NITTO SANTAPAOLA – Il cacciatore

 


Il boss Nitto Santapaola Anche a Catania lo Stato-mafia

Benedetto “Nitto” Santapaola è l’ultimo dei boss mafiosi di una delle stagioni più sanguinarie di Cosa nostra, la stagione che lo ha visto protagonista, insieme a Totò Riina, Luciano Liggio e Bernardo Provenzano.
Descritto da tutti come un uomo molto intelligente e carismatico, Nitto Santapaola si trova agli arresti dal 18 maggio del ‘93, detenuto al regime di 41 bis, dove sta scontando ben 18 ergastoli.
Cosima D’Emanuele, mamma di Nitto, e le sue due sorelle, come in un macabro disegno, danno vita ad una dinastia di terrore: le tre famiglie più sanguinarie della mafia catanese, i Santapaola, gli Ercolano, e i Ferrera.
Nitto Santapaola nasce in via Santa Maria delle Salette a San Cristoforo dove, presso l’oratorio del quartiere, frequenta le elementari. Insieme al cugino Natale D’Emanuele frequenta invece le scuole medie in seminario e i due hanno tutta l’intenzione di diventare preti. Il percorso in seminario invece si interrompe e Nitto prosegue la sua formazione studiando come tipografo, anche se rimane per sempre dentro di lui un richiamo tutto personale alla fede coltivata in quegli anni di seminario: quando viene arrestato verrà ritrovata una bibbia sul suo comodino e una cappella di recente costruzione accanto alla sua abitazione.
Alla fine degli anni ‘60 Nitto, dopo sei anni di fidanzamento, sposa Carmela “Melina” Minniti, una ragazza che non è del suo ambiente, ma proviene da una famiglia borghese. Carmela ha sempre desiderato per i loro tre figli Vincenzo, Cosima e Francesco una vita normale, fuori dalla criminalità. Li farà infatti studiare in un istituto privato frequentato dall’alta borghesia catanese, ma il suo desiderio non potrà essere realizzato: il giorno dopo l’arresto del padre, infatti, i due figli maschi vengono arrestati e successivamente processati all’interno dell’operazione Orsa Maggiore.
Da sempre capo assoluto di Cosa nostra catanese e legato a Provenzano, Santapaola fin dalla fine degli anni ’70 riceve dalle mani della Commissione regionale presieduta da Riina una serie di “feudi”: oltre al mandamento di Catania, tutto il territorio della Sicilia orientale, la famiglia mafiosa di Lentini (capeggiata dai Nardo, già fedeli a Santapaola) la provincia di Siracusa – dove ad essere radicato sul territorio è il clan Bottaro di Solarino – e il controllo delle organizzazioni criminali locali esterne a Cosa nostra, fino ad arrivare a Messina, spartita tra i Santapaola, la ‘Ndrangheta dei De Stefano e Cosa nostra barcellonese, legata all’ala corleonese dalla quale riceve ordini.
In quanto personaggio chiave dentro Cosa nostra, è sempre Nitto Santapaola ad essere tra i conoscitori dei segreti sui mandanti esterni alle stragi, oltre a vantare legami con personaggi appartenenti ad ambienti di potere quali i quattro “Cavalieri dell’Apocalisse Mafiosa” – per usare le parole di Pippo Fava: Francesco Finocchiaro, Gaetano Graci, Carmelo Costanzo e Mario Rendo – con soggetti di spicco della massoneria e persino amicizie interne alla magistratura.
Santapaola è uomo che ha goduto di una superlatitanza protetta sin da quando, nell’82, Giovanni Falcone spicca un mandato di cattura nei suoi confronti per la strage di via Carini dove vengono uccisi il generale Carlo Alberto dalla Chiesa insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente Domenico Russo. A Siracusa, ad esempio – sono parole del pentito siracusano Francesco Pattarino, deceduto nel 2007 in circostanze misteriose in un incidente stradale nel maceratese – Santapaola trova rifugio a casa dell’amante del suo braccio destro, Francesco Mangion, il cui figlio è proprio il collaboratore di Siracusa. Sempre Pattarino riferisce infatti di aver visto Santapaola recarsi a trovare la madre presso la sua abitazione (dal boss usata appunto come nascondiglio) a bordo di un’auto della polizia dal lampeggiante acceso. La latitanza dorata del boss si conclude dieci anni dopo, nel ’93, quando viene arrestato, ma le ombre sui rapporti tra Cosa nostra catanese e pezzi delle istituzioni e della massoneria deviata, che nulla hanno da invidiare a quelli intessuti dalle famiglie mafiose palermitane, persistono.
Secondo alcune fonti e dichiarazioni di collaboratori di giustizia, la stella di Santapaola comincia a calare nel momento in cui Riina impone a tutta Cosa nostra – catanese compresa – di adottare la strategia di attacco frontale contro lo Stato. Cosa che Santapaola, da sempre legato all’ala “trattativista” tutta provenzaniana, è alquanto restio ad appoggiare. Nonostante non abbia mai espresso un vero parere contrario – tanto da essere stato condannato come mandante interno a Cosa nostra per le bombe del ’92, avendo votato a favore delle stragi – Santapaola ha dei “tentennamenti” nel pianificare quegli omicidi contro poliziotti e magistrati invisi a Cosa nostra. Cosa che non sfugge al “capo dei capi” corleonese, forte dell’ala stragista capitanata dal cognato Leoluca Bagarella, dall’oggi pentito Giovanni Brusca, da Salvatore Biondino e, sul versante trapanese, da Matteo Messina Denaro. Da qui l’ordine di Riina di affiliare a Cosa nostra Santo Mazzei, detto “u’ carcagnusi”, appartenente a un’organizzazione criminale non mafiosa e soggetto inviso a Santapaola. Mazzei, che è anche amico personale di Bagarella, da quel momento in poi fa parte della famiglia mafiosa dei Santapaola, ma la sua fedeltà va direttamente a Riina, l’unico al quale il neo affiliato deve rendere conto delle sue attività criminali. La strategia stragista corleonese, nonostante Santapaola sia in disaccordo, scuote così anche le fondamenta di Catania quando, il 27 luglio 1992, viene ucciso l’ispettore Giovanni Lizzio per la sua attività contro il racket.
E se in Cosa nostra si vive soprattutto di segnali, anche la richiesta di Santapaola di nominare il fratello maggiore Salvatore capomandamento di Catania, preferendo per sé la “regia” dietro le quinte, è sintomo della non condivisione della strategia stragista che Riina, per tramite di Mazzei, impone anche sul territorio etneo.
A dare un ulteriore segnale della caduta dell’astro di Santapaola è un ex boss catanese che, dal carcere, segnala che l’uccisione da un momento all’altro di Nitto rientra ormai nei piani di Riina: l’eliminazione di una pedina “scomoda” quale è il boss catanese, infatti, consentirebbe al “capo dei capi” di mettere ai posti di comando il fedelissimo Mazzei, più accondiscendente a dichiarare guerra ai rappresentanti dello Stato che, in città, rifiutano di abbassare la testa di fronte al potere mafioso.
Nel 1993 Nitto Santapaola viene arrestato nel corso dell’operazione “Luna piena”, nelle campagne di Mazzarrone. Ma anche il fermo, che chiude una latitanza protetta da dieci anni, arriva solo con la misteriosa indicazione di un boss mafioso catanese, fedelissimo di Santapaola, che svela il nascondiglio del capomafia latitante. Forse per scongiurare il pericolo dell’omicidio voluto da Riina che, se fosse andato in porto, poteva essere compiuto addirittura per mano di Aldo Ercolano, nipote di Santapaola ma di “riiniane” vedute? Dopo l’arresto, ad ogni modo, il rischio corso da Santapaola non ha più ragione di esistere. E nel silenzio più assoluto, sul boss piovono condanne definitive, compresa quella per l’assassinio del giornalista Pippo Fava, per il quale Santapaola è stato il mandante.
Nel frattempo l’improvviso assassinio della moglie di Nitto, Carmela Minniti, rappresenta una vera e propria anomalia. Ad eseguire l’omicidio è Giuseppe Ferone appartenente a un’organizzazione criminale catanese esterna a Cosa nostra. Dopo il suo arresto, Ferone decide di collaborare con la giustizia, ma in quel 1° settembre del ’95, dopo essere “sfuggito” al controllo del Servizio Centrale di Protezione per recarsi a Catania – luogo a lui proibito dal programma dei collaboratori – vestito da poliziotto, bussa alla porta della Minniti e la colpisce al volto con una scarica di proiettili. Un omicidio di Stato? E perché, poi, un collaboratore di giustizia all’improvviso getta alle ortiche il contratto da lui stipulato con le istituzioni? Certo è che uccidere la moglie del Riina di Catania – perché tale è la caratura criminale di Santapaola – può voler dire due cose: o la famiglia mafiosa è finita, o non si tratta di un delitto di mafia. E, se è vero che i Santapaola regnano ancora oggi incontrastati a Catania, nonostante molti dei suoi esponenti siano in carcere, l’ombra di soggetti esterni a Cosa nostra si fa sempre più presente. Persino la reazione di Santapaola risulta essere tra le più anomale. In uno dei processi a suo carico il boss, nel momento delle dichiarazioni spontanee, dichiara di perdonare il killer della moglie e di volere la pace. Secondo alcune fonti esiste un retroscena a questa “dichiarazione di pace” da parte del boss catanese, sul fatto che Santapaola avrebbe contattato una potente personalità religiosa etnea, paventando la possibilità di una sua collaborazione e dunque la ricerca della migliore formula per compiere quel “salto” che avrebbe decretato la fine di Cosa nostra, dopo che Santapaola avesse rivelato tutti i segreti di cui è il depositario e ascoltati dalla bocca di Provenzano. A partire da quelli che si celano dietro le stragi, i motivi sottesi alla morte di Falcone, Borsellino e dalla Chiesa, i dialoghi tra Stato e mafia e con il narcotraffico mondiale, o perché era stata data la facoltà ai Cavalieri del Lavoro di Catania di mettere le mani su tutti gli appalti a Palermo. E ancora, i rapporti tra Cosa nostra e politici – tanto della Democrazia Cristiana quanto del partito Socialista – quelli con i servizi segreti e le famiglie di ‘Ndrangheta, tutti legami di cui Nitto Santapaola aveva piena conoscenza.
In questo contesto anche l’uccisione della moglie del capomafia catanese porta con sé un messaggio ben preciso: che la collaborazione non s’ha da fare. Con l’offerta del perdono, il boss risponde dunque al messaggio: “Io non parlerò”.
E questo senza contare che a Nitto Santapaola fa capo anche il delitto di Luigi Ilardo, confidente assassinato il 10 maggio del 1996. Un omicidio per il quale sono stati condannati all’ergastolo come mandanti dell’omicidio Vincenzo Santapaola insieme a Giuseppe “Piddu” Madonia, mafioso legato a doppio filo al boss catanese e a Provenzano. Alla latitanza di Nitto sarebbe collegata anche la morte del giornalista barcellonese Beppe Alfano che, secondo un filone d’inchiesta, è stato ucciso in quanto era a conoscenza – e dunque avrebbe potuto scrivere – della presenza di Santapaola a Barcellona Pozzo di Gotto, nel messinese.
Altra vicenda inquietante che ruota attorno a Santapaola è quella del suo mancato arresto a Terme di Vigliatore, quando il blitz contro il capomafia sfuma il 6 aprile ’93, giorno in cui il capitano Sergio “Ultimo” De Caprio, che quel giorno si trova nella zona dove era stato localizzato il giorno prima Santapaola, insieme al capitano Giuseppe De Donno e altri militari del Ros individua un uomo, scambiato per il latitante Pietro Aglieri. Dopo un inseguimento viene accertato che si tratta di un giovane incensurato, Fortunato Giacomo Imbesi, figlio di un imprenditore della zona.
Secondo la ricostruzione della Procura generale i militari del Ros, però, non si trovavano casualmente a Terme di Vigliatore, “ma ricevettero lo specifico ordine di servizio di recarsi quel giorno, in quel luogo, perché si doveva eseguire una operazione di polizia effettuando una preventiva ricognizione del territorio”, e alcuni dei quali “furono fatti venire anche da Milano e da altre sedi”. Non solo. I militari che diedero inizio all’operazione parcheggiarono “le autovetture dinanzi ad una villa posta a 50 metri di distanza dal locale nel quale il giorno precedente era stato intercettato il Santapaola ed invece di fare irruzione in quel locale, fecero una irruzione armata nella villa degli Imbesi”. Della vicenda il Ros non ritenne di informare né la magistratura che aveva intercettato il boss latitante, né il maresciallo Scibilia, della sezione anticrimine di Messina. Neppure negli atti ufficiali si trova traccia dell’incursione a villa Imbesi, nel cui verbale non viene indicato il nome dei militari che presero parte alla perquisizione e in cui manca la sottoscrizione delle persone che subirono la perquisizione. Ovviamente, a seguito dell’irruzione, Santapaola non si recò più nel luogo dove era stato individuato e la polizia lo arrestò solo il mese dopo, il 18 maggio.
Per concludere. Fino a quando i governi che si succederanno nel nostro Paese non dimostreranno con i fatti di voler sconfiggere la criminalità organizzata nessun Santapaola, Biondino, Madonia o Messina Denaro (se e quando verrà catturato) aprirà mai bocca di fronte allo Stato. Né rivelerà i segreti di cui è a conoscenza se non ci saranno inequivocabili segnali di una svolta, che passa anche per arrestare e processare non solo la cupola mafiosa, ma anche gli “intoccabili” che con la mafia si siedono al tavolo. Fino a quel momento, il pentimento di un boss come Santapaola resterà sempre e solo un’utopia.  
Antinafia 2000 di Giorgio Bongiovanni e Claudia Marsili


Benedetto Santapaola detto Nitto e soprannominato “il cacciatore” o “il Licantropo” poiché affetto da una rara psicosi, la licantropia clinica (Catania, 4 giugno 1938) è un mafioso italiano, condannato cinque volte, è considerato uno tra i più potenti e sanguinari boss mafiosi di Cosa Nostra.

Nitto Santapaola nasce nel quartiere di San Cristoforo da una famiglia povera. È affetto da diabete.[1] Frequenta una scuola salesiana, ma si ritira presto dedicandosi alle rapine. Ufficialmente, Santapaola prima della latitanza svolge vari lavori tra cui il venditore ambulante di generi ortofrutticoli, di scarpe e articoli da cucina e infine il titolare di una concessionaria di auto.

La prima denuncia risale al 1962, per furto e associazione a delinquere. Successivamente venne affiliato nella Famiglia di Catania, divenendo in seguito un capodecina del boss Giuseppe Calderone[2]. Nel 1970 gli è imposto il soggiorno obbligato, nel 1975 viene denunciato per contrabbando di sigarette. L’8 settembre 1978 riesce ad eliminare il suo capo Giuseppe Calderone e dà un chiaro segnale di voler puntare al comando di Cosa Nostra nel capoluogo etneo. Santapaola uccise Calderone in accordo con i Corleonesi che non vedevano di buon occhio lo storico boss catanese nella loro ascesa sanguinaria ai vertici di Cosa Nostra.[3]

L’omicidio Lipari

Il 13 agosto 1980 Vito Lipari, sindaco di Castelvetrano, viene trovato ucciso. Casualmente, un’auto con quattro persone a bordo viene fermata da una pattuglia di carabinieri: i viaggiatori sono Mariano Agate, Francesco Mangion, Rosario Romeo e Nitto Santapaola.

Santapaola e i suoi compagni di viaggio non vengono neanche sottoposti al guanto di paraffina perché egli stesso dichiara di essere stato ad una battuta di caccia a casa di un amico. Il capitano Vincenzo Melito va anche a Catania per verificare gli alibi, e al suo ritorno i quattro vengono scarcerati dal magistrato pro-tempore. Nel 1984 viene svelata una parte dei fatti. Nell’interrogatorio sarebbe emerso che Santapaola era andato in provincia di Trapani per risolvere dei problemi che aveva l’imprenditore edile Gaetano Graci (l’amico di cui non era stato fatto il nome nel 1980), che aveva degli interessi nel trapanese, per conto di personaggi al di sopra di ogni sospetto:

Contemporaneamente Melito viene ingiustamente arrestato perché accusato di aver avallato l’alibi di Santapaola in cambio di un’automobile che in realtà era stata regolarmente permutata con altra vettura (una Fiat 131 Supermirafiori)[4]: sarà in seguito assolto poiché il fatto non sussiste dalla Corte d’Assise di Palermo con sentenza confermata in Corte di Cassazione.[5]

Santapaola, inizialmente, non può essere accusato e viene anche bocciata la proposta del soggiorno obbligato.[3] Condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio, Santapaola nel 1992 vienne assolto dalla corte d’appello di Palermo [6], e confermata in Cassazione.[7]

La strage della circonvallazione[modifica 

Il 16 giugno 1982 Alfio Ferlito, il principale avversario di Santapaola, viene ucciso con tre carabinieri, che lo stavano scortando in carcere da Enna a Trapani, nella cosiddetta strage della circonvallazione di Palermo. È la conclusione di una guerra di mafia che ha insanguinato per anni Catania.[8]

La strage di via Carini[modifica 

Il 3 settembre dello stesso anno Carlo Alberto dalla Chiesa con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo è vittima di un agguato dopo appena quattro mesi di servizio a Palermo: è la strage di via Carini. Santapaola è tra i principali indagati per gli omicidi e si dà alla latitanza.[3]

Il casinò di Campione]

Nel 1982 le trame del clan di Nitto Santapaola si aprono verso il nord Italia. Il boss assume, come rappresentante del gruppo imprenditoriale che a lui si appoggiava, Ilario Legnaro, presidente della Pallacanestro Varese, a cui riesce a far assegnare in gestione il casinò di Campione d’Italia. Giovanni Brusca, in un interrogatorio del 7 maggio 2001, racconta che, attraverso Legnaro, Santapaola «riusciva a riciclare ingenti somme di denaro, nell’ordine di miliardi»[9].

L’omicidio Fava]

Il 5 gennaio 1984 Giuseppe Fava, giornalista fondatore della rivista I Siciliani, viene ucciso davanti al teatro Stabile in via dello Stadio a Catania. Totò Riina fa un favore al capomafia etneo mandando i killer Giuseppe Lucchese Miccichè, Giuseppe e Nino Madonia per uccidere il giornalista. Il movente è inizialmente coperto da tutti. La Procura indaga a 360°, il quotidiano La Sicilia parla di “questioni di natura privata”. La realtà è riassunta nella frase del Sottosegretario della Pubblica Istruzione durante l’ultimo governo Spadolini, Antonino Drago: bisogna «chiudere presto le indagini altrimenti i cavalieri se ne andranno».[10]

Chi sono i cavalieri? I “quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa“, così definiti da Giuseppe Fava nella storica copertina del primo numero de I Siciliani del gennaio 1983, erano i cavalieri del lavoro che gestivano l’imprenditoria edile catanese (e siciliana) a cavallo degli anni settantaottanta: Mario Rendo, Carmelo Costanzo, Francesco Finocchiaro e Gaetano Graci.

I rapporti tra il clan di Santapaola e i cavalieri vengono fuori grazie al lavoro della redazione de I Siciliani. Nel primo articolo si fa solo l’accenno a «quello che appare, quello che la gente pensa e quello che probabilmente è vero»: appare che sono tutti inquisiti per reati anche gravi, si pensa che sono stati loro ad ordinare l’omicidio di Carlo Alberto dalla Chiesa e probabilmente c’è una mutua protezione ma non ci sono le prove.[8]

La collusione tra i cavalieri e la mafia viene ribadita nei processi degli anni novanta, tra cui quelli per l’omicidio Fava, soprattutto grazie alla scoperta di molte foto in cui Santapaola appariva in compagnia di vari esponenti del potere catanese: «il sindaco, il presidente della provincia, il questore, il prefetto, un deputato regionale dell’Antimafia, un segretario di partito, qualche giornalista, il rampollo di uno dei quattro cavalieri, il genero di un altro cavaliere…» Queste foto rimangono per anni nascoste, fin quando non vengono inviate al giudice Giovanni Falcone.[10]

Il processo si conclude solo 19 anni dopo, quando vengono condannati Maurizio Avola come esecutore, Nitto Santapaola come mandante e Aldo Ercolano come organizzatore. Vengono invece assolti Vincenzo Santapaola, Marcello D’Agata e Francesco Giammuso, i sicari che probabilmente avevano accompagnato Avola durante l’omicidio.[11]

La strage di via D’Amelio

Il 19 luglio 1992 si verifica la strage di via D’Amelio, in cui perdono la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Emanuela Loi, Eddie Walter Cosina, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli e Agostino Catalano. Santapaola è tra i boss che l’hanno organizzata, con Totò Riina e molti altri.[12]

Ancora oggi non si è fatta chiarezza su come venne organizzata nei minimi dettagli la strage. La bomba era stata radiocomandata a distanza e addirittura il giudice aveva saputo di un carico di esplosivi arrivato a Palermo appositamente per uccidere lui. Inoltre l’agenda rossa di Borsellino, che il giudice portava sempre con sé e dove annotava i dati delle indagini, non venne mai ritrovata.

La cattura

Il 18 maggio 1993 viene arrestato nelle campagne di Mazzarrone nell’ambito dell’operazione Luna Piena dal Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato.[3] I reggenti del clan Santapaola diventano Mario Tornabene e Natale D’Emanuele, a loro volta arrestati il 24 aprile e il 1º luglio 1995.[13]

Note

  1. ^ https://temi.repubblica.it/micromega-online/finti-pazzi-veri-mafiosi/?printpage=undefined
  2. ^ Interrogatorio del collaboratore di giustizia Antonino Calderone
  3. ^ Salta a:
    a
    b c d e f g Benedetto Santapaola Archiviato il 26 novembre 2006 in Internet Archive. su In Memoria.
  4. ^ Claudio Fava, Michele Gambino e Riccardo Orioles, Il mafioso, il capitano e il cavaliere Archiviato il 10 maggio 2006 in Internet Archive. su I Siciliani, novembre 1984.
  5. ^ Sentenza N. 53/89 R.G. del 16/07/1992 della Corte d’Assise d’Appello di Palermo e sentenza N. 112 del 17/02/1993 della Suprema Corte di Cassazione di Roma
  6. ^ repubblica.it
  7. ^ sentenza N. 112 del 17/02/1993 della Suprema Corte di Cassazione di Roma
  8. ^ Salta a:
    a
    b Giuseppe Fava, I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa, su I Siciliani, gennaio 1983.
  9. ^ Graziella Proto. Campione d’Italia. Non Puttanopoli ma riciclaggio. «Casablanca», luglio 2006, 9.
  10. ^ Salta a:
    a
    b Sebastiano Gulisano, Giuseppe “Pippo” Fava Archiviato il 6 ottobre 2007 in Internet Archive., su Da Polizia e Democrazia, 2002.
  11. ^ Salta a:
    a
    b Omicidio del giornalista Giuseppe Fava… su La Sicilia, 15 novembre 2003.
  12. ^ Via D’Amelio, sette ergastoli
  13. ^ Salta a:
    a
    b c Cronologia Archiviato il 27 settembre 2007 in Internet Archive. sul Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato” – Onlus.
  14. ^ .Nando dalla Chiesa, Io, Dell’Utri e le stragi Archiviato il 20 aprile 2006 in Internet Archive. su Rifondazione-Cinecitta.org.
  15. ^ Barcellona: quel plico giallo al “superpoliziotto”, dov’è finito?. Siciliani giovani. 1º dicembre 2011.
  16. ^ Sintesi dei fatti più importanti su Almanaccodeimisteri.info, 1º gennaio 2000-10 giugno 2004.
  17. ^ Daniele Biacchessi, Il caso Pippo Fava Archiviato il 27 maggio 2006 in Internet Archive. su Radio24.it.
  18. ^ Omaggio a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino Archiviato il 15 maggio 2006 in Internet Archive. su Rai Educational, 7 giugno 2001.
  19. ^ Borsellinoter, niente prove per la Cupola regionale – la Repubblica.it
  20. ^ Coronavirus, il superboss Nitto Santapaola resta in carcere. Il giudice: “È in cella singola al 41bis, protetto dal rischio contagio”, su Il Fatto Quotidiano, 24 aprile 2020. URL consultato il 25 aprile 2020.

 


La scoperta di Nitto Santapaola e la guerra di mafia a Catania

Venivano, quindi, acquisite le dichiarazioni di alcuni imputati di gravissimi delitti in procedimenti penali pendenti davanti alle Autorità Giudiziarie di Milano e Torino ed in particolare quelle di Epaminonda Angelo (Vol.172-181), Parisi Salvatore, Saia Antonino, Miano Roberto, i quali concordemente indicavano in Santapaola Benedetto il capo indiscusso della famiglia mafiosa di Catania, l’ispiratore, se non l’autore materiale, dell’omicidio di Ferlito Alfio e riferivano sulla sua strettissima alleanza con numerosi esponenti di spicco delle corrispondenti organizzazioni operanti in Palermo e facenti parte del gruppo emergente, nonché sul suo ruolo nella fase di approvvigionamento di grossi quantitativi di stupefacenti.

Ulteriori indagini istruttorie che prendevano le mosse dalle dichiarazioni di Bono Benedetta, di Colletti Vincenzo, rispettivamente amante e figlio del defunto rappresentante della “famiglia” di Ribera, Colletti Carmelo, nonché da intercettazioni telefoniche disposte dalla procura della Repubblica di Agrigento, confermavano gli accertati collegamenti di Santapaola Benedetto con altri membri di spicco delle organizzazioni mafiose della Sicilia Occidentale, quali il predetto Colletti Carmelo, indicato, nelle interessantissime registrazioni ambientali effettuate in Canada presso la latteria di Violi Paul, anche come “capo-mandamento” facente parte della “Commissione” di Agrigento, nonché Ferro Antonio, presunto “rappresentante” della “famiglia” di Canicatti’ (Agrigento).

Altro collegamento, del resto, era precedentemente emerso tra il Santapaola ed Agate Mariano, accusato da Contorno Salvatore di essere il “rappresentante” della famiglia di Mazara del Vallo, allorché gli stessi erano stati fermati insieme in territorio di Campobello di Mazara il 13 agosto 1980, cioè il giorno immediatamente successivo all’omicidio di Lipari Vito, sindaco di Castelvetrano.

Per evidenti ragioni di connessione, venivano, quindi, riuniti al procedimento principale: quello contro Bruno Francesco, imputato dell’omicidio di Gallina Stefano e dei reati connessi, contrassegnato con la lettera V, gia’ definito in istruzione con la richiesta da parte del pm di rinvio a giudizio presso la Corte d’Assise di Palermo; il procedimento contro Profeta Salvatore ed altri (cosiddetto Blitz di Villagrazia), contrassegnato con la lettera W; il procedimento contro Mondino Girolamo ed altri, contrassegnato con la lettera Z; infine, il procedimento contro Biancorosso

Antonino ed altri, instaurato a seguito delle dichiarazioni di Marsala Vincenzo, figlio di Marsala Mariano, “rappresentante” della “famiglia” di Vicari, il quale, dopo l’uccisione del padre, si era deciso a collaborare, rivelando tutte le sue conoscenze sull’organizzazione mafiosa e sulle persone che ne facevano parte e tratteggiando con notizie dense di particolari la struttura della mafia a carattere rurale operante nei piccoli centri delle province siciliane.

In data 24 aprile 1985, gli atti venivano depositati, dandone avviso al Procuratore della Repubblica, il quale, dopo aver preso visione di ulteriori atti istruttori, frattanto acquisiti, il 28 giugno 1985 depositava le sue requisitorie.

In pari data, il G.I., aderendo parzialmente a talune richieste del P.M., ordinava la separazione di vari procedimenti precedentemente riuniti, di atti, documenti e singole posizioni processuali di imputati per le quali si riteneva necessaria un’ulteriore attività istruttoria, costituendo, con gli atti così stralciati e con la fotocopia di tutti gli atti del procedimento principale, un nuovo procedimento cui era assegnato il N.1817-85 R.G.U.I. Ai sensi de11’art.372 C.P.P. veniva, quindi, disposto il deposito in cancelleria di tutti gli atti processuali in fotocopia, attesa l’esigenza che gli originali venissero custoditi in appositi locali, convenientemente attrezzati, per motivi di sicurezza e per potere procedere senza interruzione alle operazioni di microfilmatura, fatta salva la facolta’ dei difensori di prendere visione, a richiesta, anche degli originali entro il previsto termine di 5 giorni, poi prorogato, stante la complessita’ del procedimento e la quantita’ degli atti e dei documenti, sino al 31 luglio 1985.

Decorso tale termine, il Consigliere Istruttore dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, 1’8 novembre 1985, depositava la monumentale ordinanza sentenza di rinvio a giudizio, cui si fa espresso rinvio per quanto concerne i provvedimenti in essa contenuti, ed emetteva, contestualmente il mandato di cattura n.315-85, nei confronti di Abbate Mario + 61 cioè di coloro che erano stati scarcerati per decorrenza dei termini di custodia cautelare previsti per la fase istruttoria. Il presidente della Corte di Assise, sezione 1, cui il processo veniva assegnato, emetteva decreto di citazione per l’udienza del 10 febbraio 1986 e, in tale data, esperite le modalità per la formazione del collegio giudicante, premesso l’appello delle parti presenti e svolti gli accertamenti relativi alla costituzione dei 475 imputati citati, venivano dalla Corte risolte, con ordinanza, talune questioni incidentali sollevate dai difensori.

Veniva, così, disposta la separazione del giudizio nei confronti di Martello Ugo, perché non tradotto per mancata concessione del relativo nulla osta da parte del Tribunale di Milano, e nei confronti di Badalamenti Gaetano, Baldinucci Giuseppe, Randazzo Vincenzo, Palestrini Fioravante, Papastavru Stravos e Karakonstantis Micail, per legittimo impedimento a comparire a causa della detenzione all’estero. Alle ore 23, l’udienza veniva sospesa e rinviata alle 9,30 del giorno successivo, allorché si procedeva alla costituzione delle parti civili, fase che si protraeva fino all’udienza del 12 febbraio 1986. Fatta dare lettura delle imputazioni, il presidente concludeva le formalità di apertura ed all’udienza del 14 febbraio 1986 dichiarava aperto il dibattimento.

I difensori degli imputati proponevano numerosissime questioni preliminari concernenti la costituzione di talune parti civili, la nullità degli atti istruttori, dell’ordinanza di rinvio a giudizio, del decreto di citazione a giudizio, la competenza per territorio.

Tali questioni trattate con unica discussione, venivano decise dalla Corte con ordinanze del 24 e del 28 febbraio 1986.