Mariano Agate nato a Mazara del Vallo,è stato esponente di spicco di Cosa nostra. Ritenuto il capo della famiglia di Mazara del Vallo e del relativo mandamento,è stato condannato all’ergastolo per la strage di Capaci.Nel 1985 è stato condannato all’ergastolo per sette omicidi, tra cui quelli del giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto e del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari. Per quest’ultimo omicidio fu assolto in appello nel 1992 con sentenza confermata in Cassazione nel 1993. Punto di riferimento delle cosche in provincia di Trapani,il suo nome è stato citato nelle principali indagini su Cosa nostra.Secondo il collaboratore di giustizia Salvatore Contorno, alla fine degli anni settanta Agate gestiva una raffineria di eroina nei pressi di Mazara del Vallo in collegamento con il mafioso Francesco Mafara (legato al boss Stefano Bontate),che inoltrava la droga negli Stati Uniti.Nel 1986 Agate risultò nell’elenco degli iscritti alla loggia massonica segreta Iside 2 di Trapani, in cui comparivano anche il mafioso Mariano Asaro e il deputato regionale Francesco Canino. Agate era considerato uno degli uomini di riferimento di Totò Riina. Arrestato nel 1990, nel 2004, nonostante si trovasse già in regime di carcere duro, è stato coinvolto in un’indagine per aver fatto arrivare ordini al figlio Epifanio. Scarcerato a marzo 2013 per gravi motivi di salute, è deceduto nella sua abitazione di Mazara del Vallo il 3 aprile 2013 all’età di 73 anni.
Processo Stragi ’92, Mariano Agate e la missione romana di Cosa nostra di Prosegue la requisitoria del pm Gabriele Paci “Prima di consegnarsi in carcere il 1° febbraio, lo storico boss Mariano Agate lasciò le chiavi di un appartamento utilizzato da altri boss durante la missione romana del ’92 in cui doveva morire Giovanni Falcone“. A dirlo, ricostruendo la spedizione nella a Roma del superlatitante Matteo Messina Denaro è il pm Gabriele Paci, durante la requisitoria contro il boss di Castelvetrano, accusato diessere mandante delle stragi del 1992. In quell’occasione, come aveva spiegato sempre il procuratore aggiunto di Caltanissetta, Messina Denaro era giunto nella capitale con un piccolo commando per uccidere Giovanni Falcone e altri obbiettivi sensibili. Tra questi Andrea Barbato, Michele Santoro, Enzo Biagi e il presentatore Pippo Baudo. “La sentenza della corte d’Appello di Catania sull’attentato a Borsellino, tende a sminuire l’importanza di questa missione romana, durata dal 24 febbraio al 4 marzo, ma è mio compito dimostrare alla Corte come non ci sia stata una certosina tendenza a studiare questa circostanza”, ha detto il magistrato in aula.
Il 30 gennaio la corte di Cassazione aveva confermato la sentenza del Maxiprocesso e l’indomani Agate (capo del mandamento di Mazara del Vallo) “incontrò Riina per comunicargli le sue intenzioni. Riina gli disse ‘lascia le chiavi’, riferendosi a un appartamento occupato dal boss durante un soggiorno obbligato a Roma. L’abitazione venne utilizzata poi da Vincenzo Sinacori e Francesco Geraci (fedelissimi di Messina Denaro, poi divenuti collaboratori di giustizia), ma l’acqua non funzionava e i due alla fine si trasferirono in un’altra casa, in cui si trovavano già Matteo Messina Denaro e Lorenzo Tinnirello”.”Noi eravamo autorizzati da Messina Denaro ad uccidere – disse Sinacori – per piazzare un’autobomba invece avremmo dovuto informare Riina” in quanto era necessario l’intervento di un artificiere che sarebbe dovuto arrivare da Brancaccio. Poi il piano finì in soffitta perché si ritenne che il magistrato non poteva essere ucciso senza fare altre vittime e quindi si virò sul giornalista Maurizio Costanzo, che all’epoca aveva condotto delle trasmissioni contro la mafia. Non viene ucciso soltanto perché in quei giorni, dopo aver registrato le puntate nel quartiere Parioli, raggiungeva la casa dell’allora ministro Vincenzo Scotti, presidiata dalle forze dell’ordine. Ucciderlo con un autobomba avrebbe svelato l’intero piano delle Stragi. “Non ci fu alcuno stop alla missione