B. e l’incubo Spatuzza Quando nel 1998 fu archiviata l’inchiesta sulle connessioni tra stragi e politica, non c’era ancora il grande pentito Venti pentiti, ritenuti credibili, raccontano dall’interno i rapporti tra Berlusconi, Dell’Utri e i boss mafiosi durante la stagione delle stragi. Da Francesco Di Carlo a Calogero Ganci, da Gioacchino Pennino ad Angelo Siino, da Pietro Romeo a Giovanni Ciaramitaro. Sono capi e gregari che raccontano come in quel periodo tra i boss e i due leader di Forza Italia fu stretto un accordo elettorale: la mafia avrebbe fatto votare in massa la nuova formazione politica in cambio di una normativa giudiziaria più favorevole (“41 bis, legislazione sui collaboratori di giustizia, recupero di garantismo processuale trascurato dalla legislazione dei primi anni ’90”). Un accordo elettorale frutto di un rapporto che, secondo i magistrati, “non ha mai cessato di dimensionarsi sulle esigenze di Cosa Nostra”, ma che non basta a stabilire l’esistenza, a monte, di un patto preventivo tra quei politici e i boss mafiosi per pianificare ed eseguire le stragi. Ecco perchè le posizioni di Berlusconi e Dell’Utri, indagati dodici anni fa come “mandanti occulti” sono state archiviate, ed ecco perchè il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso oggi imprime, a sorpresa, con le sue dichiarazioni, una brusca accelerazione mediatica alle indagini sul ’93, alludendo ad una matrice politica del terrorismo mafioso.
Grasso sa benissimo – poichè lui stesso (con i pm di Firenze Fleury, Chelazzi, Nicolosi e Crini) è tra i firmatari della richiesta di archiviazione – che quelle indagini, arenatesi nel novembre del 1998 con il decreto del gip Giuseppe Soresina, oggi trovano uno straordinario impulso nelle nuove investigazioni riaperte a Firenze e a Caltanissetta, dopo la collaborazione del pentito Gaspare Spatuzza. Grasso sa che le nuove analisi dei pm nisseni e fiorentini ripartono da un dato certo: nel biennio ’92-’93, Cosa Nostra “attraverso un programma di azioni criminali, ha inteso imprimere un’accelerazione alla situazione politica nazionale così da favorire trasformazioni incisive e da agevolare l’avvento di nuove realtà politiche”. Cosa nostra ha cioè pianificato ed eseguito le stragi agevolando un obiettivo “politico”, esterno ai suoi più diretti interessi: seminare il caos, favorire il ribaltone istituzionale, e traghettare il Paese dalla Prima alla Seconda Repubblica. Sono parole che lo stesso procuratore nazionale aveva già sottoscritto, proprio dodici anni fa, in quella richiesta di archiviazione nei confronti di Berlusconi e Dell’Utri, che fino ad oggi – incredibilmente – è rimasta inedita. In quell’atto, oltre a spiegare il percorso investigativo e logico-giuridico che li ha condotti a chiedere l’archiviazione, i magistrati di Firenze sottolineano un dato certo: sono “molteplici – scrivono i pm – gli elementi acquisiti univoci nella dimostrazione che tra Cosa Nostra e il soggetto politico imprenditoriale intervennero, prima ed in vista delle consultazioni elettorali del marzo 1994, contatti riconducibili allo schema contrattuale, appoggio elettorale-interventi sulla normativa di contrasto della criminalità organizzata”. Il rapporto di scambio – e cioè un accordo – c’è stato, anche se al semplice livello di promesse ed intese reciproche. Resta, all’epoca, sospesa una domanda finale: e cioè se il “dinamismo politico-militare dei boss, di cui quell’accordo fu uno degli effetti (…) attrasse di fatto – proprio nel momento storico in cui l’iniziativa militare veniva deliberata o era in corso – anche l’interlocutore politico”. E cioè se Berlusconi e Dell’Utri abbiano indirizzato i progetti eversivi di Cosa Nostra o se, invece, ne abbiano solo beneficiato a posteriori, senza averne alcuna consapevolezza o responsabilità. In questo quadro stagnante, ma sconosciuto per dodici anni, si inseriscono oggi le parole di Gaspare Spatuzza, che sembra riprendere i fili di un discorso interrotto, sia attribuendo una valenza politica allo stragismo, sia, soprattutto, indicando come “interlocutori” dei suoi capi, i boss Filippo e Giuseppe Graviano, gli stessi leader politici archiviati in passato. L’ex armiere i Brancaccio rilegge l’intera stagione delle bombe a partire dalla fine del ’91, quando i boss della cupola mafiosa, Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori, sono tutti a Roma per uccidere Giovanni Falcone, Claudio Martelli, Maurizio Costanzo. Ma gli assassini, pronti a liquidare gli avversari con un colpo di pistola, si fermano. Succede qualcosa, in quel momento – lascia intendere Spatuzza – che fa cambiare il progetto di morte. Che fa pensare a modalità più “spettacolari” per quegli omicidi. Che induce a pianificare le stragi come strumento di terrore e di condizionamento. Che suggerisce di utilizzare la vendetta mafiosa, trasformandola in strategia politica, in strategia della tensione. Succede, fa capire Spatuzza, che in quel momento appare sulla scena politica italiana un nuovo soggetto, appaiono nuovi interlocutori: persone che si propongono come tali ai boss preoccupati dall’imminente sentenza del maxi in Cassazione. Non c’è ancora un partito, ma i capimafia sanno (e, stando alle rivelazioni di Pino Lipari, l’ex consigliori di Riina e Provenzano, lo sanno direttamente da Dell’Utri) che presto ci sarà una nuova formazione politica. E che sarà un partito aperto alle esigenze di una legislazione giudiziaria “morbida”, tema cruciale per Cosa nostra. Agevolare la sua affermazione, sarà un affare per l’organizzazione mafiosa. Spatuzza dice che quei nuovi soggetti, quei “nuovi interlocutori” sono Berlusconi e Dell’Utri, fornendo un ulteriore tassello a quella ipotesi investigativa che dodici anni fa finì in archivio. Oggi Grasso, che fin dall’ìnizio ha sponsorizzato la collaborazione di Spatuzza, getta acqua sul fuoco e dice che le sue parole sono state “decontestualizzate”, ipotesi e ragionamenti che volano più in alto dei poteri che la Costituzione gli attribuisce. Poi la butta in scherzo: “’Un mandato di cattura per Berlusconi? Calma, nessun mandato, anche perchè non ne avrei i poteri”.Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (il Fatto Quotidiano, 28 maggio 2010)
“‘ OK, VI PORTO NEI CIMITERI DELLA MAFIA’ E gli altri latitanti dove sono?”. Alla domanda del giovane funzionario di polizia, Pietro Romeo, arrestato da appena un’ ora, ha risposto disegnando nell’ aria un cerchio con l’ indice, come a dire: “Si trovano qua vicino”. Il poliziotto ha capito che poteva insistere. “Hai appena 26 anni, hai una ragazza, sei accusato di una serie di omicidi e appena entrerai in carcere butteranno la chiave. Ti conviene?”. Il killer ci ha pensato su qualche ora, poi ha deciso: “Va bene, vi racconto tutto, vi dico dove sono gli altri amici che sparavano e strangolavano con me su ordine di Bagarella, vi faccio trovare anche centinaia di chili di esplosivo, armi, un lanciamissili e i cadaveri di due persone torturate, uccise e seppellite”. Così è scattata l’ operazione che nella notte di mercoledì ha portato all’ arresto di altri tre sicari del gruppo di fuoco di Bagarella, Salvatore Faia, Francesco Giuliano e Cosimo Lo Nigro, e al ritrovamento di mitra, pistole, munizioni e duecento chili di tritolo, cento dei quali rinvenuti ieri mattina a Fiano Romano. Il neo pentito ha anche indicato agli inquirenti dove erano sepolti i cadaveri di un nordafricano e di “un certo Filippone”, scomparso qualche anno fa, ed entrambi sequestrati, torturati e strangolati da Romeo e dagli altri sicari di Bagarella. E’ stato lo stesso pentito a portare i poliziotti nei “covi” e nei depositi dov’ era custodito l’ arsenale dei corleonesi, a Palermo e Roma. Non è stato invece ritrovato nel posto indicato dal pentito il micidiale lanciamissili. Qualcuno lo aveva già trasferito. Il pentito ha condotto gli investigatori anche nelle “sepolture” del nordafricano e di Filippone. Il cadavere del primo, ormai ridotto ad uno scheletro, è stato trovato in via Messina Marini, in uno sterrato accanto ad un albergo. Non si conosce il suo nome e forse non si saprà mai. Si sta scavando ancora per trovare il corpo di Filippone. Romeo si è anche autoaccusato di avere partecipato all’ uccisione di Francesco Savoca, assassinato su ordine di Leoluca Bagarella perché aveva “osato” chiedere il pizzo senza avere chiesto il “permesso” al boss. Le rivelazioni di Pietro Romeo hanno inferto un altro duro colpo all’ ala militare dei corleonesi il cui gruppo di fuoco può ancora contare su altri sei pericolosi latitanti. 17 novembre 1995 LA REPUBBLICA
‘Ndrangheta stragista, il pentito Romeo: ”Spatuzza disse che dietro le stragi c’era quello di Canale 5” Ieri anche la deposizione del collaboratore “Un giorno eravamo io Francesco Giuliano e Gaspare Spatuzza che era latitante. Ci trovavamo a Ciaculli. Giuliano voleva sapere perché avevamo fatto quelle stragi (quelle del 1993, ndr). Disse: ‘Ma perché l’abbiamo fatte? Chi è che l’ha deciso? Andreotti o Berlusconi?’ E Spatuzza rispose: ‘Quello di canale 5′”. Come aveva già raccontato a partire dal 1996, il collaboratore di giustizia Pietro Romeo, artificiere della cosca mafiosa di Brancaccio che faceva capo ai boss Filippo e Giuseppe Graviano, autori delle stragi del ’93 nel nord Italia, è tornato a tirare in ballo l’ex Premier Silvio Berlusconi durante la sua deposizione al processo ‘Ndrangheta stragista. Alla sbarra ci sono il capo mafia di Brancaccio Giuseppe Graviano, e il boss Rocco Santo Filippone, entrambi accusati per gli attentati ai Carabinieri avvenuti tra il 1993 e il 1994 in cui morirono anche i due appuntati Garofalo e Fava. “Questo è quello che ho sentito – ha proseguito il teste, sentito in videocollegamento – poi se sono vere o non sono vere non lo so. E’ stato lui (Francesco Giuliano, ndr) a raccontarmi delle stragi di Roma, Firenze e Milano. Mi ha detto che le stragi le hanno fatte loro per far togliere il 41bis”. Romeo, rispondendo alle domande del Procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, ha anche spiegato che quegli attentati furono rivendicati con la misteriosa sigla della “Falange Armata”: “Giuliano mi disse che con Scarano andavano in una cabina telefonica a dire che erano la Falange Armata. Loro personalmente facevano le chiamate per rivendicare. Cercavano di far capire che non era la mafia ma che erano le Brigate Rosse. Depistavano. Chi diede l’ordine? Io posso dire che era Graviano a dire di fare queste cose qua. Era lui a comandare assieme a Francesco Tagliavia e il gruppo di fuoco faceva capo a loro”. A un certo punto le stragi in Continente vengono interrotte. “Era arrivato l’ordine di fermare tutto – ha detto il pentito – Nino Mangano (capo mandamento di Brancaccio dopo l’arresto dei Graviano nel ’94, ndr) ci disse che era arrivato il momento di fermarsi. Si doveva togliere l’esplosivo a Roma che era per l’attentato a Contorno perché Pasquale Di Filippo poteva collaborare. E Mangano disse di metterlo da parte che magari ‘poteva servire più avanti’. In quel momento c’era anche casino, c’era polizia in giro a Palermo, la questione di Pasquale Di Filippo, suo fratello che aveva collaborato. Queste cose qui”.
I legami e gli affari tra ‘Ndrangheta e Cosa nostra Durante l’udienza è stato affrontato uno dei temi principali del processo: i rapporti tra la criminalità organizzata siciliana e calabrese. Parlando di questi rapporti Romeo ha riferito Cosimo Lo Nigro, altro componente del mandamento di Brancaccio, “curava” questi rapporti e che aveva “contatti con due calabresi”. In particolare questi avrebbe “comprato delle armi in Olanda”. Ma non si sarebbe fermato a quello. Il teste ha riferito un episodio dove avrebbe partecipato in prima persona. “Mi ricordo che siamo andati in Marocco con il padre di Lo Nigro a recuperare l’hasish – ha raccontato Romeo – siamo andati lì e al primo viaggio abbiamo fatto vuoto poi siamo tornati e un’altra volta ancora e poi abbiamo caricato una ventina di blocchi di hasish dove c’erano i due calabresi con Lo Nigro in un gommone che si era bucato … Lo Nigro trafficava stupefacenti con questi calabresi”. Riguardo i nomi dei calabresi il teste non ha ricordato con esattezza chi fossero: “Uno si faceva chiamare Virgilio mentre l’altro Salvatore o Totò”. Romeo ha anche raccontato di un altro rapporto tra Lo Nigro e un altro calabrese che si chiama “Peppe”. “Quello (riferendosi al calabrese, ndr) era vicino casa di Lo Nigro, doveva andare alla comunione. Era venuto a Palermo con una Clio di colore blu. Io non l’ho conosciuto sono andato via, ma questo me l’ha riferito Lo Nigro – ha detto il teste – Lo Nigro andava ai matrimoni o battesimi o comunioni di questa famiglia della ‘Ndrangheta che si celebravano in Calabria”. Il teste ha raccontato un altro episodio in cui Lo Nigro sarebbe andato in Calabria per portare i soldi dell’”hasish” sempre allo stesso “Peppe” in quanto i calabresi erano “una potenza” e “più specializzati”. “Quando hanno arrestato Pasquale Di Filippo, Lo Nigro era andato in Calabria – ha spiegato – mi sembra che Giuliano e Lo Nigro hanno messo 500 milioni nel pannello della macchina per portarlo in Calabria”.
Per quanto riguarda il traffico di armi Romeo ha ricordato anche del coinvolgimento di Pietro Carra, autotrasportatore anche lui sentito oggi di fronte la Corte d’Assise. Proprio Carra ha riferito in merito al ruolo avuto nel trasporto di stupefacenti, armi ed in particolare dell’esplosivo utilizzato per le stragi di Roma, Firenze e Milano. I suoi contatti erano in particolare con Lo Nigro e Giuliano. “Che stavo trasportando esplosivo l’ho scoperto dopo – ha detto il teste – i primi viaggi ero convinto fosse hasish. Poi una volta alla radiolina sentii il telegiornale ch parlava dell’esplosione di Firenze e capii che c’entravano loro e compresi che non avevo portato droga. Quando arrivai a Palermo mi fu detto di non parlare con nessuno di quello che avevo visto”.
Carra ha anche raccontato di aver trasportato l’esplosivo che sarebbe servito per l’attentato a Contorno. “Lo dovevano uccidere in modo eclatante – ha ricordato – Lo consegnai a Roma in un piazzale vicino un supermercato”. “In quell’occasione – ha raccontato Carra – c’era anche Gaspare Spatuzza che mi chiese se volessi andare a casa a riposare dove c’era anche Giuseppe Graviano. Io gli dissi che era tardi perché dovevo continuare a lavorare”.
Anche Carra ha riferito dei rapporti con i calabresi e di aver conosciuto un certo “Peppe” con dei “carichi di armi”. L’identità di questo soggetto l’avrebbe conosciuta quando, interrogato alla Dia, “ho visto delle foto dove c’era questo Peppe”. “La prima volta l’ho incontrato con Lo Nigro (che lo accompagnava in alcune spedizioni di droga e armi, ndr) e lui si presentò come Beppe – ha continuato a spiegare – con Lo Nigro ci fu un’occasione di un matrimonio e battesimo dove andò con tutta la famiglia”. In un’occasione, sempre con Lo Nigro, era stato in “un appartamento pieno di armi di tutti i tipi” dove “c’erano tre o quattro calabresi” e “Lo Nigro sceglieva le armi e non so se le ha pagate”.
L’ udienza è stata infine rinviata a martedì 20 novembre alle ore 9.30. di Aaron Pettinari e Davide de Bari 17 Novembre 2018 ANTIMAFIA DUEMILA
La convinzione di Pietro Romeo e la conversione di Gaspare Spatuzza Nell’udienza di ieri al processo contro il boss Tagliavia per le stragi mafiose del 1993 11 FEBBRAIO 2011 GUIDA SICILIA Ieri mattina il pentito Pietro Romeo a Firenze ha deposto come teste al processo contro il boss Francesco Tagliavia per le stragi del ’93. “Io prima avevo sempre saputo da Francesco Giuliano di un politico, ma non sapevo chi era. Poi un giorno eravamo io, Francesco Giuliano e Gaspare Spatuzza. Giuliano commentava gli attentati e chiese a Spatuzza ‘Perché li abbiamo fatti, per chi, per Andreotti o Berlusconi?’ e Spatuzza rispose: ‘Per Berlusconi'”. “Giuliano da tempo mi diceva che c’era un politico” e che le stragi erano fatte “per far alleggerire il carcere duro, il 41 bis”. Romeo ha anche osservato che “Spatuzza era vicino ai Graviano, erano come fratelli”. Romeo ha raccontato di avere appreso queste cose mentre con Spatuzza e Giuliano si trovavano in contrada Ciaculli. Successivamente, in aula, quando l’avvocato di parte civile Enrica Valle ha ricordato a Pietro Romeo un passaggio di una sua dichiarazione del 14 dicembre 1995 sulla questione di “un politico” esterno alle stragi, Romeo ha detto: “Confermo”. Il testo letto in aula al testimone dall’avvocato Valle riguardo un interrogatorio del 30 settembre 2009 in cui i pm ripetono a Pietro Romeo la sua dichiarazione in cui nel 1995 precisò che “Giuliano gli aveva detto che le stragi venivano fatte per il 41 bis e che c’era un politico di Milano che aveva detto a Giuseppe Graviano di continuare a mettere le bombe”. Romeo all’epoca precisò che “questo discorso era stato fatto a lui da Francesco Giuliano mentre erano soli in auto all’epoca successiva al fallito attentato a Contorno”. “Giuseppe Graviano aveva fatto discorsi in cui si parlava di fare attentati con bombe perché lo aveva detto un politico”, proseguì la dichiarazione di Romeo nel ’95 ricordata oggi. Poi il 29 giugno 1996, in un altro interrogatorio, Pietro Romeo intese “fare il nome del politico” appreso dalla conversazione tra Spatuzza e Giuliano a cui aveva assistito.
“Giuseppe Graviano voleva dare 10 milioni (di lire, ndr) a testa, Francesco Tagliavia 5 a testa. Ma Graviano dicono che dette 10 milioni. C’era un fondo cassa comune” tra le famiglie. Questo è quanto risulta al pentito Romeo sui compensi stabiliti dai boss Francesco Tagliavia e Giuseppe Graviano per gli esecutori materiali delle stragi secondo quanto gli avrebbero detto altri mafiosi, tra cui Francesco Giuliano.
Nella sua deposizione davanti alle parti Romeo si è anche lamentato del fatto che “di tutte le rapine che abbiamo fatto, i soldi se li metteva in tasca Francesco Tagliavia, ci dava una miseria. Facevamo rapine ai Tir, ma i proventi se li mangiavano loro”. “Non potevamo fare le rapine senza autorizzazione di Tagliavia – ha detto – e siccome i soldi li prendevano Tagliavia, Salvatore Giuliano, Damiano Rizzuto, che io ho anche ucciso perché lui voleva uccidermi, dovevamo rapinare continuamente. Dovevamo fare rapine senza armi e usando le macchine nostre”. “Giuseppe Graviano – ha aggiunto Romeo evidenziando una diversità di vedute tra i boss del mandamento – non doveva sapere niente perché per lui le rapine erano delle minchiate”. All’avvocato di Tagliavia, Luca Cianferoni, che ha chiesto a Romeo se “c’é rancore”, il pentito ha detto: “Ora no, non ho più risentimenti verso Tagliavia, da giovane sì”. Ieri al processo contro il boss Tagliavia è stato ascoltato come testimone anche il cappellano del carcere di Ascoli Piceno, frate Pietro Capoccia, confessore di Gaspare Spatuzza. “Da cappellano avevo colloqui con Spatuzza. Ma non mi ha mai detto che avrebbe collaborato finché una domenica, prima di una messa nella sezione del 41 bis, Spatuzza agitò alcuni foglietti che recavano la figura di don Puglisi e mi disse: ‘Padre Pietro mi sento responsabile della morte di questo santo’. Poi la settimana successiva fu trasferito”. Ricordiamo che Spatuzza è responsabile dell’omicidio di don Pino Puglisi con Salvatore Grigoli. Frate Capoccia, rispondendo a domande del pm Alessandro Crini sull’inizio del ‘pentimento’ di Spatuzza, ha anche detto che “Spatuzza non mi ha mai detto dei suoi problemi giudiziari” e ha raccontato dei suoi interessi per gli studi religiosi. “Con lui avevo contatti come cappellano, per la messa, per l’istruzione religiosa, e anche come supporto psicologico e religioso. Poi – ha proseguito –, quasi subito dopo che è arrivato al carcere di Ascoli, nei colloqui con lui c’é stato di mezzo l’argomento di studiare la religione, quindi l’ho orientato verso la scuola superiore di scienze religiose di Ascoli”. “Spatuzza – ha proseguito frate Capoccia – ha voluto scegliere questo argomento perché si sentiva attratto. E’ stata una scelta sua”. “Io – ha anche detto il religioso – gli ho procurato i libri per poter seguire il corso e mi risulta che nelle sue note c’erano molti 8, impensabile per un privatista. Poi non ha potuto dare tutti gli esami perché l’hanno trasferito”. “A me Spatuzza sembrava sincero”, ha concluso padre Capoccia.