VINCENZO GALATOLO – Condannato per strage grazie alla testimonianza della figlia

 Per la strage di Pizzolungo dopo 35 anni condannato il boss Galatolo. Trent’anni al mandante che aveva dato l’ordine di uccidere il pm Carlo Palermo. Trucidati Barbara Rizzo e i suoi due gemellini. La procura: “Eccidio misterioso. Le indagini non si fermano”

Trent’anni di carcere a uno dei mandanti della strage di Pizzolungo. Il quarto processo, conclusosi oggi, inserisce un altro tassello nel complesso e faticoso puzzle della verità sull’eccidio di 35 anni fa. L’ordine, dopo l’arrivo a Trapani del giudice Carlo Palermo, sarebbe partito da Vincenzo Galatolo, boss dell’Acquasanta, oggi condannato a 30 anni dal gup di Caltanissetta che ha accolto la richiesta della procura.

Il giorno dell’attentato, il 2 aprile 1985, il magistrato sopravvisse perché tra l’autobomba piazzata sul litorale e la sua auto, si frappose quella su cui viaggiavano Barbara Rizzo e i due gemellini Salvatore e Giuseppe Asta che non ebbero scampo. Nell’attentato morirono anche i due agenti di scorta del pm, Antonio Ruggirello e Salvatore La Porta. 

“Le indagini sulla strage di Pizzolungo non si fermano”, avverte però il procuratore Gabriele Paci, “la strada per capire quello che è successo nel 1985 è ancora lunga perché abbiamo ancora indagini da fare e che faremo necessariamente. Questa sentenza è un ulteriore stimolo, un ulteriore pungolo proprio perché è tra le stragi che ancora oggi mantiene un alone di mistero che dopo tanti anni non siamo riusciti ancora a svelare. Parlo di strage misteriosa perché questa strage rimane tale anche all’interno di Cosa nostra. Gli stessi collaboratori di giustizia non hanno mai fornito una chiave di lettura”.

Le indagini proseguono “perché la semplice definizione della responsabilità dei mafiosi appartenenti alle famiglie palermitane non è sufficiente per capire cosa è successo. Sicuramente c’è qualcosa di più radicato e profondo che dobbiamo capire. Questa bomba esplose dopo qualche settimana dall’arrivo del giudice Carlo Palermo a Trapani. E’ una strage che si connette a tanti altri misteri trapanesi”. 

A puntare il dito contro il boss dell’Acquasanta e ad accusarlo di essere il stato il mandante, è stata la figlia, Giovanna Galatolo. “Non appena il telegiornale diede la notizia – ha riferito la donna ai magistrati mia madre iniziò a urlare: ‘I bambini non si toccano. Mio padre le saltò addosso, cominciò a picchiarla, voleva dare fuoco alla casa. Avevo vent’anni – ha detto Giovanna – a casa sentivo mio padre che diceva: ‘Quel giudice è un cornuto’. Poi, si verificò l’attentato. E mi resi conto, anche mia madre capì. Non si dava pace”. 

Giovanna Galatolo, per il pm Paci “è una donna coraggiosa che è cresciuta nel vicolo dei Pipitone, che ha visto decine e decine di omicidi fatti dal padre e dai fratelli e che un giorno ha avuto il coraggio di rompere con la sua famiglia d’origine e di denunciare i tanti fatti che avvenivano e soprattutto ha avuto il coraggio di denunciare il padre”

Il pm Carlo Palermo era un magistrato scomodo per Cosa nostra. Dopo appena 40 giorni dal suo insediamento a Trapani aveva già avviato indagini sugli intrecci tra mafia e colletti bianchi. La strage di Pizzolungo fu decisa in un summit di mafia che si svolse a Castelvetrano, alla presenza dei capi assoluti di Cosa nostra trapanese, Ciccio e Matteo Messina Denaro, padre e figlio. 

Per la strage di Pizzolungo sono stati celebrati tre processi. Il primo contro gli esecutori materiali, tutti appartenenti al clan mafioso di Alcamo, condannati in primo grado ma successivamente assolti nel 1990 dalla Corte d’Appello di Caltanissetta e l’anno successivo in via definitiva dalla Cassazione. Altri due processi hanno visto condannati in via definitiva, come mandanti della strage, i boss mafiosi Totò Riina e Vincenzo Virga e in un altro ancora i boss palermitani Nino Madonia e Balduccio di Maggio.         

