A PALERMO LA MAFIA NEI CANTIERI, GIAMBERTONE DENUNCIA: “NON SONO PIÙ DISPOSTO A STARE IN SILENZIO, È GIUSTO CHE LA GENTE SAPPIA”

 

ARNALDOMARIA TANCREDI GIAMBERTONE

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RECLUSO IN CASA DA DUE anni dopo aver denunciato la mafia

 

“Per 30 anni ho subito, poi ho denunciato i boss” L’ultima intimidazione è stata al cantiere per il rifacimento di un palazzo di via Roma, nel febbraio scorso. Gli hanno fatto sparire tutta l’attrezzatura. « E anche stavolta ho denunciato – dice Arnaldo Maria Giambertone, imprenditore edile – perché questa gente deve andare a lavorare. Basta con l’omertà ». Da quando ha denunciato la mafia, tutti gli hanno voltato le spalle. « Mi sono ridotto a dover vendere tutto per i debiti ma non arretro di un passo. Ho paura, certo, ma non mi fermo. Ho mandato via i miei figli, ho trasformato la mia casa in un bunker». Ieri i carabinieri, anche grazie alla sua denuncia e a quella di un altro imprenditore, hanno arrestato dieci persone a Tommaso Natale. Ma altri imprenditori vessati dalla cosca sono rimasti in silenzio. LA REPUBBLICA 24.6.2020


VIAGGIO ALL’INFERNO: “vittima di mafia abbandonato dallo Stato”

«La cosa più scoraggiante è sicuramente l’assenza delle istituzioni. Non rispondono mai. Non risolvono i gravissimi problemi di decine di persone come me che trovano il coraggio di denunciare: in cambio si hanno solo silenzi e l’ostacolo di una burocrazia che non garantisce neanche ciò che per legge ci spetterebbe. Ho presentato il 15 febbraio presso la Prefettura l’istanza di risarcimento per i danni personali: di solito rispondono entro quattro mesi, non ho saputo ancora niente.»

Si chiama Arnaldo Maria Tancredi Giambertone ed è un imprenditore nel settore dell’edilizia a Palermo. Un imprenditore come molti altri, ma in Sicilia niente è semplice e anche portare avanti la propria attività può diventare un viaggio all’inferno.  Lo abbiamo intervistato per parlare della sua storia, del suo lavoro, di una esistenza segnata dalla presenza violenta e costante della mafia. Ma soprattutto per far conoscere la storia di un uomo coraggioso che ha denunciato i propri aguzzini.

Signor Giambertone qual è la sua attività e quando è iniziata?

«Mi occupo di costruzioni,sono nel settore della edilizia civile e industriale dal 1984, ho iniziato quando avevo 19 anni nell’impresa di mio padre.»

Quando sono iniziati i problemi con le estorsioni mafiose?

«Posso dire che sono stati 36 anni di calvario, anni di lotta a cosa nostra e al sistema mafioso. Ho conosciuto personaggi pericolosi dai quali ho sempre cercato di tenermi lontano anche se non è stato facile. E’ stato difficile soprattutto durante i primi dieci anni di attività perchè erano tempi in cui tutto era meno conosciuto e si faceva fatica a capire a cosa si stava assistendo. Erano gli anni in cui Palermo vedeva l’affermarsi dei corleonesi e si iniziava a parlare del Maxi processo, reso possibile anche grazie alle rivelazioni dei pentiti di mafia che aiutarono i magistrati a conoscere la struttura di Cosa nostra, prima di allora sconosciuta. Anni che ho vissuto da ragazzo, agli inizi della mia attività di imprenditore e quel mondo non mi apparteneva, era lontano da me: ho vissuto in seguito sulla mia pelle tutta la sofferenza che comportano mafia e malaffare.»

 Cosa ha dovuto subire in questi anni?

«Di tutto: le estorsioni, la sottomissione al potere mafioso, le minacce, ma anche lavorare senza essere pagato. E’ un sistema maledetto quello della mafia che distrugge le vittime e che negli anni è cresciuto fino ad infiltrarsi nelle istituzioni, all’interno degli uffici pubblici, in ogni settore dell’economia.» 

Si ricorda il primo episodio, il primo avvicinamento al mondo mafioso?

«Avvenne dopo pochi anni dall’inizio del mio lavoro. Il primo mafioso con il quale venni in contatto (poi imputato nel Maxi processo) è stato il capo mafia Giuseppe Vernengo della famiglia di Santa Maria di Gesù. L’ho conosciuto nel 1986, mentre mio padre era ricoverato in ospedale al Civico di Palermo. In un padiglione che chiamavano il “carceretto” si trovavano ricoverati alcuni detenuti, anche boss mafiosi come Vernengo, Geraci, Giovanni Bontade, Mineo di Bagheria e altri. Fu cosi che un uomo mi si avvicinò per chiedere una sigaretta mentre ero in attesa che mio padre facesse una visita, scambiammo quattro chiacchiere come si fa di solito senza che io avessi la minima idea di chi fosse. Ricordo che notai il pigiama in seta con eleganti pantofole ai pedi e una collana d’oro con un grosso crocifisso: era il boss Giuseppe Vernengo, come ebbi modo di scoprire in seguito. Ancora oggi non so spiegarmi come sia stato possibile entrare in contatto con quegli individui, in assoluta libertà di muoversi nonostante la detenzione e ai quali veniva cosi permesso di gestire i propri affari in assoluta tranquillità.  Io e mio fratello ci alternavamo nella assistenza a nostro padre e una sera arrivato li non lo trovai in stanza. Era stato spostato nelle “stanze di lusso” come mi disse l’infermiere: Vernengo aveva chiesto e ottenuto il trasferimento di mio padre nella sua camera. Mafiosi che  potevano tutto e che continuavano i loro sporchi affari dalle stanze dell’ospedale. Naturalmente la sua attenzione per la mia famiglia era dovuta alla nostra attività nel campo dell’edilizia e ben presto ne pagammo le conseguenze.» 

Quando ci fu la prima estorsione ai vostri danni?