romana, ci sono dei metodi coordinati, tanto che Messina Denaro non annulla gli omicidi, ma spedisce Sinacori da Riina per capire cosa fare e se eventualmente intervenire con l’esplosivo”, ha detto Paci. Il 4 marzo l’allora reggente di Mazara del Vallo tornò in Sicilia e quando va a trovare Riina incontra Giovanni Brusca, anche lui sul posto per incontrare il boss dei corleonesi. “Nessuno dei due sapeva cosa faceva l’altro e le loro versioni si sono incrociate proprio durante i processi”, ha aggiunto il pm. Sinacori raccontò che Riina gli disse: “fermatevi lì, perché ci sono cose piu importanti”. Il messaggio arrivò anche a Roma e l’intero gruppo tornò in Sicilia. Proprio in quell’incontro, Brusca era stato informato che da Riina della missione romana, perché “Riina si lamenta di un gruppo di giovanotti che fanno la bella vita e non quagliano, facendo riferimento a Matteo Messina Denaro“, ha detto Paci. “Calcara ha inquinato i pozzi per chiarire i capi clan trapanesi” Durante la requisitoria, davanti al presidente della corte d’Assise di Caltanissetta Roberta Serio, il pm Gabriele Paci si è soffermato anche sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia come Vincenzo Calcara circa gli eccidi mafiosi. “Calcara – ha detto l’accusa – è un collaboratore che ha inquinato l’acqua nel pozzo per chiarire i vertici della mafia trapanese”. Sentenze come quella della Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta “si basarono sul dato di fatto che Agate fosse un boss riconosciuto e molto influente nella zona trapanese”, ha aggiunto il magistrato durante la requisitoria, giunta alla quinta udienza consecutiva. “La sentenza di primo grado aveva stroncato le accuse per Agate, confermando che non era capo della mafia di Trapani, come invece aveva dichiarato il pentito Vincenzo Calcara e adottato dai giudici di Appello”, ha aggiunto il pm.
“Mariano Agate aveva tutti i titoli per rafforzare il convincimento di Riina – ha spiegato Paci – ma non è possibile affermare che lui fosse il rappresentante provinciale di Cosa nostra, così come non è possibile affermare che abbia partecipato alle riunioni di Enna del 1991″, anzi “ho fortissimi dubbi che sia Mariano Agate, perché era in libertà vigilata e avrebbe rischiato di farsi arrestare nel tragitto. Non vuol dire che Agate non abbia influito sulle decisioni di Riina sulla strategia stragista – ha continuato – anche se Agate è quello che consegna le chiavi dell’appartamento romano a Vincenzo Sinacori, poco prima di consegnarsi in galera”. L’incontro avvenne poco prima della partenza per la missione romana. “Picciotti, occhi aperti”, avrebbe detto Mariano Agate, consegnando le chiavi a Enzo Sinacori in un incontro a Mazara del Vallo in cui parteciparono anche Matteo Messina Denaro e il suo amico-gioielliere Francesco Geraci. “L’apporto dato da Messina Denaro ebbe l’effetto di rafforzare ulteriormente, oltre a quello che aveva fatto nella fase deliberativa nell’ottobre ’91 – ha aggiunto – certo, la soluzione che scelse Riina da luogo a un’accelerazione che si presta a molte letture. Quell’accelerazione è frutto di una fretta che né (Francesco) Geraci, né (Vincenzo) Sinacori, né (Antonio) Scarano (che parteciparono alle ricerche di Falcone a Roma, ndr) confermano fosse mai stata percepita, ne prima ne dopo la missione romana. Manca qualcosa nel loro racconto che certamente Messina Denaro non gli riferi'”. AMDuemila 08 Luglio 2020
QUEL PATTO TRA BOSS E MASSONI Le dichiarazioni degli ultimi pentiti di mafia che hanno ribadito gli stretti legami tra mafia e massoneria, sono al vaglio dei magistrati della Procura di Palermo che hanno avviato un’ inchiesta condotta dal procuratore aggiunto Luigi Croce e dal sostituto Antonino Napoli. I due magistrati ieri hanno già ascoltato in una località segreta i pentiti Vincenzo Calcara e Rosario Spatola. Ma altri pentiti, che hanno rivelato l’esistenza di stretti rapporti tra mafia e massoneria, saranno ascoltati nei prossimi giorni, tra questi anche Leonardo Messina e Giuseppe Marchese. Nel passato, tutte le inchieste