La verità é dietro il velo

 
Anche il 2020, seppure nel tragico contesto di un’ondata pandemica che non smette di mordere la nostra quotidianità, sta regalando importanti lampi di luce nei processi di mafia che stanno proseguendo, in parallelo, nei tribunali di diverse città italiane.

A piombare in maniera dirompente nel processo di appello sulla Trattativa Stato-mafia sono, in particolare, le dichiarazioni rese nel mese di Ottobre dal collaboratore di giustizia Pietro Riggio, ex guardia penitenziaria che entrò ufficialmente in Cosa Nostra nei primi anni duemila, il quale riferisce davanti ai giudici una serie di retroscena sull’organizzazione degli omicidi eccellenti e della stagione stragista di Cosa Nostra che, se otterranno i necessari riscontri in sede giudiziaria, potrebbero rivelarsi un tassello fondamentale nel percorso della ricerca della verità sui cosiddetti “mandanti esterni” delle stragi mafiose.

Riferendosi ai contenuti di una rivelazione resagli da Vincenzo Ferrara, cognato del boss Piddu Madonia, Riggio sostiene di avere appreso che «Dell’Utri (braccio destro di Silvio Berlusconi e senatore di Forza Italia, ndr) era la ragione di tutti i mali di Cosa Nostra, dalla creazione del nuovo partito alle stragi in Continente»: sarebbe infatti stato proprio Dell’Utri, a detta dell’interlocutore Riggio, ad indicare i luoghi che furono bersaglio delle bombe di Cosa Nostra nel 1993. Dell’Utri, condannato definitivamente a 7 anni di carcere nel 2014 per concorso esterno in associazione mafiosa e sul quale pende una condanna in primo grado a 12 anni per “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”, risulta ancora indagato dalla Procura di Firenze assieme a Silvio Berlusconi come possibile mandante delle stragi di mafia del 1993. E chissà che quelle indagini possano ora subire l’ennesimo scossone.

Ma Riggio non si è fermato qui. Ha detto molto altro e, nello specifico, si è soffermato su un caso ancora apertissimo e oggetto di oscuri interrogativi: la morte di Luigi Ilardo, l’ex membro di Cosa Nostra reggente della provincia di Caltanissetta che, dopo aver deciso di collaborare con lo Stato italiano in qualità di infiltrato nell’organizzazione criminale di cui faceva parte, venne ucciso dalla mafia il 10 Maggio 1996: esattamente tre giorni prima di entrare ufficialmente nel programma di protezione e otto giorni dopo essersi interfacciato per la prima volta con i vertici delle Procure di Palermo e Caltanissetta e con il generale del Ros Mario Mori (colui che, assieme agli ufficiali Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, a Dell’Utri e agli uomini d’onore di Cosa Nostra Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, verrà condannato in primo grado per “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato” al processo sulla Trattativa Stato-mafia). Riggio è un fiume in piena e riferisce di un colloquio avuto con Angelo Ilardo, cugino di Luigi, dopo la morte di quest’ultimo: «Lui mi disse espressamente che il cugino era morto perché voleva parlare di tutti quelli che erano stati gli intrecci che si erano succeduti tra il 1992 e il 1995. Di tutte le cose più importanti che erano accadute, tra cui la strage di Falcone, di Via D’Amelio, della massoneria, della nascita di Forza Italia, di Dell’Utri, di quelle cose che erano accadute in quel frangente temporale. E soprattutto – continua Riggio – mi disse che nessuno sapeva che era andato a Roma per iniziare ufficialmente quella che era la collaborazione. E pochissime persone sapevano di quella scelta. […].». Oltre che con Angelo Ilardo, Riggio sostiene di aver parlato della morte del confidente anche con altri boss e di aver saputo che «l’ordine di uccidere Ilardo partì da una fonte istituzionale del tribunale di Caltanissetta, che la diede ai carabinieri del Ros di Caltanissetta e che a sua volta la fecero sapere in giro. Ci fu un’azione ben precisa da parte del colonnello Mori che incaricò un suo uomo, un capitano che era in servizio in una caserma dei carabinieri e che era direttamente collegato al boss Zuccaro, della famiglia Santapaola, che da sempre era stato confidente dei Carabinieri. Venne passata la notizia a lui affinchè si facesse l’omicidio che non poteva essere più ritardato in nessuna maniera». 