«Presi un lavoro, ufficilamente per un società come molte altre: ricordo che firmò il contratto e le cambiali l’amministratore delegato, apparentemente quindi tutto in regola. Ma poco tempo dopo, con le cambiali protestate, venne fuori che il committente era proprio il boss Vernengo che non pagò mai per il lavoro, il mio referente era il figlio più piccolo: vennero prodotte cambiali per 55 milioni di lire mai pagate, più le spese del protesto. Un grosso colpo alla mia attività anche perchè iniziarono a chiedermi il pagamento del pizzo negli altri cantieri che avevo: fu quello l’inizio di un incubo che ancora oggi non è terminato.»

Quanti altri episodi di estorsione ci sono stati ai suoi danni ?

«Molti e da appartenenti a diversi clan. Nel 1996 a Borgo Vecchio presi una palazzina, pagai due milioni e mezzo di lire, ma poi tornarono a chiedere denaro una seconda volta, poi ancora e ancora. Io non pagai e cosi vennero incendiate tutte le impalcature. Anche il boss di San Lorenzo per un cantiere mi chiese tre milioni e mezzo, cosi come tanti altri, continuamente ad ogni lavoro. Loro arrivano e pretendono, una prassi consolidata e che non lascia scampo.»

Poi è arrivata la sua prima denuncia nel 2016. Questo ha dato vita all’operazione Talea che ha portato in carcere molti boss e appartenenti alle cosche. Cosa è cambiato nella sua vita da quel momento?

«Ho denunciato a seguito della richiesta di estorsione per il cantiere di Cinisi dove era in progetto una casa vacanza: i boss di San Lorenzo volevano entrare e imporre alcuni dei loro uomini. Ho denunciato tutto alla Autorità giudiziaria. Il processo di primo grado con 37 imputati, si è concluso nel maggio del 2019 con la assoluzione di 13 di loro. Attualmente è in corso il processo di appello da un paio di mesi e la prossima udienza è prevista per il 26 ottobre. Dopo la denuncia ho subìto 36 atti intimidatori fra minacce, avvicinamenti, danneggiamenti sia in cantiere che presso la mia abitazione.» 

Come sta andando il lavoro in questo periodo?

«Molto male. Dopo la denuncia sono rimasto fermo due anni paralizzato dalla paura e vivendo nel terrore. A peggiorare il tutto c’è stato il furto delle mie attrezzature presso il cantiere a Marina di Cinisi, attrezzature preziose accumulate in questi anni di lavoro. Un colpo tremendo. Attualmente la mia azienda rischia il fallimento.»

A chi si è rivolto per chiedere aiuto?

«A molte persone, alle Associazioni per le vittime di mafia, allo Stato, alla Prefettura. Sono stato rassicurato dalla Associazione Addio Pizzo che mi segue e dalla Prefettura . Mi hanno sollecitato a ricominciare a lavorare perchè avrei ricevuto un sostegno economico come risarcimento essendomi stato riconosciuto lo status di vittima di mafia e parte lesa, per questo beneficiario di un ristoro economico come prevede la normativa per le vittime di mafia, la legge numero 6 del 2018 che riporta disposizioni per la protezione dei testimoni di giustizia. Ma ad oggi totalmente disattesa.»

Ha ricevuto altro tipo di risarcimento e una tutela personale?

«Niente di tutto questo: per ricominciare a lavorare ho dovuto vendere tutto ciò che avevo, compreso il mio orologio e l’oro di famiglia, non ho più nulla. Provo a lavorare ma è difficilissimo. Pago 2mila euro all’anno per avere una vigilanza privata. Dopo la denuncia tutti si allontanano, non sei ben visto, ma soprattutto le istituzioni ti abbandonano al tuo destino condannandoti ad una esistenza terribile.»

Oltre alle difficoltà economiche qual è la cosa più difficile per chi denuncia?

«La  cosa più scoraggiante è sicuramente l’assenza delle istituzioni. Non rispondono mai. Non risolvono i gravissimi problemi di decine di persone come me che trovano il coraggio di denunciare: in cambio si hanno solo silenzi e l’ostacolo di una burocrazia che non garantisce neanche ciò che per legge ci spetterebbe. Ho presentato il 15 febbraio presso la Prefettura l’istanza di risarcimento per i danni personali: di solito rispondono entro quattro mesi. Non ho saputo ancora niente.

Gravissima è anche la latitanza dei mezzi di informazione, televisioni e testate giornalistiche, che non vogliono raccontare cosa accade a chi denuncia: in questo modo le nostre storie restano confinate alla Sicilia e non diventano una questione nazionale, cosa che invece sono.»

Ha mai pensato di abbandonare la Sicilia e andare via?

«L’ho pensato e l’ho anche fatto. Di fronte alla ennesima estorsione di denaro, attuata sequestrandomi in un negozio per alcune ore, ho aspettato due giorni e poi me ne sono andato: tornavo a Palermo di nascosto, viaggiando di notte, coperto da una coperta sotto il sedile dell’auto: come si può vivere cosi?»

Il prossimo 26 ottobre ci sarà un’altra udienza del processo di Appello, cosa vuole dire?

«Ho paura non lo nascondo. Essere prelevato dai carabinieri per recarsi all’aula bunker dove ci sono criminali da me denunciati, alcuni condannati al 41 bis, che ti guardano minacciosi con un fare di sfida, anche se da dietro le sbarre, non è facile. Ci sarà la parte finale del mio interrogatorio con il controesame degli avvocati degli imputati.»

Grazie alle denunce di Arnaldo Giambertone lo scorso giugno ci sono stati ulteriori arresti a seguito dell’operazione delle forze dell’ordine denominata Teneo e che ha portato in carcere boss e appartenenti al clan di Tommaso Natale.

Grazie alle sue dichiarazioni lo Stato è riuscito a sferrare colpi importanti alla mafia siciliana. Ma poi questo stesso Stato dimenticata ancora una volta un altro dei suoi cittadini coraggiosi. Ci racconta Giambertone di essere da anni in attesa di una convocazione da parte della Commissione Nazionale Antimafia, di essersi affidato alle Associazioni antimafia, di aver raccontato decine di volte la propria storia a uomini e donne delle istituzioni. Ma non è servito a nulla.  La storia di questo imprenditore è un copione già visto. Una storia che si ripete di chi denuncia allo Stato e che dallo Stato e poi abbandonato. La scoperta di collusioni con la mafia da parte di appartenenti alla politica, alla magistratura, alle forze dell’ordine o di settori importanti dell’economia inquinati dal malaffare, sta diventando una notizia di cronaca quotidiana che non sconvolge più. Ma questo è ciò che fa comodo a mafiosi e gregari per distogliere l’attenziome dell’opinione pubblica dal principale problema italiano: la mafia. Fin quando c’è chi denuncia, rifiutandosi di pagare il pizzo, resta viva la speranza di un riscatto necessario e non più rinviabile per la società tutta. Purtroppo troppi uomini e donne delle istituzioni promettomo e non mantengono. Purtroppo una parte dell’antimafia è solo di facciata e quindi inutilizzabile. Quello che resta è un Paese martoriato e tanti cittadini, vittime incolpevoli, abbandonati a se stessi. La mafia non è il problema di pochi, ma è il cancro di un paese intero. WORDNEWS Alessandra Ruffini 22.10.2020


A Palermo la mafia nei cantieri, Giambertone denuncia: “Non sono più disposto a stare in silenzio, è giusto che la gente sappia”  “A distanza di trent’anni devo dire che Falcone e Borsellino avevano ragione a dire che erano soli. Il marcio era dentro e c’è ancora”. È il 2018 quando per la prima volta parlo con l’imprenditore Arnaldo Giambertone. Dopo aver denunciato la mafia è spaventato dalle intimidazioni, vive braccato, chiuso in casa, scansato da amici e parenti. Eppure vuole raccontarmi la sua storia: quando inizio a scrivere decidiamo che per la sua incolumità nell’articolo avrà un altro nome, si riconoscerà ma per tutti sarà Gino.Gino nasce in un cantiere a Palermo, nel villaggio Santa Rosalia. Il 1986 fu per la sua impresa edilizia un anno florido, come una prosecuzione di quel che da sempre era stato destinato a fare. Tuttavia all’ospedale civico con il fratello si troverà proprio in quell’anno e negli anni a seguire ad assistere il padre malato, in quei corridoi asettici avvicinato per la prima volta da un uomo d’onore che apparteneva a una delle famiglie storiche di Cosa nostra, boss di Santa Maria del Gesù. Dato che due delle punte di diamante che rendono la criminalità forte e organizzata sono gli appalti e le estorsioni, è chiaro come l’avvicinamento di Gino per il capoclan non fosse casuale: la sua famiglia da generazioni infatti ricopre un ruolo di tutto rispetto nell’industria e nell’edilizia, sia in Sicilia sia sul territorio nazionale. Nel 1986 Gino è fiero della sua impresa, “ero un giovane imprenditore immaturo e irresponsabile” come si definisce oggi con il segno di poi. Altra punta di profitto per Cosa nostra è lo spaccio di stupefacenti. Negli anni Ottanta, tra sequestri di persona e contrabbando di tabacco, a cavallo con la seconda guerra di mafia, ciò che più di tutto sembrava arricchire le casse delle storiche famiglie era la raffinazione dell’eroina di cui ben presto Cosa nostra ebbe il pieno monopolio. Fino al 1981 tutti si arricchirono: gli Inzerillo, i Bontate, i Gambino di New York. Buscetta, quello che sarebbe diventato “l’uomo dei due mondi”, aprì la sua prima pizzeria nel 1966 proprio grazie alla famiglia Gambino, pizzeria che come molte altre si scoprirà essere una copertura al traffico transnazionale di eroina oggi passata nelle mani dell’ndrangheta. Per raccontarmi quegli anni Gino dice solo che prima era diverso. Prima, quando Ciancimino era il re del cemento, prima che i Corleonesi facessero guerra a tutti. “Conoscevamo personaggi e famiglie potenti mafiose”, la percezione per i palermitani all’epoca non sembrava destare tanti sospetti come oggi. “All’epoca si pagava in maniera diversa il pizzo”, gli chiedo come. “Facendo lavori senza percepire denaro in cambio, sfruttando amicizie particolari di medici e professionisti in genere per fare uscire le persone dal carcere, prestando soldi senza ritorno alle famiglie dei mafiosi in carcere”. Funzionava così, normale dunque che il boss in ospedale, una volta entrato in confidenza, cominciò a chiedergli quel tipo di favori. “Se non lo facevi eri uno inaffidabile e non potevi lavorare” mi dice Gino come a giustificarsi. Nella logica di Cosa nostra tutto può essere aggiustato purché si mantengano le promesse, così nel circolo vizioso che si viene a creare all’imprenditore, se vuol continuare a lavorare, non resta che pagare il pizzo, riconoscere l’autorità mafiosa e avere così protezione dal capomafia locale. “La gente, ancor oggi, ci pensa cento volte prima di fare le truffe se dietro a un’impresa c’è la mafia, anche i clienti che fanno le commesse” prosegue Gino quasi rassegnato.Mi racconta di quando durante il Maxi Uno soccorreva il padre ammalato in ospedale e lì trovava tutti: “Vernengo, Bontate, agli arresti ma tutti in ospedale”. Al Civico di Palermo un giorno un uomo gli chiede una sigaretta, chiede quanti anni ha e che lavora fa, poi gli dice “stai lontano da questa gente”. Il massone che faceva parte dell’Ente dello Sviluppo Agricolo era il cognato di Stefano Bontate, ma Gino è troppo giovane e non capisce il suggerimento.