relative a mafia e massoneria, avviate sia a Palermo che a Trapani, non hanno avuto fortuna. Negli ultimi tempi vecchie indagini sono state rispolverate e rilette alla luce dei nuovi avvenimenti e delle recenti dichiarazioni dei pentiti. A Trapani un giovane sostituto, Luca Pistorelli ha ridato vigore ad una indagine che era in “sonno”, quella sulla loggia “Scontrino-Iside 2” nei cui elenchi, accanto ai nomi di prefetti, funzionari di polizia, burocrati comunali, c’ erano anche quelli di boss di primo piano di Cosa Nostra: Mariano Agate, Natale Lala, Natale Rimi, Mariano Asaro. Atti di questa indagine il cui processo è in corso di celebrazione a Trapani, sono stati adesso acquisiti anche dai magistrati palermitani che stanno tentando di far luce sugli ormai noti intrecci tra mafia e massoneria. Un intreccio di cui si è occupata anche la recente relazione approvata a maggioranza della commissione parlamentare Antimafia. “Il terreno fondamentale sul quale si costituiscono e si rafforzano i rapporti di Cosa Nostra con esponenti dei pubblici poteri e delle professioni private è rappresentato dalle logge massoniche – è detto nella relazione – il giuramento di fedeltà resta l’impegno centrale al quale uomini d’ onore sono prioritariamente tenuti”. Ed ancora: “Le affiliazioni massoniche offrono all’ organizzazione mafiosa uno strumento formidabile per estendere il proprio potere per ottenere favori e privilegi in ogni campo, sia per la conclusione di grandi affari sia per l’ “aggiustamento” di processi, come hanno rilevato numerosi collaboratori della giustizia”. Massoni, secondo i pentiti, sarebbero stati anche il numero uno di Cosa Nostra, Totò Riina, Michele Greco e tanti altri. Il nome di Michele Greco era già spuntato in una vecchia inchiesta avviata a Palermo nel 1986 dall’ allora sostituto procuratore Alberto Di Pisa, accusato poi di essere il “corvo” di Palermo. Il “papa della mafia” era iscritto nella loggia “Armando Diaz” di via Roma, che era stata scoperta dalla polizia che conduceva un’indagine su un colossale traffico di stupefacenti tra la Sicilia e la Francia. Contemporaneamente, a Trapani, l’allora dirigente della mobile Saverio Montalbano, veniva inspiegabilmente trasferito perché avrebbe continuato le indagini del collega Ninni Cassarà, assassinato in un agguato nel 1985. I due poliziotti avevano ficcato il naso nella loggia “Scontrino-Iside 2” dove tra i fratelli c’ era tra gli altri anche Pino Mandalari, indicato come il “commercialista” di Totò Riina. Quella loggia ebbe anche come illustre visitatore il Gran Maestro venerabile della P2, Licio Gelli. La loggia trapanese potrebbe riservare altre sorprese alla luce delle indagini della magistratura palermitana nei confronti del senatore Giulio Andreotti. E’ stato accertato che l’aeroporto “Birgi” di Trapani nel 1980, l’anno in cui secondo il pentito Marino Mannoia, Andreotti sarebbe atterrato su un aereo privato per incontrarsi con i cugini Ignazio e Nino Salvo, era sotto il controllo di “fratelli” iscritti alla “Iside 2”. Il direttore dello scalo aereo era allora Giovanni Bertoglio, Andrea Barraco era assistente al traffico aereo, Giuseppe Di Genova era addetto al controllo dei voli. Erano tutti iscritti alla loggia segreta “Iside 2”. di FRANCESCO VIVIANO LA REPUBBLICA 23.4.1993
Gli eredi del “papetto” sono ora senzatetto Sequestro da 500 mila euro a carico dei familiari del defunto padrino di Mazara “don” Mariano Agate Un sequestro di beni per mezzo milione di euro è stato disposto dal Tribunale delle misure di prevenzione di Trapani su proposta della Dia di Trapani. Ad essere colpiti gli eredi, i familiari, del defunto capo mafia di Mazara, “don” Mariano Agate. Uomo chiave della mafia trapanese e siciliana, in strettissimi rapporti con i capi mafia Totò Riina e Francesco Messina Denaro, il padrino del Belice, i collaboratori di giustizia di lui hanno detto che se fosse stato libero, dopo l’arresto dei capi mafia Riina e Provenzano, lui sarebbe stato certamente capo della Cupola siciliana. Il suo soprannome era “papetto”, il “piccolo papa…della mafia” per quel essere stato appena un passo indietro di Totò Riina che nella latitanza scelse Mazara come rifugio sicuro. Circolava con una carta d’identità messagli a disposizione da un cugino di Mariano Agate. A Mariano Agate poi vengono ricondotti gli intrecci tra mafia e massoneria, il suo nome verrà scoperto nel 1986 tra gli iscritti alla loggia massonica coperta Iside 2 di Trapani. Con il gran maestro Giuseppe Mandalari, noto per essere stato anche il commercialista di fiducia di Totò Riina, qualche anno prima aveva fondato a Mazara una società commerciale a Mazara, la “Stella d’Oriente” che serviva per riciclare denaro sporco di Cosa nostra. Il nome di Agate figura tra i condannati per la strage di Capaci e per altri delitti a cominciare dal quello del pm Gian Giacomo Ciaccio Montalto, assassinato a Trapani il 25 gennaio 1983. Agate allora in cella, girando per i corridoi del carcere preannunciò quel delitto dicendo “Ciaccinu arrivau a stazione”, Ciaccio è arrivato al capolinea. Mariano Agate risulta essere stato uomo nevralgico per tanti traffici illeciti, da quelli dei tabacchi a quelli della droga, dal carcere nei primi anni del 2000 riuscì ad organizzare un maxi traffico di cocaina tra la Colombia e la Calabria, facendo stringere a Cosa nostra una alleanza con le cosche calabresi di Platì. Le stesse cosche oggi sospettate di avere aiutato nella latitanza il capo di Cosa nostra trapanese Matteo Messina Denaro. Il provvedimento di sequestro odierno è stato emesso in virtù della norma del codice antimafia che consente di sequestrare i patrimoni illecitamente accumulati dai mafiosi anche dopo la loro morte. Ad essere colpiti dal sequestro la vedova del boss, Rosa Pace, 79 anni, ed i figli, Vita, Epifanio e Pier Paolo. Tra i beni sequestrati c’è una villetta in un villaggio turistico, Kartibubbo a Campobello di Mazara, già in gran parte confiscato all’imprenditore palermitano Calcedonio Di Giovanni. La villetta all’epoca della costruzione della struttura venne regalata dapprima al faccendiere palermitano Vito Roberto Palazzolo, questi poi ha raccontato ai magistrati palermitani, dopo il suo arresto seguito all’estradizione dal Sudafrica, dove per decenni si era rifugiato (sfuggendo all’arresto chiesto anche dal giudice Falcone) che gli vennero a richiedere le chiavi della villetta perché doveva essere donata al padrino di Mazara, Mariano Agate che aveva fatto da intermediario per la costruzione della struttura ricettiva. Sequestrata anche una abitazione acquistata dalla figlia di Agate, provento dei guadagni presso l’azienda di calcestruzzo di proprietà del padre e dello zio, Giovan Battista Agate. La donna è risultata essere stata in diversi periodi a cominciare dal 1993 e fino al 2006, dipendente (come il fratello Epifanio) con uno stipendio mensile tra i 5 mila e gli 8 mila euro. Altrettanto in maniera lucrosa stipendiato sarebbe stato anche Epifanio, soggetto spesso citato in indagini antimafia e sul traffico internazionale di droga. Gli investigatori ritengono che questo era un modo, quello di tenere come dipendenti i due giovani Agate, per svuotare la cassa dell’azienda di famiglia. La donna poi quale amministratore di una società che riforniva l’impresa di calcestruzzi, la Agamar, sarebbe riuscita nel giro di pochi anni, anche dopo il 2006 e sino al 2016, anche durante il periodo di gestione dell’impresa da parte di un amministratore giudiziario, a introitare oltre 300 mila euro, attraverso anche altri contratti stipulati con altre imprese, per forniture di servizi. L’impresa “Calcestruzzi Mazara” è stata confiscata da qualche tempo, il giorno del sequestro ad opera della Squadra Mobile di Trapani, all’epoca diretta dall’attuale direttore del Servizio Centrale Anticrimine, Giuseppe Linares, comparve una scritta minacciosa e dal chiaro messaggio sotto un cavalcavia dell’autostrada Palermo Trapani, nei pressi dello svincolo per Fulgatore: “più Capaci meno Linares” ALQUAMAH 19.7.2018
a cura di Claudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco