Giuseppe Di Cristina (Riesi, 22 aprile 1923 – Palermo, 30 maggio 1978) Soprannominato “la tigre” nacque all’interno di una famiglia di consolidata tradizione mafiosa. Suo padre, Francesco Di Cristina, e suo nonno, Giuseppe soprannominato Birrittedda, erano a loro volta capi mafiosi. Nel 1961, alla morte di suo padre Francesco Di Cristina, prese in mano le redini della famiglia mafiosa di Riesi; Di Cristina era anche il rappresentante mafioso della provincia di Caltanissetta e, per questa ragione, nel 1975 divenne membro della “Commissione regionale” di Cosa Nostra. Tre anni dopo sarà assassinato da una fazione opposta, quella dei Corleonesi di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano.
Suo nonno, omonimo Giuseppe Di Cristina, fu un membro di spicco della coscamafiosa di Riesi, che con l’intimidazione riuscì ad ottenere l’occupazione di gabellotto. Arrivato il momento di nominare il proprio successore, scelse il giorno in cui, a Riesi, si festeggia la festa di San Giuseppe. Quando la processione si fermò sotto il balcone di Don Giuseppe, il vecchio padrino baciò suo figlio Francesco davanti a tutta la folla per mostrare ai suoi uomini il passaggio di nomina, quindi Francesco ‘Don Ciccu’ Di Cristina, fece cenno alla processione di continuare. Da questo momento era diventato chiaro a tutto il paese che Don Ciccu era diventato il nuovo boss di tutta Riesi. Francesco Di Cristina ebbe forti legami con le famiglie mafiose di Palermo e con molti gruppi politici. Morì il 19 marzo del 1961 di morte naturale.
Intrecci Politici Giuseppe Di Cristina fu conosciuto come “l’elettore” di Calogero Volpe della DC – Democrazia Cristiana. Il fratello del Boss, Antonio Di Cristina, diventerà Sindaco di Riesi e sottosegretario del partito della DC nella provincia di Caltanissetta. Disse il pentito Antonino Calderone: “Loro furono i boss incontrastati di Riesi per tre generazioni… il supporto della Democrazia Cristiana… erano tutti appartenenti alla DC.” I suoi testimoni di nozze furono Giuseppe Calderone – Fratello di Antonino e Boss incontrastato di Catania – e il senatore della DC, Graziano Verzotto. Verzotto era anche presidente dell’Ente Minerario Siciliano, istituito dopo la Seconda guerra mondiale con lo scopo di porre fine alla crisi che stava avvolgendo l’industria dello Zolfo in Sicilia. Dopo essere ritornato dal suo esilio a Torino, a causa della forte azione repressiva delle autorità nei confronti di Cosa Nostra, Di Cristina fu assunto come tesoriere in una delle compagnie facenti capo all’Ente Minerario Siciliano, la So.Chi.Mi.Si. (Società Chimica Mineraria Siciliana), sebbene lui stesso fosse riconosciuto come figura mafiosa dalle forze dell’ordine. Messo alle strette, Don Peppe decise di schierarsi da un altro lato, a causa della scarsità di voti ricevuti nelle le file della DC per coinvolgimenti con la giustizia. Decise allora di favorire Aristide Gunnella, proveniente dal Partito Repubblicano (PRI). Nelle successive elezioni, Gunnella ricevette improvvisamente una valanga di voti rispetto al passato. Nonostante l’agitazione riguardo al suo coinvolgimento con il Di Cristina, fu difeso dal Leader del Partito Repubblicano, Ugo La Malfa. Quest’ultimo lo fece eleggere con la carica di ministro.
Coinvolgimento negli Omicidi Giuseppe Di Cristina al processo per l’uccisione di Candido CiuniSecondo gli inquirenti e stando alle rivelazioni del pentito Tommaso Buscetta, Di Cristina fu coinvolto nell’assassinio del presidente dell’ENI Enrico Mattei[1] per via dei suoi legami con il deputato Graziano Verzotto, anche lui implicato nell’omicidio[2][3][4]. Sempre stando alle rivelazioni di Buscetta, Di Cristina è stato coinvolto anche nel rapimento e successivo omicidio del giornalista Mauro De Mauro[3], che a sua volta indagava sul caso Mattei. Nel 1970 fu ricostituita la commissione di Cosa Nostra. Una delle prime questioni che doveva essere affrontata fu l’offerta del principe Junio Valerio Borghese per supportare i suoi piani per un golpe ai danni dello Stato. Calderone e Di Cristina incontrarono Borghese a Roma ma Gaetano Badalamenti si oppose al piano. Ad ogni modo, il Golpe Borghese fallì nella notte dell’8 dicembre 1970. Uno degli uomini di Di Cristina, Damiano Caruso, fu uno dei killer che, travestiti da agenti di polizia, uccisero Michele Cavataio il 10 dicembre 1969 in Viale Lazio, a Palermo. Di Cristina fu arrestato ma prosciolto per mancanza di prove nel processo dei 114 che si tenne a Catanzaro nel luglio del 1974. E ancora, in un altro processo ad Agrigento, per una vendetta tra clan di Riesi e Ravanusa, sul rifiuto di mettere al sicuro un carico di sigarette di contrabbando appartenenti al Boss. Ancora una volta tutti gli imputati, incluso Di Cristina, furono assolti per mancanza di prove nel marzo del 1974.
Il confronto con i Corleonesi Giuseppe Di Cristina si scontrò duramente con i Corleonesi sull’uccisione del Colonnello dei Carabinieri, Giuseppe Russo, avvenuto il 20 agosto del 1977. Russo, che secondo i Corleonesi era confidente dello stesso Di Cristina, fu ammazzato senza il consenso della Commissione regionale, la quale si era opposta alle richieste di Riina dando ragione a Di Cristina. Per queste ragioni, Di Cristina divenne uno dei principali obiettivi dei Corleonesi, così come Giuseppe Calderone; i Corleonesi infatti stavano attaccando gli alleati delle famiglie palermitane in altre provincie, per isolare uomini come Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo e Gaetano Badalamenti.
Il fallito attentato del ’77 Il duplice omicidio degli uomini di Giuseppe Di Cristina Il 21 novembre 1977, Di Cristina riuscì a salvarsi da un attentato nei suoi confronti, dove ebbero la peggio i suoi due uomini: quel giorno, intorno alle ore 7.45, in contrada Palladio, nel tratto Riesi – Sommatino della S.S. 190 delle zolfare, un’autovettura Fiat 127, simulando un incidente, speronava frontalmente un’altra auto, una BMW a bordo della quale viaggiavano Giuseppe Di Fede, alla guida del mezzo, e Carlo Napolitano, seduto a fianco del conducente. Subito dopo l’urto violento, due killers spietati, scesi dalla 127, esplodevano numerosi colpi di fucile da caccia e di rivoltella contro i predetti Di Fede e Napolitano, assassinandoli barbaramente. Nel gennaio 1978, Di Cristina, insieme ai boss Gaetano Badalamenti e Giuseppe Calderone, incontrò Salvatore “Cicchiteddu” Greco, giunto dal Venezuela dove risiedeva, per discutere sull’eliminazione di Francesco Madonia, capo della cosca di Vallelunga Pratameno, in provincia di Caltanissetta, il quale era sospettato di aver ordinato il fallito attentato ai danni di Di Cristina su istigazione di Totò Riina, a cui era strettamente legato; Greco però consigliò di rimandare ogni decisione a data successiva ma, ripartito per Caracas, vi morì prematuramente per cause naturali, il 7 marzo 1978. In seguito alla morte di Greco, Madonia venne ucciso il 16 marzo da Di Cristina e da Salvatore Pillera, inviato da Giuseppe Calderone. Riina allora accusò Badalamenti di aver ordinato l’omicidio di Madonia senza autorizzazione e lo mise in minoranza, facendolo espellere dalla “Commissione” e facendolo sostituire con Michele Greco, un suo socio[5].
Informatore della Polizia Di Cristina venne isolato sempre di più. Decise allora di informare i Carabinieri sul pericolo del potere Corleonese. La prima riunione ebbe luogo il 16 aprile 1978 a Riesi, nella campagna di suo fratello Antonio. Diede un quadro completo delle divisioni interne di Cosa Nostra[6] tra i Corleonesi guidati da Luciano Liggio e la fazione opposta di Gaetano Badalamenti e Stefano Bontade. Secondo Di Cristina, la squadra dei Corleonesi era formata da 14 boss sanguinari ed infiltrati nelle altre famiglie mafiose, i quali facevano capo a Totò Riina e Bernardo Provenzano, colpevoli di numerosi omicidi, specialmente quello del tenente colonnello Giuseppe Russo, avvenuto su istigazione di Liggio dal carcere[7].
La morte Di Cristina fu aggredito[8] il 30 maggio 1978 alla fermata di un autobus, in Via Leonardo Da Vinci a Palermo, da un commando di killer di Riina e Provenzano. Di Cristina provò a difendersi con un revolver e riuscì a ferire uno dei killer, Leoluca Bagarella, il cognato di Totò Riina, ma ebbe la peggio e venne finito a colpi di pistola. Nelle sue tasche, Boris Giuliano, troverà alcuni assegni legati al traffico di droga tra Sicilia e America e al banchiere Michele Sindona, firmati da Domenico Balducci, esponente di spicco della Banda della Magliana che verrà anch’egli assassinato pochi anni dopo. La sua morte fu il preludio della cosiddetta «seconda guerra di mafia» che iniziò nel 1981 con l’omicidio di Stefano Bontade. La morte di Di Cristina, avvenuta a Passo di Rigano nel territorio di Salvatore Inzerillo, fece cadere i sospetti proprio su quest’ultimo[9]. Dieci anni dopo il suo assassinio, anche il fratello Antonio venne ucciso a Riesi da un killer che lo freddò con 7 colpi di pistola[10].
L’ultimo ruggito della «Tigre» primo pentito di Cosa nostra Peppe Di Cristina, soprannominato “la Tigre di Riesi” per le sue doti di astuzia e ferocia, era un mafioso potentissimo, cresciuto nel cuore del vecchio feudo. La sua storia inizia nella seconda domenica di settembre del 1961, festa della Madonna della Catena, la cui statua di gesso, portata a spalla per le vie del paese, prima di entrare nella chiesa si ferma sotto un balcone dal quale esce il vecchio capo della “famiglia” di Riesi, don Ciccio Di Cristina. Costui, che come faranno scrivere nel “santino” funebre i familiari, quando sarà stato assunto in patria, «dimostrò con le parole e con le opere che la mafia sua non fu delinquenza ma rispetto alla legge dell’onore», davanti alla Madonna e a migliaia di riesini, presenta il figlio come il nuovo capo. Il 2 settembre 1960, Peppe “la Tigre” era comunque già convolato a nozze con la figlia del sindaco comunista di Riesi, Antonio Di Legami: testimoni dello sposo il catanese Pippo Calderone e il segretario regionale della Democrazia cristiana siciliana Graziano Verzotto. Costui, peraltro, il 26 marzo 1971, dinnanzi al Consiglio di presidenza della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, avrebbe cercato di giustificarsi: «Alla data del matrimonio… io ero molto lontano dal sapere in che cosa potesse consistere il fenomeno mafioso, che successivamente, per ragioni del mio incarico e per una permanenza nella zona, sono venuto a conoscere. Sono andato… Sono andato a testimoniare perché mi è stato chiesto dal fratello (Antonio, che sarà anch’egli assassinato nel settembre del 1987, ndr) esponente della Dc di Riesi, fratello che vedevo di tanto in tanto a Catania, nel ’60, dove era impiegato di banca il Di Cristina». Dopo qualche anno alla Cassa di Risparmio e qualcun altro al soggiorno obbligato a Torino, Peppe “la Tigre” viene assunto come cassiere alla So.Chi.Mi.Si, la società chimica siciliana, con una lettera firmata dall’amministratore delegato dell’azienda, il repubblicano Aristide Gunnella, che assumerà, negli anni Settanta e Ottanta, alti incarichi di governo. Un’assunzione piuttosto discutibile e discussa, come ben mette in evidenza il Presidente in sede di Consiglio di presidenza della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, il 26 marzo 1971: «È a tutti noto che qualsiasi assunzione venga fatta, non dico in un ente pubblico e quindi in un ente regionale, ma anche in un’azienda privata, è preceduta da accertamenti rigorosi. Questo avviene per tutte le aziende industriali non solo in relazione al certificato penale, ma anche al comportamento dell’individuo nella sua vita privata, ai sui precedenti, ecc. Talvolta si arriva perfino all’assurdo di accertare anche il colore politico della persona che deve essere assunta. Questa è la prassi normale. Ora, come si spiega che nel caso Di Cristina questo non sia avvenuto? Che non sia avvenuto sotto il profilo degli accertamenti mafiosi, essendo intervenuta una sentenza passata in giudicato che lo condanna a 5 anni di soggiorno obbligato (sic!); che non sia avvenuto in relazione alla parentela, essendo il personaggio in questione figlio del noto Di Cristina, conosciuto da tutti nell’ambiente della Sicilia occidentale come capo mafioso; che non sia avvenuto anche in relazione alle sue condizioni economiche in quanto il fondamento della supplica del suocero apparentemente riguardava le sue precarie condizioni economiche, mentre i rapporti dei Carabinieri e della Questura accertano che Di Cristina, tornato dal soggiorno obbligato, versava in condizioni economiche soddisfacenti». Peppe “la Tigre” rinverdisce i fasti della mafia del nisseno, riorganizzandola e orientandone la potenza criminale verso i nuovi traffici della droga e del riciclaggio. Dal suo piccolo regno di Riesi controlla tutto quanto passi dalla Sicilia centrale: distribuisce appalti e favori, dirotta alle elezioni migliaia di voti, prima nelle liste repubblicane e poi in quelle scudocrociate, stringe rapporti di amicizia e di affari con le “famiglie” Badalamenti di Cinisi, Bontade e Inzerillo di Palermo, Rimi di Alcamo, Buccellato di Castellammare del Golfo. Maestro di trame sottili e orditi fini, insieme al boss catanese Pippo Calderone, suo compare e amico, cerca di stabilire un accordo incruento tra la Commissione e Michele Cavataio, giudicato responsabile dello scoppio della prima guerra di mafia, senza tuttavia riuscire nell’intento, sicché il 10 dicembre 1969 si giunge alla strage di viale Lazio. Anche come uomo d’azione, del resto, non scherza: pare sia lui a guidare i mafiosi, camuffati da medici, che il 28 ottobre 1970 fanno irruzione nell’ospedale civico di Palermo per uccidere l’albergatore Candido Ciuni, già ferito su suo ordine, per una pesante lite avuta in precedenza. Per questo patirà un breve periodo di detenzione, ma una volta scarcerato riprenderà indisturbato i suoi traffici. A Corleone, desolato paese a qualche centinaio di chilometri da Riesi, un altro potente mafioso, Luciano Liggio, non ne condivide, tuttavia, la “mentalità” circa la gestione degli affari: Di Cristina è contro i sequestri di persona, contro i traffici che espongano l’organizzazione a rischi inutili, contro gli omicidi che facciano rumore, innescando la repressione poliziesca. D’altra parte, l’ostilità dei Corleonesi e dei loro alleati è andata aumentando parallelamente al rafforzarsi dell’intesa del boss di Riesi con i fratelli catanesi Pippo e Antonino Calderone, nella quale vedono una possibile sponda per le famiglie palermitane, rivali nello scontro per la supremazia dentro Cosa Nostra. Due episodi contribuiranno, del resto, sul finire degli anni Settanta, a rendere precaria la posizione di Peppe “la Tigre” all’interno della mafia siciliana: l’eliminazione di Francesco Madonia, boss di Vallelunga, suo rivale nel nisseno, ma alleato di Riina, e il duro scontro con il “papa” Michele Greco, colpevole di avere tollerato che gli uomini di Corleone il 20 agosto 1977 uccidessero, nel Bosco della Ficuzza, il tenente colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo, senza il consenso della Cupola. E proprio l’aver gridato, nel corso di un summit di mafia, agli altri boss – «Se il colonnello Russo era uno sbirro, chi l’ha ammazzato è stato ancora più sbirro» – ne decreta la condanna a morte, eseguita a Palermo, il 30 maggio del 1978, ad una fermata dell’autobus davanti agli uffici dell’assessorato regionale all’Agricoltura, per mano di un killer solitario, che fugge lasciandone sull’asfalto il cadavere insanguinato, col revolver ancora in mano. Nelle tasche della giacca dell’ucciso ci sono un’agenda zeppa di nomi importanti, i riservatissimi numeri telefonici dell’esattore di Salemi Nino Salvo e due vaglia cambiari emessi, il 22 maggio 1978, dal Banco di Napoli, Agenzia n. 24, all’ordine di tal Ciro Esposito, per dieci milioni ciascuno. Le indagini bancarie accerteranno, innanzitutto, che questi fanno parte di un gruppo di trentuno analoghi titoli, tutti per identico importo, emessi contestualmente, sempre a favore di Ciro Esposito e su richiesta di Gaetano La Pietra, dietro versamento in contanti della somma di trecentodieci milioni. Accerteranno, altresì, che sempre previo versamento di denaro contante, tra il marzo 1977 e il novembre 1978, lo stesso La Pietra ha richiesto alla medesima Agenzia n. 24 del Banco di Napoli, vaglia cambiari per due miliardi e settecento milioni, a favore di persone inesistenti o del tutto estranee ed ignare. L’esame dei nominativi dei negoziatori di detti vaglia, inoltre, fornirà un evidente spaccato delle connessioni, dei collegamenti e della sostanziale unità esistente a quell’epoca tra le “famiglie” mafiose, negli affari illeciti in genere e, in particolare, nel contrabbando di tabacchi e nel traffico di stupefacenti. Le medesime indagini finiranno, inoltre, per condurre a emersione gli articolati rapporti determinatisi a Roma, fin dagli anni Settanta, tra la criminalità organizzata locale, la mafia e la destra eversiva: una gran parte di quei titoli risulterà essere pervenuta a Domenico Balducci, il quale ne avrà trasferiti alcuni, pur senza firma di girata, ad Amedeo Mastracca, Ugo Mattia, Vittorio Guglielmi Di Vulci, Sergio e Savio Costantini, asseritamente come restituzione di prestiti effettuatigli da costoro. Altro negoziatore dei titoli in esame risulterà essere stato Danilo Sbarra, il quale verrà indicato da Salvatore Contorno come uno degli imprenditori edili della capitale del quale si serviva Pippo Calò, per investire il denaro d’illecita provenienza. IL TEMPO
VITA E MORTE DEL BOSS PENTITO “Perchè l’ anno ucciso? Io credo che mio marito sia morto senza sapere perchè, senza nemmeno capire. Lui aveva una sola grande colpa: portava il peso ereditato da suo padre. Un peso che ci ha perseguitato per tutta la vita”. La donna che parla è un’ insegnante elementare, ha due figli che studiano pedagogia, è vedova dalla mattina del trenta maggio del 1978. Si chiama Antonina Di Legami: suo marito era il boss Giuseppe Di Cristina. Siamo a Riesi per raccontare come è nato il maxi processo a Cosa Nostra, seguendo il filo di mille inchieste giudiziarie che tornano tutte in questo paese della Sicilia interna circondato dalle vigne e da miniere di zolfo abbandonate. Nel cuore del vecchio feudo è cresciuto un mafioso potentissimo, un mafioso che con le sue rivelazioni e poi con la sua morte ha aperto le grandi inchieste antimafia degli anni 80. Lo chiamavano il boss dal “colletto bianco” perchè era il cassiere della So.Chi.Mi.Si., la società chimica mineraria siciliana, un carrozzone regionale dove aveva trovato un buon lavoro grazie al senatore dc Graziano Verzotto e ad un paio di amici repubblicani. Giuseppe Di Cristina è il boss che per primo ha svelato i segreti della mafia di Corleone. Ma l’ inchiesta sui traffici internazionali di stupefacenti e sulla guerra mafiosa tra i corleonesi e gli altri clan inizia qualche mese dopo la “cantata”, a Palermo, davanti agli uffici dell’ assessorato regionale all’ Agricoltura. A terra, con la pistola ancora in mano come un vecchio mafioso di rispetto, c’ è Giuseppe Di Cristina. E’ morto, assassinato da un killer solitario che fugge lasciando sull’ asfalto una traccia di sangue. Un’ ora dopo, nelle stanze della squadra mobile, un funzionario dell’ “investigativa” trova conferma di mille sospetti: nelle tasche della giacca del boss ci sono assegni del riciclaggio del denaro sporco che portano ad un ristorante napoletano gestito dai camorristi, i riservatissimi numeri telefonici dell’ esattore di Salemi Nino Salvo, un’ agenda zeppa di nomi importanti. Ma chi è Giuseppe Di Cristina? Un mafioso di paese? Uno dei capi clan dell’ isola? Un trafficante? “Era soltanto una vittima. Lui non mi parlava mai di certe cose ma sicuramente non era quell’ uomo descritto dai giornali”, ricorda oggi la vedova, “lo accusavano di essere un mafioso, lo arrestavano, lo inviavano al confino ma lui ha sempre pagato per quel nome… perchè era figlio di quel padre”. Il nome di Giuseppe Di Cristina qui a Riesi non si pronunciava mai: per tutti era “lui”, il capo della potente “famiglia”. E la storia di questo paese, tra gli anni 60 e 70, si identifica proprio con la sua famiglia. E’ una storia che inizia nella seconda domenica del settembre del 1961, il giorno della Madonna della Catena. Portata a spalla per le vie di Riesi, prima di entrare nella chiesa Madre la statua di gesso della Madonna si ferma sotto un balcone. Da quel balcone esce il vecchio boss Francesco Di Cristina e, davanti alla madonna e a migliaia di riesini, presenta il nuovo capo. Per Giuseppe è l’ incoronazione ufficiale eredita il trono mafioso: “E anche tanti debiti”, spiega Antonina Di Legami, “sei mesi dopo il nostro matrimonio mio suocero è morto: per pagare quei debiti noi, io e mio marito, abbiamo dovuto faticare. Si parla tanto anche di mio suocero, del suo passato. Pensi: lui voleva che Peppe studiasse a tutti i costi, voleva allontanarlo da quell’ ambiente…”. L’ anno del matrimonio di Giuseppe Di Cristina, testimoni di nozze il boss catanese Giuseppe Calderone e il senatore Verzotto, è anche l’ anno in cui a Riesi arrivano centinaia di personaggi da oggi angolo della Sicilia per deporre un mazzo di fiori sulla tomba del padre. Un abbraccio a don Peppe e poi subito al cimitero per salutare il vecchio boss e ricevere il “santino” funebre voluto dai familiari: “… dimostrò con le parole e con le opere che la mafia sua non fu delinquenza ma rispetto alla legge dell’ onore…”. Ma torniamo al boss dal “colletto bianco”. Dal suo piccolo regno di Riesi controlla tutto quello che passa dalla Sicilia centrale: distribuisce appalti e favori, dirotta alle elezioni migliaia di voti prima nelle liste repubblicane e poi in quelle scudocrociate, stringe rapporti di amicizia e di affari con le “famiglie” Badalamenti di Cinisi, Bontade e Inzerillo di Palermo, Rimi di Alcamo, Buccellato di Castellammare del Golfo. Sono i primi anni Settanta e anche per lui arrivano i guai giudiziari provocati da una commissione antimafia: un avviso di reato per la scomparsa del giornalista dell’ “Ora” Mauro De Mauro, un paio di anni di carcere per l’ uccisione dell’ albergatore Candido Ciuni, il processone dei “114”, il soggiorno obbligato. Ricorda con un filo di voce la vedova: “I carabinieri arrivavano improvvisamente e lo arrestavano… Poi però tornava libero. Tutti questi nomi… Badalamenti, Liggio, Bontade, io non li ho mai sentiti, non so chi sono. Qui a Riesi questa gente non l’ ho mai vista”. Giuseppe di Cristina adesso è davvero un potente capomafia, ma a qualche centinaia di chilometri da Riesi, in un desolato paese, costruito sotto una minacciosa montagna, c’ è un altro potente che lo odia: è Luciano Liggio. Un odio che nasce da una diversa “mentalità” mafiosa sulla gestione degli affari: Di Cristina è contro i sequestri di persona, contro i traffici che espongono l’ organizzazione ai rischi, contro gli omicidi che fanno rumore e calamitano eserciti di carabinieri. E’ proprio un “cadavere eccellente”, quello del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, assassinato nel bosco della Ficuzza una sera di agosto del 1977, a decretare anche la morte di Giuseppe Di Cristina. In un summit di mafia don Peppe dice agli altri boss: “Se il colonnello Russo era uno sbirro, chi l’ ha ammazzato è stato ancora più sbirro”. E’ la sua condanna. Giuseppe Di Cristina ha paura di morire. E i corleonesi lo avvertono: due suoi amici, Giuseppe Calderone e Francesco Madonia, cadono in un agguato sul suo territorio, sulla statale che da Riesi porta a Gela. Il boss comincia a parlare. Racconta che Luciano Liggio ha deciso l’ eliminazione del procuratore capo di Palermo Pietro Scaglione, l’ uccisione del giudice Cesare Terranova e che sta scatenando una sanguinosissima guerra di mafia. Di Cristina è un mafioso morto perchè viola la prima regola dell’ onorata società: l’ omertà. E’ il 26 febbraio del 1978. In altri due incontri, il 2 e il 6 marzo, traccia al brigadiere Di Salvo della stazione di Riesi uno sconvolgente quadro delle cosche corleonesi. L’ inchiesta passa così al colonnello Antonino Subranni, il comandante del nucleo operativo dei carabinieri di Palermo. Ecco cosa scrive Subranni nel suo rapporto ai giudici: “Le notizie fornite dal Di Cristina rivelano anche una realtà occulta davvero paradossale: rivelano, cioè, l’ agghiacciante realtà che, accanto all’ Autorità dello Stato, esiste un potere più incisivo e più efficace che è quello della mafia; una mafia che agisce, che si muove, che lucra, che uccide, che perfino giudica, e tutto ciò alle spalle dei pubblici poteri…”. Nella sentenza di rinvio a giudizio del maxi processo i magistrati ricordano “il nobilissimo sdegno” di Antonino Subranni, ma anche il risultato delle preziosissime rivelazioni di Giuseppe Di Cristina: il rapporto dei carabinieri scompare per due anni in una delle stanze della procura della repubblica di Palermo. Di Cristina intanto muore. E’ un’ altra morte annunciata, questa volta di un mafioso, davanti ad uno Stato inerte che sa ma non interviene. L’ indagine giudiziaria scatta soltanto il 30 maggio del 1978, dopo l’ agguato davanti all’ assessorato regionale all’ Agricoltura di Palermo. Nelle stesse ore, a Riesi, tutto il paese scende in piazza per l’ ultimo saluto al boss. Un funerale di massa, negozi chiusi, uffici e scuole deserte, quasi ventimila uomini e donne dietro ad una bara. “Mio marito è stato coinvolto in cose più grandi di lui”, ricorda ancora la vedova, “ucciso senza avere fatto male a nessuno”. Antonina Di Legami il 10 febbraioè stata invitata a presentarsi nell’ aula bunker dove sfileranno i boss della nuova mafia. Dice: “I carabinieri mi hanno ascoltato tante altre volte e non ho saputo dire nulla… io non so nulla. Perchè deve continuare questo tormento? Perchè devo andare a Palermo?”. La storia di Antonina Di Legami è speciale. Ha sposato un boss mafioso ma proviene da una famiglia famosa in mezza Sicilia per le coraggiose battaglie per l’ occupazione delle terre e la liberazione di carusi dalla schiavitù della miniera. Gente che per anni ha lottato prima contro il latifondo e poi contro la mafia. Lei, adesso, vive con i suoi due figli e insegna alla scuola elementare del paese. Ai suoi scolari parla di mafia? “I bimbi sono ancora troppo piccoli… certo, io li educo contro la violenza, contro tutti i tipi di violenza e di prevaricazione, al di la delle parole o delle vuote formule. Ma questo, ai miei figli, l’ aveva insegnato anche mio marito”. La Repubblica ATTILIO BOLZONI 05 febbraio 1986 sez.
UNA RAFFICA DI PROIETTILI CONTRO L’ ULTIMO DI CRISTINA La morte di una famiglia siciliana è arrivata in una sera di fine estate soffocata dallo scirocco. Una dinastia di mafia è scomparsa con otto proiettili calibro 7,65. Qui a Riesi, paese circondato da vigneti e miniere di zolfo, un killer solitario ha ucciso l’ ultimo dei Di Cristina, Antonio, il professore, il saggio, il politico di un clan che per mezzo secolo ha scritto la storia della vecchia mafia del feudo e poi quella violenta della droga. Una cosca potente e rispettata fino al grande peccato: la cantata di Giuseppe Di Cristina, il fratello di Antonio, ad un capitano dei carabinieri. Un boss pentito dieci anni prima di Tommaso Buscetta, un mafioso che raccontò grandi verità alle quali giudici troppo prudenti non vollero credere. Un solo sicario per Giuseppe, uno solo anche per Antonio, ex sindaco dc di Riesi, ex vicesegretario provinciale della Democrazia cristiana, buon amico di tanti politici che ancora oggi siedono tra i banchi del parlamento siciliano. Era seduto anche lui, davanti al circolo Unione della piazza di Riesi, quando un giovanissimo killer ieri sera gli ha scaricato addosso l’ intero caricatore di una pistola automatica. Un’ azione fulminea: sette colpi da un paio di metri e l’ ultimo a bruciapelo sulla fronte. L’ omicidio di un professionista, un killer abituato ad uccidere con calma anche davanti a decine di testimoni, al centro di un paese dove la fuga è difficile e anche rischiosa. Un sicario inviato dai corleonesi? Una vendetta trasversale per cancellare la vergogna di un fratello amico dei carabinieri? E’ un’ ipotesi, solo un’ ipotesi che gli investigatori sono costretti a valutare. Ma in questo delitto c’ è dell’ altro: il carisma del professore, i suoi legami con esponenti democristiani di primo piano a Palazzo dei Normanni, gli strani segnali che le tante mafie siciliane lanciano da qualche mese dalle province interne. La Dc a Riesi era lui, titolava ieri sera in prima pagina il quotidiano palermitano L’ Ora. Una morte che sa tanto di appalti, affari, favori concessi o rifiutati. Perché ucciderlo proprio adesso quando suo fratello si è pentito dieci anni fa, si chiede un investigatore esperto in cose di mafia, le sue rivelazioni sono ormai un pilastro del maxiprocesso… troppo banale il movente di un omicidio per vendetta, forse stava tentando di riprendersi il comando della zona. Delitto da decifrare seguendo altre piste più nascoste. Tracce che portano agli appalti stradali nella Piana di Gela, ad una dozzina di morti ammazzati a nord di Riesi ed a una trentina a sud, a Niscemi, nuova capitale siciliana dell’ omicidio. Sono indizi che si confondono con delicati equilibri di una mafia ancora sconosciuta che ha preso il posto di quella finita in galera con le grandi retate dei primi anni Ottanta. La morte di Antonio Di Cristina comunque sembra segnare una svolta perché, proprio qui, a Riesi, dieci anni fa è nato il maxiprocesso a Cosa nostra. Lo chiamavano il boss dal colletto bianco: era Giuseppe Di Cristina. Dopo qualche anno alla Cassa di Risparmio e qualcun altro al soggiorno obbligato, fu assunto come cassiere alla Sochimisi, la società chimica siciliana, con una lettera firmata da Aristide Gunnella, allora amministratore delegato dell’ azienda e oggi ministro repubblicano per gli Affari Regionali. Per Riesi quello fu anche l’ anno di un grande matrimonio. Testimoni di nozze per Giuseppe Di Cristina il segretario regionale della Democrazia cristiana Graziano Verzotto (è latitante dal 1974) e il boss catanese Giuseppe Calderone. A Riesi arrivarono da ogni angolo della Sicilia tanti personaggi per deporre anche un mazzo di fiori sulla tomba del padre di Giuseppe Di Cristina. E proprio dal padre il boss aveva ereditato il trono mafioso la seconda domenica del settembre 1961. Quel giorno, quando la statua di gesso della Madonna della Catena si fermò sotto il balcone dei Di Cristina, tutti capirono cosa stava accadendo. Il vecchio boss presentava così il figlio al paese. In pochi anni Giuseppe Di Cristina stringe i rapporti con i Rimi di Alcamo, con i Badalamenti di Cinisi, con i Bontade di Palermo. Ma per lui arrivano anche i primi guai: una comunicazione giudiziaria per la scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, qualche anno di carcere con l’ accusa di avere ucciso un albergatore di Ravanusa, un processo con i 114 della nuova mafia. Una perfetta carriera di mafioso con il classico nemico: Luciano Liggio e i corleonesi. Un odio tra due boss che nasce da una diversa mentalità mafiosa. Ed è proprio un cadavere eccellente, quello