Dopo il maxiprocesso tutto cambia. “Io personalmente finisco nelle mani dei peggiori usurai della città pagando lo sconto di assegni sino al 10% al mese in complotto con i preposti allora di banca dove ero correntista. Alla Sicilcassa di Palermo che riciclava denaro e che insieme al Banco di Sicilia decideva chi doveva ottenere i fidi e chi doveva fallire. C’era anche la Banca S. Angelo allora della famiglia Curella”. Poi un lampo di gioia che scompare pian piano. “Nel 1990 conobbi una ragazza bellissima, era di Casteldaccia e apparteneva alla famiglia mafiosa di Panno. Mi feci fidanzato con lei per due anni entrando a far parte della sua famiglia” anche se, a tre settimane dal matrimonio, lei lo lasciò per un sottufficiale della Marina. Era a Casteldaccia che ebbe iniziò la seconda guerra di mafia. Giuseppe Panno, detto Piddu, era il boss e faceva parte della Commissione provinciale fino a che non venne fatto sparire per lupara bianca nel 1981, perché era vicino a Stefano Bontate che insieme a Salvatore Inzerillo aveva messo a punto un piano per uccidere Salvatore Riina.“Prima chi denunciava era morto, forse sono fortunato se sono ancora vivo”, già perché nel 1992 a Partinico gli hanno “sparato addosso” e a Borgo Vecchio quattro anni dopo gli hanno dato fuoco al cantiere, sempre gli stessi, quelli che girano nei processi, entrano ed escono dal carcere. È un racconto lungo e articolato e Giambertone che dal 2016 è sotto tutela dello Stato con una vigilanza dinamica è diventato testimone di giustizia per aver denunciato i suoi aguzzini.

“Nel 2005 mi hanno chiesto diecimila euro di pizzo. Mi hanno chiuso in un magazzino, mi hanno dato l’ultimatum… Poi un anno dopo sono stato avvicinato da un amico imputato negli anni Novanta con i Farinella, ma quando ho capito che aveva contatti con Giovanni Nicchi [considerato il reggente del clan Pagliarelli, ndr.] mi sono allontanato. Mi rifiuto materialmente di avere a che fare con certa gente”. L’anno scorso, prima con l’operazione antimafia Apocalisse e poi con l’operazione Talea, un centinaio di persone dei mandamenti di Resuttana e San Lorenzo sono state arrestate.   “Nel settembre del 2017 ero nel rione Marinella per un lavoro e sono stato costretto a lasciarlo ai Lo Piccolo, il prezzo da pagare per essere considerato uno spione. Negli ultimi anni Palermo è migliorata, ma la gente è comunque omertosa” sentenzia Gino, è lui insieme al neo pentito Sergio Macaluso che tramite dichiarazioni e intercettazioni degli inquirenti, aiuterà la Dda di Palermo nell’operazione che seguì quella di Talea e dispose il fermo per cinque persone nel mandamento di San Lorenzo: Giuseppe Biondino, figlio dell’ex autista di Riina oggi all’ergastolo che finirà in regime di carcere duro, Salvatore Ariolo, Bartolomeo Mancuso, Francesco Lo Iacono e il tunisino Ahmed Glaoui, il primo straniero affiliato a Cosa nostra che gli ha detto gli avrebbe “scippato la testa” se non avesse pagato e se non avesse fatto intervenire nei lavori di scavo, in un suo cantiere di Cinisi, “un mafioso appena uscito dal carcere del mandamento di Partanna Mondello, tale Zio Ciccio” come precisa Gino. Dopo mesi l’articolo non esce, è troppo pericoloso. È proprio a causa del pentito Macaluso che Giambertone teme di essere scaricato, tema di essere solo un’esca che lo Stato tutela con una vigilanza dinamica per tre volte al giorno. È sotto tutela per paura delle ritorsioni dei Biondino ma anche per gli affiliati del tunisino che si trovano nella famiglia di Partanna Mondello. Le intimidazioni, i furti e i danneggiamenti nei cantieri, l’avvelenamento dei cani, i tentati avvicinamenti non si placano neanche dopo il primo processo scaturito dall’operazione Talea, della cui sentenza l’imprenditore palermitano è molto scettico: “È stata vergognosa, una grande delusione” mi dice, “dei 28 che con me si sono dichiarati parte offesa, almeno io ho portato a casa un risultato: due di quelli denunciati sono stati condannati”. Si riferisce al tunisino e a Bartolomeo Mancuso a cui il giudice ha dato quattro mesi senza riconoscergli l’associazione mafiosa. Ma la sentenza lo scuote e riprendo a scrivere da dove avevamo lasciato: “Ormai non sono più disposto a stare in silenzio, è giusto che la gente sappia. Non sono io a dovermi nascondere, sono loro”.

