MICO GERACI

 

RELAZIONE COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA 

 

Domenico “Mico” Geraci  aveva accusato e denunciato i boss di Cosa nostra per la loro infiltrazione nel territorio di Caccamo, considerato la roccaforte dell’allora numero uno della mafia, Bernardo Provenzano e regno dell’ex superlatitante Nino Giuffrè. Nel 1993 il consiglio comunale infatti era stato sciolto per infiltrazioni mafiose.

Geraci (Caccamo, 31 maggio 1954 Caccamo, 8 ottobre 1998) è stato un politico italiano assassinato dalla mafia. Impiegato regionale con un passato di militanza della Cisl, che lo aveva portato anche nell’ufficio di gabinetto dell’Assessorato Regionale all’Agricoltura, passato in seguito nelle file della UIL, si affacciò al mondo politico come consigliere nel comune di Caccamo e come membro del Gabinetto. Nel 1994 divenne consigliere provinciale del Partito Popolare Italiano della Provincia di Palermo. In seguito prese la decisione di lasciare quel seggio per costruire la sua candidatura a sindaco del Comune di Caccamo. Diversi furono gli avvertimenti che la mafia gli inviò prima della sua morte, come l’auto incendiata, che fu il primo segnale. Dopo due mesi dalla candidatura, all’età di 44 anni, l’8 ottobre del 1998 fu ucciso a fucilate davanti a casa sua. I killer, che erano in quattro su una Fiat Uno, l’hanno atteso poco dopo le 21 sotto casa, trucidandolo davanti al figlio Giuseppe.

 

La storia di Domenico Geraci 15 Ottobre 2017 Maria De Laurentiis STAMPA CRITICA Quella che vi racconto è una storia, ma non è una storia come quelle che si raccontano ai bambini. È una storia vera. È una storia di ingiustizia e di abusi di un mondo criminale, un ambiente banale dove la violenza è il prezzo da pagare. Una storia così assurda e così orribilmente già vista. È una storia di mafia che ha lasciato tracce indelebili nella vita politica e sociale italiana.

È la storia di Domenico “Mico” Geraci, un politico italiano assassinato dalla mafia. Aveva 44 anni, fu ucciso a Caccamo con cinque colpi di fucile a pompa calibro 12. Sindacalista della UIL allevatori, sposato con due figli, ex consigliere provinciale del Ppi, (Partito Popolare italiano della provincia di Palermo) era quasi certamente prossimo candidato dell’Ulivo a sindaco.

La sera dell’8 ottobre 1998 erano da poco trascorse le 20.30 quando Domenico Geraci attraversò piazza Zafferana, alla periferia del paese, per rientrare a casa. I killer, su una Fiat Uno, si avvicinarono. Uno di loro scese e fece esplodere in rapida successione i colpi di fucile. Geraci cade una prima volta. Poi si rialza lasciando a terra una pozza di sangue. Crolla dopo pochi metri. Fu ucciso a fucilate davanti casa sua. Richiamato dai colpi di fucile, il figlio del politico si affaccia e vede le fasi terminali dell’agguato. I killer, che erano in quattro, lo hanno atteso sotto casa, trucidandolo davanti al figlio. Aveva diciassette anni, il figlio di Mico, Giuseppe Geraci, e assistette all’omicidio del padre. Pochi mesi prima, a Caccamo, Geraci si era scagliato contro la mafia e contro il nuovo piano regolatore che secondo lui tutelava alcuni interessi non cristallini. Il politico aveva accusato e denunciato i boss di Cosa Nostra per la loro infiltrazione nel territorio di Caccamo. Nel 1993 il consiglio comunale infatti era stato sciolto per infiltrazioni mafiose.

Domenico Geraci, 44 anni, fu ucciso a Caccamo, paese a 50 chilometri da Palermo, con cinque colpi di fucile a pompa calibro 12. Uno dei figli di Geraci, Giuseppe, all’epoca dei fatti diciassettenne, assistette ad alcune fasi dell’omicidio dal balcone di casa e tentò di reagire gettando un vaso per colpire i sicari o la loro auto. È stato lui uno dei primi testimoni ad essere accompagnato in caserma per essere ascoltato dai carabinieri. Oltre al figlio della vittima, gli inquirenti hanno ascoltato un amico di Geraci che si trovava con lui pochi minuti prima del delitto.

Sappiamo proprio tutto dell’omicidio di Domenico Geraci o resta anche questo uno dei tanti misteri di mafia? Il caso del sindacalista ucciso a Caccamo la sera dell’8 ottobre 1998 è un delitto di mafia di cui a distanza di tanti anni ancora non si conoscono gli autori e i mandanti. A distanza di anni ancora si è alla ricerca della verità. Questa vicenda, di cui ha parlato anche il pentito di mafia Nino Giuffrè, resta uno dei casi di omicidi mafiosi irrisolti.

Un altro nome da non dimenticare, un altro delitto avvolto nel mistero, un altro misfatto che ha insanguinato la storia italiana, uno di tanti quelli che confermano l’esistenza di un potere corrotto e ricattatorio, fatto di violenza e perversione. Un’altra vittima di mafia per la cui memoria bisogna rinnovare l’impegno alla lotta contro queste criminalità organizzate.

Che importa se la corruzione, la mafia ammorbano l’esistenza di tanta gente con la complicità di alcuni degli uomini chiamati a combatterla? E perché nessun governo ha mai inserito fra i propri obiettivi primari la lotta alla corruzione? Una verità amara senza sconti per nessuno. Sento che così rischiamo di vedere altre vittime. Vorrei smentirlo, ma temo che non sarà così. Scenari che si sono nel tempo ripetuti fino ai giorni nostri.

Ma la sua voce non è seppellita, la sua voce è sopravvissuta. Il suo sacrificio, come quello di tanti altri, non può rimanere a noi estraneo. Condividiamo la memoria per valorizzare intrecci di vite e storie. Facciamo conoscere le loro storie a chi non li ha potuti incontrare. di Maria De Laurentiis la Repubblica.it 7.10.2018 


Delitto Geraci vent’anni di silenzi e nessun colpevole  Vent’anni di silenzi, di attese e speranze deluse. L’omicidio di Domenico “Mico” Geraci, sindacalista della Uil Allevatori e promesso candidato sindaco a Caccamo, sembra destinato a rimanere irrisolto. Fu la mafia a ucciderlo con cinque colpi di fucile a pompa calibro 12 la sera dell’8 ottobre del 1998, davanti al figlio di 17 anni che assistette alle ultime fasi dell’omicidio. Ma nessuna sentenza è stata mai emessa.

E adesso vogliono cancellare anche la sua memoria: è stata distrutta la targa della strada di Bonagia intitolata al politico che nei suoi comizi faceva i nomi dei mafiosi. Due raid a distanza di poche settimane per spazzare via anche il nome di quell’uomo che la mafia reputava «una mela marcia». Pochi mesi prima dell’omicidio, Geraci si era scagliato contro la mafia e contro il nuovo piano regolatore che secondo lui tutelava alcuni interessi sporchi. «Noi non ci arrendiamo. Chiediamo alla magistratura di essere più ardita, di riaprire le indagini e di sondare ogni piccolo dettaglio che possa portare alla verità. Vogliamo i colpevoli», dice il figlio Giuseppe Geraci. Due i procedimenti penali chiusi con un’archiviazione. Quattro i nomi dei probabili esecutori e mandanti finiti nell’oblio. «Pesante clima di omertà», scrisse il giudice quando motivò la prima archiviazione a carico di ignoti. C’è voluto il pentimento del boss del paese, Nino Giuffrè, “Manuzza”, nel 2002 per avere quattro nomi di probabili killer e mandanti: Bernardo Provenzano, Benedetto Spera, Giorgio Liberto e Giovanni Puccio. «Cercammo di ammorbidire Geraci – ha ricostruito in aula Giuffrè nel 2006 – ma in una riunione del 1997 Liberto e Puccio mi fecero presente la gravità della situazione. Io sconsigliai di uccidere Geraci. Questa mia risposta lasciò Liberto visibilmente insoddisfatto». L’omicidio venne commesso – come ha ricostruito Giuffrè – scavalcando il boss. «Sono anche stato sentito dalla commissione antimafia – non si arrende il figlio del sindacalista e più passa il tempo, più sarà difficile ricostruire tutto. Non si trascuri la vicenda di mio padre».

Lettere minatorie, mazzi di crisantemi e la macchina bruciata. Cosa nostra aveva lanciato diversi segnali all’indirizzo di quel sindacalista che non scendeva a compromessi. Ma lui andò avanti. «Era minacciato dai primi anni Novanta. Mio padre venne ucciso perché era un politico onesto – continua Giuseppe Geraci – oltre che molto attivo e apprezzato a Caccamo. E nei dibattiti pubblici non aveva mai nascosto da che parte stava».

Per i vent’anni dall’omicidio la Uil propone domani un incontro sulla mafia nell’istituto comprensivo “Piersanti Mattarella” di Bonagia. Nel pomeriggio la messa a Caccamo e nell’aula consiliare, sempre a Caccamo, ci sarà un dibattito.

«Mico Geraci era un sindacalista nell’anima – dice Carmelo Barbagallo, segretario generale Uil – e grazie alla sua azione sindacale e alla sua attenzione ai problemi veri della gente, i braccianti di quella zona si iscrivevano, sempre più convinti, alla nostra organizzazione. Temevo che la sua onestà e le sue capacità potessero essere viste come ostacoli a progetti criminosi e di malaffare. Purtroppo, disgraziatamente, non mi sbagliavo. Nel mio ufficio ho la sua foto. La profanazione della sua targa è un atto vile».Romina Marceca. 07 ottobre 2018 LA REPUBBLICA 


Ucciso dalla mafia davanti al figlio di 17 anni: Mico Geraci, 21 anni di omertà L’8 ottobre 1998 Domenico ‘Mico’ Geraci viene trucidato a fucilate sotto gli occhi sgomenti di suo figlio Giovanni, 17 anni, che dalla finestra assiste disperato all’omicidio di suo padre. Dopo 21 anni, l’omicidio dell’ex consigliere provinciale di Caccamo e futuro candidato sindaco nella ‘Svizzera della mafia’, resta ancora senza colpevoli. Secondo il boss Antonino Giuffré, Geraci fu ucciso perché voleva ripulire il consiglio comunale dalle infiltrazioni mafiose. L’8 ottobre 1998 Domenico ‘Mico’ Geraci viene trucidato a fucilate sotto gli occhi sgomenti di suo figlio Giovanni, 17 anni, che dalla finestra assiste disperato all’omicidio di suo padre, cercando di colpire i killer lasciando cadere il vaso di una pianta. Accade davanti alla sua abitazione di Geraci a Caccamo (Palermo), pochi istanti dopo che il suo collega lo ha fatto scendere dall’auto. Mico Geraci è una vittima innocente della mafia. Aveva 44 anni.

Alla fine degli anni Novanta, sei anni dopo le stragi, Caccamo era, come la definitiva il giudice Giovanni Falclone, ‘la Svizzera della mafia’. Geraci voleva candidarsi a sindaco, da poco si era lasciato alle spalle la vecchia DC per entrare nell’Ulivo di Beppe Lumia. Aveva preso di mira alcune anomalie del piano regolatore del comune, che secondo lui, nascondevano interessi occulti della mafia. La mafia che aveva insinuato i suoi gangli nella macchina comunale, tanto che a controllare l’affidamento degli alloggi pubblici, alla guida dei servizi sociali, c’era niente meno che Rosaria Stanfa, moglie di Antonino Giuffré, detto Nino, il ‘Manuzza’, boss latitante e capo del mandamento di Caccamo. Geraci aveva puntato il dito anche contro di lei, invocando la legalità in comune sciolto per mafia 4 anni prima; la trasparenza, nella roccaforte del silenzio; il cambiamento, in un territorio dove signoreggiava un assetto di potere criminale di impianto medievale.

Prima di morire Geraci era sereno, ottimista. “A Caccamo la mafia non uccide più”, diceva. Poi una sera di ottobre mentre stava rientrando a casa poco dopo le 20 e 30 sentì la presenza di un’auto che lo marcava stretto, una Fiat 1 dalla quale scese l’uomo che gli scaricò addosso cinque colpi di fucile a canne mozze. Geraci cadde a terra in un lago di sangue, si rialzò a fatica, poi ricadde di nuovo, mentre, richiamato dai colpi di fucile, il figlio Giovanni si affacciava alla finestra. Disperato, Giovanni tentò, invano, di neutralizzare i killer lanciandogli contro il vaso di una pianta.

Nonostante l’evidenza della matrice mafiosa, bisognerà attendere le dichiarazioni di ‘Manuzza’, Nino Giuffrè per avere una traccia su cui indagare. Giuffé che da pentito ha raccontato di aver più volte respinto la richiesta di assassinare Geraci, presentata dalle altre famiglie e che l’omicidio dell’ex sindacalista sarebbe stato anche un messaggio inviato a lui da Bernardo Provenzano attraverso la famiglia Spera, che avrebbe messo a disposizione un suo uomo per l’agguato. Sia Provenzano che Benedetto Spera finiscono nel registro degli indagati nel 2002, ma le indagini si concludono con l’archiviazione. Non si conoscono i nomi dei killer, ma dopo 21 anni, si sa per certo chi è stato. FANPAGE