Lo ripetiamo: queste rivelazioni, a maggior ragione costituendo il contenuto di testimonianze indirette, devono necessariamente trovare tutti i riscontri del caso per poter essere rilevanti a livello processuale. Eppure non si può negare che costituiscano la punta di un grande iceberg costruito, strato su strato, dalle risultanze giudiziarie di vari processi in corso riguardanti i torbidi rapporti tra Cosa Nostra e apparati deviati delle istituzioni e da una serie di testimonianze di pentiti che, in maniera sempre più chiara e dettagliata, paiono convergere sull’identificazione di una regia occulta e di responsabilità esterne (e forse complementari) a quelle dei punciuti di Cosa Nostra in merito all’organizzazione dei loro atti più efferati.

La resa dei conti è, probabilmente, molto vicina: il cerchio comincia a restringersi e la logica dei fatti insita nel combinato disposto delle ricostruzioni in gioco inizia a fare intravedere spiragli di verità importanti. Oggi più che mai, in particolare dopo la svolta prodotta dalle sentenze dei processi Borsellino Quater e Trattativa Stato-mafia, ci appelliamo alla coscienza di quegli uomini delle istituzioni che abbiano avuto un ruolo, diretto o indiretto, in queste vicende. Affinché, come i mafiosi hanno cominciato a fare da tempo (dando paradossalmente una grande lezione a chi ha sempre sponsorizzato la zoppicante narrazione di un mondo diviso tra uno Stato onesto e coraggioso e una mafia criminale e omertosa) ci dicano quello che ancora non sappiamo.

Le domande che ci poniamo sono ancora tante. Le risposte dovranno arrivare ma, nel frattempo, cerchiamo di completare i pezzi mancanti del nostro puzzle, che appare sempre più nitido: 

Paolo Borsellino viene ucciso il 19 Luglio 1992. Quattro giorni prima di morire dice a sua moglie Agnese di aver visto “la mafia in diretta” e che, tra le altre cose, gli è stato riferito che il generale Subranni è “punciutu”. Il 18 Luglio asserisce davanti ad Agnese che la mafia lo ucciderà “quando altri lo consentiranno”. Poco dopo lo scoppio della bomba che spegne la sua vita una mano ignota, non certo mafiosa, sottrae dal luogo della strage l’agenda rossa da cui Paolo, nel corso di quei delicatissimi mesi, non si è mai separato. Mesi in cui, anche grazie alle rivelazioni dei pentiti che ha interrogato, ha ricevuto molte informazioni sulle collusioni tra pezzi deviati delle istituzioni e la compagine criminale palermitana.

Inoltre, nella cornice di “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, nei mesi successivi a quel 19 luglio, un ladruncolo di quartiere, chiamato Vincenzo Scarantino, viene costretto (a suon di botte, vermi nella minestra e canovacci) a imparare a memoria dagli agenti e dai funzionari di Polizia, capitanati dall’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera, a pentirsi per il ruolo avuto nella strage di Via D’Amelio. Una strage rispetto a cui, come rivelerà il “vero” responsabile Gaspare Spatuzza nel 2008, lo Scarantino era completamente estraneo, non essendo nemmeno un membro effettivo della compagine mafiosa. L’omicidio di Borsellino fu invece organizzato dal clan di Brancaccio, governato dai fratelli Graviano, i più vicini all’ambiente della politica e dei servizi. Eppure, le dichiarazioni rese dal falso pentito Scarantino sulla strage di Via D’Amelio contengono una serie di “elementi di verità” che egli dovette necessariamente apprendere da qualcuno che fosse in possesso di quelle informazioni. La polizia era dunque a conoscenza di quegli elementi? E come faceva ad esserlo?

Spatuzza riferisce inoltre che, nel garage in cui la Fiat 126 veniva riempita di tritolo in vista dell’attentato, era presente anche un uomo esterno a Cosa Nostra. Un uomo che non aveva mai incontrato prima e che mai più rivedrà successivamente.

Sono tutte coincidenze?  Sono numerosissime le testimonianze rese dai collaboratori di giustizia sul presunto ruolo avuto da pezzi deviati dei servizi segreti (spesso “incarnati” in nomi e cognomi, altre volte identificati in termini più generali) nell’ambito delle stragi e degli omicidi eccellenti. Il poliziotto e funzionario dei servizi segreti Giovanni Aiello, conosciuto come “Faccia da mostro”, viene indicato dal mafioso Vito Lo Forte come il personaggio che fornì ai mafiosi il telecomando per l’attentato del 1989, poi fallito, ai danni di Giovanni Falcone all’Addaura, come persona coinvolta nell’omicidio dell’agente Nino Agostino e di sua moglie Ida Castelluccio nello stesso anno, nonché come “terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli” (militante neofascista attivo nel periodo degli anni di piombo) e come protagonista di primo piano nell’omicidio dell’agente Ninni Cassarà e dell’agente Roberto Antiochia. Numerosi altri pentiti, tra i quali Vito Galatolo, Nino Lo Giudice e Consolato Villani, riferiscono dei presunti rapporti criminali tra Aiello e gli uomini della mafia.

Ci sono poi le condanne vere e proprie, come quella definitiva a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa inflitta nel 2007 a Bruno Contrada, ex numero tre del SISDE, responsabile di una serie di specifici favori a importanti boss, con molti dei quali intratteneva rapporti privilegiati, e di gravi fatti di costante supporto a Cosa Nostra. L’immagine di Contrada è stata strumentalmente “lavata” a livello mediatico dopo che la CEDU, nel 2015, ha condannato lo Stato italiano a risarcirlo: essendo infatti nella interpretazione della Corte il concorso esterno un reato di creazione giurisprudenziale, anziché, come inteso dal giudice italiano, il frutto del combinato disposto degli artt. 10 e 416 bis Cp, all’epoca dei fatti esso non sarebbe ancora stato contemplato dall’ordinamento giuridico (questa pronuncia porterà la Cassazione italiana a dichiarare “ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza di condanna”). Eppure, a dispetto delle subdole sfumature con cui la notizia è stata diffusa, la (discutibilissima) pronuncia della CEDU non ha in alcun modo intaccato l’accertamento dei fatti gravissimi che avevano portato Contrada alla condanna in via definitiva, tra i quali la concessione della patente ai boss Stefano Bontate e Giuseppe Greco, l’avere agevolato la latitanza di Totò Riina e la fuga di Salvatore Inzerillo o la rivelazione di segreti di indagine ai mafiosi in cambio di regali e favori. Proprio quel Bruno Contrada che, dopo che la Procura di Caltanissetta non trovò il tempo di audire uno scalpitante testimone di scottanti verità come Paolo Borsellino nei 57 giorni tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio, si è visto chiedere dal Procuratore Giovanni Tinebra di collaborare alle indagini sulla morte del giudice che, prima di essere ammazzato, si stava occupando dei suoi rapporti con gli uomini d’onore. 

Sono tutte coincidenze?  Estremamente interessante è, poi, il racconto fatto in aula al processo sulla Trattativa Stato-mafia dal collaboratore di giustizia ARMANDO PALMERI autista  e uomo di fiducia del boss di Alcamo Vincenzo Milazzo. Quest’ultimo, così come la sua fidanzata Antonella Bonomo incinta di pochi mesi, viene ucciso dagli uomini di Cosa Nostra nel Luglio 1992. Palmeri riferisce dettagli in merito ai retroscena di questo delitto: una serie di incontri tra Milazzo e uomini dei servizi segreti, i quali a suo dire gli avrebbero proposto di prendere parte ad una “guerra” da muovere allo Stato a mezzo di bombe, che sarebbero dovute esplodere fuori dalla Sicilia. Un progetto che avrebbe incontrato il parere contrario del Milazzo, i cui tentennamenti sarebbero stati intercettati da Riina e compagni, che ne avrebbero decretato l’eliminazione al fine di cancellare dal campo uno scomodo testimone di torbidi accordi. Appena un anno dopo sarà inaugurata la strategia stragista nel Nord Italia.

Sono tutte coincidenze?  A uccidere il Milazzo sarebbe stato uno dei suoi migliori amici, Antonino Gioè, uomo d’onore fedele a Riina, che la notte tra il 28 e il 29 Luglio 1993 viene trovato impiccato nella cella del carcere di Rebibbia in cui è detenuto. Un suicidio, stando alle indagini ufficiali, sebbene l’insieme dei segni presenti sul suo corpo (primi tra tutti quelli lasciati sul collo del Gioè dalla pressione della corda, che puntava verso il basso e non verso l’alto) ci indichi tutt’altro. Egli, nei mesi precedenti al suo arresto, ha avuto un importantissimo ruolo nella cosiddetta “trattativa delle opere d’arte” che ha visto la partecipazione dell’ex terrorista nero e confidente del Sismi Paolo Bellini come tramite tra le istituzioni italiane e Cosa Nostra, poi messa da parte in nome della più ambiziosa (e nota) trattativa portata avanti dai vertici del Ros (ma chi furono i veri “mandanti”?) grazie al tramite di Vito Ciancimino.

Sono tutte coincidenze?  Nel 2004, il giovane urologo Attilio Manca viene ritrovato morto nella sua abitazione di Viterbo. Egli sarebbe stato “agganciato” dalla mafia di Barcellona Pozzo di Gotto per unirsi alla squadra di medici francesi che, nel 2003, hanno operato alla prostata l’allora capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano a Marsiglia. E’ dunque molto probabile che il giovane Attilio fosse entrato in contatto con il super latitante, principale protagonista di quella “strategia della sommersione” nei rapporti con le istituzioni italiane dopo l’arresto nel Gennaio 1993 del troppo violento e imprevedibile Totò Riina (nel cui covo, però, non venne fatta alcuna irruzione dopo la sua cattura e che venne lasciato nella disponibilità dei mafiosi). Forse Attilio si ritrovò, suo malgrado, a ricoprire il ruolo di scomodo testimone? 

E dire che il confidente Luigi Ilardo, ben otto anni prima, aveva condotto nei pressi del covo in cui si nascondeva Provenzano le forze dell’ordine: perché l’allora generale del Ros Mario Mori (sebbene, lo ricordiamo, per questi fatti sia stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”) non diede l’ordine di intervenire e arrestare il padrino corleonese?

Sono, come sempre, tutte coincidenze?  Salvatore Borsellino, nel giorno del ventottesimo anniversario della strage di Via D’Amelio, ha voluto accanto a sé la figlia di Luigi Ilardo, Luana. Un gesto umano e, al contempo, estremamente simbolico, che ha un significato ben chiaro: siamo uniti ed ora estremamente forti, perché abbiamo capito tutto. Abbiamo capito che i mandanti e i beneficiari dell’omicidio di un giudice brillante e valoroso come Paolo e di un uomo coraggioso come Luigi, così come di tantissime altre vittime innocenti, fanno parte della stessa cerchia, rispondono alle stesse logiche di interesse e probabilmente hanno anche gli stessi volti. Ed ora abbiamo non solo il diritto, ma il dovere morale di portare a termine questa battaglia. Chi sa, da qualunque “squadra” provenga, si faccia avanti: la verità è dietro il velo.  Stefano Baudino 28 Ottobre 2020 ANTIMAFIA DUEMILA