È il 2019, aggiorno la sua situazione sul bloc-notes: in quanto testimone di giustizia sta beneficiando dell’articolo 20 della Procura della Repubblica (legge 44/99) che dovrebbe sospendere tutte le procedure esecutive nei suoi confronti, ma invece al momento con la sua impresa si trova in una situazione di ristrettezze economiche e il fondo per le vittime di estorsione non è ancora stato erogato. Ha ancora la vigilanza dinamica ma viste le continue minacce è preoccupato e ha chiesto esplicitamente alla Procura di aumentare la tutela. Quando riprende a parlare siamo nel 2020 ed è più sicuro, esce dall’anonimato con un’intervista ai colleghi di Meridionews: il suo nome è Arnaldo Giambertone, imprenditore palermitano che ha denunciato la mafia. “Una settimana fa ho chiesto l’intervento dei Carabinieri per uscire di casa i quali mi hanno scortato sino in cantiere a causa del tentato avvicinamento di pregiudicati” mi aggiorna, “li ho pure denunciati: Giuseppe Campisi, sorvegliato speciale condannato nel processo Addiopizzo, l’uomo che mi hanno fatto affiancare i Carabinieri per indagini che gli interessavano nel mandamento di Resuttana, in particolare Nunzio Serio [considerato elemento di spicco della famiglia di Tommaso Natale, ndr] fedelissimo dei Lo Piccolo”. E a proposito di Nunzio Serio – lo stesso che insieme a Giulio Caporrimo voleva controllare i cantieri edili nella zona di Tommaso Natale, scoperti nell’ultima indagine della Procura e dei Carabinieri del nucleo investigativo di Palermo, l’operazione Teneo – aggiunge: “Mi convocò allo Zen una mattina nel 2017 tramite il Campisi che mi accompagnò scortato da uomini della investigativa che ci seguivano a distanza con le cimici che mi consegnarono prima di andare, l’appuntamento fu dato dal Serio nel laboratorio di una macelleria, ma quando arrivammo in loco Serio non si fece trovare. Si pensò che qualcuno lo avesse avvertito della presenza dei Carabinieri e si dileguò”. Dalla prima denuncia finalmente ha ripreso a lavorare. “Ho preso dei nuovi uffici nel cuore del centro storico di Palermo”, mi dice. Con lui c’è anche Daniele Ventura, un giovane imprenditore che insieme ad altri con le sue denunce nel 2011 aveva permesso ai Carabinieri di Palermo e alla Dda di decapitare i mandamenti di Porta Nuova e poi di Pagliarelli. “Daniele oggi è parte integrante della nostra piccola azienda che tiriamo avanti con le nostre forze. Anche se le cose non sono poi cambiate così tanto a distanza di trent’anni, ripartiamo da dove ci hanno fermati con la prepotenza”. Quando infine gli chiedo se c’è qualcos’altro su cui vorrebbe porre l’accento lui mi parla dei testimoni di giustizia, della riforma che a dicembre 2017 è diventata legge sulla tutela, il reinserimento sociale e lavorativo, il sostegno economico di quei cittadini come lui divenuti testimoni di giustizia e che lo Stato ha il dovere di aiutare e supportare, non riesce a spiegarsi la diversità di trattamento delle vittime di mafia perché alcune vengono ascoltate e protette ed altre abbandonate. “Ancora oggi non vado a fare la spesa al supermercato dietro l’angolo, perché temo di ritrovare i miei estorsori. Da settembre 2019 attendo di essere ascoltato in Commissione Parlamentare Antimafia a Roma e ancora attendo i benefici previsti dalla legge 44/99”. Su Talea il 3 luglio la Corte d’Appello di Palermo dovrebbe pronunciarsi sulla revisione della sentenza di primo grado e sulle motivazioni che sono state messe in discussione dalla procura generale. “Per poter continuare a vivere mi sono privato di tutto” riprende l’imprenditore con dignità e speranza all’indomani dell’operazione Teneo in cui, a distanza di tre anni, ha visto rientrare altre sue denunce risalenti al settembre 2017. ARTICOLO 21 – 24.6.2021 VALENTINA TATTI TONNI


L’IMPRENDITORE SBIRRO HA FATTO ARRESTARE I MAFIOSI: “SONO DEI MISERABILI, NON LI PAGHERÒ MAI”  Arnaldo Maria Tancredi Giambertone, geometra costruttore, ricostruisce un tentativo di estorsione. Lui è uno dei due imprenditori che hanno deciso di denunciare spontaneamente quello che gli stava accadendo, fornendo un contributo decisivo per colpire il clan di Tommaso Natale: “Non mi arrendo”I lavori di ristrutturazione alla Marinella erano ormai iniziati ma in poco tempo si era trovato accerchiato. Un noto commerciante con il quale aveva rapporti di lunga data lo aveva invitato a farsi da parte, mentre un operaio che lavorava con lui da più di 20 anni si era prestato per riportare gli avvertimenti arrivati da Cosa nostra: “Mi chiamò… e mi disse ‘ma che state combinando? Gli deve dire al geometra che i travagghi l’hannu a fari l’amici. Prendi tutto e te ne vai via’”. Secca e ferma la sua reazione: “Gli ho risposto che non avrei fatto nulla, che quello che aveva riferito era molto grave. Dopo l’accaduto ho subito furti, danneggiamenti, minacce”. Quello però era solo l’inizio del suo incubo di cui, dopo la sua denuncia nel 2017, sono stati anche intercettati alcuni passaggi grazie a una microspia piazzata dai carabinieri del Nucleo investigativo nel suo borsello. Arnaldo Maria Tancredi Giambertone, geometra costruttore di 55 anni, ricostruisce così un tentativo di estorsione risalente all’estate del 2017. Lui è uno dei due imprenditori che hanno deciso di denunciare spontaneamente quello che gli stava accadendo, fornendo un contributo all’attività investigativa dei carabinieri che all’alba di oggi, sotto il coordinamento della Procura, hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare colpendo il mandamento di Tommaso Natale. Nove le persone finite in carcere con l’operazione Teneo mentre una si trova ora ai domiciliari. Per la Direzione distrettuale antimafia tra loro ci sono boss e gregari che controllavano l’area che negli anni sarebbe stata sotto la competenza di Giulio Caporrimo, Nunzio Serio e Francesco Paolo Liga. Giambertone si definisce un imprenditore “sbirro”, nella sua accezione più nobile. “Fino ad oggi non sapevo che pensare, mi sono sentito a tratti abbandonato dallo Stato, che ha riconosciuto la mia posizione – racconta a PalermoToday – ma ancora non mi ha risarcito per i danni subiti, ho avuto soltanto la sospensione dei termini per quanto riguarda i miei debiti. Nonostante i vari solleciti aspetto ancora di essere ascoltato dalla Commissione nazionale antimafia a Roma”. Di dubbi e problemi, in oltre trent’anni di lavori nel settore dell’edilizia, racconta di averne avuti parecchi: “Ho presentato 30-35 denunce, facendo nomi e cognomi. Amici e familiari mi hanno allontanato, non tutti, ma ho trovato la forza nell’amore e negli occhi dei miei figli e di mia moglie. Nel tempo ci sono stati tanti episodi che mi avevano gettato nello sconforto, tra furti di materiale edile, gomme tagliate e tanto altro. Mi sono trovato costretto a stipulare un contratto con un istituto di vigilanza privata dopo vari episodi inquietanti avvenuti a casa mia”. Quella dell’agosto 2017 non era la sua prima denuncia. “Avevo un bel cantiere alla Marinella, i lavori erano già in fase avanzata. Nel giro di pochi giorni sono stato contattato dal committente dei lavori che ha cambiato completamente atteggiamento. Poi – racconta ancora – mi ha chiamato l’architetto nonché direttore dei lavori, che mi faceva delle contestazioni assurde. Volevano che smontassi tutto e gli consegnassi le chiavi. Avevo un regolare contratto e ho detto loro che avrei messo in mezzo l’avvocato. Poi mi ha chiamato un mio fornitore dicendomi che qualcuno gli aveva ordinato di venire a togliere i cassoni. ‘Dicono che sono siamo autorizzati, che devo fare?’, mi chiedeva. Gli ho risposto che non doveva toccare assolutamente nulla. Poi il cassone è stato rubato”. Da quel momento, dopo la denuncia, quasi ogni incontro veniva monitorato dai carabinieri che cercavano elementi e conferme per inchiodare i responsabili. “Ho sempre risposto a queste ‘persone’ – aggiunge Giambertone – che io non ero fatto di questa pasta. Tramite il mio ‘amico’ commerciante ho fatto sapere che non ero disponibile a dialogare con la mafia ma ci hanno provato in ogni modo. Un giorno ero andato dal salumiere, nella mia zona, e stavo tornando a casa. Mi ha fermato per strada una giovane, che conoscevo solo di vista. Sosteneva di avere necessità di parlare con me. Chiarito l’oggetto ho detto anche a lui che poteva rispedire al mittente ogni richiesta. ‘Allora posso riferire così?’, mi ha chiesto. Da quel momento i rapporti con i carabinieri si sono fatti più frequenti, avevano bisogno che io collaborassi e li facessi parlare”. Oggi più di ieri Giambertone non si pente di quello che ha fatto, anzi. E leggere questa mattina del blitz è stato per lui un sollievo, una grande soddisfazione. “Ho avuto grosse difficoltà nel mondo del lavoro. Oggi – aggiunge – ho un piccolo cantiere aperto nella zona di via Roma ma ho subito minacce e danneggiamenti fino a quest’anno. Tutti episodi che ho denunciato ancora una volta. Mi ero scocciato, avevo fatto un biglietto aereo per scappare da Palermo. Ho raggiunto Malta ma sono stato meno di 24 ore, poi ho deciso che sarei tornato nella mia città e non mi sarei arreso. Sono loro i miserabili e noi, che abbiamo dentro un senso di giustizia, dobbiamo cercare di reagire e combattere la mafia. In passato sarebbe stato facile lasciarsi travolgere e molti, troppi, lo hanno fatto. Non potete imaginare i soldi che giravano nel mondo dell’edilizia. Ricordo ancora una valigetta piena di soldi che mi mostrarono per i lavori di costruzione di una serie di villette in zona Pagliarelli. Nella vita non sai mai quando acquisirai quella maturità per capire cosa è buono e cosa non lo è, ma oggi so di avere fatto la scelta giusta”.   23 GIUGNO 2020 – PALERMO TODAY


I BOSS E LA ZONA GRIGIA DEGLI AMICI, UN NEGOZIANTE FECE DA MEDIATORE  NELL’ATTO DI ACCUSA CONTRO IL CLAN DI SAN LORENZO IL RUOLO DI PERSONAGGI NON INDAGATI MA IN RAPPORTI CON LA MAFIA. PER UN CONTRASTO SUI LAVORI DI RISTRUTTURAZIONE DI UN ALLOGGIO VENNE CHIAMATO UN COMMERCIANTE DI ARTICOLI DA REGALO

Non ci sono soltanto i quattro impresari edili che non hanno avuto il coraggio di denunciare gli estorsori del mandamento mafioso di Tommaso Natale-San Lorenzo e hanno pagato il pizzo, nell’indagine dei carabinieri del nucleo investigativo che due giorni fa ha portato in carcere e ai domiciliari dieci fra boss e affiliati. Ci sono anche personaggi che hanno rapporti con le famiglie mafiose, anche se non ne fanno parte e non sono indagati dalla Dda di Palermo. Personaggi che si improvvisano mediatori per convincere Arnaldo Giambertone a non denunciare e a sottostare al volere del clan. Il direttore dei lavori, che fino al giorno prima gestiva il cantiere dell’imprenditore e il giorno dopo gli volta le spalle trattandolo come un nemico giurato. E ancora, nella denuncia che l’impresario edile ha presentato ai carabinieri, lo stesso committente si comporta in maniera torbida, rivolgendosi ai mafiosi di Tommaso Natale per una divergenza su un computo metrico. Sono personaggi che compongono il sottobosco di una parte del settore edile a Palermo, «dove se non ti fai un padrino muori di fame», come ha detto Giambertone a Repubblica. Uno spaccato di società, molto marginale secondo gli inquirenti, dove ancora le famiglie mafiose e non lo Stato sono il punto di riferimento per risolvere i problemi.
Nelle quasi mille pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Fabio Pilato, su richiesta del procuratore aggiunto della Dda Salvatore De Luca e dei sostituti Amelia Luise e Francesco Gualtieri, questi “uomini di mezzo” compaiono in molte occasioni, a volte risolvendo i problemi, altre millantando entrature che non hanno.
Il proprietario della casa L’ultima denuncia dell’imprenditore orgoglioso di definirsi «sbirro» parte da una difformità nell’esecuzione dei lavori di ristrutturazione di un alloggio. Un problema in corso d’opera che il proprietario dell’immobile non discute nemmeno con Giambertone, revocandogli l’incarico e facendosi consegnare le chiavi dell’appartamento nella zona della Marinella. «Il giorno dopo ho appreso da un mio dipendente che il proprietario per questo problema si era rivolto a persone poco raccomandabili del quartiere per convincermi a lasciare il cantiere senza avviare alcuna causa civile», scrive nella denuncia presentata ai carabinieri. Una circostanza che gli investigatori hanno confermato, individuando in Andrea Bruno, uno degli arrestati nel blitz di due giorni fa, l’uomo a cui il proprietario dell’immobile si rivolge per risolvere il problema. Sarà poi Bruno a subentrare nel cantiere.
Il direttore dei lavori  Anche il direttore dei lavori, un architetto palermitano, non è certo dalla parte di Giambertone. È lui che gli invia l’email di contestazione sui lavori. Giambertone risponde ai rilievi con due email certificate sia al committente che al direttore dei lavori. Un gesto che sposta tutta la questione dall’informalità all’ufficialità. Ed è a quel punto che il direttore dei lavori invia, anche lui tramite Pec, altre contestazioni, fra cui la mancanza di documenti necessari ad aprire il cantiere. «Qualche giorno dopo il cassone per la raccolta degli scarti di cantiere spariva da un residence protetto e controllato», si legge nella denuncia agli atti.
L’amico di vecchia data Giambertone non accenna a farsi da parte anche dopo le pressioni. È convinto di citare il proprietario per i danni subiti e di nominare un consulente tecnico che certifichi la bontà del suo lavoro. Un problema, per il proprietario e per gli emissari dei boss, che se si risolve con una mediazione è meglio, senza fare rumore. Il mediatore incaricato è un vecchio amico di Giambertone, un commerciante di articoli da regalo che lo conosce da vent’anni. «Mi ha contattato dicendomi che doveva parlarmi e io in virtù della nostra lunga amicizia l’ho invitato a prendere un caffè a casa mia — racconta Giambertone in caserma — Mi disse che alcuni personaggi chiedevano tramite lui di incontrarmi per mettere fine a questo diverbio e mi sconsigliò di mettere in mezzo avvocati e tribunali». I lavori di ristrutturazione alla Marinella erano ormai iniziati ma in poco tempo si era trovato accerchiato. Un noto commerciante con il quale aveva rapporti di lunga data lo aveva invitato a farsi da parte, mentre un operaio che lavorava con lui da più di 20 anni si era prestato per riportare gli avvertimenti arrivati da Cosa nostra: “Mi chiamò… e mi disse ‘ma che state combinando? Gli deve dire al geometra che i travagghi l’hannu a fari l’amici. Prendi tutto e te ne vai via’”. Secca e ferma la sua reazione: “Gli ho risposto che non avrei fatto nulla, che quello che aveva riferito era molto grave. Dopo l’accaduto ho subito furti, danneggiamenti, minacce”. Quello però era solo l’inizio del suo incubo di cui, dopo la sua denuncia nel 2017, sono stati anche intercettati alcuni passaggi grazie a una microspia piazzata dai carabinieri del Nucleo investigativo nel suo borsello. Arnaldo Maria Tancredi Giambertone, geometra costruttore di 55 anni, ricostruisce così un tentativo di estorsione risalente all’estate del 2017. Lui è uno dei due imprenditori che hanno deciso di denunciare spontaneamente quello che gli stava accadendo, fornendo un contributo all’attività investigativa dei carabinieri che all’alba di oggi, sotto il coordinamento della Procura, hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare colpendo il mandamento di Tommaso Natale. Nove le persone finite in carcere con l’operazione Teneo mentre una si trova ora ai domiciliari. Per la Direzione distrettuale antimafia tra loro ci sono boss e gregari che controllavano l’area che negli anni sarebbe stata sotto la competenza di Giulio Caporrimo, Nunzio Serio e Francesco Paolo Liga. Giambertone si definisce un imprenditore “sbirro”, nella sua accezione più nobile. “Fino ad oggi non sapevo che pensare, mi sono sentito a tratti abbandonato dallo Stato, che ha riconosciuto la mia posizione – racconta a PalermoToday – ma ancora non mi ha risarcito per i danni subiti, ho avuto soltanto la sospensione dei termini per quanto riguarda i miei debiti. Nonostante i vari solleciti aspetto ancora di essere ascoltato dalla Commissione nazionale antimafia a Roma”. Di dubbi e problemi, in oltre trent’anni di lavori nel settore dell’edilizia, racconta di averne avuti parecchi: “Ho presentato 30-35 denunce, facendo nomi e cognomi. Amici e familiari mi hanno allontanato, non tutti, ma ho trovato la forza nell’amore e negli occhi dei miei figli e di mia moglie. Nel tempo ci sono stati tanti episodi che mi avevano gettato nello sconforto, tra furti di materiale edile, gomme tagliate e tanto altro. Mi sono trovato costretto a stipulare un contratto con un istituto di vigilanza privata dopo vari episodi inquietanti avvenuti a casa mia”. Quella dell’agosto 2017 non era la sua prima denuncia. “Avevo un bel cantiere alla Marinella, i lavori erano già in fase avanzata. Nel giro di pochi giorni sono stato contattato dal committente dei lavori che ha cambiato completamente atteggiamento. Poi – racconta ancora – mi ha chiamato l’architetto nonché direttore dei lavori, che mi faceva delle contestazioni assurde. Volevano che smontassi tutto e gli consegnassi le chiavi. Avevo un regolare contratto e ho detto loro che avrei messo in mezzo l’avvocato. Poi mi ha chiamato un mio fornitore dicendomi che qualcuno gli aveva ordinato di venire a togliere i cassoni. ‘Dicono che sono siamo autorizzati, che devo fare?’, mi chiedeva. Gli ho risposto che non doveva toccare assolutamente nulla. Poi il cassone è stato rubato”. Da quel momento, dopo la denuncia, quasi ogni incontro veniva monitorato dai carabinieri che cercavano elementi e conferme per inchiodare i responsabili. “Ho sempre risposto a queste ‘persone’ – aggiunge Giambertone – che io non ero fatto di questa pasta. Tramite il mio ‘amico’ commerciante ho fatto sapere che non ero disponibile a dialogare con la mafia ma ci hanno provato in ogni modo. Un giorno ero andato dal salumiere, nella mia zona, e stavo tornando a casa. Mi ha fermato per strada una giovane, che conoscevo solo di vista. Sosteneva di avere necessità di parlare con me. Chiarito l’oggetto ho detto anche a lui che poteva rispedire al mittente ogni richiesta. ‘Allora posso riferire così?’, mi ha chiesto. Da quel momento i rapporti con i carabinieri si sono fatti più frequenti, avevano bisogno che io collaborassi e li facessi parlare”. Oggi più di ieri Giambertone non si pente di quello che ha fatto, anzi. E leggere questa mattina del blitz è stato per lui un sollievo, una grande soddisfazione. “Ho avuto grosse difficoltà nel mondo del lavoro. Oggi – aggiunge – ho un piccolo cantiere aperto nella zona di via Roma ma ho subito minacce e danneggiamenti fino a quest’anno. Tutti episodi che ho denunciato ancora una volta. Mi ero scocciato, avevo fatto un biglietto aereo per scappare da Palermo. Ho raggiunto Malta ma sono stato meno di 24 ore, poi ho deciso che sarei tornato nella mia città e non mi sarei arreso. Sono loro i miserabili e noi, che abbiamo dentro un senso di giustizia, dobbiamo cercare di reagire e combattere la mafia. In passato sarebbe stato facile lasciarsi travolgere e molti, troppi, lo hanno fatto. Non potete imaginare i soldi che giravano nel mondo dell’edilizia. Ricordo ancora una valigetta piena di soldi che mi mostrarono per i lavori di costruzione di una serie di villette in zona Pagliarelli. Nella vita non sai mai quando acquisirai quella maturità per capire cosa è buono e cosa non lo è, ma oggi so di avere fatto la scelta giusta”. PALERMO TODAY 23 GIUGNO 2020  


I CONSIGLI ALL’ IMPRENDITORE ESTROMESSO: LASCIA PERDERE LA LEGGE 

Giornale di Sicilia Le opere in via Caduti del Lavoro affidate ad Andrea Bruno, la denuncia di Arnaldo Giambertone: «Il commerciante Zannelli fece pressioni»  Sulla vicenda il Gip ha sollecitato alla Dda u n ‘ ulteriore indagine Un supplemento di indagine per una estorsione «assolutamente inquietante». Nella quale spunta il nome di un commerciante, non indagato, molto conosciuto. Questo il parere del gip Fabio Pilato che ha firmato i 10 ordini di custodia per boss e picciotti di San Lorenzo. Uno di questi arresti riguarda Andrea Bruno, imprenditore edile considerato il boss della Marinella, accusato del taglieggiamento ai danni del costruttore Arnaldo Giambertone. Ma secondo il gip in questa vicenda potrebbero esserci responsabilità da parte di altri personaggi tanto «da imporre un supplemento di indagini – scrive il gip – da effettuare all’indomani dell’applicazione della misura cautelare». Dunque secondo il giudice la storia va approfondita, partendo magari proprio della denuncia di Giambertone. Riguarda un appalto per dei lavori edili in via Caduti sul Lavoro alla Marinella, dai quali il costruttore è stato a suo dire esautorato con un chiaro metodo mafioso. Il direttore dei lavori aveva sollevato nei suoi confronti alcune presunte irregolarità, cioè «aveva riscontrato – afferma Giambertone -, delle difformità e dei vizi di opera contestandomi anche la mancata consegna di polizza di cantiere, copia formulari sfabbricidi e Durc (il documento di regolarità contributiva)». Un contenzioso che poteva risolversi tramite avvocati, ma che invece nel giro di pochi giorni causa l ‘ allontanamento dell ‘ i m p re n d i t o re. Al suo posto inizia i lavori una ditta secondo l ‘ accusa riconducibile a Bruno. Ma prima di essere buttato fuori dall ‘ appalto, dice Giambertone, gli arriva una telefonata. «Il 17 agosto ricevo una telefonata da Paolo Zannelli, noto commerciante di Palermo, con negozio in piazza Statua – dichiara a verbale Giambertone – , persona che conosco da oltre vent’anni, in quanto sono stato suo cliente al negozio e che comunque non sentivo e vedevo da anni, il quale telefonicamente chiedeva incontro con la mia persona per informarmi di determinate notizie che gli erano pervenute. Considerato la conoscenza che ci ha legato per motivi commerciali nel corso degli anni decisi di accettare invitandolo a prendere un caffè a casa mia». Cosa voleva Zannelli? Ecco cosa dice Giambertone. «In quella sede mi informava che personaggi chiedevano tramite lui di incontrarmi per porre fine a questo diverbio relativamente ai lavori – si legge nel verbale -, facendo pressione e opera di persuasione nei miei confronti, sconsigliandomi di adire le vie legali. Mi disse chi erano le persone che volevano incontrarmi, tale Andrea Bruno, fratello di Giuseppe Bruno, detti ” Cast agna ” della Marinella. Al chè dissi che non ero assolutamente d’accordo, ma vista la sua insistenza cercai di prendere tempo . Prima che Zannelli andasse via, mi disse che se fossero venute altre persone a cercarmi sempre per lo stesso motivo gli avrei dovuto rispondere che se ne stava interessando lui». Il costruttore a quell ‘ incontro sostiene di non essere mai andato e di avere evitato una nuova richiesta di appuntamento avanzata il 28 agosto alle ore 10 sempre da Zannelli per conto di Bruno. Subito dopo è andato a denunciare tutto a carabinieri. Bruno è finito in carcere per estorsione, ma per il gip la vicenda merita un approfondimento. «Giambertone ha rappresentato con dovizia di particolari – scrive il giudice Pilato -, di essere stato ripetutamente avvicinato da almeno quattro suoi diversi conoscenti (tali Giovanni Magro, Paolo Zannelli, Salvatore Ribaudo e un giovane di cui non ricordava il nome) i quali, in modo univoco, lo invitavano a desistere dal suo proposito di adire le vie legali nei confronti del committente dei lavori che stava svolgendo, facendogli notare che in tal modo avrebbe rischiato di inimicarsi malavitosi locali. Tra questi soggetti conclude il gip -, di particolare rilievo appariva la figura di Paolo Zannelli, che a dire di Giambertone indicava ripetutamente a quest’ultimo proprio Andrea Bruno che avrebbe voluto “avvicinarlo” per discutere dei lavori edilizi che stava svo l ge n d o » . L. G.

 

 


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a cura di Claudio Ramaccini  Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco