di Matteo Zilocchi (con la collaborazione di Andrea Piazza)
Questa storia è ambientata nella torbida Palermo di inizio anni ‘90. Racconta la vicenda di un giovane ex poliziotto, collaboratore del Sisde, coinvolto in uno dei grandi misteri italiani e barbaramente ucciso da Cosa nostra. Il suo nome è Emanuele Piazza.
Per provare a far luce sulla sua morte è necessario percorrere un labirinto fatto di depistaggi, reticenze e collusioni perché Emanuele non è un poliziotto come tanti altri.
La sua vita ha uno sliding doors il 21 giugno 1989, quando il giudice Giovanni Falcone scampa miracolosamente ad un attentato all’Addaura. 58 candelotti di esplosivo avrebbero dovuto anticipare di tre anni il macabro destino che si compirà il 23 maggio 1992 a Capaci. Ma per Cosa nostra qualcosa va storto.
Sul fallito attentato, sin da subito, si rincorrono voci e indiscrezioni e i giornali iniziano a pubblicare le prime ricostruzioni. La più accreditata rivela che Emanuele Piazza, insieme a un collega poliziotto, Nino Agostino, avrebbe salvato il giudice Falcone individuando il borsone pieno di tritolo e facendo scattare l’allarme. In realtà le certezze su quanto è realmente accaduto nel borgo a 30 chilometri da Palermo sono poche. Pochissime. Si iniziano a intrecciare depistaggi e silenzi. Notizie vere e verosimili. Dubbi, che col passare dei giorni, anziché diminuire, aumentano.
Il mistero dell’Addaura si infittisce ancor più il 5 agosto, quando Agostino viene ucciso insieme alla moglie Ida Castelluccio, incinta, davanti agli occhi del padre in circostanze ancora oggi misteriose.
Emanuele, nonostante il clima di terrore, è ancor più determinato nel voler far luce sul fallito attentato al giudice Falcone e sull’omicidio del collega. In qualità di collaboratore del Sisde, nome in codice Topo, intensifica la sua attività di intelligence sul territorio, in particolare nella borgata di San Lorenzo, uno dei quartieri di Palermo a più alta concentrazione di latitanti. Cerca una pista, una traccia. Tra i componenti della sua rete c’è un coetaneo e amico, si chiama Gaetano Genova. E’ un vigile del fuoco e parente alla lontana di Tommaso Buscetta. I due si vedono spesso.
Tra le strade di San Lorenzo Emanuele incontra anche una vecchia conoscenza, Francesco Onorato, conosciuto in palestra anni prima. Onorato si presenta come un imprenditore in carriera, in realtà è un mafioso di rango, reggente del mandamento di Partanna Mondello. Emanuele sa chi è ma lo frequenta, spera possa fornirgli informazioni sui latitanti della zona. Piazza e Onorato si incontrano spesso all’interno della polleria di Simone Scalici, a Sferracavallo, borgo marinaro alle porte di Palermo. Un pomeriggio ad un loro appuntamento assiste da lontano un personaggio che da quelle parti si vede spesso ma che ama restare nell’ombra. Fuma e osserva con attenzione i due ragazzi. Si chiama Salvatore Biondino, è uno che in Cosa nostra ha fatto carriera fino a diventare l’autista del Capo dei Capi, Totò Riina, oltre ad essere il capomandamento di San Lorenzo. A Biondino non piace quel dialogo e nemmeno il legame tra Onorato e Piazza. E’ insofferente, rabbioso. Non accetta di osservare uno dei suoi uomini parlare agente. Lui sa bene chi è Piazza e non ci mette molto a manifestare il suo disappunto a Onorato: “Ma sei diventato amico di uno sbirro? Fonti istituzionali mi hanno detto che quello è uno dei servizi, dà la caccia ai latitanti. E’ pericoloso. Adesso che sai, provvedi”. Non si sa se Onorato sia già un informatore o meno e comunque non ha più importanza. Le parole di Biondino suonano come una sentenza per lui e per l’amico Emanuele. Onorato sa che per risolvere la questione e salvarsi la pelle c’è una sola soluzione. Così la sera del 15 marzo 1990 si presenta a casa di Piazza e, con la scusa di dover cambiare un assegno in un negozio di mobili poco distante, gli chiede di accompagnarlo. L’auto esce da Sferracavallo, dove abita Emanuele, e imbocca la statale 113 che sale fino a Capaci. Ad attenderli nello scantinato del mobilificio ci sono sei uomini: Salvatore Biondino, Giovanni Battaglia, Antonino Troia, Salvatore Biondo, Simone Scalici e Giovan Battista Ferrante. Piazza viene strangolato da Scalici e portato nel terreno di Giovanni Battaglia, dove il suo corpo è sciolto nell’acido (ndr nel terreno di Giovanni Battaglia sarà rinvenuto anche parte dell’esplosivo utilizzato per la strage di Capaci).
Pochi giorni dopo la stessa sorte tocca a Gaetano Genova. In Cosa nostra gira voce sia un informatore e nel dubbio è meglio eliminare anche lui.
La sera del 17 marzo i familiari di Emanuele iniziano a preoccuparsi. Il ragazzo non si è fatto vedere alla festa di compleanno del padre Giustino e non è da lui. Così il padre, insieme al figlio Andrea, si reca a casa sua. Emanuele è appassionato di animali, ha una scimmia e un rottweiler di nome Ciad. E’ proprio Ciad che li accoglie all’ingresso dell’appartamento, ma di Emanuele nessuna traccia. C’è il pasto per il cane pronto per essere servito, la pasta da scolare, i suoi effetti personali, la sua pistola e anche documenti e denaro. Ma lui no. Le ore trascorrono e di Emanuele nessuna notizia. Il giorno dopo i familiari denunciano la scomparsa alla Questura di Palermo. Ad ascoltare il loro racconto è il capo della Squadra Mobile Arnaldo La Barbera, che li invita a mantenere il massimo riserbo sulla vicenda. Nel frattempo iniziano a circolare voci su una possibile pista passionale dietro la scomparsa di Emanuele, ma bastano pochi giorni per far perdere consistenza alla tesi.
I mesi passano, tutto tace e le indagini non danno esiti. Si torna a parlare di Emanuele l’11 settembre del 1990, grazie a un articolo di Francesco Viviano su Repubblica. “Aspirante 007 rapito dai clan”. Sì, aspirante, perché Emanuele non era neanche assunto, era in prova. Nel pezzo si legge “E’ un giallo sul quale indaga il giudice Giovanni Falcone. E’ avvenuto il 15 marzo scorso, ma sino a ieri, questo segreto, i servizi se lo sono tenuto ben stretto”.
“E’ stata chiara sin da subito la volontà di depistare, di non fare indagini serie e anche ai giornali la notizia venne data mesi dopo”, ci racconta Andrea Piazza, fratello di Emanuele, avvocato, che dopo 30 anni continua a cercare la verità sulla morte del fratello. E’ lo stesso Andrea ad aiutarci a ricostruire quanto accaduto in quei mesi, partendo dalle prime fasi delle indagini: “A Francesco Onorato si sarebbe potuti arrivare subito – racconta – gli uomini della Mobile erano in possesso di documentazione che portava a lui. I suoi rapporti con Emanuele erano noti, così come i suoi precedenti penali, ma quella pista non fu mai battuta. Così come non venne mai messo in relazione l’omicidio di Emanuele con quello di Gaetano Genova, avvenuto solo 15 giorni dopo. Perché? Era noto alle forze dell’ordine che entrambi erano impegnati nel fornire informazioni sui latitanti e che era stato lo stesso Genova a dare indicazioni fondamentali ad Emanuele per la cattura di Giovanni Sammarco, mafioso e latitante, come racconterà Brusca nel 1996”. Andrea prende fiato e continua il suo racconto. “Le indagini investigative sin dall’inizio furono condizionate negativamente da Arnaldo La Barbera, che disattese anche una specifica direttiva delegata dal giudice Giovanni Falcone. Falcone infatti il 23 marzo dispose di ‘sentire accuratamente tutti i funzionari che ebbero rapporti con Emanuele Piazza’, mentre La Barbera, disattendendo quanto richiesto, il 27 marzo trasmise semplici relazioni di servizio redatte dai singoli funzionari e questo condizionò negativamente le indagini. Peraltro in dibattimento una teste dichiarò, con conoscenza diretta dei fatti, che il contenuto delle relazioni di servizio furono concordate tra gli interessati”.
Insomma, di Emanuele nessuno sa nulla o chi sa tace.
Silenzio, omertà, false piste e indagini che imboccano un vicolo cieco lungo dieci anni, fino al 2000, quando sono le dichiarazioni di due pentiti a far emergere i primi spiragli di verità sulla vicenda. Uno dei due è proprio Francesco Onorato, che racconta della minaccia di Biondino, della scusa del mobilificio, dell’uccisione nello scantinato e del macabro rituale mafioso nelle campagne di Capaci.
A livello giudiziario la parola fine sull’omicidio di Emanuele viene messa nel 2001 quando la Corte d’assise di Palermo conferma le richieste dei PM Di Matteo e Ingroia condannando all’ergastolo Salvatore Biondino, Antonino Troia e Giovanni Battaglia. Trent’anni per Salvatore Biondo (il corto), Salvatore Biondo (il lungo) e Simone Scalici. Destino diverso per i due collaboratori di giustizia Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante, che hanno beneficiato dello sconto di pena e sono stati condannati a 12 anni. Erasmo Troia, invece, viene assolto per un vizio di forma procedurale.
Al mosaico mancano però ancora due tasselli: perché le indagini vennero depistate? E Piazza fu davvero coinvolto nell’attentato dell’Addaura?
A portare nuovi elementi sul ruolo di Emanuele quel mattino del 21 giugno 1989 arrivano, nel 1996, le parole del collaboratore di giustizia Francesco Elmo, personaggio molto ben introdotto nella massoneria siciliana e appartenente a Gladio dalla metà degli anni ’80. Nel corso di un interrogatorio Elmo sostiene che Emanuele Piazza sia stato un reclutatore di agenti per Gladio. “Gladio si sarebbe resa responsabile, o comunque compartecipe nel corso degli anni ottanta, di una serie di clamorosi episodi delittuosi avvenuti nella Sicilia occidentale – spiega Elmo – fallito attentato a Giovanni Falcone all’Addaura, uccisione dell’agente Agostino, omicidio Piersanti Mattarella, omicidio La Torre, omicidio Chinnici, strage di Pizzolungo”. Queste dichiarazioni di Elmo, riportate nella sentenza di primo grado sul delitto di Mauro Rostagno, riaccendono un luce opaca sul coinvolgimento dei gladiatori nel fallito attentato dell’Addaura, sulla figura di Emanuele Piazza e sul rapporto che lo legava a doppio filo ad Agostino e, forse, all’organizzazione paramilitare.
Ma c’è chi sostiene il contrario.
E’ il collaboratore di giustizia Vito Lo Forte, che 2009 dichiara che Piazza e Agostino salvarono il giudice Falcone fingendosi sommozzatori e lanciando l’allarme. La sua versione regge due anni, fino al 2011, quando i periti nominati dal gip di Caltanissetta, Lirio Conti, stabiliscono che il Dna delle cellule epiteliali estratte dalla muta subacquea e dal borsone ritrovati sul luogo del fallito attentato non sono compatibili con quelle di Piazza e Agostino, smentendo così Lo Forte. Quel Dna appartiene ad Angelo Galatolo, boss della famiglia palermitana dell’Acquasanta, già condannato nel primo processo per i fatti dell’Addaura, che secondo la testimonianza del collaboratore di giustizia Angelo Fontana: “aveva il telecomando in mano, era dietro uno scoglio, a circa 50 metri, in un incavo tracciato dal mare”.
In questo scenario nebuloso, nel 2012, prova a mettere almeno un punto fermo Sergio Lari, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta e titolare dell’inchiesta sui fatti dell’Addaura, che durante un’udienza davanti alla Commissione Parlamentare d’Inchiesta sui Fenomeni Mafiosi spiega: “E’ possibile pensare che gli agenti Agostino e Piazza possano aver avuto una responsabilità all’Addaura in accordo o meno con gli uomini di Cosa nostra? A tale riguardo abbiamo le dichiarazioni di Ilardo, registrate dal colonnello Riccio, in cui lui parla di un de relato di terza mano e di possibili responsabilità di Agostino e Piazza in questa vicenda. Abbiamo tuttavia altre dichiarazioni di segno diametralmente opposto, rese da Vito Lo Forte e dal collaboratore Marullo, i quali invece accreditano addirittura una pista secondo la quale Agostino e Piazza avrebbero salvato la vita a Giovanni Falcone, intervenendo vestiti da sub il giorno dell’attentato per far scappare le persone che si trovavano ad organizzare l’attentato stesso. Noi abbiamo fatto l’esame del DNA anche di Agostino e di Piazza per vedere se vi erano reperti utili nel borsone (…) ma non è risultato nulla di tutto ciò. Direi che questa è una pista che allo stato non ha dato esiti”.
Piazza dunque con l’attentato dell’Addaura pare non c’entri nulla, ma allora perché depistare le indagini sull’omicidio di un semplice cacciatore di latitanti? C’entrano forse quelle fonti istituzionali di cui Biondino parlò a Onorato? E perché coinvolgerlo nel fallito attentato dell’Addaura? “Personalmente – racconta il fratello di Emanuele, mentre sul suo volto si scorge un leggero sconforto – non ho elementi per dire se sia stato coinvolto o meno all’Addaura, non mi ha mai parlato di questo. Quel che è certo è che era un agente pienamente operativo. In casa sua venne trovata la lista dei latitanti con la relativa taglia e altro materiale inequivocabile. Era chiaro qual era il suo ruolo, altro non so, anche se fa comodo a tanti ricamare sulla sua vita e sul suo presunto coinvolgimento quel 21 giugno 1989. Serve anche questo a confondere le acque, a nascondere la verità. C’è una cosa però che fa più male di altre – dice Andrea lasciandosi andare ad un’amara riflessione – che i mafiosi uccidono lo metti in conto, è nella loro natura, ma che le istituzioni si rendano protagoniste di depistaggi come questo, no. Dalle istituzioni mi aspetterei altro, anche perché se si fosse trattato davvero solo di un delitto di mafia che bisogno ci sarebbe stato di depistare le indagini?”. Domanda legittima e al momento senza risposta.
La sensazione è che la verità sul caso di Emanuele, come quella sui tanti altri accaduti in quegli anni in Sicilia, si conoscerà solo quando lo Stato deciderà di alzare il velo sotto cui sono sepolti i segreti che partono da quel 21 giugno 1989, passano per Capaci, attraversano via D’Amelio, raggiungono Firenze, Milano e Roma e arrivano fino ai giorni nostri.
“La verità va cercata sul piano storico – si sfoga Andrea Piazza – all’interno di dinamiche di alto profilo internazionale, non attraverso verità processuali condizionate da depistaggi e tecnicamente limitate all’ambito procedurale. Una certezza però già c’è – conclude abbassando lo sguardo – Emanuele di questa tragica sceneggiatura è stato una delle tante vittime innocenti”.
LA REPUBBLICA 13.10.2020 Matteo Zilocchi (con la collaborazione di Andrea Piazza)