L’esplosivo impiegato nell’attentato, è lo stesso utilizzato in altre stragi: in quella del rapido 904, nel fallito attentato all’Addaura e nella strage di via d’Amelio. Tutti fatti attraversati da un unico filo conduttore e cioè da una possibile trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, mediati da poteri occulti, servizi deviati e massoneria. L’attentato, secondo le sentenze fin qui celebrate, è da inserire “all’interno della strategia stragista dell’ala corleonese di Cosa nostra elaborata da Totò Riina e dalle famiglie palermitane a esso alleate”.      

Vincenzo Galatolo, nel corso di vari procedimenti, è emerso come un “importante elemento di raccordo della organizzazione Cosa Nostra di Sicilia con soggetti ‘esterni’ ad essa desumibile da una lettura del più ampio contesto probatorio”, si legge nella richiesta di rinvio a giudizio presentata dai pm di Caltanissetta. Inoltre il boss è stato condannato in via definitiva per l’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e come esecutore dell’attentato dell’Addaura (assieme al nipote Angelo).

Secondo il collaboratore di giustizia Angelo Fontana, fu lui a dirgli che il boss Gaetano Scotto (arrestato nuovamente dalla Dia di Palermo alcuni mesi fa) ‘andava verso l’Utveggio per incontrare persone dei servizi’, riferendosi al castello che domina Monte Pellegrino, da cui si ipotizzo un monitoraggio della strage di via d’Amelio in cui furono uccisi il magistrato Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta.     

Nel processo ‘Pizzolungo quater’ il gup ha riconosciuto come parte civile nel processo assieme a Margherita Asta, figlia di Barbara Rizzo e sorella di Salvatore e Giuseppe Asta, gli agenti della scorta, i comuni di Trapani, Erice e Valderice, l’associazione Libera, l’Antiracket di Trapani e l’associazione La verità vive. AGI 13.11.2020


VINCENZO GALATOLO – AUDIO DEPOSIZIONI AI PROCESSI :  – Borsellino Bis, Fallito attentato Addaura, Omicidio Libero Grassi, Omicidio Chinnici

Mafia, la figlia “ribelle” fa condannare il padre boss. Trent’anni a Galatolo per la strage di Pizzolungo L’attentato, nell’aprile 1985, era per il giudice Carlo Palermo. Morirono Barbara Asta e i suoi gemellini di sei anni, Giuseppe e Salvatore La figlia ribelle ha accusato il padre mafioso, Vincenzo Galatolo, di essere fra i mandanti della strage che doveva uccidere il giudice Carlo Palermo e invece stroncò Barbara Asta e i suoi gemellini di sei anni, Giuseppe e Salvatore. Era il 2 aprile 1985, a Pizzolungo, Trapani. Le dichiarazioni di Giovanni Galatolo hanno portato oggi la corte d’assise di Caltanissetta a condannare a trent’anni il capomafia Vincenzo Galatolo, uno dei componenti della Cupola di Totò Riina, attualmente detenuto al 41 bis. “Non appena il telegiornale diede la notizia — ha raccontato la figlia del boss, che collabora con la giustizia dal 2013 — mia madre iniziò a urlare: “ I bambini non si toccano”. Mio padre le saltò addosso, cominciò a picchiarla, voleva dare fuoco alla casa”. Questo racconto ha portato il procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci e il sostituto Pasquale Pacifico a istruire un nuovo processo per il capomafia del quartiere palermitano dell’Acquasanta Vincenzo Galatolo.

“Avevo vent’anni – ha spiegato Giovanna – a casa sentivo mio padre che diceva: “Quel giudice è un cornuto”. Poi, si verificò l’attentato. E mi resi conto, anche mia madre capì. Non si dava pace”. Sette anni fa, Giovanna Galatolo si è presentata alla squadra mobile di Palermo con una borsa in mano, chiedendo di parlare con un funzionario. E ha iniziato il suo lungo racconto. “Voglio andare via da Palermo – esordì – per mia figlia voglio una vita diversa da quello che ho avuto io, accanto a un padre padrone”.

A casa Galatolo, dentro vicolo Pipitone, venivano decisi omicidi e stragi. Negli anni Ottanta, da quel budello fra i Cantieri Navali e il porticciolo dell’Acquasanta, partirono gli squadroni della morte per sterminare il consigliere istruttore Chinnici, il segretario del Pci Pio La Torre, il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, il commissario Ninni Cassarà. Da vicolo Pipitone, partirono anche per sterminare il giudice Carlo Palermo. E poi, nel 1989, per far saltare in aria il giudice Falcone, sulla scogliera dell’Addaura. Ora, sappiamo che l’esplosivo del 1989 era lo stesso di quello utilizzato per Carlo Palermo. C’era la mano dei Galatolo, ras corleonesi, dietro quella stagione di morte.

Il primo processo per la morte di Barbara Asta e dei suoi gemellini risale al 1988, portò a tre ergastoli, per i presunti attentatori: Gioacchino Calabrò, Vincenzo Milazzo e Filippo Melodia. Ma in appello furono assolti. “Quella sentenza fu aggiustata”, ha ribadito di recente il pentito Giovanni Brusca. E la strage di Pizzolungo è rimasta avvolta da tanti misteri. Giovanna Galatolo non conosce il movente che portò i boss di Cosa nostra ad agire con tanta fretta. Il giudice Carlo Palermo, all’epoca arrivato a Trapani da Trento, era sulle tracce di un intreccio che legava mafia, trafficanti d’armi e massoni. Lui ha sempre sostenuto: “Ritengo sia stato un progetto preventivo”. Voleva conoscerla la verità Nunzio Asta, il papà dei gemellini, morì nel 1993, in una corsia d’ospedale. Qualche anno dopo, le rivelazioni del pentito Giovan Battista Ferrante hanno portato alla condanna di Totò Riina, Nino Madonia e Balduccio Di Maggio. Ma non conosciamo ancora il vero movente. Restano i misteri di Pizzolungo. E Margherita Asta, la sorella dei gemellini, che nel processo di Caltanissetta è stata rappresentata dall’avvocatessa Enza Rando, ha continuato a chiedersi, nel corso di questi anni: “Mi piacerebbe sapere se qualcuno ha indagato sull’esito di quel processo dopo le prime dichiarazioni di Giovanni Brusca, negli anni Novanta”. Chi aiutò i boss a evitare la condanna? E perché Carlo Palermo doveva essere fermato? Brusca è tornato a parlare dell’aggiustamento della sentenza nel processo che si è celebrato a Caltanissetta con un imputato (assente) molto particolare, Matteo Messina Denaro, il superlatitante trapanese condannato per le stragi Falcone e Borsellino. LA REPUBBLICA Salvo Palazzolo 13 NOVEMBRE 2020

Mamma e gemellini uccisi a Pizzolungo: boss Vincenzo Galatolo condannato a 30 anni. Accolte le richieste dell’accusa. La strage avvenne il 2 aprile del 1985. Venne fatta esplodere un’autobomba per uccidere l’allora pm Carlo Palermo ma l’auto su cui erano Barbara Rizzo Asta, di 33 anni e i suoi gemellini di 6 anni, fece da scudo a quella del magistrato, rimasto ferito

Il boss della famiglia dell’Acquasanta Vincenzo Galatolo è stato condannato a 30 anni di carcere perchè ritenuto uno dei mandanti della strage di Pizzolungo. La sentenza è stata emessa dal gup del Tribunale di Caltanissetta, Valentina Balbo. Il giudice ha accolto la richiesta avanzata dai pm Gabriele Paci e Pasquale Pacifico.

Nella strage di Pizzolungo, il 2 aprile del 1985, morirono Barbara Rizzo Asta, di 33 anni e i suoi gemellini di 6 anni, Salvatore e Giuseppe Asta. Il vero bersaglio era l’allora pm Carlo Palermo. Per lui, era stata piazzata un’autobomba sul ciglio della strada, la statale che attraversa Pizzolungo, nel Trapanese. Il magistrato era in viaggio da Bonagia al palazzo di giustizia di Trapani, a bordo di una 132 blindata. Ma tra la sua vettura e l’auto carica di tritolo c’era quella con la mamma e i due bimbi. Al momento dell’esplosione l’auto della famiglia ha fatto da scudo alla blindata del magistrato, rimasto solo ferito. Ad accusare il boss era stata la figlia Giovanna Galatolo, che collabora con la giustizia e che ha raccontato ai magistrati le reazioni del boss alla notizia trasmessa dai telegiornali. 13.11.2020 Palermo Today

“Questo cornuto rovina tutti”  Galatolo attacca il figlio pentito. “Questo cornuto sta rovinando tutti”. Vincenzo Galatolo sbotta. Il pentimento del figlio non gli è andato giù e non nasconde il fastidio mentre parla con alcuni parenti nella sala colloqui del carcere di Opera dove sta scontando l’ergastolo.

Un fastidio che non era emerso neppure quando un’altra figlia, Giovanna, aveva deciso di pentirsi. Eppure non era stata tenera nei confronti del padre: “Non voglio più stare nella mafia, perché ci dovrei stare? Solo perché mio padre è mafioso? Non voglio trattare con persone indegne”. Il vecchio padrino dell’Acquasanta allora non aveva battuto ciglio. Aveva scelto il silenzio. Ora, invece, attacca il figlio Vito che ha seguito l’esempio della sorella. Quella sorella che, come lui stesso ha confessato, voleva uccidere quando seppe della sua collaborazione con la giustizia.

Vincenzo Galatolo accusa il figlio di seminare rovina con le sue dichiarazioni e dà la colpa del suo pentimento alla moglie. Ci sarebbe la donna, a suo dire, dietro la scelta di saltare il fosso. Cosa provoca la reazione dell’uomo che ha ucciso il generale Carlo Alberto dalla Chiesa? Cosa lo infastidisce? Vincenzo Galatolo è ormai all’ergastolo. Il “fine pena mai” è un macigno inamovibile. La storia giudiziaria ha stabilito che da fondo Pipitone, nel regno dei Galatolo, partirono gli squadroni della morte che uccisero, oltre a Dalla Chiesa, anche il consigliere istruttore Rocco Chinnici, il segretario del Pci Pio La Torre, il commissario Ninni Cassarà. E sempre a fondo Pipitone i Galatolo prepararono l’esplosivo che doveva ammazzare il giudice Giovanni Falcone all’Addaura.

Giovanna ha raccontato di avere visto “entrare e uscire” tanta gente a casa sua. Ma nel clan Galatolo le donne dovevano restare defilate. Spettavano loro incarichi di secondo ordine. “Io non facevo parte dell’associazione però in diverse occasioni mi sono occupata di ripulire le abitazioni che avevano ospitato latitanti, lavare vestiti di latitanti imbrattati di sangue. Per esempio – ha messo a verbale Giovanna – ricordo che Ciccio Madonia. Ciccio Di Trapani al tempo della loro latitanza spesso frequentavano casa di mio padre”.

L’altro figlio, Vito, invece, è uno che con le sue dichiarazioni può davvero dare fastidio. Perché non si tratta più di galera ma di piccioli. Sta raccontando che dietro i palazzi costruiti, dietro le gru di quelli in costruzione, dietro i grandi affari edilizi c’è la mano di Cosa nostra. Sul piatto ha consegnato le tracce per risalire ai beni di famiglia. Tra cui molti immobili intestati ad una miriade di insospettabili prestanome. Di molti ha fatto i nomi. E i pubblici ministeri Amelia Luise, Annamaria Picozzi e Dario Scaletta hanno affidato ai finanzieri il compito di verificare le dichiarazioni e ricostruire la mappa degli interessi economici del clan. Forse è a questi che Vincenzo Galatolo si riferiva quando diceva che il figlio, “questo cornuto sta rovinando tutti”. 26.3.2015

Con la strage di Pizzolungo si intende l’attentato dinamitardo compiuto a Pizzolungo, nel trapanese, con cui Cosa Nostraintendeva uccidere il magistrato italiano Carlo Palermo, ma che invece provocò la morte di una donna e dei suoi due figli gemelli.

La mattina del 2 aprile del 1985, poco dopo le 8:35, sulla strada provinciale che attraversa Pizzolungo, posizionata sul ciglio della strada, un’autobomba è pronta per l’attentato al sostituto procuratore Carlo Palermo che dalla casa dove alloggia a Bonagia si sta recando al palazzo di Giustizia di Trapani a bordo di una Fiat 132 blindata, seguito da una Fiat Ritmo di scorta non blindata. In prossimità dell’auto carica di tritolo l’auto di Carlo Palermo supera una Volkswagen Scirocco guidata da Barbara Rizzo, 30 anni, che accompagna a scuola i figli Giuseppe e Salvatore Asta, gemelli di 6 anni. La coupé si viene a trovare tra l’autobomba e la 132. L’autobomba viene fatta esplodere comunque, nella convinzione che sarebbe saltata in aria anche l’auto di Carlo Palermo. L’esplosione si udì a chilometri di distanza.

La coupé invece fa da scudo all’auto del sostituto procuratore che rimane solo ferito. Nella Scirocco esplosa muoiono dilaniati la donna e i due bambini. Il corpo squarciato della donna viene catapultato fuori dall’auto mentre i corpi a brandelli dei bambini finiscono dispersi molto più lontano. Sul muro di una palazzina a duecento metri di distanza una grossa macchia mostra dove è finito un corpicino irriconoscibile. Tra i soccorritori, giungono dalla vicina via Ariston il marito della donna, Nunzio Asta, con suo cognato ma anche la Scirocco è così ridotta in frammenti che sul luogo dell’attentato trovano solo la 132 e la Ritmo e i due non sospettano che i loro famigliari possano essere stati coinvolti nell’esplosione. Dopo l’arrivo della polizia e delle autoambulanze Nunzio Asta torna a casa e si reca in auto al lavoro nella sua officina. Poco dopo la polizia gli telefona per chiedergli il numero di targa della sua auto, senza aggiungere altro, e Nunzio Asta scopre che una sua impiegata ha già verificato che i suoi figli non sono mai giunti a scuola.

Dei quattro agenti della scorta quelli sulla 132, l’autista Rosario Maggio e Raffaele Di Mercurio, rimangono leggermente feriti mentre gli altri due vengono gravemente colpiti dalle schegge, Antonio Ruggirello a un occhio, Salvatore La Porta alla testa e in diverse parti del corpo. Dopo l’arrivo dei soccorsi e delle autopattuglie il giudice Palermo raggiunge il palazzo di Giustizia con una auto della polizia e qui i colleghi lo convincono a recarsi all’ospedale Sant’Antonio Abate dove viene sottoposto a un esame audiometrico e ricoverato.

L’inchiesta

Le indagini sulla strage vengono condotte dal procuratore della Repubblica di Caltanissetta Sebastiano Patané. Tra i sopravvissuti, Raffaele Di Mercurio, 36 anni all’epoca della strage, morì nel 1993 per una malattia cardiaca. Nello stesso anno morì Nunzio Asta a soli 46 anni per problemi cardiaci (al tempo dell’attentato aveva già subito un intervento di by-pass): della famiglia Asta rimase solo la figlia maggiore Margherita, 11 anni al momento dell’attentato, che si è successivamente dedicata alle attività dell’associazione antimafia Libera in provincia di Trapani.

Inizialmente alcuni mafiosi delle cosche di Alcamo e Castellammare del Golfo (Vincenzo Milazzo, Filippo Melodia, Vincenzo Cusumano, Pietro Montalbano, Gioacchino Calabrò, Mariano Asaro, Gaspare Crociata, Antonino Palmeri) vennero individuati come esecutori materiali della strage, che doveva servire a bloccare sul nascere le inchieste del giudice Carlo Palermo che avrebbero portato ad una raffineria di eroina nei pressi di Alcamo, che tuttavia venne scoperta dalla polizia ventidue giorni dopo l’attentato: infatti all’interno della raffineria venne trovato un giornale che era piegato nella pagina dove era riportato un articolo in cui si parlava delle indagini del giudice Palermo. Per queste ragioni Gioacchino Calabrò, Vincenzo Milazzo e Filippo Melodia vennero condannati all’ergastolo in primo grado ma assolti nel 1990 dalla Corte d’Appello di Caltanissetta e l’anno successivo dalla Cassazionepresieduta dal giudice Corrado Carnevale (in seguito processato per associazione mafiosa accusa dalla quale però verrà assolto).

Negli anni successivi le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia (Francesco Di Carlo, Pietro Scavuzzo, Giovan Battista Ferrante e Giovanni Brusca) portarono al rinvio a giudizio dei boss mafiosi Salvatore Riina e Vincenzo Virga come mandanti della strage mentre Baldassare Di Maggio e Antonino Madonia furono accusati di aver portato a Trapani l’esplosivo Brixia B5 impiegato nell’attentato (già utilizzato nell’autobomba contro il giudice Rocco Chinnici e poi nel fallito attentato all’Addaura) nel 2002 Riina e Virga vennero condannati all’ergastolo e la stessa pena venne comminata nel 2004 anche a Baldassare Di Maggio mentre Antonino Madonia venne assolto. Il nuovo processo individuò Vincenzo Milazzo, Gioacchino Calabrò e Filippo Melodia come esecutori materiali della strage ma non più processabili in quanto irrevocabilmente assolti nel primo processo a Caltanissetta. Wikipedia

 a cura di Claudio Ramaccini  Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco