativo antimafia italiano. Dell’Utri è stato rintracciato all’Hotel Phoenicia a cinque stelle attraverso l’uso della sua carta di credito e dei tabulati del cellulare. Dell’Utri era solo al momento del suo arresto ed è stato trovato in possesso di una grossa somma di denaro. [20] [21] Procedura di estradizioneLa procedura per estradare il detenuto Marcello Dell’utri dal Libano in Italia era stata avviata dal Ministero della Giustizia italiano alle autorità libanesi a seguito del suo arresto in Libano il 12 aprile 2014. Dell’Utri è rimasto detenuto in custodia dalle autorità libanesi fino al completamento del la procedura di estradizione. La Procura di Stato libanese è stata, durante l’intera procedura, in contatto con le autorità italiane sulla questione attraverso i canali diplomatici ufficiali e gli uffici dell’Interpol a Beirut . [22] [23]Il 13 giugno 2014 Dell’Utri è stato estradato in Italia e iscritto al Penitenziario di Parma dove sta scontando i suoi sette anni di reclusione. [24] L’8 maggio 2016 è stata accettata la sua richiesta di trasferimento in un carcere di Rebibbia , Roma. [25]

Altre questioni legali Nel 1999 la Corte di Cassazione lo aveva già condannato a 2 anni e 3 mesi per frode fiscale e falso in bilancio . Nonostante ciò, nello stesso anno, è stato eletto deputato al Parlamento europeo e nel 2001 è stato nominato al Senato italiano . In effetti, l’ordinamento giuridico italiano consente che il termine di prescrizione continui a funzionare durante il processo legale. Quindi, annullando il fatto della carica pendente.

Il suo caso si è complicato ulteriormente quando, nell’aprile 2006, è stata resa pubblica la trascrizione di una conversazione telefonica intercettata. La conversazione è stata tra il latitante Vito Roberto Palazzolo – un noto “banchiere” mafioso legato a Bernardo Provenzano – e sua sorella a Milano. Palazzolo, condannato in Svizzera per riciclaggio di denaro sporco, è fuggito in Sud Africa nel 1986. L’Italia chiedeva la sua estradizione dal Sud Africa. Nella conversazione telefonica intercettata Palazzolo ha esortato la sorella a fare pressioni su Dell’Utri per interrompere i tentativi di estradizione e si è offerto di intervenire su accordi di costruzione in Angola. “Non preoccuparti, non devi convertirlo, è già stato convertito”, ha detto Palazzolo, insinuando che Dell’Utri fosse un legame con la mafia. [26] [27]

Il 15 maggio 2007 la Corte d’Appello di Milano ha condannato Dell’Utri e il boss mafioso Vincenzo Virga a due anni ciascuno per tentata estorsione alla squadra di Trapani Basket da parte di Publitalia, concessionaria della Fininvest . [28] Quattro anni dopo, la Corte d’Appello di Milano annullò la sentenza e assolse Dell’Utri e Virga perché il fatto non aveva fondamento. [29] Condannato a 7 anni di reclusione, condannato a vita il condannato per mafia Dell’Utri ex art. 416 § 1,4 e 6 cp

Nell’ottobre 2009 Gaspare Spatuzza , mafioso trasformato in pentito nel 2008, ha confermato le dichiarazioni di Giuffrè. Spatuzza ha testimoniato che il suo capo Giuseppe Graviano gli aveva detto nel 1994 che il futuro premier Silvio Berlusconi stava trattando con la mafia, riguardo a un accordo politico-elettorale tra Cosa Nostra e il partito di Berlusconi Forza Italia . Spatuzza ha detto che Graviano gli ha rivelato le informazioni durante una conversazione in un bar di proprietà Graviano nell’esclusivo quartiere di Via Veneto della capitale italiana, Roma. Dell’Utri è stato l’intermediario, secondo Spatuzza. Dell’Utri ha liquidato le accuse di Spatuzza come “sciocchezze”. [30]

Le accuse di Spatuzza sono state incluse nel processo di appello per collusione mafiosa di Dell’Utri e Spatuzza ha ripetuto le sue accuse al processo d’appello. [31] I pubblici ministeri hanno sostenuto che la mafia ha diffuso il panico con una campagna di attentati terroristici nell’Italia continentale nel 1993 in modo che Forza Italia potesse salire sulla scena politica sotto le spoglie di salvatore nazionale. Gli attentati cessarono dopo che Berlusconi vinse il potere per la prima volta nel 1994. [32]

In data 29 giugno 2010 la Corte d’Appello di Palermo ha ridotto a sette anni la pena di nove anni del 2004 per collusione con la mafia. Nel riesaminare la sentenza precedente, la corte d’appello ha affermato che la condanna rappresentava atti commessi da Dell’Utri prima del 1992, mentre dopo quell’anno fu prosciolto dalle accuse. L’accusa aveva chiesto che la pena fosse aumentata a 11 anni. [33] I giudici impiegarono sei giorni per considerare la loro decisione, un tempo straordinariamente lungo per le deliberazioni.

Ulteriore atto d’accusa per “rapporti di mafia” avvenuti negli anni ’90 Il 31 ottobre 2017 Dell’Utri è anche ufficialmente iscritto nel registro delle persone coinvolte in trattative clandestine tra i rappresentanti corrotti del governo italiano e le organizzazioni mafiose siciliane (lett. Patto Stato-Mafia , “trattativa stato mafia”) su richiesta. della Procura della Repubblica, avendo la Procura acquisita nuove informazioni rilevanti provenienti dalle trascrizioni della conversazione telefonica a Palermo del boss mafioso Giuseppe Graviano che ha coinvolto Dell’Utri insieme ad altre persone coinvolte nella trattativa. Il 20 aprile 2018 è stato condannato a ulteriori 12 anni di carcere. [34]

Dichiarazioni relative al boss mafioso Vittorio Mangano Dopo la sentenza della corte d’appello, Dell’Utri ha espresso la sua ammirazione per il compianto Vittorio Mangano , un mafioso condannato che fino alla sua morte in carcere ha negato l’esistenza di qualsiasi legame tra Cosa Nostra e Dell’Utri e Berlusconi. “Era un detenuto malato a cui era stato chiesto di testimoniare contro di me e Berlusconi e si è sempre rifiutato di farlo. Se lo avesse fatto, si sarebbe creduto a tutto ciò che avrebbe detto. Ma ha preferito rimanere in prigione e morire lì, piuttosto che per fare accuse ingiuste “, ha detto Dell’Utri. “Era il mio eroe. Non so se avrei potuto resistere tanto quanto ha fatto lui.” [33]

Biblioteca di Via Senato e altre associazioni Dell’Utri è stato anche il fondatore della Biblioteca di via Senato , l’Erasmo. Trimestrale della civiltà europea , Il Domenicale . È anche presidente dell’associazione culturale Il Circolo Giovani . [35]


 
«DELL’UTRI, LA CASA PER LA FIGLIA: PREZZO 1,2 MILIONI» di Marco Lillo
La telefonata del 2020 di Marcello Dell’Utri che legge la lettera per Silvio Berlusconi si conclude proprio quando, dopo aver chiesto aiuto economico all’amico Silvio, Marcello passa ad analizzare la questione della casa comprata a Milano da una società della galassia Berlusconi ma in uso alla famiglia Dell’Utri.
La Dia spiega nella nota di 154 pagine del 15 settembre 2021 così i suoi sospetti sulla storia della casa milanese “destinata alla figlia di Dell’Utri” per la quale la moglie di Marcello nel 2019 aveva siglato un preliminare.
“Appare sospetto, se non addirittura delittuoso, (ma i pm non risulta abbiano contestato nulla sul punto Ndr) l’intervento in fase di acquisto dell’immobile di una società riconducibile a Berlusconi Silvio,(…) semplificando, l’immobile è stato ceduto alla Immobiliare Dueville S.r.l. al corrispettivo di € 1.200.000,00 più IVA e immediatamente prima del rogito, il preliminare con la signora Ratti è stato risolto tramite la restituzione alla donna, da parte della società (…) S.r.l., della caparra precedentemente versata. L’Immobiliare Due Ville, spiega la Dia, fa parte della galassia di Silvio Berlusconi “il quale ha acquistato l’immobile per destinarlo comunque alla famiglia Dell’Utri, sostituendosi nell’atto di compravendita a Miranda Ratti e, di fatto, la sua interposizione ha non solo comportato che il costo, elevato, se lo sia assunto lui, operando di fatto una ulteriore regalia, ma ne ha anche mascherato la effettiva formale destinazione, sottraendo la riconducibilità della proprietà dello stesso bene ai coniugi Dell’Utri-Ratti”. Inoltre, sempre secondo la Dia, la ristrutturazione sarà a carico della società del gruppo Berlusconi e “avrà un costo quantificato in circa 1.200.000,00 euro, pari al prezzo di acquisto. Quindi al termine dei lavori, la villa dovrebbe avere una valutazione di circa€ 2.500.000,00”.
Sono due i documenti più importanti depositati al Tribunale del Riesame di Firenze dai pm Luca Tescaroli e Luca Turco. Oltre all’informativa della Dia sopra citata c’è la relazione dei consulenti dei pm che analizza i primi flussi finanziari della Fininvest di Berlusconi negli anni ‘70. Sono carte provenienti dall’indagine principale dei due pm (chiusa con archiviazione più volte già in passato e riaperta) su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri per l’ipotesi di concorso in strage per i fatti del 1993. La consulenza tecnica di 517 pagine del 11 maggio 2022 oltre ai primi innesti di capitali nelle società di Berlusconi tratta anche i rapporti finanziari tra Marcello e Silvio.
I documenti sono stati depositati nel procedimento sulle perquisizioni presso i terzi non indagati, Nunzia e Benedetto Graviano, i fratelli di Giuseppe Graviano.
L’avvocato dei fratelli non indagati, Mario Murano, ha impugnato fino in Cassazione sostenendo che i fratelli non c’entravano nulla e che non si poteva perquisirli per cercare prove dei rapporti presunti di Giuseppe Graviano con Berlusconi. Per convincere il Tribunale della correttezza dei loro sequestri presso terzi, i pm hanno depositato le carte relative all’indagine principale e Repubblica negli ultimi giorni ne ha pubblicato alcuni stralci.
La relazione dei due consulenti analizza i generosi contributi passati di Berlusconi aMarcello ma non trae conclusioni nette: “Dall’analisi degli atti a disposizione degli scriventi, pur rilevandosi l’effettiva esistenza di flussi finanziari (erogazioni con modalità diverse) da Silvio Berlusconi a Marcello Dell’Utri, peraltro confermata dallo stesso Dott. Silvio Berlusconi in sede di udienza, non sembra possibile, allo stato dei documenti esaminati, formulare osservazioni tecniche in termini di conferma e/o di confutazione delle affermazioni dello stesso Berlusconi in relazione alle ragioni sottese a tali erogazioni, quali sostanziali atti di “amicizia”.
(da “Il Fatto Quotidiano” del 18 marzo 2023)


Napoli, Dell’Utri e il sacco dei Girolamini: “Il sequestro dei miei libri mi ha mandato in sala operatoria”

 I verbali dell’ex senatore imputato di peculato: “Ho dovuto mettere 3 stent, quei volumi portati via, peggio del carcere…”

Nell’aula del tribunale di Napoli, l’uomo che fu uno degli architetti più controversi della stagione berlusconiana della Seconda Repubblica racconta ai magistrati di aver sofferto più per il sequestro di migliaia di libri antichi che per la detenzione dopo la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. «Quando ero detenuto a Parma mi sono stati sequestrati 40mila volumi. Sono stato male per questa cosa, ho dovuto mettere tre stent, perché mi ha fatto più danno questo della stessa carcerazione», dice Marcello Dell’Utri, appassionato bibliofilo ma soprattutto ex senatore e stratega della nascita di Forza Italia, poi travolto dall’inchiesta sulle di collusioni con Cosa nostra e ora sotto processo a Napoli con l’ipotesi di peculato per aver ricevuto dall’ex direttore della biblioteca dei Girolamini, Massimo Marino De Caro, 14 testi trafugati dal monumento. Interrogato come imputato davanti ai giudici della prima sezione penale presieduta da Francesco Pellecchia, Dell’Utri nega di aver saputo che quei volumi erano stati rubati dalla biblioteca: «È un’accusa che non ho mai accettato e ovviamente non posso accettare. Perché non è la verità. Non ho mai concordato con De Caro la sottrazione di libri dalla Girolamini. Sarei stato veramente un pazzo, io che ho fatto sempre tutto per dare agli altri i libri, mi accingevo a fare una spoliazione di una biblioteca importante? E poi, sarei stato così cretino da annotare il punto, il momento, il luogo della ricezione di questi libri? Ma non esiste al mondo». Dell’Utri risponde alle domande della pm Antonella Serio, che con il procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli coordina i diversi filoni dell’indagine avviata otto anni fa dal futuro procuratore Giovanni Melillo, e dei suoi avvocati, Claudio Botti e Francesco Centonze. Ricorda di aver conosciuto De Caro (protagonista centrale dello scandalo dei Girolamini, già condannato a 7 anni) perché questi era «un libraio antiquario» e gli era stato presentato da «un altro libraio antiquario suo amico». De Caro, rimarca l’ex senatore, «era uno fra i più preparati dal punto di vista della bibliofilia e della bibliografia», oltre ad essersi mostrato anche «simpatizzante di Forza Italia». Fu proprio Dell’Utri a mettere in contatto il futuro direttore dei Girolamini con l’allora ministro dell’Agricoltura Giancarlo Galan. «Sapevo che De Caro era competente di energie alternative. Peraltro aveva rapporti in Russia, dove conosceva un oligarca importantissimo. Quando Galan fu nominato ministro, De Caro mi disse che avrebbe potuto dargli suggerimenti utili e mi chiese di presentarlo a lui». Così Dell’Utri chiese a Galan di «ricevere questo giovane, ha un’idea da proporre». Dopo il colloquio, il ministro commentò: «È bravissimo, lo tengo come consulente».MDell’Utri esclude invece di aver avuto un ruolo nella nomina di De Caro ai Girolamini. «Quando me lo disse, neanche sapevo dove fosse questa biblioteca». Sui libri ricevuti da De Caro, l’ex braccio destro di Berlusconi ribadisce di non essere stato mai a conoscenza della loro provenienza dai Girolamini. «Non potevo immaginare che De Caro mi facesse una cosa del genere, lo avrei mandato a quel paese». Più volte, durante l’interrogatorio in aula, Dell’Utri insiste sul suo amore per i libri. «Ho aperto la biblioteca di via Senato per il pubblico, non per me. Ho sempre ambito che i libri fossero studiati, valutati, che fossero strumento di preparazione». Così, quando gli vengono sequestrati a Milano 40mila testi antichi «per verificare cosa c’era della Biblioteca dei Girolamini», l’ex senatore soffre peggio di quando lo hanno portato in carcere. «Non ritenevo giusto questo atto, la Procura di Milano (che aveva aperto un’indagine autonoma n.d.r.) ha tenuto questi volumi per sei anni e non ha trovato alcun libro proveniente né dalla Girolamini, né da altre biblioteche, conventi o chicchessia. Me li hanno restituiti con un tir, stanno lì in Biblioteca per cercare di rimetterli a posto, anche perché molti sono stati rovinati dal sequestro. È un argomento che mi fa male ancora oggi». di Dario del Porto 21.12.2020 LA REPUBBLICA 


Stato-mafia, pentito Riggio: ”Dell’Utri indicò luoghi delle stragi in Continente Dichiarazioni dirompenti che, qualora trovassero riscontro negli accertamenti delle competenti procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta, potrebbero dare una spinta importante, se non decisiva, nella ricerca della verità sui mandanti esterni delle stragi del 1992 e del 1993. E’ la testimonianza dell’ex agente di polizia penitenziaria Pietro Riggio, che dal 2018 sta rilasciando una serie di dichiarazioni su quanto avvenuto in quel tragico biennio e sulle sue conoscenze con esponenti deviati dei servizi di sicurezza, sentito ieri mattina al processo sulla trattativa Stato-Mafia in corso davanti alla Corte d’Assise d’Appello presieduta da Angelo Pellino (a latere Vittorio Anania).

Solo nei giorni scorsi le Procure di Caltanissetta e Firenze hanno dato l’ok per l’utilizzo dei primi verbali del collaboratore di giustizia.

Quattro ore di udienza in cui sono stati affrontati molteplici argomenti: il ruolo di Marcello Dell’Utri come colui che “suggerisce la creazione del nuovo partito e indica quelli che erano i luoghi delle stragi in Continente”; la creazione di una squadretta per arrivare all’arresto di Bernardo Provenzano; il progetto di attentato al giudice Guarnotta; la morte di Luigi Ilardo; le confidenze raccolte sulla strage di Capaci.

Il “professore” Dell’Utri e quelle confidenze di Vincenzo Ferrara. Rispondendo alle domande dei sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, Riggio ha raccontato le vicissitudini che lo hanno portato ad entrare in relazione con il mondo criminale di Cosa nostra (era cugino di Carmelo Barbieri, uomo di fiducia di Piddu Madonia a Caltanissetta e considerato tra coloro che smistavano le lettere di Bernardo Provenzano) dentro e fuori le carceri.

Alcuni mafiosi, come Ciro Vara, li aveva conosciuti tra il 1984 ed il 1989, quando militava nella squadra di calcio di Vallelunga. Poi divenne agente di polizia penitenziaria, partecipando anche al trasferimento dei boss detenuti, nel luglio 1992, nelle carceri di Pianosa e l’Asinara.

Quindi, nel 1994 ebbe modo di raccogliere delle confidenze di Vincenzo Ferrara, cognato di Piddu Madonia e detenuto nel carcere di Villalba: “Con lui si instaurò un rapporto di amicizia dopo che tentò un suicidio. Mi raccontò il perché era finito nel carcere di Villalba, mi raccontò che si era attivato con il Ros, con un capitano in servizio a Palermo (nome in codice ‘Oscar’), per la cattura di Spatuzza. Ed inizia a commentare tutte le dinamiche che stavano accadendo in quel momento. Mi raccontò che subito dopo la cattura di Madonia, che se non erro avviene alla fine del 1992, ebbe modo di partecipare a delle riunioni a Bagheria. Riunioni in cui si decide la strategia di Cosa nostra, dove veniva comunicato cosa si doveva fare. Lui si lamentava moltissimo perché Madonia non era totalmente d’accordo per la tipologia di stragi”.

E’ a quel punto che avrebbe ricevuto anche le confidenze sull’ex senatore di Forza Italia: “A parere suo era la cagione di tutti i mali. E’ quello che in quel momento stava succedendo quella che doveva essere la politica di Cosa nostra. Tutto lo faceva riferire alla creazione del nuovo partito e alle indicazioni di quelli che erano i punti delle stragi in Continente (Roma, Firenze e Milano, ndr). E infatti mi dice: ‘Tu ti immagini Totò Riina che dice via Palestro a Milano e via dei Georgofili? Ma che ne sa Riina di queste cose? Lui era un ignorante. E’ il professore, lui lo chiama così (Dell’Utri), che suggerisce tutte queste cose per creare una destabilizzazione. ‘Era in atto un golpe bianco e la gente – mi dice – non si rende conto di quello che sta succedendo. Vedrai dove andremo a finire’”. Ferrara gli avrebbe anche parlato di altri soggetti: “Mi parlò di Schifani e La Loggia. Di La Loggia mi disse che il padre era un appartenente alla famiglia mafiosa e poi aggiunse: ‘quelli sono stati sempre avvocati dei mafiosi. Schifani per una vita è stato avvocato dei Graviano e ora all’improvviso sono diventati tutti paladini politici di riferimento, ma noi queste cose le pagheremo”.

Il voto a Forza Italia  Riggio, che per la prima volta venne arrestato nel 1998 nell’operazione “Grande Oriente”, intervenuto in videoconferenza, ha anche riferito che Ferrara gli parlò di un “accordo politico”: “Forza Italia era già nata ed aveva vinto le elezioni. Questa cosa la posso confermare anche per un’altra vicenda riferita da Ciro Vara. Io dissi a lui che appartenevo all’area di centro, del Cdu, ma lui mi dice che noi dovevamo votare Forza Italia, perché questo era il nuovo partito che ci poteva aiutare. Anche da lui, dunque, ricevetti l’input che Forza Italia era considerata all’interno di Cosa nostra”.

Secondo l’ex agente penitenziario il “patto” che si istaurò era per “dare apporto a questa forza politica che di contro avrebbe dato a Cosa nostra l’accoglimento di richieste particolari. L’alleggerimento del 41 bis, le chiusure di Pianosa e l’Asinara, il cambiamento della legge sui collaboratori di giustizia, sono tutti fatti che mi hanno dato prova che quel che disse Ferrara poi, nel tempo, si verificò. Oppure togliere l’ergastolo, o far uscire dal carcere gli ultra Settantenni, impugnare la legge Rognoni-La Torre. Cosa nostra avrebbe fatto carte false pur di ottenere un minimo di queste rivendicazioni. La forza politica scelta fu Forza Italia con il suo trait-d’union, nella persona di Marcello Dell’Utri, ma non solo. La riforma del maxi processo? Ferrara mi disse che l’urgenza era la questione delle carceri. Soprattutto la chiusura di Pianosa e l’Asinara”.

L’incontro con Di Maggio. Proprio rispetto alla chiusura delle carceri delle due isole l’ex agente penitenziario ha riferito di un dialogo, avuto quando era membro del sindacato, con l’ex vice capo del Dap Francesco Di Maggio. Quest’ultimo gli avrebbe dato degli input per fare una rimostranza sindacale ed evidenziare le condizioni pessime in cui si trovavano a svolgere il proprio lavoro gli agenti della penitenziaria proprio nelle carceri di Pianosa e l’Asinara. “Mi venne a trovare e mi disse ‘voi vedete come stanno i vostri colleghi a Pianosa, senza diritti. Perché non andate sull’isola che è invivibile? Dobbiamo riuscire a farla togliere. E quando fate il documento lo mandate anche alla amministrazione e cerchiamo di dare una mano’. E ciò avvenne, ci fu un sopralluogo nell’isola con il nostro segretario generale Capece, e con il leghista Borghezio. E da lì a qualche mese le carceri furono chiuse. Poi ho capito il reale motivo, con la parte politica che aveva dato il contentino alla parte mafiosa”.

Il confronto con il cugino di Ilardo Nel corso dell’esame il pg Fici ha voluto approfondire un riferimento che compare nel verbale d’interrogatorio del 7 giugno 2018, in cui Riggio afferma di aver parlato degli stessi argomenti sviluppati con Ferrara anche con Angelo Ilardo, cugino dell’infiltrato ucciso nell’aprile 1996. “Io volevo capire se effettivamente vi fosse stata una partecipazione attiva di Cosa nostra a favorire Forza Italia e l’Ilardo mi disse cose ancora più dure da digerire, dicendo che le cose di cui io ero venuto a conoscenza le stava riferendo anche il cugino e che per queste cose fu ucciso”. Quindi, prima di fermarsi facendo riferimento a possibili indagini in corso, ha aggiunto: “Mi disse: ‘Se i mafiosi lo hanno ucciso, lo hanno ucciso per conto dello Stato’, perché Ilardo voleva parlare di quelli che erano gli interessi e gli intrecci che in quel periodo erano intercorsi tra lo Stato e la mafia e di tutti i fatti di cui si erano resi protagonisti i mafiosi per conto della politica. E fu in quella occasione che lui mi disse chi lo aveva venduto per conto dello Stato”.  Rispetto a certi argomenti parlò anche con due marescialli dei carabinieri, Vincenzo Parrella e Pino Del Vecchio, conosciuti nel 1998 nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, che tra il 1993 ed il 1996 si trovavano in Sicilia come membri della squadra del colonnello Riccio. “In particolare con Del Vecchio mi soffermai sulla vicenda di Mezzojuso e la mancata cattura di Provenzano. E lui mi dice che i carabinieri erano stati ostacolati a prendere Bernardo Provenzano e fu dato l’ordine solo di scattare delle foto. Io ricordo che mi arrivavano dei giornali e in uno di questi, se non ricordo male di ANTIMAFIADuemila che era cartaceo, c’era proprio la foto in cui venivano ritratte diverse persone al bivio di Mezzojuso. E lui mi dice che si ricordava della foto. Con Pino Del Vecchio ho avuto la conferma che effettivamente su Provenzano ci fu una volontà espressa di non volerlo catturare. Chi diede l’ordine di non prenderlo? Me lo disse Del Vecchio e il riferimento era a Mori”.

Quei rapporti di “amorosi sensi” tra mafia-carabinieri. Nel corso della sua deposizione Riggio ha anche raccontato un episodio avvenuto nel corso della perquisizione che subì in casa nel novembre 1998, quando i carabinieri del Ros cercavano una lettera che quattro anni prima avrebbe recuperato e ricomposto dalla cella dello stesso Ferrara: “In quella missiva si faceva riferimento a Ferrara con toni minacciosi. Veniva chiamato ‘fradiciume’. Io non ne feci menzione con i superiori, ma a un mio collega. Preferimmo non dire nulla. Io conservai la lettera, finché i carabinieri, durante la perquisizione in casa non la trovarono in un cassetto e fu sequestrata. Parlai di queste cose nel 2018 e so che è stata anche ritrovata”. Sul perché i carabinieri fossero proprio interessati a quella missiva, Riggio ha detto di essersi fatto un’idea non nell’immediatezza ma per quel che ebbe modo di comprendere poi, anche dopo esser entrato in Cosa nostra: “I carabinieri parlavano direttamente con i mafiosi, avevano i punti di riferimento con cui interloquivano. Ed i mafiosi parlavano con i carabinieri. C’era un rapporto di ‘amorosi sensi’ avrebbe detto Foscolo. Era così. Si parlavano liberamente”.

Colloqui investigativi in carcere. La lunga deposizione di Riggio è poi proseguita sul tema della detenzione nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e dodici colloqui investigativi che lo videro coinvolto. “Man mano che si svolgevano – ha detto il teste – le persone che mi venivano a trovare non avevano interesse a conoscere delle cose in particolare, ma capire se io avessi l’intenzione di collaborare o meno. Questo fatto mi allarmò e feci richiesta per visionare il fascicolo e vidi che risultavano solo due colloqui investigativi mentre degli altri dieci non vi era traccia. I due che risultavano erano quelli fatti con il Ros dei carabinieri ed il tenente Palmisano. Degli altri non c’era traccia. Loro si presentavano come forze dell’ordine, sempre in borghese. E solo una volta capitò che la stessa persona venuta all’ultimo si presentava al successivo. Le altre volte sempre diverse”. Questi colloqui investigativi sono anteriori alla formale collaborazione iniziata nel 2008. Un riferimento che riporta al cosiddetto “protocollo farfalla”, accordo tra il Dap ed i Servizi per cui era possibile non avvisare l’autorità giudiziaria di eventuali colloqui tra 007 e detenuti.

Task force per la cattura di Provenzano  Nel corso del suo flusso di coscienza il collaboratore di giustizia, oltre a riferire in merito al ruolo avuto all’interno della famiglia mafiosa criminale dei Madonia a Caltanissetta, ha raccontato un episodio avvenuto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere ed i contatti avuti con alcuni soggetti come Giovanni Peluso e Peppe Porto che gli proposero di entrare in una “task force” per catturare il boss corleonese Bernardo Provenzano, al tempo sempre latitante. “Mi promisero che sarei rientrato in servizio e che mi avrebbero fatto derubricare l’accusa che al tempo c’era nei miei confronti di concorso esterno, e poi c’era una taglia altissima – ha aggiunto – Peluso mi disse che non c’erano problemi perché era in contatto con il Procuratore di Caltanissetta Tinebra, dicendomi che lui era un suo braccio destro. Io in primo grado fui condannato a quattro anni e sei mesi. In secondo grado il reato fu derubricato senza alcun articolo 7 (l’aggravante mafiosa, ndr) e la pena ridotta a due anni e sei mesi”. Rispetto alla creazione della task force il pentito ha raccontato di un incontro avuto all’interno degli uffici della Dia a Roma. “Ricevetti un telegramma con linguaggio criptico dove mi anticiparono che sarei stato portato a Roma per definire la creazione di questa squadra. A Roma arrivai nella mattinata e mi incontrai con l’allora capo centro Dia, Angelo Pellegrini ed il famoso zio Tony, che poi seppi si chiamava Miceli Antonio. Quest’ultimo partecipò alla nostra conversazione ed ebbi la sensazione che era paritario con Pellegrini. Ma se da un lato sapevo che uno era dei carabinieri l’altro non sapevo di cosa facesse parte”. Successivamente ebbe modo di apprendere che lo “zio Tony” fosse il “deus ex machina” dell’operazione e che lo stesso sarebbe un agente della Cia in Italia. All’interno del gruppo creato apposta per arrestare il boss corleonese, tempo dopo, sarebbe avvenuta una scissione: “Il Porto non si fidava più di Peluso, lo riteneva pericolosissimo assieme alla moglie, Castro Marianna. E non si fidava neanche di Pellegrino. Così andammo a Bologna ad incontrare il colonnello Tricarico. Lui era molto interessato della situazione che stavamo portando avanti e decidemmo di incontrarci nuovamente a Caltanissetta. A Tricarico dissi i personaggi su cui potevo lavorare per arrivare a Provenzano: Carmelo Barbieri, Giancarlo Giugno, Domenico Vaccaro. Gli elementi di cui si serviva l’associazione per avere contatti. E lui, dopo una verifica, disse che ci si poteva lavorare con una copertura per muoverci. Pochi giorni dopo però, presso la Dia di Caltanissetta fui convocato per notificarmi un atto e lì trovai il colonnello Angelo Pellegrini che si dimostrò a conoscenza del discorso con Tricarico e disse ‘deve farsi i cazzi suoi, lui in queste cose non c’entra nulla, io adesso sono a Palermo e mettiamo in pratica quello che abbiamo iniziato a Roma’. E mi presenta il maggiore Roberto Tersigni”. Riggio ha quindi riferito le modalità con cui si era “infiltrato” all’interno della famiglia criminale nissena, fino ad essere un “ectoplasma” e capire quelle che erano le dinamiche mafiose che si stavano evolvendo.

L’incontro con Faccia da Mostro. La collaborazione con Pellegrini, ha raccontato il pentito, sarebbe durata fino al giugno 2002, quando lo stesso Capo della Dia sarà trasferito. Tuttavia Riggio avrebbe continuato questo suo ruolo di infiltrato. “Io credevo in quello che facevo. Diedi indicazioni per far individuare la talpa all’interno del tribunale di Caltanissetta che passava le informazioni dall’interno dell’ufficio Gip di Ottavio Sferlazza, e poi altre dinamiche mafiose”. Tutto ciò avvenne, a detta del teste, almeno fino alla fine del 2003 quando avvenne un incontro con Peluso e un altro soggetto con il volto deturpato: “In un primo momento non lo avevo identificato, poi lo riconobbi in Giovanni Aiello, faccia di mostro. Fu proprio Angelo Schillaci (capo provinciale di Cosa nostra) a sollecitarmi per andare all’incontro. Mi disse che già conoscevo le persone. Poi fui contattato da Peluso. Ci incontrammo a Resuttano. Ricordo che venne a bordo di una Bmw, accompagnato da un’altra persona con il volto deturpato, come una sorta di sfregio, ed una donna. Questa scese dalla macchina per un attimo. Aveva i capelli lunghi, la carnagione olivastra ed i pantaloni mimetici. Le prime parole furono di Peluso che disse: ‘La vuoi finire? Non lo sai che i carabinieri riferiscono tutto? Non hai capito qual è il gioco?’ E l’uomo, che si presentò con il nome Filippo aggiunse che se non era per Peluso che mi voleva bene in quel momento già non c’ero più”. Così come aveva fatto al processo d’appello “Capaci bis” Riggio ha raccontato del progetto di attentato nei confronti del giudice Leonardo Guarnotta (“Peluso venne da me e mi disse che c’era da fare qualcosa di importante, riconducibile a un favore politico”); delle confidenze di Peluso sulla strage di Capaci in riferimento a persone esterne a Cosa nostra coinvolte nell’attentato (“Mi fece la battuta ‘ancora Brusca è coinvolto che il telecomando l’ha schiacciato lui’”), il ruolo dello stesso nel Sismi e la sua vicinanza all’ex questore Arnaldo La Barbera (“Il giorno che morì era in lacrime e mi disse che se ne era andata una persona importante”), i rapporti di Peluso e della moglie con i servizi libici, un successivo incontro con “Filippo”, in carcere. Proprio in merito a quest’ultimo fatto Riggio ha fatto una denuncia precisa: “Avevo anche le foto, ma mi sono state portate via in una perquisizione nel maggio 2018 a casa della mia compagna, dal tribunale di Monza. Andrò anche al Csm perché si sono presi due fascicoli che non erano pertinenti alle loro indagini uno su Contrada ed uno su Montante. Gli stessi non sono stati menzionati nel verbale di perquisizione, né è stata fatta menzione di nulla”. Sarebbe questo uno dei molteplici problemi che da qualche anno lo stesso collaboratore di giustizia avrebbe avuto, tra pressioni ed inviti a desistere. “Hanno fatto di tutto, anche sotto protezione, per chiudermi la bocca – ha aggiunto rispondendo alla domanda sul motivo per cui solo ora si è deciso a parlare di fatti così eclatanti – Io non so se morirò o vivrò, poco importa. Spero che siano stati trovati tutti i riscontri. Ho fatto trovare le foto, le epistole. E sono stato minacciato velatamente da appartenenti dello Stato. Non dalla mafia. La mafia non mi ha mai cercato, in un qualche senso mi ha lasciato perdere. Fino ad oggi io non sono uscito mai dal carcere e non ho avuto neanche un permesso premio. E chi mi rigetta i benefici, pur avendo tutti i pareri favorevoli, sono i giudici di Roma che nel contesto invece hanno concesso a Dell’Utri la detenzione domiciliare per motivi di salute. Gli stessi giudici di Dell’Utri sono quelli che giudicano i collaboratori. Questo non deve succedere. Per me non è un problema farmi la galera. Per me la decisione è portare alla luce tutte le cose che so. Ancora ho detto poco perché Caltanissetta non è riuscita ad approfondirmi su altre cose che voi state trattando: sul telefono di Riina, sull’omicidio di Gioé (dato particolare tenuto conto che le inchieste ufficiali parlano di suicidio, nonostante i dubbi ndr), e tante altre cose che ancora non ho potuto parlare. Sono testimone diretto con personaggi, fatti e luoghi. Non de relato, ma diretto”. A quel punto i magistrati hanno chiesto se vi fossero indagini in corso con le Procure di Caltanissetta e Firenze, ma il teste ha ribadito che certe cose sono state solo accennate e non sviluppate. Se così fosse è possibile immaginare che alla prossima udienza, il 26 ottobre, quando si terrà il controesame, ci saranno nuovi approfondimenti. 20 Ottobre 2020 AD


 Le parole di Graviano che riaprono la partita 

A far ripartire le indagini su Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi per le stragi di mafia tentate e riuscite del 1993-94 a Roma, Firenze e Milano, sono state le famose intercettazioni di Giuseppe Graviano. Il 10 aprile del 2016 il boss è a passeggio con il compagno di detenzione Umberto Adinolfi nel carcere di massima sicurezza di Ascoli. Il siciliano ricorda quando era stato chiamato a confermare le accuse del pentito Francesco Di Carlo, che aveva parlato anche di presunti investimenti del padre di Graviano a Milano: “Nel dicembre 2009 al processo Dell’Utri c’erano i giornalisti di tutto il mondo, te lo ricordi che si preoccupava?”. Graviano si era avvalso della facoltà di non rispondere ma leggeva nel pensiero di Marcello Dell’Utri, presente in aula: “si preoccupava, dice … si chistu pa… a mia m’arrestano subito”.
Graviano quel giorno del 2016 poi spiega di essere adirato per il trattamento subito e propone ad Adinolfi di far arrivare un messaggio minaccioso mediante un intermediario. A chi? Il boss non lo dice ma secondo l’accusa del processo Trattativa, si parlerebbe di Berlusconi. Graviano dice ad Adinolfi che bisognerebbe mandare un uomo a portare un messaggio a un terzo soggetto: “all’uomo ci si fa sapere: dici a Tizio che si comincia a presentare con tutto quello che sa lui”. Adinolfi è scettico. Capisce i rischi dell’operazione. Graviano prima di fargli la proposta di trovare un messaggero spiega al detenuto campano il contesto, partendo da molto lontano.
Graviano spiega che il nonno materno, Filippo Quartararo avrebbe investito nel 1975 insieme a un suo amico e altri soci in un’attività. Nel 1982, quando muore il padre, Michele Graviano, ucciso dai fedeli di Bontate, Giuseppe comincia a esser messo a parte dei segreti di questi investimenti: “morto mio padre io sapevo qualcosa ma non sapevo tutto” finché il nonno vicino alla morte, quando il nipote è già latitante, nel 1985 gli disse tutto.
A QUESTO PUNTO, Graviano dice: “Io avevo i contatti, giusto? Adesso passiamo a una fase molto delicata (…) a Roma lui voleva già scendere, ‘92 già voleva scendere e voleva tutto ed era disturbato per acchianari (cioè per salire, ndr) lo volevano indagare”. Adinolfi lo interrompe e con fare interrogativo dice: “Misi i luglio”, cioè sembra chiedere al boss: ‘La cortesia che ‘lui’ ti ha chiesto è riferita al mese di luglio 1992?’. Graviano (secondo l’interpretazione dei periti della Corte d’Assise, contestata dalla difesa Dell’Utri) dice: “Berlusca mi ha chiesto sta cortesia ….per questo è stata l’urgenza”.
Poi il boss di Brancaccio passa a parlare di un politico: “Io credevo in questa situazione la popolazione era con noialtri, era innamorata” e in dialetto siciliano ripete: “iddru voliva scinniri in quel periodo c’erano i vecchi, elezioni ri vecchi, e iddru mi dissi ci vulissi una bella cosa”. Il senso sarebbe “lui voleva scendere in politica era disturbato dai vecchi e mi disse: ‘ci vorrebbe una bella cosa’”. Nessuno può sapere esattamente quale sia il senso di questa frase, a parte Graviano, ma un’ipotesi formulata dal pm Antonino Di Matteo, è che “quando Graviano parla di cortesia, teoricamente è possibile pensare che si riferisca a un eccidio, via d’Amelio, in cui è stato uno dei protagonisti principali. Mi rendo conto che sono ipotesi”, ammette il magistrato, ricordando però che “tanti tasselli ci fanno ritenere che la strage di via D’Amelio possa essere stata eterodiretta da ambienti e soggetti estranei a Cosa nostra”. La Procura di Caltanissetta, competente sulle stragi del 1992, però non ha iscritto Berlusconi dopo aver acquisito le intercettazioni sulla ‘cortesia del 92’ fatta da Graviano.
SCELTA DIVERSA ha fatto Firenze per le stragi del 1993. Le parole di Graviano sono difficili da interpretare. Il boss potrebbe mentire volutamente per inviare messaggi depistanti. Nato nel 1963, Graviano è stato arrestato il 27 gennaio del 1994 a Milano con il fratello maggiore Filippo e da allora entrambi sono reclusi in isolamento. Boss precoce, scelto come capo del mandamento di Brancaccio scavalcando il primo e il secondogenito, era nel cuore del corleonese Riina nonostante fosse un palermitano. Il padre, Michele Graviano, era diventato ricco quando i suoi terreni agricoli avevano cambiato destinazione.

A Fiammetta Borsellino, che andò a trovarlo a Terni in carcere nel dicembre 2017 sperando di riuscire a smuoverlo, Graviano si raccontò così: “Vengo da una famiglia di possidenti, avevamo una concessionaria Renault a Brancaccio, Motel Agip, attività e terreni. Io andavo a scuola e contemporaneamente lavoravo, avevamo un terreno per costruire, eravamo una famiglia benestante, a 48 anni è morto mio padre … avevo 18 anni”. Fiammetta Borsellino gli chiede: “Come trascorreva la sua vita?”. Il boss replica “io ero latitante (…) non voglio raccontare cose… mi sono trasferito al Nord”.
Sostiene che faceva “commercio di carne con dei prestanomi”. Poi spara: “Frequentavo delle persone tra cui Baiardo Salvatore di Omegna sul lago D’Orta dove trascorrevo la latitanza. Frequentavo anche commercianti, familiari e avvocati e personaggi politici, tra cui anche quello … lo dicono tutti che frequentavo Berlusconi ….. più che io era mio cugino che lo frequentava … facevo una vita normale”. Come se fosse normale per un boss stragista frequentare Berlusconi. L’avvocato Niccolò Ghedini, quando svelammo l’intercettazione su www.iloft.it ci disse: “Nessuno ci ha mostrato questa conversazione. Comunque sapeva di essere registrato e potrebbe avere depistato. Non risulta nessun incontro di Berlusconi con Graviano o con qualcuno legato a lui. Tanto meno con un suo cugino”.  MARCO LILLO sul Fatto del 02/10/2019


Graviano, Dell’Utri & C. La sera andavamo da “Gigi”

 I fratelli Giuseppe e Filippo Graviano non sono i boss della Comasina. Sono stati per anni i re incontrastati del mandamento di Brancaccio, sono stati condannati in via definitiva per le stragi del 1992, soprattutto avrebbero avuto un ruolo in via D’Amelio e per gli attentati del 1993 a Roma, Firenze e Milano. Eppure non sono stati arrestati a via Oreto mentre indossavano una maglietta rosanero per andare allo stadio della Favorita. I carabinieri del Nucleo di Palermo gli hanno messo i ferri ai polsi in un ristorante allora alla moda di Milano: Gigi il Cacciatore in via Procaccini. Non stavano in compagnia di qualche feroce killer, ma di un inoffensivo e simpatico venditore ambulante che era appena giunto sotto la Madunina per portare il figlio a giocare. Ovviamente al Milan, squadra prediletta di Giuseppe Graviano.
GIUSEPPE E FILIPPO Graviano non hanno nulla a che fare con lo stereotipo del boss lupara e coppola. Quando giravano nelle città più belle del Nord Italia frequentavano solo ristoranti e boutique alla moda. Viaggiavano come insospettabili trentenni girelloni. Si facevano affittare le ville da armatori, imprenditori e amici di sindaci del novarese, rigorosamente ben vestiti e con accento del Nord. La Dia ha tracciato la loro presenza in tutti i casinò più importanti, da Venezia a Campione. I camerieri interrogati riferivano con dovizia di particolari sui loro orologi e abiti vistosi. Per capire dove erano stati a Padova, Verona o Milano, gli investigatori non andavano a interrogare i criminali di strada ma le belle commesse delle gioiellerie e dei negozi del centro, in testa Versace, la griffe preferita dai fratelli di Brancaccio e dalle fidanzate. Non deve stupire se, quando la figlia di Paolo Borsellino, Fiammetta, va in carcere a Terni per parlare con Giuseppe Graviano, invece di ascoltare parole di pentimento, (come abbiamo scritto ieri) si sente dire: “Mi sono trasferito al Nord (…) frequentavo commercianti, familiari e avvocati e personaggi politici” per poi sparare: “tra cui anche quello … lo dicono tutti che frequentavo Berlusconi più che io era mio cugino che lo frequentava … facevo una vita normale, salotti”.
Già abbiamo riportato la netta smentita sul punto dell’avvocato Niccolò Ghedini: Berlusconi non ha mai avuto contatti indiretti con nessuno della cerchia dei Graviano, spiega il legale del leader di FI. E poi questo “cugino” di Graviano non è mai esistito nemmeno nei verbali dei pentiti più “arditi”. La sfinge di Brancaccio si è sempre avvalsa della facoltà di non rispondere nei processi. L’unica possibile interpretazione sensata di quella frase su Berlusconi è quella che vede nel cugino una persona legata a Giuseppe Graviano come Cesare Lupo. Alcuni collaboratori di giustizia come Tullio Cannella hanno raccontato di avere ricevuto da Lupo vanterie su rapporti con l’ambiente di Marcello Dell’Utri a Milano. Lupo non è cugino di Graviano, anche se il boss lo considera un fedelissimo e gira sempre con lui e la moglie insieme al fratello e alle rispettive fidanzate quando è latitante durante l’anno chiave del 1993, quello delle stragi e della presunta Trattativa.
LUPO VIAGGIAVA con i fratelli e le rispettive mogli tra il Veneto e il lago d’Orta. Il cognato di Lupo, Fabio Tranchina, era l’autista di Graviano, poi si è pentito. Secondo gli investigatori, Lupo poi diventa il reggente e cassiere del mandamento quando i fratelli Graviano vanno in carcere. Dopo la condanna è stato recluso anche lui al 41 bis e si è laureato con una tesi sull’estorsione aggravata dal metodo mafioso voto 106. Faceva il costruttore e prima il funzionario ben pagato (3 milioni di vecchie lire al mese) di una società di telefonia. Non era un killer. Graviano potrebbe mentire su tutta la linea quando parla di Berlusconi. In più forse si è pure inventato un cugino. O forse si riferiva a Lupo nelle sue vanterie. D’altro canto “cugino” è un termine che talvolta si usa al sud nel linguaggio colloquiale per definire un amico strettissimo. Cugino o non cugino, Lupo o non Lupo, Berlusconi o non Berlusconi, tornando a Graviano, comunque il suo racconto a Fiammetta Borsellino prosegue così: “Andavo a divertirmi … al Teatro Manzoni”. Al compagno di detenzione Umberto Adinolfi, Graviano rincara: “Quando sono stato arrestato a Milano avevo in tasca 18 biglietti per lo spettacolo di Dorelli”. Il favoreggiatore arrestato con lui era stato invitato la sera dopo al Teatro Manzoni a vedere Aggiungi un posto a tavola con Johnny Dorelli per coincidenza nel teatro che allora era di Berlusconi. A Graviano piaceva sentire il profumo di Berlusconi e del Milan. Quando lo arrestano era seduto a un tavolo da sei: c’era il fratello e il favoreggiatore, con le compagne. Il favoreggiatore stava portando il figlio di 11 anni a fare il provino al Milan. Il ragazzo era stato raccomandato due anni prima al Milan proprio da Marcello dell’Utri. Marco Lillo sul Fatto del 03/10/2019.


C’è un contatto diretto, nel 1994, tra Silvio Berlusconie un uomo al lavoro per costruire il «partito di Cosa nostra». È emerso nel 2003, al processo palermitano per mafia contro Dell’Utri

C’è stato un contatto telefonico diretto, nel 1994, agli albori di Forza Italia, tra Silvio Berlusconi e un uomo allora impegnato a costruire «il partito di Cosa nostra». Lo ha raccontato un consulente della procura di Palermo, Gioacchino Genchi, in una delle udienze del processo in corso nella città siciliana con imputato Marcello Dell’Utri, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. A telefonare ad Arcore, al numero riservato di Berlusconi, alle ore 18.43 del 4 febbraio 1994, è il principe Domenico Napoleone Orsini.
Esponente dell’aristocrazia nera romana, massone, Orsini è in contatto con il capo della P2 Licio Gelli, che va anche a incontrare a villa Wanda, ad Arezzo. Dopo una gioventù nell’estrema destra neofascista, nei primi anni Novanta Orsini si scopre leghista. Nel novembre 1993 accoglie Umberto Bossi che scende nella Roma ladrona per incontrare i suoi sostenitori nella capitale: si riuniscono nella villa di Trastevere di Gaia Suspisio per una cena e brindisi con Veuve Cliquot, costo politico centomila lire, a cui partecipano, tra gli altri, il giornalista Fabrizio Del Noce, la vedova del fondatore del Tempo Maria Angiolillo e Maria Pia Dell’Utri, moglie di Marcello. Mentre viene servita la crostata di frutta, Bossi si avventura in un comizio di tre quarti d’ora, che si conclude solo quando la brigata si trasferisce al Piper, storica discoteca romana. Orsini si impegna nella Lega Italia federale, articolazione romana della Lega nord. Ma, forte dei contatti con Gelli, lavora per un progetto più ampio: riunire tutti i movimenti «separatisti», tutte le «leghe» nate in quei mesi nel Sud del Paese. Sono per lo più uomini della massoneria a fondare in molte regioni del Sud, dalla Calabria alla Lucania, dalla Puglia alla Sicilia, piccoli gruppi che si ispirano alla Lega di Bossi. I partiti storici, Dc in testa, sono allo sbando, anche per effetto delle inchieste di Mani pulite. Molti lavorano sotto traccia per riempire quel vuoto politico, mentre le stragi del ’92, in cui muoiono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e del’93, a Firenze, Roma e Milano, destabilizzano il Paese. Il principe Orsini è tra i più attivi in quei mesi: contatta i notabili che hanno fondato le «leghe del Sud», li riunisce, si offre come loro candidato unico alle elezioni, proponendo la costituzione di un’unica, grande «Lega meridionale», in rapporti ambivalenti con la Lega di Bossi: contrapposizione polemica, dichiarata riscossa del Sud contro il Nord, ma sostanziale alleanza e convergenza d’intenti, nel comune progetto di spezzare e frantumare l’Italia. Nello stesso periodo, qualcun altro era molto attivo negli stessi ambienti. Lo racconta Tullio Cannella, uomo molto vicino al capo militare di Cosa nostra, Leoluca Bagarella, impegnato nelle stragi: «Sin dal 1990-91 c’era un interesse di Cosa nostra a creare movimenti separatisti; erano sorti in tutto il Sud movimenti con varie denominazioni, ma tutti con ispirazioni e finalità separatiste. Questi movimenti avevano una contrapposizione “di facciata” con la Lega nord, ma nella sostanza ne condividevano gli obiettivi. Successivamente, sorgono a Catania il movimento Sicilia libera e in altri luoghi del Sud movimenti analoghi.
Tutte queste iniziative nascevano dalla volontà di Cosa nostra di “punire i politici una volta amici”, preparando il terreno a movimenti politici che prevedessero il coinvolgimento diretto di uomini della criminalità organizzata o, meglio, legati alla criminalità, ma “presentabili”». È la mafia che si fa partito: dopo aver constatato l’inutilizzabilità della Democrazia cristiana, che aveva lasciato diventare definitive le condanne al maxiprocesso di Palermo, Totò Riina e i suoi cercano figure «presentabili» per varare in proprio una nuova forza politica. «Nell’ottobre 1993», continua Cannella, «su incarico di Bagarella costituii a Palermo il movimento Sicilia libera», che apre una sede in via Nicolò Gallo e ha tra i suoi animatori, oltre allo stesso Cannella, anche Vincenzo La Bua. A Catania era nata la Lega Sicilia libera, controllata da Nando Platania e Nino Strano. Programma: la separazione dall’Italia della Sicilia, che doveva diventare «la Singapore del Mediterraneo», con conseguente possibilità di varare leggi più favorevoli a Cosa nostra, bloccare i «pentiti», annullare l’articolo 41 bis dell’ordinamento carcerario che aveva introdotto il carcere duro per i mafiosi, formare in Sicilia una autonoma Corte di cassazione…

I fondatori di «cosa nuova»

Agli uomini di Cosa nostra non sfugge fin dall’inizio che questo progetto è ambizioso e di difficile realizzazione. Per questo si lasciano aperta un’altra possibilità: cercare rapporti e offrire sostegno a nuove forze politiche nazionali che stanno nascendo sulle rovine del vecchio sistema dei partiti. «Le due strategie già coesistevano», racconta Cannella, «e lo stesso Bagarella sapeva della prossima “discesa in campo” di Silvio Berlusconi». È Forza Italia, dunque, la carta di riserva di Cosa nostra. I suoi uomini sono informati in anticipo, attraverso canali privilegiati, dei programmi di Forza Italia. Li conoscono addirittura prima che il nome Forza Italia sia lanciato da Berlusconi sul mercato della politica. Prosegue infatti Cannella: «Bagarella, tuttavia, non intendeva rinunciare al programma separatista, perché non voleva ripetere “l’errore” di suo cognato (Riina, ndr), cioè dare troppa fiducia ai politici, e voleva, quindi, conservarsi la carta di un movimento politico in cui Cosa nostra fosse presente in prima persona. Inoltre, va detto che vi era un’ampia convergenza tra i progetti, per come si andavano delineando, del nuovo movimento politico capeggiato da Berlusconi e quelli dei movimenti separatisti. Si pensi al progetto di fare della Sicilia un porto franco, che era un impegno dei movimenti separatisti e un impegno dei siciliani aderenti a Forza Italia. Si pensi ancora che, all’inizio del 1994, da esponenti della Lega nord (Tempesta, Marchioni e il principe Orsini), con i quali avevo avuto diretti contatti, ero stato notiziato dell’esistenza di trattative fra Bossi e Berlusconi per un apparentamento elettorale e per un futuro accordo di governo che prevedeva, fra l’altro, il federalismo tra gli obiettivi primari da perseguire. Marchioni mi aveva riferito che un parlamentare della Lega nord, questore del Senato, aveva confermato che il futuro movimento, che avrebbe poi preso il nome di Forza Italia, aveva sposato in pieno la tesi federalista». Giovanni Marchioni, un imprenditore vicino alla Lega Italia federale, l’articolazione romana della Lega nord, ha confermato che i promotori delle «leghe del Sud» si sono riuniti a Lamezia Terme. Erano presenti, tra gli altri, La Bua e Strano per Sicilia libera, oltre ai rappresentanti di Calabria libera, Lucania libera e Campania libera. In questa occasione il principe Orsini si propone come candidato unico del futuro raggruppamento di tutte quelle organizzazioni. Orsini conferma tutto ai magistrati palermitani e ammette «di avere chiaramente intuito il tipo di interessi che Sicilia libera intendeva tutelare», scrivono i magistrati di Palermo, «specialmente dopo che Cannella gli disse esplicitamente che “occorreva tenere un discorso all’Ucciardone per poi perorare la causa del noto 41 bis dell’ordinamento penitenziario”». Già verso la fine del 1993, comunque, un boss di Cosa nostra impegnato in prima persona nella strategia delle stragi avverte Cannella che quella del movimento separatista non è l’unica via: «Nel corso di un incontro con Filippo Graviano, questi, facendo riferimento al movimento Sicilia libera di cui ero notoriamente promotore, mi disse testualmente: “Ti sei messo in politica, ma perché non lasci stare, visto che c’è chi si cura i politici… Ci sono io che ho rapporti ad alti livelli e ben presto verranno risolti i problemi che ci danno i pentiti». Graviano e, nell’ombra, Bernardo Provenzano, nei mesi seguenti constatano che la strada separatista non è percorribile. È in questo clima che si intrecciano rapporti frenetici tra esponenti delle «leghe» e uomini di Forza Italia. Gioacchino Genchi è un poliziotto esperto in analisi dei traffici telefonici. Da tempo è in aspettativa dalla Polizia e dal suo ufficio di Palermo pieno di computer svolge il ruolo di consulente per diverse procure italiane. Per quella di Palermo ha analizzato, con i suoi programmi e i suoi data base, i flussi telefonici dei protagonisti della stagione di Sicilia libera. Scoprendo nei tabulati della Telecom e degli altri gestori telefonici una serie di contatti insospettabili.

Quel 4 febbraio 1994
Il giorno chiave è il 4 febbraio 1994. Il principe Orsini alle 10.50 telefona a Stefano Tempesta, esponente leghista vicino a Sicilia libera. Nel primo pomeriggio, alle 15.55, raggiunge al telefono Cannella, l’inviato di Bagarella nella politica. Subito dopo, alle 16.14, chiama la sede di Sicilia libera a Palermo. Alle 18.43 chiama Arcore: il numero è quello riservato a cui risponde Silvio Berlusconi. Immediatamente dopo chiama Marcello Dell’Utri. Alle 19.01 telefona di nuovo a Tempesta, che raggiunge ancora alle 19.20. Nei giorni successivi i contatti di Orsini continuano. Il 7 febbraio 1994, alle 17.34, chiama Sicilia libera. Il giorno dopo parla due volte con Dell’Utri. Il 10 febbraio alle 13.26 telefona a Cesare Previti. Il 14 febbraio contatta ancora Dell’Utri e, alle 16.04, Vittorio Sgarbi.
L’analisi al computer dei tabulati di migliaia di telefonate, naturalmente, non può far conoscere i contenuti dei contatti. Ma rivela i rapporti, le connessioni. Un deputato regionale siciliano dell’Udc, Salvatore Cintola, per esempio, nel periodo tra il 9 ottobre 1993 e il 10 febbraio 1994 chiama 96 volte il cellulare di Tullio Cannella, l’uomo di Sicilia libera. In quei mesi cruciali a cavallo tra il ’93 e il ’94 sono molti i contatti tra la sede di Sicilia libera e i numeri della Lega nord, a Roma, a Verona, a Belluno. Poi, quando l’opzione «leghista» tramonta, crescono i rapporti telefonici con uomini di Forza Italia. Gianfranco Micciché, Gaspare Giudice, Pippo Fallica, Salvatore La Porta. E Giovanni Lalia, che di Forza Italia siciliana è uno dei fondatori. È lui che dà vita al club forzista di Misilmeri, che anima il gruppo che si riunisce all’Hotel San Paolo di Palermo, formalmente posseduto dal costruttore Gianni Ienna, ma considerato dagli investigatori proprietà dei Graviano e per questo confiscato. È sempre lui, Lalia, che cede il suo cellulare a mafiosi di Misilmeri, il giro di Giovanni Tubato (poi ucciso) e Stefano Benigno (cugino di Lalia, in seguito condannato per le stragi del ’93). Le analisi dei traffici telefonici mettono in risalto anche gli intensi rapporti tra Marcello Dell’Utri e un gruppo di imprenditori siciliani attivi a Milano nel settore delle pulizie, capitanati da Natale Sartori e Antonino Currò, arrestati poi nel 1998 a Milano. Il gruppo di Sartori e Currò era a sua volta in strettissimi rapporti con il mafioso Vittorio Mangano, un tempo «stalliere» nella villa di Berlusconi ad Arcore. Un capomafia del peso di Giovanni Brusca ha testimoniato a Palermo che il tramite tra Berlusconi e Cosa nostra, a Milano, sarebbe proprio «un imprenditore nel settore delle pulizie». Chissà, si sono chiesti gli investigatori del caso Sartori-Currò, se ha a che fare con i nostri eroi. Ma per ora quell’imprenditore – ammesso che esista – è rimasto senza volto e senza nome. Restano soltanto i fili sottili dei rapporti intrecciati, nel momento forse più drammatico della storia italiana del dopoguerra, tra gli uomini di Cosa nostra, i promotori delle leghe, i fondatori di Forza Italia. Che questi contatti ci siano stati è ormai certo. Che cosa si siano detti, quali trattative, quali eventuali promesse si siano fatti non è invece ancora dato di sapere con certezza. Il momento fondativo della cosiddetta Seconda Repubblica resta avvolto nel mistero.  (Gianni Barbacetto, Diario, 21 marzo 2003)


Riina, il pentito Mutolo: “Io non immagino una politica senza mafia. Berlusconi? Non dimentichiamo che Dell’Utri è in galera”. 


“Io non immagino una politica senza mafia“. Parola di Gaspare Mutolo, ex mafioso fedelissimo di Salvatore Riina e poi tra i pentiti più importanti della storia di Cosa nostra. “Riina era un uomo carismatico, per me è stato un papà. Siamo stati in galera insieme. E lì è nata una profonda amicizia. Lui era un personaggio carismatico. Non era prepotente, lui conquistava le persone con le belle parole. Non abbiamo mai litigato, solo che a un certo punto ognuno ha preso la sua strada”, ha raccontato il collaboratore di giustizia che nel giorno della morte del capo dei capi ha partecipato ad un incontro alla Incappucciato, ha riavvolto indietro il nastro della storia, sostenendo che dietro l’arresto di Luciano Liggio ci fosse proprio Riina. “Fino al 1973/74 Riina è stato agli ordini di Luciano Liggio. Poi Liggio lo voleva estromettere e allora lui l’ha fatto arrestare a Milano nel 1974. E lì Riina ha preso il potere. Perché Riina era diverso da Bernardo Provenzano che era un bonaccione“, sono le parole usate da Mutolo. Che poi dà una sua personale visione della seconda guerra di mafia scatenata dallo stesso Riina. “Riina – ha detto il pentito – arrivò a costruire questo sistema che induceva le persone a lui affezionate a tradire i loro capi. Lui ha fatto uccidere i suoi migliori amici perché a un certo punto è diventato pazzo e aveva paura di essere tradito a sua volta”. Quindi spazio anche ai rapporti tra mafia e politica. “In Cosa nostra – ha detto Mutolo – c’erano anche i cugini Salvo che con Salvo Lima erano il potere. Erano amici di Andreotti. La mafia era ben vista finché non si è messa contro il governo. Nei Paesi comandavano tre persone: il prete, il mafioso e il maresciallo. Il maresciallo non perseguitava il mafioso perché non era un criminale come gli altri”. E quando parla di rapporti tra mafia e politica Mutolo poi tira in ballo anche Silvio Berlusconi. “Anche Berlusconi: l’amico intimo di Berlusconi che è Dell’Utri è in galera: vogliamo fare scomparire questo? Noi a Palermo vedevamo che Mangano faceva lo stalliere ad Arcore” IL FATTO QUOTIDIANO 18.11.2017


“Così Mori e Dell’Utri trattarono con la mafia”

Nel deserto dell’aula bunker di Palermo e nel quasi disinteresse della stampa nazionale e delle tv, un gruppo di magistrati sta tentando di ricostruire un tornante fondamentale della storia d’Italia della fine del secolo scorso. Il pm Antonino Di Matteo, che si alterna con i colleghi Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, continuerà a esporre la requisitoria nell’aula bunker dell’Ucciardone per il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia davanti alla Corte d’Assise presieduta da Alfredo Montalto. L’insufficiente copertura mediatica di queste prime udienze è stata una grande occasione sprecata per accendere una luce su un periodo oscuro della storia italiana. I pm in aula stanno tentando di ricostruire infatti la trama dei rapporti tra politica, mafia e istituzioni nel biennio che va dalle stragi del 1992 ai primi vagiti della Seconda Repubblica dopo l’insediamento del governo Berlusconi nel 1994.
Ovviamente è il punto di vista dell’accusa e sarà interessante anche ascoltare quello delle difese, ma l’impegno e il tema meriterebbero un’attenzione ben diversa dei media. Nel processo sono imputati tre ex ufficiali del Ros dei Carabinieri (i generali Mario Mori e Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno) un politico della Prima Repubblica (l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza) e uno della Seconda (l’ex parlamentare di Forza Italia Marcello Dell’Utri) più i mafiosi detenuti Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, il boss pentito Giovanni Brusca. L’ex ministro Calogero Mannino è stato assolto in primo grado, avendo scelto il rito abbreviato mentre i boss Totò Riina e Bernardo Provenzano sono morti. È contestato l’articolo 338 che punisce con la reclusione da uno a sette anni “chiunque usa violenza o minaccia a un corpo politico (…) per impedirne, in tutto o in parte, anche temporaneamente, il funzionamento o per turbarne comunque l’attività”. La trama complessa dell’accusa si dipana dall’omicidio del politico della Democrazia cristiana, l’andreottiano Salvo Lima, nel marzo del 1992 fino all’insediamento del governo Berlusconi nel 1994, grazie alla vittoria di Forza Italia, fondata con l’apporto dell’imputato Marcello Dell’Utri, già condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per le sue condotte fino al 1992.
La tesi dell’accusa, già anticipata in una memoria del 2012 (quando era ancora pm Antonio Ingroia, poi candidatosi come leader di una nuova formazione ma non eletto nel 2013) è quella del cedimento dello Stato al ricatto della mafia corleonese.
I politici e gli ufficiali sono imputati perché avrebbero agevolato il condizionamento delle istituzioni da parte dei boss. Riina e Provenzano puntavano a ottenere a suon di bombe i mutamenti delle leggi condensati nei punti del “papello” consegnato da Massimo Ciancimino e contenente le richieste di Riina alle istituzioni.
Nell’ipotesi dell’accusa lo Stato, con l’uniforme del Ros, si sarebbe seduto al tavolo con l’accordo di alcuni politici per ottenere la fine delle stragi.
L’accusa è pesante e, secondo giuristi come Giovanni Fiandaca, con fatica può essere supportata dal fragile articolo 338. Dopo cinque anni di processo e polemiche è però arrivato il momento della verità, almeno quella giudiziaria.
La sentenza potrebbe arrivare poco dopo le elezioni o a ridosso delle urne ma in pochi sembrano interessati. In questo clima surreale i pubblici ministeri vanno avanti sulla loro strada. In salita e disseminata di ostacoli come l’assoluzione di Mannino e le due assoluzioni definitive di Mori per la mancata perquisizione del covo di Riina nel 1993 (con Giuseppe De Donno) e per la mancata cattura di Provenzano nel 1995 (con Mario Obinu). Non aiuta anche la sentenza Dell’Utri, condannato per concorso esterno ma assolto (dopo un esito diverso in primo grado) per il periodo a partire dal 1993 sul quale pende l’accusa del processo.

I pm nei giorni scorsi hanno iniziato a lumeggiare la notte che segna il passaggio dal tramonto della Prima all’alba della Seconda Repubblica. Il 1992 è stato ricostruito dai pm Roberto Tartaglia e Antonino Di Matteo sotto due punti di vista diversi. Tartaglia ha illustrato il filo rosso che lega l’appoggio della mafia corleonese a tre movimenti politici sorti tra 1992 e fine 1993: le Leghe del sud, con la partecipazione attiva di Licio Gelli e Vito Ciancimino; il movimento Sicilia Libera sostenuto dagli uomini del boss Leoluca Bagarella e infine Forza Italia. Antonino Di Matteo invece si è dedicato alla trattativa tra il Ros di Mario Mori e Vito Ciancimino avviata nel 1992.

Vale la pena di riportare qui i passaggi più delicati. Per il pm Tartaglia c’è “unicità di un progetto. Il perseguimento del progetto autonomistico e federalista da parte di Cosa Nostra parte già a far data dal 1991, come affermato da Leonardo Messina (collaboratore di giustizia catanese, ndr) che per primo ha parlato del progetto maturato in alcune riunioni del 1991 nelle campagne di Enna. I boss della mafia in quella sede parlarono di separare l’Italia in tre macro-aree.

Secondo il pm Tartaglia, il debutto di Dell’Utri nello scenario della Trattativa sarebbe molto precedente alla discesa in campo. “Il linguaggio con cui Cosa Nostra cerca il primo contatto con Marcello Dell’Utri è quello classico di Cosa Nostra: l’intimidazione, la minaccia, in questo caso gli incendi alla Standa”. Tartaglia si riferisce agli attentati incendiari realizzati dalla mafia ai danni dei supermercati di Berlusconi, avvenuti nei primi anni 90. Se ne parlò già nel processo Dell’Utri, ma qui sono riletti in una logica nuova che li inserisce nella minaccia a corpo politico dello Stato, il reato contestato a Dell’Utri.

Tramite Dell’Utri e Vittorio Mangano, i boss Bagarella e Brusca avrebbero chiesto a Berlusconi interventi sulle leggi, i processi e il trattamento carcerario ponendo l’accettazione di questa “proposta che non si può rifiutare” come condizione “ineludibile” per la fine delle stragi e degli attentati.
Dell’Utri, quindi, avrebbe sostituito prima Salvo Lima e poi Vito Ciancimino come intermediario delle relazioni con la mafia, agevolando “il progredire della trattativa” e “la ricezione di tale minaccia da Berlusconi, dopo il suo insediamento come capo del governo”.

Il pm Tartaglia ha spiegato come si arrivò al risultato partendo dalle dichiarazioni del 1994 del pentito di Cosa Nostra catanese, Filippo Malvagna: “Dopo gli incendi erano scesi a Catania direttamente personaggi del gruppo Berlusconi. So che è sceso – testuale – un alto dirigente del gruppo Berlusconi ed è stato sanato tutto”.
Il pm a questo punto ricorda le due perplessità del pentito per come si era svolta la vicenda: da un lato la mafia aveva incassato pochi soldi; dall’altro a gestire la vicenda, nonostante gli attentati fossero nel Catanese, erano stati i Corleonesi. “Il modo in cui era stata chiusa quella vicenda – spiega ai giudici il pm Tartaglia – era la conferma per Malvagna che la finalità era duplice perché l’estorsione era stata chiusa a meno della metà del dovuto (…) e questo dice Malvagna perché la dovevano chiudere i Corleonesi (…) perché non è questione di soldi, è questione di amicizie e basta”.
Per il pm Tartaglia tutto inizia alla fine del 1991 quando, come racconta il pentito Leonardo Messina, ci sono riunioni dei boss della Cupola nelle campagne di Enna per decidere la strategia di destabilizzazione: “I tempi sono questi: fine 1991, riunioni di Enna, fase di malcontento, ricerca nuovi referenti (politici dopo la delusione per Lima, ndr) quello che ci dice Messina (pentito che parla di riunioni con Riina e Provenzano per decidere la strategia stragista di Cosa Nostra nel 1991, ndr) e la situazione viene chiusa con la discesa dell’alto dirigente, dice Malvagna, verso maggio del 1992”. A questo punto, Tartaglia si chiede con enfasi: “Ma chi è questo alto dirigente? Avola (Maurizio Avola, altro pentito di Cosa Nostra catanese, ndr) conferma tutto quello che ha detto Malvagna: la collocazione temporale, gli incendi, i Corleonesi eccetera, però dice anche espressamente che l’uomo del gruppo Berlusconi, l’alto dirigente che era sceso a parlare, era Marcello Dell’Utri. Marcello D’Agata (boss di Catania, ndr) aveva detto ad Avola che nel corso di quegli incontri si era visto direttamente con Nitto Santapaola.

Sempre sul vero significato profondo dell’operazione Standa di Catania (l’incendio del negozio della catena di Berlusconi, nella centralissima via Etnea, il 18 gennaio 1990, ndr), voglio citare Giuseppe Di Giacomo che ha aggiunto in udienza: ‘Fu deliberato da quel potere di Cosa Nostra palermitano di attaccare la Standa affinché potessero assoggettare Berlusconi attraverso questi attacchi e indurlo non solo a un pagamento di una tangente ma affinché potessero realizzare un nuovo progetto politico (…) e anche Di Giacomo dice di aver sentito direttamente da Aldo Ercolano il nome di Dell’Utri come soggetto che era sceso a Giardini Naxos che si era incontrato certamente almeno con Aldo Ercolano, cugino del boss Nitto Santapaola”. Poi il pm Tartaglia si pone nei panni dell’avvocato di Dell’Utri e formula le solite obiezioni: “Ci potranno dire le difese che i collaboratori lo hanno detto tardi, e non è vero. Ci potranno dire che lo hanno detto con finalità calunniatorie e per avere visibilità, e non è vero”. Allora Tartaglia tira giù un asso che nei due gradi del processo Dell’Utri i colleghi Ingroia e Scarpinato non potevano giocare: le intercettazioni in carcere del Capo dei Capi.

“Richiamo solo la conversazione intercettata di Salvatore Riina del 22 agosto 2013. Vi dico da subito che non ci sono nomi. Non c’è Berlusca, Berlusconi, grande, grandissimo non c’è bisogno di utilizzare spettrogrammi o altro”.
Qui Tartaglia ironizza sulla frase pronunciata da Giuseppe Graviano nel 2016 sulla cortesia a “Berlusca”, secondo l’accusa, o a “bravissimo”, secondo la difesa di Dell’Utri.

A differenza di Graviano che parlava piano, per il pm Tartaglia, con Riina non c’è bisogno di uno strumento come lo spettrogramma per tracciare le onde sonore al fine di decrittare le parole del boss.

Il pm prima di leggere le parole dette da Riina in cella nel 2013 nell’aula bunker, prima di imitare dialetto e tono del Capo dei Capi premette ironico: “Vediamo solo se si comprende a chi sta facendo riferimento Salvatore Riina”. Poi Tartaglia come un consumato imitatore di boss inizia a leggere interpretando: “Io mannaggia a questo uomo non sono riuscito a capirlo mai e però lo cercavamo. A questo si cercava.
Lo misi sotto per il fatto di Palermo e l’agganciammo. Tant’è vero che poi a Catania gli dettero fuoco alla Standa. ‘Dategli fuoco alla Standa’, gli dissi. Accussì li metto sotto, accussì, accussì li metto sotto accussì, dategli fuoco alla Standa”.

Poi, dopo avere riportato le parole di Riina, registrate nel 2013 mentre passeggiava nel carcere di Opera con il codetenuto Alberto Lorusso, Tartaglia prosegue a riportare il Riina-pensiero su un soggetto anonimo che sarebbe proprio Dell’Utri: “E ancora, sulla conclusione di questo assoggettamento intimidatorio per raggiungere il patto ‘mandò a chiddu. Scinnìu (scese, in palermitano, ndr) parlò cu uno e si mise d’accordo. Questo senatore sì, sì, serio era, serio devo dire la verità.
Però poi finì in galera questo qua’. Io lascio a voi al di là di ogni equivoco di dizione – chiosa Tartaglia – capire chi è stato messo sotto; chi è il senatore che scinnìu, che era serio serio, però poi finì in galera questo qua, con riferimento agli incendi alla Standa di Catania”. Poi ancora Tartaglia: “Ed è certamente a tutta questa storia che Riina deve aver fatto riferimento anche il 20 settembre 2013, quando ancora Lorusso lo informa che rischiano di arrestare Dell’Utri dopo la sentenza definitiva, e Rina parlando tra sé, quasi in un soliloquio, neanche guarda Lorusso e dice: ‘Ma tanto non se la canta’, lo ripete cinque volte: ‘Ma tanto non se la canta’. Chi è che non se la canta?”, è la domanda retorica di Tartaglia.

Poi il pm rievoca il verbale di un altro collaboratore ormai defunto, Salvatore Cancemi, vicino a Vittorio Mangano e al boss della Noce, Raffaele Ganci, prima dell’arresto del braccio destro di Totò Riina. “A fine 1991, inizio 1992, Riina mandò a chiamare Cancemi e si vedono a casa di Guddo. C’è Raffaele Ganci e Riina gli disse di rivolgersi subito, spendendo il suo nome, a Vittorio Mangano (…) e gli dice: ‘Devi fare presente che si doveva mettere da parte rispetto al rapporto con Berlusconi perché a proposito di questo rapporto – dice Cancemi – Riina lo definiva un bene per tutta Cosa Nostra la definizione usata da Riina alludeva per quanto Riina faceva capire all’attualità e all’avvenire. Mangano si deve fare da parte proprio quando partono gli incendi alla Standa perché non serve più il rapporto economico, serve altro”.

Poi il pm Tartaglia analizza il versante opposto della Trattativa, il lato politico, e cerca un riscontro alla sua tesi dell’aggancio tra Dell’Utri e Cosa Nostra nel 1992 nella testimonianza di un ex politico di area Dc che svolgeva corsi per i funzionari di Publitalia, Ezio Cartotto.

“Ancora Ezio Cartotto dice che sempre subito dopo l’omicidio Lima (marzo 1992, ndr) e certamente prima di Capaci (maggio 1992, ndr) Dell’Utri in persona spiega a Cartotto qual era il suo progetto. E le parole che Cartotto riporta di Dell’Utri sono che era necessario sostituire Lima con qualcos’altro. Cartotto chiede: ‘Ma perché con qualcos’altro e non con qualcun altro?’ e Dell’Utri risponde che l’idea sua in quel momento era di andare nella direzione di un partito che fosse alternativo a quello del sistema di cui faceva parte la Democrazia cristiana. Quando Cartotto chiede: ‘Ma perché hanno ucciso Lima?’ L’hanno ucciso perché non mantenne la parola. Dell’Utri sa bene che la strategia dell’intimidazione è iniziata, che non si scherza più e capiremo meglio alla luce di questo dato il significato dell’imputazione a Dell’Utri del 1994.
C’è la pressione larvata delle stragi incombenti, nel 1994, quelle per mantenere il patto. E infine dalla ricostruzione di Cartotto ricaviamo anche che l’idea di Dell’Utri nel marzo 1992 non era solo l’idea di un folle. Dice Cartotto che pochi mesi dopo lui partecipa – siamo tra la fine estate i primi di settembre del ’92 –, in qualità di funzionario a un incontro di Berlusconi a Montecarlo con dirigenti Fininvest e Publitalia. Siamo ancora due anni prima delle elezioni. E, diceva (Cartotto, ndr), abbiamo un primo discorso politico di Berlusconi. Dice: ‘Signori qui le cose vanno male, gli amici contano sempre meno e spariscono.
I nemici contano sempre di più. Ci vuole fegato, noi dobbiamo cominciare a organizzarci diversamente. E, dice Cartotto, subito dopo Dell’Utri trasforma quell’incarico (che era stato conferito da Publitalia a Cartotto, ndr) sui comitati politici nel primo contratto schiettamente politico ancora nascosto – per non far rendere conto a tutti di quello che covava sotto le ceneri – ‘contratto di marketing politico’, così era denominato. Su questo tema dell’opzione politica di Dell’Utri già nel 1992, dopo l’omicidio Lima, concludo senza commentarle…”.

A questo punto il pm Tartaglia riporta le frasi dette dal boss Giuseppe Graviano al compagno di detenzione Umberto Adinolfi, nel 2016: “Perché davvero non hanno bisogno di esegesi, di consulenti, di periti e di tecniche per comprenderne il significato alla luce di tutto quello che abbiamo detto fino a questo momento. 10 aprile 2016, Graviano è intercettato con Adinolfi durante il passeggio: ‘Umbè nel ’92 voleva scendere, ‘92 già voleva scendere, ed era disturbato per acchianari. ‘92 voleva scendere però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi disse ‘ci vulissi una bella cosa’. Nel 1992 già voleva scendere”.

Più avanti la requisitoria dei pm a gennaio del 2018 entrerà nel dettaglio dei rapporti triangolari tra Berlusconi e Dell’Utri e tra quest’ultimo e la mafia. Il pm Tartaglia in questa prima fase ha però puntellato la sua tesi sull’innesco di questo rapporto triangolare dal sapore politico. La tesi dell’accusa è che ci sia una continuità nel disegno politico di tre soggetti, le Leghe del Sud, Sicilia Libera e infine Forza Italia. Tartaglia valorizza al riguardo la presenza ricorrente di alcuni soggetti nei movimenti suddetti e in Forza Italia. “Quando si punta si apre l’ultima fase della nostra imputazione, chi è che finisce nell’esperienza di Forza Italia? C’è Platania che è trovato nell’agenda di Dell’Utri proprio con riferimento a Sicilia Libera.
C’è il fondatore di Sicilia Libera Palermo, iscritto tra i presidenti di circolo di Forza Italia. In particolare Nino Strano e Giuseppe Lipera, due personaggi presenti nell’esperienza delle Leghe del Sud e in Sicilia Libera che poi confluiscono in Forza Italia, Lipera e in Alleanza Nazionale, Strano. Il pm Tartaglia vede un filo comune.

“Abbiamo detto all’inizio della continuità di questo percorso da Enna (le riunioni con Riina e Provenzano, ndr) le Leghe e Sicilia Libera, abbiamo visto l’identità soggettiva, abbiamo visto le dichiarazioni dei collaboratori. Richiamo qualche nome (…) per dimostrare questa continuità.

C’è chi finisce esattamente nell’esperienza politica di Forza Italia, c’è Platania trovato nella pagina 19 dicembre 1993 dell’agenda sequestrata a Dell’Utri proprio con riferimento a Sicilia Libera. E ancora c’è il primo fondatore e presidente di Sicilia Libera Palermo, Vincenzo La Bua, iscritto all’elenco dei presidenti di club di Forza Italia.
C’è ancora Nino Strano, vertice di Catania delle Leghe fondatore di Sicilia Libera Catania, e che fa questo Nino Strano? Strano fa un comunicato in quella data. Dice che da quel momento, il progetto Sicilia Libera Catania si deve ritenere concluso, che tutto il bacino elettorale raccolto si deve ritenere inglobato in Forza Italia”. Conclude così Tartaglia: “Più continuità di questa da An (Strano è stato parlamentare di An e poi di altri partiti fino al 2012, ndr) al ’94 non esiste. Presidente io ho concluso questa mia prima parte grazie”.

Nella parte di requisitoria svolta finora, il pm Antonino Di Matteo si è concentrato sull’innesco della Trattativa nel 1992 e sul ruolo del Ros dei Carabinieri nel periodo in cui il capo operativo era l’allora colonnello Mario Mori.

Di Matteo ha riletto in aula quella che il pm considera “la confessione dell’esistenza di una vera e propria trattativa di tipo politico con la mafia basata e finalizzata sull’elementare concetto del do ut des”.

Per Di Matteo “l’ammissione di una vera e propria trattativa con i capi di Cosa Nostra attraverso Vito Ciancimino” è stata pronunciata dallo stesso Mori e dal suo collaboratore, l’allora capitano, poi colonnello, Giuseppe De Donno.

Leggo alcuni passaggi virgolettati – ha detto Di Matteo il 15 dicembre – di queste dichiarazioni rese all’udienza pubblica in Corte d’Assise a Firenze del 27 gennaio 1998: ‘Andammo da Ciancimino e dicemmo: signor Ciancimino che cos’è questa storia qui? Ormai c’è un muro contro muro. Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato, ma non si può parlare con questa gente?’.

Guardate – quasi si indigna Di Matteo nella sua requisitoria, pensando a come è trattata la questione dalla stampa – basterebbero queste parole per dire: ma quale pseudo-trattativa? Il rappresentante del comando operativo del reparto d’eccellenza dei Carabinieri del Ros va da un soggetto, che sa essere in contatto con Riina e Provenzano, e gli dice: ‘Ma cos’è questo muro contro muro?’

Come se fosse strano che ci sia un muro contro muro tra l’organizzazione mafiosa più pericolosa al mondo e che poco tempo prima aveva fatto saltare in aria un pezzo di autostrada a Capaci e lo Stato.

‘Cos’è questo muro contro muro? Ma non si può parlare con Cosa Nostra?’. Che cos’è questa, signori giudici popolari? Se non già proprio subito una proposta di mettersi d’accordo per far venire meno il muro contro muro?”.

A questo punto, Di Matteo ricorda quanto era diverso l’atteggiamento manifestato in quel periodo dall’ex ministro democristiano Vincenzo Scotti che, secondo l’accusa proprio per questo fu sostituito nel 1992 con un altro democristiano, ritenuto più morbido, al ministero dell’Interno, cioè l’imputato odierno per falsa testimonianza del processo Trattativa, Nicola Mancino. “Altro che Scotti alle Camere che dice non ci può essere nessuna ipotesi di mediazione e di compromesso.

Ha ragione Riina – chiosa Di Matteo – quando dice: ‘Mi hanno cercato loro’”.

Il pm con un crescendo retorico ripete la frase di Mori: ‘Cos’è questo muro contro muro, non si può parlare con questa gente?’. Mori se lo lascia scappare il 27 gennaio 1998 in una Corte d’assise che giudicava i responsabili degli eccidi di Roma, Firenze e Milano davanti alle parti civili, davanti ai parenti dei morti!”.

Poi Di Matteo precisa il contesto. Mori si fece scappare quella parola quando stava riferendo alla Corte le perplessità di Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo, vicino ai corleonesi e in particolare a Bernardo Provenzano, quando Mori si presentò con la mano tesa per ottenere elementi al fine di catturare Riina, dice lui.

Di Matteo riporta così la deposizione di Mori nel 1998 a Firenze: ‘Ciancimino mi chiedeva se io rappresentavo solo me stesso o anche altri e io dissi: ‘Lei non si preoccupi, lei vada avanti. Lui capì e restammo d’accordo che volevamo sviluppare questa trattativa’.

A questo punto, Di Matteo con tono tra l’indignato e l’istrionico ribadisce la parola pronunciata 19 anni fa da Mori stesso: “Trattativa”.

Poi dopo una pausa da consumato attore prosegue: “Non esiste la trattativa? E il frutto avvelenato di giudici politicizzati, la presunta trattativa? La pseudo trattativa? La bufala della trattativa? La patacca della trattativa? Mori il 27 gennaio ’98”. Non basta.

Di Matteo insiste riportando le frasi dette quel giorno al processo dall’altro suo odierno coimputato.

“Capitano De Donno, sempre lo stesso giorno, 27 gennaio ’98: ‘Gli proponemmo di farsi tramite per nostro conto di una presa di contatto con gli esponenti dell’organizzazione mafiosa di Cosa Nostra al fine di trovare un punto d’incontro, un punto di dialogo finalizzato’ (De Donno è ancora più esplicito) alla immediata cessazione di queste attività di contrasto netto e stragista nei confronti dello Stato’. Troviamo un punto di dialogo (…) si capovolgono i termini della questione.

Signori giudici popolari questo significa acquisire informazioni? Questo significa fare un’attività investigativa o questo significa, come io e noi qui diciamo, condurre in maniera spregiudicata una scellerata e spregevole trattativa con i vertici della mafia mentre c’era ancora il sangue dei morti in terra?

Proseguo nel citare alcune delle affermazioni rese sotto giuramento da De Donno: ‘Successivamente Ciancimino ci fece sapere che voleva incontrarci e ci disse che l’interlocutore e cioè la persona che faceva da mediatore tra lui e Salvatore Riina…’.

Quindi – chiosa Di Matteo – sapevano già tutto. Sapevano che Ciancimino parlava con Riina (…). De Donno dice ai giudici della Corte d’assise di Firenze che – avendo parlato con Riina per capire fino a che punto gli interlocutori istituzionali fossero affidabili dal punto di vista mafioso – Riina chiese: ‘Vediamo fino a che punto si spingono. Dategli un passaporto a Ciancimino’. (…) Io mi permetto per l’ultima volta di sottolineare che veramente sono loro i primi a spiegare che loro hanno fatto è stata una trattativa”.

Poi Di Matteo ripete ai giudici di Palermo quanto hanno scritto i giudici di Firenze nella loro sentenza sulle stragi: “L’esame congiunto di ciò che hanno detto testi e collaboratori dimostra in maniera indiscutibile che nella seconda metà del 1992 vi fu un contatto tra il Ros dei Carabinieri e i capi di Cosa Nostra attraverso Vito Ciancimino (…) iniziativa del Ros – perché di questo organismo si parla posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante, lo stesso comandante del reparto – aveva tutte le caratteristiche per apparire come una trattativa.

L’effetto che ebbe sui mafiosi fu quello di convincerli definitivamente che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione’. Questo è scritto – chiosa Di Matteo – in una sentenza definitiva pronunciata da una Corte d’assise in nome del popolo italiano”.

Poi Di Matteo va a leggere la conclusione della sentenza di Firenze: ‘Questa iniziativa al di là delle intenzioni con cui fu avviata (…) ebbe sicuramente un effetto deleterio per le istituzioni confermando il delirio di onnipotenza dei capi mafiosi e mettendo a nudo l’impotenza dello Stato”. di Marco Lillo sul Fatto del 21 DICEMBRE 2017


 

“Dell’Utri tradì Contorno: disse ai Graviano dov’era

 
Il fallito attentato al pentito Totuccio Contorno? “I Graviano dissero a mio padre che fu Dell’Utri, attraverso i servizi segreti deviati, a fargli sapere dove si trovava”.
Berlusconi? “Mangano dal carcere gli scriveva telegrammi che l’amministrazione penitenziaria però non faceva partire, tutta Cosa Nostra siciliana doveva votare per Fo

3 anni fa – Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza sul Fatto del 20/09/2019
“Dell’Utri tradì Contorno: disse ai Graviano dov’era”
Il fallito attentato al pentito Totuccio Contorno? “I Graviano dissero a mio padre che fu Dell’Utri, attraverso i servizi segreti deviati, a fargli sapere dove si trovava”.
Berlusconi? “Mangano dal carcere gli scriveva telegrammi che l’amministrazione penitenziaria però non faceva partire, tutta Cosa Nostra siciliana doveva votare per Forza Italia: alla notizia della vittoria ci fu un applauso nel carcere di Bicocca’’.
NELL’APPELLO della Trattativa Stato-mafia irrompono le dichiarazioni del pentito catanese Francesco Squillaci, che si è autoaccusato di 14 delitti senza mai essere stato chiamato in causa, tra cui quello dell’ispettore di polizia, Giuseppe Lizzio, ucciso nel 1992 su ordine di Nitto Santapaola – ha detto il pentito – “per metterlo alla prova”: “Don Nitto non era d’accordo con Riina sulle stragi – ha aggiunto, interrogato dai pg Giuseppe Fici e Sergio Barbiera davanti alla Corte d’Assise di appello presieduta da Angelo Pellino – E non si presentò a una riunione: se ci fosse andato, non ne sarebbe uscito vivo”.
Le sue parole, come quelle di Gaspare Spatuzza, arrivano oltre il limite dei 180 giorni previsto dalla legge, che in aula il collaboratore ha spiegato così: “Lo sto facendo adesso perché ho riflettuto sulle cose che mi disse mio padre, sul 41-bis e altre cose importanti. E io ho pensato a questa come ad altre circostanze”.
Tra queste anche le norme pro-mafia varate, secondo la sentenza di primo grado, dal governo Berlusconi, che il pentito ha così descritto: “Nell’estate del ’94 fu emanato un decreto legge svuotacarceri (il decreto Biondi, ndr) però prontamente bloccato dal ministro dell’Interno di allora, Roberto Maroni.
Per noi quel decreto fu un segnale – ha aggiunto –. Ci si rese conto che forse era presto, ma poi ci furono anche altri segnali come la legge sui pentiti”.
E quando il difensore del generale Mori, Basilio Milio, gli ha obiettato che quelle norme furono introdotte dal governo Prodi, Squillaci ha replicato: “Ci sono stati governi che si sono scambiati il volto politico. Io non so chi ha approvato, se quello Prodi o Amato ma ci fu l’appoggio di Silvio Berlusconi e fu lui a chiedere un intervento sui 180 giorni per evitare la produzione a rate”.
Aggiungendo: “Berlusconi era per noi quello che avrebbe potuto aggiustare la giustizia in Italia, facevamo il tifo per lui come allo stadio, tutti erano favorevoli a far salire Berlusconi, tutt’oggi c’è ancora gente letteralmente innamorata di lui, di Silvio Berlusconi”.
E quando gli avvocati gli hanno chiesto il contenuto dei telegrammi di Mangano a Berlusconi, Squillaci ha risposto: “Mio padre aiutava Mangano a scriverli perché lui ci vedeva poco.
Diceva che stava male; che lo stavano facendo morire; che il 41-bis era durissimo e chiedeva aiuto per andare via da Pianosa; di mandare qualcuno per fare un’ispezione. Questi erano i temi”.
IL PENTITO ha parlato anche del tentativo di “dissociazione” citando Pietro Aglieri, fedelissimo di Bernardo Provenzano: “Aglieri disse a mio padre che aveva avuto dei colloqui con qualcuno della Dda per far cessare e ammorbidire il 41-bis facendo una dissociazione di massa da Cosa Nostra. Mio padre acconsentì ma Aldo Ercolano non digerì molto la cosa tanto che finì lì. Seppi che c’era una linea moderata, accolta da zu Binnu Provenzano, Pietro Aglieri era d’accordo, e pure Pippo Calò e Piddu Madonia. Quelli che erano vicini a Riina invece erano in disaccordo”.
Si riprende la prossima settimana con le deposizioni dei direttori delle carceri di Tolmezzo e Milano. Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza sul Fatto del 20/09/2019

 


Processo a Marcello dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa

Richiesta di archiviazione della Procura di Caltanissetta per Berlusconi e Dell’Utri PDF
Decreto di archiviazione del gip di Caltanissetta Tona per Berlusconi e Dell’Utri PDF
Richiesta di archiviazione della Procura di Firenze per Berlusconi e Dell’Utri PDF 
Decreto di archiviazione del gip di Firenze Soresina per Berlusconi e Dell’Utri PDF 

Sentenze:
Sentenza primo grado (processo 1996-2004) PDF
Sentenza secondo grado (processo 2006-2010) Motivazione PDF Requisitoria PDF
Sentenza della Cassazione (2012) PDF
Sentenza di secondo grado dopo il rinvio da parte della Cassazione (2013) PDF
Sentenza definitiva della Cassazione (2014) PDF

Processo d’Appello (2006-2010)

Secondo Processo d’Appello (2012-2013)

ARCHIVIO ANTIMAFIA

NOTE

  1. b Sito Web ufficiale del Senato italiano, Senato italiano, 2 giugno 2006
  2. ^ (in italiano) Sgarbi boccia Dell ‘Utri: troppo targato , Corriere della Sera, 30 gennaio 2007
  3. c Il tribunale italiano conferma la condanna per mafia contro il consigliere Berlusconi , Reuters, 9 maggio 2014
  4. ^ Marcello Dell’Utri , Parlamento europeo (accesso 7 aprile 2016)
  5. ^ Sito web ufficiale del Senato italiano Senatoitaliano, 29 aprile 2008
  6. bAn Italian Story Archiviato il 18 ottobre 2006 in Wayback Machine , The Economist, 26 aprile 2001
  7. ^ Berlusconi accusato di legami mafiosi , BBC news, 8 gennaio 2003
  8. b Berlusconi amico sotto processo per “aiuto alla mafia” , The Guardian, 10 maggio 2001
  9. ^ Accusa e difesa del senatore “M”; Una vicenda lunga dieci anni , La Repubblica, 11 dicembre 2004
  10. ^ (in italiano) Berlusconi: “Perizie per i pm” Dell’Utri: “Mangano un eroe” , La Repubblica, 8 aprile 2008
  11. ^ L’ aiutante di Berlusconi ‘ha stretto un accordo con la mafia’ , The Guardian, 8 gennaio 2003
  12. b A chi crederai? , Time Magazine, 12 gennaio 2003
  13. ^ Mafia supergrass fingers Berlusconi di Philip Willan, The Observer, 12 gennaio 2003
  14. ^ Berlusconi implicato in un accordo con i padrini , The Guardian, 5 dicembre 2002
  15. ^ (in italiano) Accusa e difesa del senatore “M”;Una vicenda lunga dieci anni , La Repubblica, 11 dicembre 2004
  16. ^ Il principale alleato di Berlusconi incarcerato per collegamento alla mafia , The Observer, 12 dicembre 2004
  17. ^ Aiutante vicino a Berlusconi ha aiutato la mafia siciliana, i giudici trovano Archiviato il 28 marzo 2007 in Internet Archive , The Independent, 15 luglio 2005
  18. ^ (in italiano) Dell’Utri condannato a sette anni; riconosciuti i suoi rapporti con Cosa nostra , La Repubblica, 29 giugno 2010
  19. ^ (in italiano) I giudici: «Dell’Utri mediatore tra i boss mafiosi e Berlusconi» , Corriere della Sera, 19 novembre 2010
  20. ^ Il socio Berlusconi Dell’Utri arrestato in Libano , BBC News, 12 aprile 2014
  21. ^ Marcello Dell’Utri, alleato di Berlusconi, catturato in Libano dopo essere fuggito dall’Italia , The Guardian, 12 aprile 2014
  22. ^ Il socio di Silvio Berlusconi comparirà nel tribunale di Beirut per l’arresto in Libano , The Guardian, 13 aprile 2014
  23. ^ L’ Italia all’estradizione della mafia legata al sospetto arrestato in Libano , Xinhua, 12 aprile 2014
  24. ^ Berlusconi assistente Dell’Utri imprigionato a Parma Archiviato il 22 agosto 2014 in Internet , AGI, 13 giugno 2014
  25. “Dell’Utri trasferito in carcere Rebibbia” (in italiano). Ansa. 8 maggio 2016.
  26. ^ (in italiano) Mafia, nuove intercettazioni contro Dell ‘Utri , La Repubblica, 26 aprile 2006
  27. ^ I lealisti di Berlusconi erano “un solido alleato della causa mafiosa” , The Independent, 27 aprile 2006
  28. ^ La Notte della Repubblica , Marco Travaglio nel Blog di Beppe Grillo
  29. ^ (in italiano) Tentata estorsione, Dell’Utri assolto , La Repubblica, 20 maggio 2011
  30. ^ L’ avvocato respinge le affermazioni del voltagabbana che collegano Berlusconi alla mafia , Adnkronos International, 23 ottobre 2009
  31. ^ Il testimone della mafia “si vantava di legami con Silvio Berlusconi” , BBC News, 4 dicembre 2009
  32. ^ L’ alleato di Silvio Berlusconi non aveva legami con la mafia dopo il 1992, regolamento del tribunale , The Guardian, 29 giugno 2010
  33. b Ridotta condanna per mafia Dell’Utri , ANSA, 29 giugno 2010
  34. “Trattativa Stato-mafia, condannati Mori, De Donno, Dell’Utri e Bagarella. Assolto Mancino”(in italiano). La Repubblica. 20 aprile 2018.
  35. ^ IV Convegno Nazionale de “Il Circolo Giovani” , Radio radicale, 26 novembre 2006