del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, a decretare la morte di Giuseppe Di Cristina. Subito dopo l’ uccisione dell’ ufficiale, Di Cristina in un summit di mafia dice agli altri boss: Se il colonnello era uno sbirro, chi lo ha ammazzato è stato ancora più sbirro. E’ la sua condanna a morte. I corleonesi lo avvertono assassinando amici e guardiaspalle e lui entra subito in una caserma dei carabinieri. Racconta che Liggio fece uccidere il procuratore capo di Palermo Pietro Scaglione, che voleva assassinare il giudice Cesare Terranova, che stava scatenando una sanguinosa guerra di mafia. I carabinieri gli credono e riempiono centinaia di pagine di verbali. Ma nessuno prese sul serio le rivelazioni del mafioso e il 30 maggio del 1978, con la pistola in mano come un vero boss, muore ammazzato. Due giorni dopo Riesi è a lutto, il paese intero scende in piazza per rendergli omaggio, le bandiere della Dc sventolano dal balcone della sezione. Poi scatta un agguato contro il fratello Angelo che forse voleva prendere il suo posto. Quasi dieci anni dopo ecco un altro killer per il fratello Antonio. Riesi, in silenzio, prepara oggi un altro funerale per il suo ultimo capo. E intanto, a tempo di record, la Dc di Riesi fa affiggere per le vie del paese un manifesto listato a lutto. I consiglieri comunali democristiani e il direttivo della sezione esprimono il loro cordoglio per la scomparsa del fraterno amico. ATTILIO BOLZONI09 settembre 1987 LA CRISTINA
Funerali di Giuseppe Di Cristina Serrande dei negozi abbassate in segno di lutto, pubblici uffici chiusi o senza personale, popolazione che si raccoglie per l’estremo omaggio al feretro portato in spalla per le vie del paese, seguito dal sindaco e dall’intera giunta. Le foto testimoniano anche la bandiera a mezz’asta della sezione locale della Democrazia Cristiana, fatto che susciterà le ire di Rosario Nicoletti, segretario regionale del partito.Nei funerali di Giuseppe Di Cristina, capomafia di Riesi, nella provincia di Caltanissetta, si vanno a condensare quegli elementi ormai entrati in un’aspettativa collettiva: spettacolarizzazione del rito, chiamata della comunità a raccolta intorno alla funzione religiosa, presenza ostentata della sfera politica. Elemento di interesse, che riconduce la lettura della cerimonia ad una dimensione storica sottraendola dunque all’insidia dello stereotipo, è nell’intreccio di una duplice funzione che la costruzione di questo momento celebrativo sembra rivestire, a fronte della crisi aperta dalla…morte violenta del capomafia. L’accorta regia del rito funebre appare infatti, nella sua costruzione simbolica, rispondere all’esigenza di inviare messaggi a due differenti destinatari. Da un lato la comunità locale, al fine di ribadire la vitalità del gruppo legato al defunto, erede di una vera e propria dinastia che domina a Riesi perlomeno dalla figura del nonno, l’omonimo Giuseppe. L’utilizzo di momenti devozionali appare d’altronde un canale comunicativo già saldo in tal senso: fu durante una processione religiosa che avvenne la consacrazione del padre di Di Cristina, Francesco e ad egli stesso furono poi, nel 1961, dedicati grandi funerali suggellati da un epitaffio che lo celebrò come colui in cui “gli uomini ritrovarono una scintilla dell’eterno rubata ai cieli”. Dall’altro lato un messaggio vuole essere rivolto all’interno del network mafioso. L’omicidio di Di Cristina apre una destabilizzazione le cui prospettive non sono ancora chiare: si può ipotizzare che per il fronte di cui il boss di Riesi fa parte, il rito funebre diventi occasione per mostrare la propria saldezza. La fragilità di questa condizione sarebbe emersa solo tre anni dopo, quando con il duplice omicidio di Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo si sarebbe aperta la definitiva ascesa dei corleonesi all’interno degli equilibri di Cosa nostra. CULTI E MAFIE
Note
- ^ BUSCETTA: ‘ COSA NOSTRA UCCISE ENRICO MATTEI’ – Repubblica.it» Ricerca
- ^ Omicidio De Mauro | Articoli Arretrati Archiviato il 24 febbraio 2013 in Internet Archive.
- ^ Salta a:a b CASO DE MAURO, NUOVA PISTA
- ^ Graziano Verzotto l’uomo dei misteri – Repubblica.it» Ricerca
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- ^ UNA RAFFICA DI PROIETTILI CONTRO L’ULTIMO DI CRISTINA
- ^ e il boss ordino’ : ” uccidete lo sbirro “
- ^ Tra bravate, pizzo e affari carriera di un aspirante boss – cronaca – Repubblica.it
- ^ E LEGGIO SPACCO’ IN DUE COSA NOSTRA la Repubblica.it
- ^ UNA RAFFICA DI PROIETTILI CONTRO L’ULTIMO DI CRISTINA La Repubblica- 9 settembre 1987
a cura di Claudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco