MAFIA e SALUTE

 

 

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MAFIA e PANDEMIA


Doc_23_n37_Sez_XIX


3.4.2023 – Le mani della ‘ndrangheta nella sanità grazie agli affidamenti diretti

Dall’influenza della massoneria deviata nei territori all’abilità della ‘ndrangheta nel governare l’economia calabrese ricorrendo a professionalità attinte dalla zona grigia, per esempio nella sanità, grazie all’affidamento diretto di servizi e appalti. Per finire con la capacità di sfuggire persino alla stringente normativa antimafia e quindi di eludere le interdittive, ormai insufficienti perché i clan reinvestono i proventi illeciti in attività apparentemente legali.
Continua a sfornare documenti la Commissione parlamentare della XVIII Legislatura, quella presieduta dal calabrese Nicola Morra, e l’ultimo pubblicato si riferisce a due missioni svolte in Calabria nel settembre e nell’ottobre 2020. Un leit motiv è che, in sintonia con gli elementi acquisiti nelle indagini condotte in Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta, i rapporti con imprenditori, amministrazioni locali e politici sono così stretti da non risultare «quasi mai riconducibili al paradigma intimidazione – assoggettamento, ma connotati da una condivisione di intenti ed obiettivi, perseguiti da entrambe le parti e quasi sempre rispondenti ad interessi di natura economica o di conquista di potere e di acquisizione di consenso». Ma vediamo cosa era emerso durante quelle missioni, provincia per provincia.

CATANZARO

Innanzitutto sono emersi i rapporti della comunità rom con la criminalità organizzata che la utilizza come manovalanza per attività illecite. Un avvicinamento che ha determinato alleanze tant’è che alcuni esponenti dei clan degli zingari hanno assunto un «ruolo preminente rispetto a quello dei componenti dell’organizzazione mafiosa». Ma soprattutto è venuta fuori «la capacità di intessere relazioni con le istituzioni, con professionisti, burocrati, politici e pubblici amministratori, l’abbandono della violenza o dell’intimidazione, sostituite da metodi corruttivi o collusivi, sono tutte caratteristiche che rendono difficile individuare le pericolose ramificazioni della ‘ndrangheta». L’elevata attenzione alle ingerenze mafiose negli apparati pubblici da parte della Prefettura traspare dai numerosi scioglimenti di enti locali per infiltrazioni. Un quadro di «grande allarme» offre in particolare la sanità calabrese che «risente della presenza della criminalità organizzata stante il ricorso pressoché generalizzato agli affidamenti diretti dei lavori e dei servizi pubblici, in totale assenza di procedure di gara, in favore di soggetti economici destinatari di interdittive antimafia. A ciò si aggiunga l’abilità della ‘ndrangheta nel governare l’economia calabrese così come dimostrato dal modo in cui ha operato nel settore della sanità, ricorrendo alle professionalità della zona grigia». Ecco perché l’Ufficio territoriale del Governo di Catanzaro ha modificato le strategie operative. Sempre più rara ormai l’emissione delle comunicazioni antimafia interdittive: «la criminalità organizzata, infatti, si è adeguata alle prescrizioni della normativa e della giurisprudenza ricorrendo a strumenti nuovi per penetrare nell’economia legale». Dalle audizioni era emerso anche coe la ‘ndrangheta riesca ad «assorbire le aziende sane o a sostituirle con quelle già a essa riconducibili, grazie alla liquidità che può offrire, anche praticando tassi usurari a imprese in difficoltà che non sono riuscite ad accedere alle misure di sostegno e ai finanziamenti degli istituti bancari».

VIBO VALENTIA

L’insieme delle audizioni ha chiarito la forte incidenza della criminalità organizzata su tutti gli aspetti della vita sociale, economica ed amministrativa del territorio anche grazie alla complicità della “zona grigia”. «I sodalizi criminali di stampo ‘ndranghetistico si contraddistinguono, infatti, sia per l’impiego di strumenti di pressione di tipo collusivo e corruttivo miranti a condizionare le strutture amministrative, sia per la loro spiccata impostazione imprenditoriale, con crescente infiltrazione nelle attività economiche. Nonostante il cospicuo numero di ‘ndrine e locali che operano nel comprensorio di Vibo Valentia, l’egemonia della famiglia dei Mancuso rimane comunque insindacabile».
Anche le cosche operanti nella provincia di Vibo Valentia hanno quale principale elemento di forza la capacità di infiltrarsi nella pubblica amministrazione, come dimostrato anche in questo caso da numerosi scioglimenti per infiltrazioni mafiose dei Comuni. Nella relazione vengono riportati i dati più importanti dell’operazione Rinascita Scott che ha fornito la più recente e completa fotografia della ‘ndrangheta. Sia il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, che quello di Vibo, Camillo Falvo, hanno insistito su quanto sia rilevante l’influenza di una parte della massoneria.

COSENZA

L’originaria richiesta di “contributo” si è mutata in estorsione e quanto dato a titolo di prestito volge in usura, per poi risolversi nella compartecipazione societaria e nel subentro e controllo dell’attività, che formalmente rimane di proprietà dell’imprenditore. Questo il modus operandi con cui le organizzazioni criminali «penetrano nel tessuto economico e sociale del territorio gestendo le attività produttive più redditizie, ovvero le attività imprenditoriali che consentono di riciclare capitali». Ecco perché viene segnalata la presenza di appartenenti alla criminalità organizzata cosentina in diversi settori produttivi della zona, quali «la ristorazione, la pubblicità, la logistica e la distribuzione di abbigliamento e di beni di prima necessità, nonché la gestione di sale slot e scommesse». La criminalità organizzata cosentina ha storici legami con le famiglie del Reggino, del Vibonese e del Crotonese ed è ripartita in 19 cosche dotate di un’organizzazione verticistica che esprime l’azione criminale attraverso l’estorsione, l’usura, i danneggiamenti e le minacce aggravate. Inoltre, «le evidenze giudiziarie dimostrano che esiste una forte compenetrazione della criminalità organizzata cosentina nelle attività commerciali ed imprenditoriali del territorio e nel governo della cosa pubblica. In particolare, le cosche storiche danno segnali di riorganizzazione attraverso il ricorso a nuove leve criminali, talvolta al comando dei vecchi boss in fase di scarcerazione».

CROTONE

Balza all’attenzione la «grande discrasia fra la povertà risultante dalle statistiche ufficiali e le ricchezze della criminalità dimostra la forza di attrazione esercitata dal crimine sulla società civile». Inoltre, «La circostanza che le operazioni di polizia svelino collegamenti con numerose altre regioni italiane e con Stati esteri, lascia intendere quale sia il livello di penetrazione e preparazione della ‘zona grigia‘ costituita da professionisti e pubblici ufficiali complici della criminalità ‘ndranghetista».

REGGIO CALABRIA

Focus innanzitutto sulla capacità della ‘ndrangheta di «organizzare il traffico di tonnellate di stupefacente ad ogni carico, operando da stakeholder su scala mondiale, dacché la sua ricchezza è fondata proprio sui suoi addentellati all’estero». Questa disponibilità finanziaria garantisce oggi alla ‘ndrangheta «potere economico e politico, consentendo alle cosche di infiltrarsi nel tessuto locale tramite il riciclaggio, facendo ingresso nel mondo degli appalti e negli assetti politico-istituzionali, con un rovesciamento del rapporto di bisogno». Ma sono emerse anche le infiltrazioni nel resto d’Italia e la dismissione dell’attività violenta per cui l’estorsione «non si configura più come semplice richiesta di denaro, ma si esplica in richieste quali l’imposizione di una guardiania o di determinati fornitori o l’imposizione agli imprenditori di operare come riferimento della cosca, salvo poi dover corrispondere una percentuale, all’incasso di ogni stato di avanzamento lavori degli appalti aggiudicati».
Rilevante anche la capacità di gruppi ‘ndranghetisti di inserirsi nelle attività commerciali, nel settore delle scommesse e nel settore internazionale. Evidente la diffusione di condizionamenti e infiltrazioni nella pubblica amministrazione anche alla luce del primato della provincia di Reggio Calabria per provvedimenti di scioglimento di Comuni. Ma c’è anche un focus analitico sulle infiltrazioni della criminalità organizzata nell’ambiente sanitario partendo da un’analisi di quanto avvenuto all’Asp di Reggio Calabria attraverso l’osservazione degli esiti dei lavori della Commissione d’indagine che ha poi portato allo scioglimento. «Gli accertamenti sono stati, in prima battuta, indirizzati su: appalti e forniture; convenzioni con strutture private; gestione del personale; gestione del servizio farmaceutico e della morgue; situazione economico-finanziaria; stato generale delle strutture ospedaliere della provincia e dei macchinari in dotazione con possibilità di ampliamento delle materie d’indagine su motivata richiesta di questa Commissione. Le attività investigative hanno evidenziato come la penetrazione delle organizzazioni criminali nei settori delle pubbliche istituzioni sia stata resa possibile dalla presenza di soggetti che hanno messo a disposizione delle cosche il ruolo istituzionale ricoperto, in un’ottica di totale asservimento della funzione pubblica». Il core business della ‘ndrangheta reggina rimane il traffico di stupefacenti, settore nel quale è leader mondiale; un ruolo che svolge anche grazie all’utilizzo di nuovi mezzi di pagamento (i bitcoin, ad esempio) e dei più potenti broker, tanto che Cosa Nostra ha dovuto fare ricorso a famiglie di ‘ndrangheta per dare garanzie ai fornitori esteri. Il Quotidiano del Sud


26.4.2021 – La Sanità infiltrata dalle mafie


È un dato di fatto che, dove vi sia più pubblico, ci sono meno casi d’infiltrazioni mafiose rispetto a privato o privato accreditato  La sanità è stata sempre oggetto di particolare interesse per la criminalità organizzata. Il motivo è semplice: le ingenti risorse economiche da gestire. L’accreditamento delle strutture, in particolare quelle private, sono uno dei settori più interessati dai condizionamenti del crimine organizzato. Prova inconfutabile è la gran parte della documentazione raccolta a carico delle aziende sanitarie commissariate per infiltrazioni mafiose (da ultimo: Commissariamento Asp di Reggio Calabria, Ministero dell’Interno, Roma 2019). Gli stadi che portano all’accreditamento e agli accordi contrattuali sono per lo più privi di trasparenza e d’idonea regolamentazione regionale. Dai dati esaminati, emerge de plano un eccesso di tecnicismo e requisiti richiesti troppo specifici finalizzati a favorire anticipatamente il contraente vincitore. Nell’insieme queste anomalie sono utili alla difficoltà di rilevare gli abusi occulti. L’eccessiva discrezionalità nella scelta dei soggetti erogatori è una costante. Si sforano continuamente i tetti di spesa da cui originano consistenti disavanzi. Un ulteriore aspetto che abbiamo rilevato nella documentazione del Ministero dell’Interno è la presenza fra i soci delle strutture private di soggetti coinvolti in procedimenti penali per gravi reati, tra cui anche imputazioni per concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso. Dall’esame delle persone coinvolte emerge la commistione fra sanità, impresa, criminalità organizzata e politica. Lo stesso pool prefettizio che procede nelle indagini rileva spesso una palese difficoltà nel ricostruire l’esistenza dei contratti di fornitura e più in generale una frequente assenza o inadeguatezza dei contratti stessi. Il personale in servizio presso alcune Asl (da noi sentito in forma anonima) ha riferito della debolezza e della sporadicità dei controlli in loco. Gli accertamenti ai fini dell’accreditamento definitivo sono insufficienti. La stipulazione degli accordi contrattuali è astrusa, eccessivamente tecnica e spesso tardiva e insufficiente nelle caratteristiche sostanziali, risentendo delle debolezze delle amministrazioni sanitarie rispetto agli erogatori privati. Le strutture accreditate usano spesso il ricatto dell’offerta di lavoro per cui privarle dell’accreditamento metterebbe sul lastrico molte famiglie. Questo ovviamente rafforza la loro capacità di negoziazione nei confronti delle aziende sanitarie e favorisce le infiltrazioni mafiose e la corruzione. Oltre un quinto della spesa sanitaria nazionale finisce a strutture non pubbliche. In alcune Regioni, questa percentuale è superiore alla media, in Lombardia in primis, con il 29,9%, e poi in Lazio con il 27,8%, e stranamente al terzo posto il piccolo Molise con il 24,1% e in Sicilia e Puglia con il 23,5%. Un altro elemento di particolare debolezza del sistema sanitario è la tendenza ad avvalersi di servizi complementari da parte di fornitori esterni: la cd. esternalizzazione. Adottata con l’obiettivo dei risparmi di risorse, non solo non raggiunge il suo scopo ma è una crepa, dove s’insinua la criminalità organizzata con la complicità della politica. L’esternalizzazione è fattore d’ipotetico rischio, al pari di quello connesso all’acquisto di beni, che diventa concreto quando le organizzazioni criminali hanno agganci con la politica e l’amministrazione sanitaria. Le mafie hanno occupato quasi totalmente i servizi esternalizzati che vanno dalla raccolta e smaltimenti rifiuti ospedalieri, alla preparazione e distribuzione pasti, dalla pulizia, vigilanza e lavanderia fino ai centri unificati di prenotazione, di elaborazione stipendi e di ragioneria, fino ai servizi funerari. Laddove il rapporto mafia-politica-imprenditoria è particolarmente stretto la criminalità organizzata rientra anche nelle fasi decisorie che riguardano il personale della sanità. Le infiltrazioni mafiose non di rado coinvolgono i vertici delle aziende, sia gli incarichi conferiti dagli organi politici (nomina del direttore generale), sia gli incarichi apicali di natura strettamente fiduciaria (direttore amministrativo e sanitario) o ancora i responsabili di strutture complesse e semplici (dirigenti di strutture e unità operative). Nel caso dei direttori generali, un elemento presente emerge spesso nelle aziende condizionate dalla criminalità organizzata: i direttori generali sono stranamente scelti su base fiduciaria e non in base a un concorso. Restano in carica fino a quando sono utili agli interessi mafiosi, sono sostituiti con altri che comunque ruotano sempre nel giro delle collusioni con la criminalità organizzata. I contratti di acquisto di beni e servizi sono un altro settore non immune al virus mafioso. Si nota a occhio nudo la presenza di un potere deviato amministrativo, imprenditoriale e politico, rivolto a favorire interessi specifici delle mafie. Negli atti esaminati, emergono illiceità palesi già nella fase di scelta del contraente. Si acquistano ad esempio prodotti che non corrispondono a un reale bisogno della popolazione o in misura superiore al reale fabbisogno. Si procede con atti di gara in modo da favorire uno dei contraenti. Si formulano bando e capitolato con l’aiuto del fornitore stesso. Si nominano commissioni tecniche compiacenti. Si assicura un’infungibilità del prodotto non reale o oggettiva. Non è scevra da illegalità neanche l’esecuzione del contratto. Questa fase fondamentale richiede grande considerazione ma purtroppo mancano controlli sulla prestazione, c’è troppo spesso accondiscendenza allo sforamento della spesa con doppia, tripla e quadrupla fatturazione. Ci sono troppe “transazioni” che consentono di coprire i danni originari. La scelta della tipologia del contratto, infine, desta perplessità proprio di ordine giuridico soprattutto riguardo al fatto che il contratto favorisce troppo spesso l’esecutore. L’emergenza Coronavirus a livello nazionale ha messo sul piatto, circa, venticinque miliardi di euro, sui trenta totali della spesa pubblica per il servizio sanitario nazionale. Fondi che saranno gestiti attraverso una società del Ministero dell’Economia. In Italia oltre la crisi delle piccole e medie imprese che consentirà con alta probabilità alle mafie di accaparrarsele, vi è anche la sanità con tutti i suoi rivoli, che aprirà un nuovo varco a infiltrazioni mafiose. La privatizzazione del sistema sanitario è stata ed è ancora il tallone di Achille che farà ancora una volta spazio a mafie e corruzione. E’ un dato di fatto che, dove vi sia più pubblico, ci sono meno casi d’infiltrazioni mafiose in sanità rispetto a dove vi sia più privato o privato accreditato. La liberalizzazione di molte gare d’appalto in ambito sanitario (soprattutto privato) sarà una miniera d’oro in cui le mafie ricicleranno denaro derivante da proventi illeciti (traffico di stupefacenti in primis) e si aggiudicheranno, attraverso opportune strategie corruttive, importanti appalti da cui ottenere nuovi profitti e denaro pulito da reinvestire. La cosiddetta “zona grigia” composta di colletti bianchi correrà in soccorso delle mafie. Addirittura le organizzazioni criminali con il sistema delle collusioni politiche incideranno ancora di più sulle nomine del personale medico-sanitario e amministrativo. Non dimentichiamoci che i mafiosi hanno festeggiato quando è iniziato il processo di liberalizzazione del sistema sanitario regionale. Un famoso pentito di mafia a tal proposito disse: “La regione è territorio nostro e comandiamo noi”. In questo momento l’Italia è la più esposta in Europa alla corruzione e alle infiltrazioni mafiose. Le misure adottate in questa emergenza sanitaria dovranno essere specifiche ed eccezionali, rigorosamente proporzionate e limitate non solo al tempo di durata dell’emergenza. Lo scioglimento di tali enti infiltrati dalle mafie è tra le misure più efficaci. Occorrerà tuttavia creare un meccanismo che consenta agli investigatori di seguire più facilmente i flussi finanziari, al fine di identificare i soggetti che percepiscono il denaro pubblico, con la finalità di evitare, mediante la tracciabilità, che finisca nelle mani della criminalità organizzata. Le cosche riescono a mettere le mani sulle risorse sanitarie della pubblica amministrazione rendendosi “irriconoscibili”, e riuscendo addirittura a farsi apprezzare per affidabilità imprenditoriale. Dall’esame dei provvedimenti di scioglimento emerge in tutta evidenza come le organizzazioni mafiose abbiano l’assoluta necessità di infiltrarsi nel settore della sanità pubblica e soprattutto privata poiché da essa traggono facilmente ingenti guadagni. Questo, inoltre, consente loro di ottenere consenso sociale nei più svariati modi, dalle assunzioni alle sovvenzioni fino alla mancata riscossione dei canoni, di garantirsi candidature o appoggio politico, appalti e servizi pubblici, lucrando persino sulle risorse naturali e sulle peculiarità produttive che il territorio riesce a esprimere. Ritengo che tutte le istituzioni antimafia debbano mettere in campo una strategia di prevenzione e repressione ad hoc proprio nel settore della sanità che sia “ancora più efficace”, specie ora che si possono verificare gli effetti sul piano economico dell’inserimento delle mafie dopo il Covid. Sono convinto che i più esposti agli interessi delle organizzazioni criminali saranno proprio i settori della sanità privata, a partire proprio dalle Regioni che potrebbero beneficiare d’ingenti somme di denaro. Inevitabilmente nella gestione dell’emergenza e del post emergenza in ambito sanitario, molti servizi, di cura e non, dovranno essere esternalizzati. Proprio in questa fase ci saranno le infiltrazioni della criminalità organizzata e le attività corruttive dei colletti bianchi. Vincenzo Musacchio  – Huffingtonpost


POLITICI, MASSONI E MAFIOSI ECCO COME HANNO SPOLPATO LA SANITÀ DELLA CALABRIA

Cosa ha portato la sanità calabrese al completo sfacio. Non incompetenza, non distrazione, non mancanza di fondi, ma una vorace compagnia di politici, circoli massonici e ‘ndrangheta che hanno spolpato come un osso ospedali e aziende sanitarie per decenni. E tutti coloro che hanno tentato di mettere in ordine le cose, sono stati attaccati e infine cacciati. Perchè la sanità in Calabria è oro oltre che essere un bacino elettorale enorme. Ora i calabresi protestano e su molte cose hanno ragione, ma devono chiedersi chi ha sfasciato la sanità, chi ha sprecato, chi ha rubato e fatto ingrassare la mafia.
Commissari che si sono suicidati in diretta tv. Commissari che arrivano. Ma non sanno se resteranno. Commissari invocati come salvatori di una patria che non riesce a salvarsi da sola È la Calabria, dove l’emergenza continua «La situazione è a un passo dal crollo», denunciano i segretari dei tre sindacati confederali che ieri hanno fatto visita al procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, e gli hanno portato in regalo un esposto. Denunciano che il piano anti Covid di giugno è rimasto lettera morta, sepolto da un mare di carte prodotte dal commissariato straordinario, dalla regione e da varie strutture più o meno speciali. Ci sono «orrori e omissioni nella catena di comando. Numeri e dati discordanti sui posti in terapia intensiva, nei reparti, e finanche sul numero dei tamponi effettuati e processati». L’ormai ex commissario straordinario, il generale dei carabinieri Saverio Cotticelli, poco noto ai calabresi, ma diventato notissimo dopo le sue sciagurate esternazioni televisive, il 18 giugno aveva offerto dati rassicuranti. Abbiamo potenziato i posti in terapia intensiva di oltre il 65 per cento, abbiamo riqualificato vecchi spazi, ne abbiamo messi su di nuovi. Ma i sindacati hanno notizie diverse, quelle proposte dalla realtà di questi ultimi giorni. E allora invitano il procuratore Gratteri a «verificare i dati, perché qui sono necessari 280 posti, mentre la dotazione reale è di 146, ma 113 sono realmente disponibili».
Allarmi inascoltati  È emergenza, con i medici che lanciano allarmi inascoltati. Antonio Verduci, direttore medico del più grande ospedale di Reggio Calabria, da giorni racconta che la situazione è drammatica, con «malati di Covid che devono stazionare in barella nei corridoi del pronto soccorso. Siamo allo stremo, ci serve personale, mancano 400 tra medici, infermieri e operatori sanitari». A Cosenza ci sono cinquanta positivi ammassati nelle ambulanze e nel pronto soccorso dell’ospedale Annunziata. Presto arriverà un ospedale militare da campo, con medici, infermieri e un laboratorio per processare i tamponi. Tramortita dall’emergenza, la classe politica calabrese si dimena tra impotenza e rabbia. I suoi esponenti regalano battute da far arrossire Cetto la Qualunque. Come a giugno, quando in tanti si beavano del virus che non aveva attecchito tra il Tirreno e lo Jonio «Siamo Covid-free — diceva raggiante la scomparsa lole Santelli — qui l’unico rischio che si corre è quello di ingrassare».
Intanto, il piano per affrontare l’emergenza annunciata rimaneva nei cassetti E oggi il “nemico” non è il virus, ma i commissari, gli stranieri venuti da fuori a colonizzare la Calabria. L’obiettivo è Gino Strada. Circola il suo nome. L’opinione pubblica si divide. La destra gioca col fuoco. Manda avanti Nino Spirli («ma chi cazzo è Gino Strada? Vada a scavare pozzi in Africa»). In tanti soffiano su una cenere antica pronta a riaccendersi, puntando su quello che l’antropologo Vito Teti definisce un insensato «sovranismo» calabro.
Rivolta bipartisan L’obiettivo che si nasconde dietro la “rivolta” bipartisan della politica calabrese, è un altro, il controllo della sanità pubblica. La vera Fiat della Calabria con il suo giro d’affari di 3,5 miliardi l’anno, il 75 per cento del bilancio regionale, e 20mila dipendenti. Un bacino elettorale enormeOspedali e aziende sanitarie sono stati l’osso che per anni è stato spolpato da una vorace compagnia di politici, circoli massonici e ‘ndrangheta. Vale la pena ricorrere a un vero “esperta” per capirci meglio, Mimmo Crea, proprietario di cliniche e politico che ha girato partiti e schieramenti. Era consigliere regionale e voleva a tutti i costi diventare assessore alla Sanità. Ecco la sua graduatoria del valore, in termini economici e di potere, degli assessorati. «La Sanità è prima, l’Agricoltura e forestazione seconda, le Attività produttive terza; in ordine di budget settemila miliardi… con la Sanità. Sono stato chiaro? Oppure parlo arabo?». Era il 2005 e l’onorevole, poi arrestato e condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, non parlava arabo. La sanità pubblica in Calabria è una grassa mucca da mungere. E chi nel corso degli anni ha tentato di rimettere conti e diritto alla salute dei calabresi in ordine, è stato fermato. Doris Lo Moro nella sua vita è stata un magistrato, impegnata in politica col Pci e le sue diramazioni successive, ha fatto l’assessore regionale alla Sanità con la giunta di Agazio Loiero. Mise mano ai bilanci di ospedali, frugò nei cassetti e rischiò di collassare quando scoprì la storia dei 400mila falsi assistiti. Medici di hase avevano iscritto nei loro registri ammalati inesistenti, oppure chiedevano i rimborsi per quelli veri, ma lo facevano due volte. Un giochino da 30 milioni di euro l’anno. Tutto finì in una bolla di sapone e l’assessore decise di cambiare mestiere.
Benvenuti all’inferno Santo Gioffré è un medico, scrittore per vocazione, ha pubblicato libri con Mondadori e Rubbettino. Appassionato uomo di sinistra, nel 2015 è stato nominato commissario della Asp di Reggio Calabria. Un inferno, dove i bilanci non venivano presentati da anni. «Ora i calabresi protestano e su molte cose hanno ragione, ma devono chiedersi chi ha sfasciato la sanità, chi ha sprecato, chi ha rubato e fatto ingrassare la mafia», ci dice. Appena insediato, Gioffré boccia il bilancio approvato due anni prima. «Non c’era chiarezza sulle entrate e sulle uscite». Mette mano nel groviglio di interessi con aziende farmaceutiche, laboratori e cliniche private, e scopre qualcosa che va oltre la sua immaginazione. Fatture pagate ai privati due o tre volte per gli stessi beni e servizi forniti. «Bloccai il pagamento di 6 milioni a una clinica privata. Fu difficile, ma scoprii che il credito vantato era già stato pagato. Contro avevo i privati, le banche e grosse società finanziarie che acquistavano crediti, ma chiesi ugualmente di restituirmi i soldi».
Il meccanismo che Gioffrè scoprì da solo (aveva chiesto specialisti al ministero delle Finanze, ovviamente mai arrivati) era semplice: «Mancava tutto, finanche le minute delle spese, avevo capito che per non consentire la ricostruzione dei crediti, si facevano sparire le carte». Insomma, la Asp di Reggio Calabria era una banca meravigliosa per i creditori, e garantiva rendimenti fino al 9 per cento annui. In cinque mesi lo scrittore-commissario ricevette attacchi da politici di vari schieramenti, compresi i parlamentari calabresi dei Cinque stelle, la sua vicenda arrivò finanche all’Anac di Cantone, per una sua presunta incompatibilità. Al grido di “onestà, onestà” fu costretto alle dimissioni.
Massimo Scura, è un ingegnere settantacinquenne originario della Calabria ma vissuto sempre tra Piemonte e Molise. Nel 2015 il Pd lo chiama a ripianare il debito della sanità calabrese. Subito entra in rotta di collisione con Mario Oliverio (Pd), allora presidente della giunta regionale, lo incontra una volta sola e poi basta. Scura è poco amato dalla politica. Lo attaccano, fioccano le interrogazioni parlamentari, gli scaricano addosso decenni di inefficienza. La verità, va dicendo nei convegni, «è che esiste un’altra ‘ndrangheta più subdola, che si è insinuata nel tessuto della sanità pubblica paralizzandone i centri nevralgici». Tre anni dopo si dimette, suo successore diventa il generale Saverio Cotticelli. Quello che doveva fare i piani anti Covid e non lo sapeva. ANTIMAFIA 365


Bombardieri: «Nomine dei dirigenti dell’Asp imposte dai Piromalli» Il procuratore capo: «Da un certo momento in poi non serviva più intimidire, bastava corrompere» 

Non solo la capacità intimidatoria, ma anche «dazioni di denaro ed altri beni» hanno permesso, nel tempo, alla cosca “Piromalli” di  compromettere «il sistema gestionale dei distretti sanitari dell’Asp di Reggio Calabria», commissariata all’esito del Decreto del Presidente della Repubblica dello scorso marzo 2019.  Le cosche avevano acquisito «una posizione dominante» arrivando ad «alterare o addirittura imporre» la nomina dei dirigenti, tra cui «l’attuale direttore del distretto Tirrenico, Salvatore Barillaro, nome imposto su precisa volontà dei Tripodi» e che ha permesso loro «di controllare quel distretto, sia per le forniture di dispositivi medici, che per influenzare i trasferimenti del personale». Le parole del procuratore capo della procura di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, sono intrise dello spaccato svelato dagli inquirenti nell’indagine “Chirone”.  I fatti oggetto dell’odierna inchiesta risalgono a un periodo circoscritto allo scorso 2018, quando ancora la struttura non era oggetto di commissariamento e, soprattutto, l’avvento della pandemia non era ancora nemmeno ipotizzabile.  «Quando la pandemia è arrivata, il sistema era già tanto radicato da trovare terreno fertile e accrescere le proprie opportunità di illecito profitto», spiega il comandante del Ros, Pasquale Angelosanto, presente anch’egli all’odierna conferenza stampa tenutasi da remoto dopo l’applicazione, nelle prime ore della mattinata odierna, di 14 misure cautelari oggetto dell’ordinanza firmata dal gip presso il tribunale di Reggio Calabria, Valerio Trovato, su richiesta della locale procura antimafia. L’indagine coinvolge in tutto 18 persone e porta alla luce una «vera e propria “holding” criminale» creata e gestita dai “signori” della Piana di Gioia Tauro, quei Piromalli oggi riconosciuti come «una delle cosche di ‘ndrangheta più potenti in Italia e all’estero ed operante nei più svariati settori» dall’agroalimentare, appunto alla sanità.  «Emergono anche in questo caso le cointeressenze, oltre che dei Piromalli, anche dei Molè, a testimonianza del processo di normalizzazione registrato nell’area dopo lo spaccato che si era creato nei rapporti tra le cosche». E a dimostrazione di questa saldatura risulta anche la convergenza dei “Pesce” di Rosarno nel sistema, come dimostrato dalla presenza di Giancarlo Arcieri nella società “Lewis”.  La “holding” criminale dei Piromalli  «L’operazione – dice il procuratore capo Bombardieri – interviene nel momento in cui la sanità calabrese è al centro dell’attenzione a fronte di una serie di disfunzioni verificatesi negli anni» e che hanno portato al commissariamento delle due principali Asp della regione. Un quadro ampio nel quale si innesta l’infiltrazione della cosca “Piromalli” «che va dalle pressioni operate sul personale di alcuni distretti sanitari della provincia all’approvvigionamento attraverso prodotti sanitari – che vanno dagli sterilizzanti alle siringhe – di alcuni poli ospedalieri che avveniva grazie alle aziende operanti nell’orbita di controllo della cosca stessa».  A coordinare l’indagine “Chirone” sono stati il procuratore aggiunto presso la procura reggina, Gaetano Paci e il sostituto procuratore Giulia Pantano. Oggetto è quindi solo uno dei comparti d’interesse delle cosche del “Mandamento Tirrenico”, controllato grazie alla famiglia “Tripodi”, «ritenuta organica ai Piromalli come già emergeva dall’indagini “Provvidenza” e “Mammasantissima”, portate avanti da questo Ufficio negli scorsi anni», dice Paci.  Figure centrali sono Giuseppantonio e Francesco Michele Tripodi, genero del decano “Don Mommo” Piromalli, classe 1918, deceduti nel 2018 e già organici al personale delle Aziende sanitarie di Reggio, Gioia Tauro, Palmi e Tropea.  Insieme a loro c’è Fabiano, figlio di Francesco Michele, anche lui medico nonché «figura di riferimento degli assetti societari operanti nel settore sanitario della Minerva Srl, Mct Distribution & Service srl e Lewis Medical srl, le concessionarie di servizi attraverso cui riescono a spartirsi la torta dei ricavi derivanti dall’Asp».  Questo «soprattutto attraverso il controllo delle strutture sanitarie del foro ospedaliero di Polistena e Melito Porto Salvo con tentativi di espansione verso Locri e Reggio Calabria». Il sistema parte dal «Centro analisi Minerva, avviato già all’inizio degli anni 80 grazie ad un cospicuo finanziamento di “Don Mommo”» e si evolve grazie alle altre società «con le quali veniva spartito il ricavato derivante dal rapporto con la pubblica amministrazione». Un sistema fruttato, nel solo periodo di riferimenti dell’inchiesta, complessivi 400mila euro, mentre i beni immobili, i rapporti bancari e i beni aziendali sono stati sottoposti a sequestro per un ammontare finale di 8 milioni di euro.  I collaboratori di giustizia: «A Gioia Tauro comandavano i Tripodi»  «Numerose – aggiunge Bombardieri – sono state le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che hanno richiamato l’appartenenza dei Tripodi alla cosca Piromalli». Tra questi Andrea Mantella, gestito dalla Dda di Catanzaro e tre le voci principali del processo “Rinascita-Scott”. Questo avrebbe «fatto riferimento alla figura di Franco Tripodi come aderente alla cosca Piromalli e che era stato indicato in relazione al tentativo di ovviare, attraverso certificazioni false, al suo stato detentivo in carcere con ricovero in ospedale». Si aggiungono a queste le dichiarazioni dei collaboratori Antonio Russo, Marcello Fondacaro, Mesiani Mazzacuva, Pasquale Labate, solo per citarne alcuni, che hanno confermato come si sapesse che «a Gioia Tauro comandavano i Tripodi», che fungevano da riferimento non soltanto per i Piromalli, ma anche con cosche di altri territori come i Mancuso di Limbadi. Per raggiungere gli scopi prefissatisi dalla cosca, da un certo momento in avanti «non era nemmeno più necessaria la capacità intimidatrice in quanto, come nelle migliori organizzazioni di ‘ndrangheta, bastava il blasone della famiglia di riferimento». «Il ruolo ben preciso dei Tripodi – dice il procuratore aggiunto Paci – non era quello di sovraintendere all’attività di gestione del territorio, ma di occuparsi di settori particolarmente specialistici, come quello della sanità».  Bombardieri: «Le cosche tenevano un libro contabile dei pagamenti finalizzati alla corruzione» Alle minacce e alle violenze sopperivano così «regali ed elargizioni in denaro per i professionisti per acquistare il favore di chi doveva provvedere agli ordini dei prodotti e al pagamento in via preferenziale della stessa azienda». Borse griffate, percentuali sulle transazioni, ma anche nomine per chiudere il cerchio sul sistema. Spicca in tal senso la figura del dirigente Salvatore Barillaro raggiunto dalla misura degli arresti domiciliari con accusa di concorso esterno. Attraverso lui «le cosche potevano vantare rapporti privilegiati, rallegrandosi della sua nomina». Questi veniva a sua volta «sollecitato su alcune nomine che dovevano essere svolte nel polo gioiese».  I dirigenti dell’Azienda sanitaria preposti all’approvvigionamento, venivano avvicinati da persone facenti capo a società come la “Lewis”, che riuscivano così ad ottenere ordini di prodotti. «Addirittura – sottolinea il procuratore capo – si fa riferimento in una conversazione ad un soggetto che terrebbe la contabilità dei pagamenti dei prodotti che venivano fatti ai soggetti che favorivano le società odierne sequestrate».   I fatti e le vicende emerse, anche attraverso le conversazioni degli odierni protagonisti, dimostrano «come fosse prioritario inserire nei presìdi, soggetti che potessero favorire la cosca allo scopo di perpetrare l’egemonia storicamente conseguita nel distretto gioiese ed estesa anche gli altri distretti».  Lo scambio politico-mafioso  La misura odierna interessa diversi medici. Tra questi, gli inquirenti spostano l’attenzione su Antonino Coco, classe 50, noto ginecologo e candidato nelle liste della Lega di Matteo Salvini alle scorse elezioni regionali. Benché fosse in quiescenza già all’epoca dei fatti, dicono gli inquirenti, «la sua lista di contatti gli aveva permesso di favorire l’aggancio per le cosche nell’ospedale di Reggio Calabria con l’obiettivo di fornire alcuni ecografi, dimostrando come i clan fossero capaci di farsi strada per ottenere illeciti guadagni anche percorrendo un iter diverso». Ma il profilo è richiamato anche dalla procura «in relazione ad un accordo politico-elettorale con la cosca Alvaro e in particolare con Domenico Laurendi, coinvolto già in “Eyphemos”, per un’esigenza di poter disporre all’interno delle assemblee parlamentari di un soggetto “che noi garantiamo e che poi ci garantisce”». Viene inoltre fatto riferimento ad una vicenda risalente alla campagna elettorale delle politiche, dove uno dei soggetti coinvolti, aggiunge il procuratore Paci, «intendeva superare una certa resistenza da parte di uno dei soggetti a cui si era rivolto per chiedere il sostegno elettorale in funzione di un candidato al Parlamento italiano non esitando a ricorrere ad atteggiamenti intimidatori e aggressivi». 23.3.2021 CORRIERE CALABRIA


SICILIA, TREMA LA SANITÀ. UN IMPRENDITORE: «COSÌ FUNZIONA IL SISTEMA DELLE TANGENTI»  Ecco i verbali di Manganaro, che ai pm ha ammesso di aver ricevuto soldi illeciti per dare informazioni riservate su 600 milioni di appalti. A maggio erano già finiti agli arresti il capo della commissione anti Covid e il manager dell’Asp di Trapani, entrambi appena promossi da Musumeci. Ora la procura ha aperto un filone di indagine sui politici coinvoltiNella Sicilia travolta dal Covid-19, mentre i pronto soccorso degli ospedali scoppiano con decine di malati che attendono anche per due o tre giorni un posto letto che non c’è, in una sanità che da tempo arranca, nelle stanze della procura di Palermo un imprenditore sta raccontando il sistema di corruzione e tangenti che negli ultimi anni avrebbe pilotato gare per 600 milioni di euro. Un imprenditore che dal di dentro sta svelando con dovizia di particolari come sono stati truccati appalti e assegnati contratti milionari in un mondo, quello delle aziende ospedaliere dell’isola, dove a molti politici, dirigenti, primari e manager «non gliene frega niente dei reparti, degli infermieri, dell’operatività e delle macchine se funzionano», come ha detto nell’ultimo verbale del 12 ottobre scorso. I pm palermitani stanno per scoperchiare un grande vaso di Pandora, che ha già portato al rinvio a giudizio di manager e imprenditori, amministratori o rappresentanti di società che contano a livello nazionale, dalla Tecnologie sanitarie alla Siram, un colosso nel campo dei servizi energetici. Un vaso della corruzione che arriva fino a Roma, viste le imprese coinvolte, e un sistema replicabile “ovunque”, come sostengono i magistrati, e che potrebbe portare adesso a un altro livello: quello politico, con il coinvolgimento di nomi di peso tra i componenti dei governi recenti di Crocetta e Musumeci e delle maggioranze che li hanno sostenuti, in un nuovo filone d’inchiesta che i pm stanno portando avant. Una indagine che fa tremare non solo i palazzi della politica siciliana ma anche quelli di grandi aziende che nel campo sanitario fanno affari d’oro: perché l’imprenditore che ha deciso di parlare ha un archivio dove ha registrato tutto e che adesso la Guardia di finanza sta passando al setaccio.  

MANAGER ANTIMAFIA E INTOCCABILI  Il pentimento dell’imprenditore Salvatore Manganaro, 46 anni, agrigentino figlio di un ex manager della sanità e politico noto in Sicilia, nasce dopo l’indagine coordinata dal procuratore aggiunto Sergio Demontis insieme ai pm Giacomo Brandini e Giovanni Antoci, che nel maggio scorso ha portato all’arresto di Fabio Damiani, l’ex capo della Centrale unica acquisti siciliana (una sorta di Consip regionale) e di Antonio Candela, ex manager dell’Asp di Palermo nominato in passato con la benedizione dell’ex governatore Rosario Crocetta e del suo gran consigliere politico, l’ex senatore Beppe Lumia. Candela lo scorso marzo era stato scelto dal successore di Crocetta, l’ex missino Nello Musumeci, a capo della struttura commissariale anti Covid. Uno dei pochissimi casi di ripescati dell’era Crocetta nel governo di centrodestra, una coincidenza che non convince i pm. Di certo una nomina non proprio felice, visto che poco dopo Candela è stato arrestato con l’accusa di aver pilotato gare e di aver intascato mazzette: accusa da lui respinta con forza, a differenza di Damiani che ha ammesso di aver preso soldi. Il loro arresto è stato un fulmine a ciel sereno. Entrambi erano considerati due paladini della legalità e Musumeci li ha tenuti entrambi in grande considerazione: Candela nominato nella struttura Anti Covid, che doveva gestire i fondi in arrivo da Roma (almeno 125 milioni di euro), Damiani promosso manager dell’Asp di Trapani. Il presidente della Regione Sicilia Nello Musumeci aveva appena promosso i due manager arrestati Dalle intercettazioni emerge invece come entrambi abbiamo agevolato cordate di imprenditori e aziende attraverso due uomini chiave: Candela aveva un rapporto diretto con il faccendiere Giuseppe Taibbi («Pensavo che fosse uno dei servizi segreti che voleva con me fare pulizia nella sanità», ha detto l’ex manager), mentre Damiani aveva come uomo tuttofare l’imprenditore Manganaro. Erano a Taibbi e Manganaro che si rivolgevano i rappresentati delle aziende per avere informazioni chiave nelle gare di appalti milionari, da quello per le pulizie degli ospedali che da solo valeva 212 milioni a quello per l’efficientamento energetico, che ne valeva altri 120 di milioni, passando per la gara da 17 milioni per la manutenzione dei macchinari diagnostici. Sotto processo sono appena finiti, insieme a Candela, Damiani, Taibbi e Manganaro, imprenditori e amministratori molto noti in Italia nel campo degli appalti medici: Francesco Zanzi della Tecnologie sanitarie; Angelo Montisanti e Crescenzo De Stasio, dirigenti Siram; Ivan Turola, referente “occulto” per i pm di Fer.Co e Salvatore Navarra, presidente del consiglio di amministrazione di Pfe, un colosso nazionale nella pulizia di uffici e ospedali. 

L’IMPRENDITORE CHE PARLA  Manganaro ha deciso di collaborare con i magistrati ammettendo di aver preso mazzette per un milione di euro: una confessione che va ben oltre l’iniziale accusa dei magistrati, che si fermava a quota 100 mila euro. I pm inizialmente non lo hanno creduto affidabile, ma la svolta è arrivata lo scorso 21 ottobre, quando la Guardia di finanza ha consegnato un supplemento di indagine che conferma in pieno le dichiarazioni di Manganaro: in particolare «sulla fornitura di ecografie da acquistare per i medici dell’Asp di Palermo, su richiesta di alcuni camici bianchi che indirizzavano ad una azienda di cui Taibbi era rappresentante, la General Eletric; sul ruolo di Tecnologie sanitarie che sostituiva di fatto l’ingegnere clinico dell’Asp nell’elaborazione dei bandi; e sulla pressione di Candela nel bandire una gara per l’acquisto di apparecchiature ecografiche». Nelle dichiarazioni di Manganaro emergono legami stretti tra faccendieri oscuri che lavorano per le grandi aziende e camici bianchi, primari e dirigenti, che hanno un ruolo chiave: e qui entra nel vivo il racconto sul sistema, fatto di soffiate sui capitolati e gare fasulle che servono solo a gonfiare il prezzo. Come per il caso della gara di cardiologia critica, affidata alla “Burke&burke” per la Sicilia Orientale: «Vi era la necessità di estendere il servizio alla Sicilia Occidentale, però anziché procedere alla privata industriale, soluzione più conveniente, Candela volle a tutti i costi che Damiani bandisse una nuova gara», racconta nel verbale del 12 ottobre l’imprenditore. Con costi maggiori, secondo Manganaro che aggiunge: «Quale referente della Burke&Burke si presentava da Damiani tale Vincenzo D’Amico, che non aveva mai rappresentato tale società ma che era espressione di una compagine politica di centrodestra che avrebbe di lì a poco vinto le elezioni». Ed è proprio il ruolo della politica quello che i pm stanno cercando di mettere in evidenza, perché nelle dichiarazioni di Manganaro i politici fanno spesso capolino.     

POLITICA E POTERE SANITARIO  L’intreccio fra politica e sanità ruota attorno a un nodo cruciale: le nomine dei manager che guidano ospedali e centri di spesa miliardari. Dalle carte dell’indagine della procura di Palermo emerge «l’ossessione di essere nominati» da parte di Damiani e Candela. E per questa ossessione si cercano le «raccomandazioni» giuste. I magistrati portano un j’accuse pesante su come sono stati scelti i manager dai vari governi regionali, recenti e in carica. Secondo i pm l’indagine «ha consentito di svelare, da una parte, la nefasta ingerenza politica, del tutto avulsa da logiche meritocratiche, nelle procedure di designazione dei direttori generali delle Asp siciliane da parte della giunta regionale, per come espresso dagli stessi indagati, dall’altra la completa manipolazione da parte dei medesimi delle procedure di gara e dei punteggi da attribuire alle offerte tecniche presentate dalle ditte». Di certo c’è che dalle intercettazioni emerge la ricerca spasmodica dello sponsor politico da parte degli arrestati. «Damiani era ossessionato dalle prossime nomine nell’ambito della sanità siciliana e cercava sponde politiche per ottenere il prestigioso incarico», scrivono i pm. Damiani e i faccendieri a lui vicini citano l’assessore regionale Girolamo Turano (Udc) come sponsor, ma non contenti cercano sponde anche in Forza Italia provando a incontrare il presidente dell’Assemblea regionale Gianfranco Micciché tramite il fratello Guglielmo che, non si capisce a che titolo, girava a Palermo con elenchi di nomi da promuovere. Nell’intercettazione di un colloquio tra Damiani e un suo amico «i due parlavano della strategia da mettere in atto, ovvero di quale politico contattare (viene fatto anche il nome dell’assessore Gaetano Armao, di Forza Italia, che però Damiani consigliava di lasciar perdere) per ottenerne l’interessamento alla questione che tanto stava a cuore. E Damiani stesso diceva che tanto «in città è risaputo che quello che deciderà sarà Gianfranco Micciché». «Non so chi sia Damiani, querelo chi accosta il mio nome al suo», ha detto a caldo Micciché, presidente dell’Ars e coordinatore di Forza Italia in Sicilia. Un’ossessione, quella di Damiani, sfruttata dalla politica. Secondo gli inquirenti, Damiani ascolta le richieste di favorire una ditta, un altro colosso delle pulizia, la Manutencoop, fatte dal deputato Carmelo Pullara (Mpa) perché spera di avere in cambio un sostegno per la sua nomina a manager. Pullara, calamita del voto del Movimento per l’autonomia di Raffaele Lombardo, è al momento l’unico politico indagato. Al momento. Stesso discorso per Candela. Scrivono i pm: «Candela parlando con Taibbi illustrava nello stesso dialogo, mirabilmente, il meccanismo delle nomine negli apparati della Sanità della Regione, per cui prevale “la logica di fare affari e politica per loro”». Quando Candela nel 2018 non viene confermato manager dal governo Musumeci, nonostante il presidente gli avesse promesso la guida dell’Asp di Catania, si dice pronto a preparare una serie di dossier (secondo i magistrati anche contro il governatore). Scrivono i pm: «Parlava anche del Damiani che “ci ha duemila cazzi che a sto punto vale la pena metterli nero su bianco” e di “questo Lanza (manager dell’Asp di Catania) in quota Raffaele Stancanelli (oggi eurodeputato dei Fdi)». Il grande sospetto dei pm è che nelle scelte dei vertici della sanità non ci sia davvero nulla «di meritocratico» ed è questo il filone politico che stanno seguendo insieme a quello della tangenti. A vedere certi livelli di assistenza pubblica non c’è da sorprendersi poi molto. ANTONIO FRASCHILLA 12 novembre 2020 L’ESPRESSO


“C’è il rischio d’infiltrazione della criminalità nella distribuzione del vaccino per il Covid”: l’allarme del pm anticorruzione. 


Giovanni Tartaglia Polcini, consigliere giuridico del ministero degli Affari Esteri, in passato titolare di indagini su vicende di malversazione nella sanità campana: “Durante la pandemia, sono state aperte 46 inchieste per condotte corruttive, ora bisognerà stare molto attenti che non avvengano analoghi fenomeni corruttivi durante la produzione e distribuzione su larga scala del vaccino” “Il vaccino anti Covid 19 non è solo una sfida sanitaria al virus, è anche una sfida etica: assicurare che arrivi a tutti, indistintamente, in tempi ragionevoli e secondo criteri e parametri certi e controllabili, in un settore ad alto rischio corruzione come quello della sanità: solo in Italia, e solo durante la pandemia, sono state aperte 46 inchieste per condotte corruttive o penalmente rilevanti, e bisognerà stare molto attenti che non avvengano analoghi fenomeni corruttivi durante la produzione e distribuzione su larga scala del vaccino”. A lanciare l’allarme è il pubblico ministero Giovanni Tartaglia Polcini, consigliere giuridico del ministero degli Affari Esteri, in passato titolare di indagini su vicende di malversazione nella sanità campana (spicca quella per la quale è stata rinviata a giudizio l’ex ministra Nunzia De Girolamo), nonché membro del comitato scientifico del centro studi Eurispes. Ed è in quest’ultima veste che Tartaglia Polcini interviene su ilfattoquotidiano.it per sottolineare che tra gli interessi legittimi che si animeranno intorno al vaccino, bisognerà stare molto attenti a quelli illegittimi delle mafie. “Il vaccino è un farmaco che sarà diffuso a livello globale, e a livello globale ci saranno rischi di infiltrazione della criminalità. A cominciare da un tema mai troppo affrontato ma serissimo: quello della contraffazione del farmaco. Lei immagina uno scenario nel quale il vaccino non arriverà per tutti e si scatenerà la corsa a procurarselo, quali danni potrebbe provocare una organizzazione malavitosa in grado di fornire vaccini contraffatti?”. Nei primi mesi del 2021 lo scenario potrebbe essere proprio questo: una minoranza di soggetti fragili o aventi diritto per varie ragioni, ai quali dare la precedenza, e una maggioranza che potrebbe reagire con insofferenza alle attese. Tartaglia Polcini sottolinea che dietro alla distribuzione dei farmaci “c’è una catena di fornitori, trasportatori e stoccatori che viene stabilita attraverso appalti molto rilevanti che è un settore anch’esso ad altissimo rischio di corruzione”. C’è poi il tema della ricerca e della produzione, “il rischio di bolle speculative sui prezzi e quello dell’accesso generalizzato al vaccino. Le faccio un esempio, una delle più diffuse corruzioni nella sanità è quella della scalata illecita delle liste d’attesa”. Che nel nostro caso potrebbe tradursi in tangenti per farsi inserire nelle categorie di chi sarà vaccinato per primo? “Esatto. I timori ci sono ed esistono a livello planetario – afferma il magistrato – per fortuna l’Italia è un paese dove si cerca di fare di tutto per assicurare l’uguaglianza di tutti i cittadini. Abbiamo un sistema sanitario nazionale che lavora per il diritto universale alla salute, abbiamo un sistema di garanzie assicurato da una magistratura indipendente, dall’obbligatorietà dell’azione penale, dall’esistenza di una stampa libera che esercita un controllo sul potere. Ma ci sono anche paesi dove non esiste un forte stato di diritto e dove i fenomeni di corruzione intorno al vaccino potrebbero moltiplicarsi”, conclude l’ex pm. 17 NOVEMBRE 2020 IL FATTO QUOTIDIANO VINCENZO LURILLO


Sanità e burocrazia: il business delle mafie ai tempi del Covid  

L’allarme nella relazione semestrale della Dia: i padrini all’assalto dell’economia in crisi grazie ai loro capitali. Con un consenso sociale sempre più forte, che può spingerli ad animare rivolte nei quartieri impoveriti dalla pandemia. Il Covid-boom delle cosche. Con “prospettive di arricchimento ed espansione paragonabili a ritmi di crescita che può offrire solo un contesto post-bellico”. Come nel dopoguerra, dalla crisi globale può nascere un’economia parallela dominata da chi dispone dei beni fondamentali. E oggi la materia più preziosa sono i contanti: liquidità che le aziende non trovano, mentre abbonda nelle casse dei boss.  La prima analisi completa della criminalità organizzata nell’era del coronavirus arriva dalla relazione semestrale della Direzione Investigativa Antimafia, che lancia un allarme sulla capacità dei clan di sfruttare “la paralisi economica” del Paese. Non si tratta di infiltrazioni, ma di una vera e propria colonizzazione. I boss sono già protagonisti del nostro sistema imprenditoriale e adesso possono cavalcare la pandemia per allargare il loro ruolo di “player affidabili ed efficaci”: uomini d’affari, solvibili e concreti, che hanno soldi da investire e sanno come superare i problemi, alternando corruzione e minacce. Forti di questa reputazione, possono spadroneggiare in un mercato assetato di liquidità: l’occasione d’oro per mettere le mani su aziende sempre più grandi.
Affari globali. Non solo in Italia. La recessione è mondiale e le nostre mafie, soprattutto la ‘ndrangheta, hanno imparato da tempo a muoversi su scala globale. “L’economia internazionale avrà bisogno di liquidità ed in questo le cosche andranno a confrontarsi con i mercati, bisognosi di consistenti iniezioni finanziarie”. E i forzieri dei boss sono pieni di cash, accumulato specialmente grazie alle importazioni di droga: contanti che adesso possono stravolgere le regole dei mercati. “Non è improbabile – sottolinea la Dia – che aziende anche di medie-grandi dimensioni possano essere indotte a sfruttare la generale situazione di difficoltà, per estromettere altri antagonisti al momento meno competitivi, facendo leva proprio sui capitali mafiosi. Potrà anche verificarsi che altre aziende in difficoltà ricorreranno ai finanziamenti delle cosche, finendo, in ogni caso, per alterare il principio della libera concorrenza. Uno scenario che ha un certo grado di prevedibilità e che all’infezione sanitaria del virus affiancherà l’infezione finanziaria mafiosa”. Il momento della scalata mafiosa non è ancora arrivato. I grandi giochi partiranno – avverte la Dia – non appena si spegneranno i riflettori. E ad aiutare l’offensiva dei padrini di denari sarà proprio la burocrazia, che soffoca le imprese in crisi mentre spesso soprattutto a livello locale diventa l’alleato dei clan. “Saranno i lacciuoli della burocrazia che potranno favorire le mafie nell’accaparrarsi gli stanziamenti post Covid, con danni particolarmente rilevanti per il Sistema Paese – scrive la Direzione investigativa antimafia -. Se nella fase dell’emergenza sanitaria, la rosa delle istituzioni è stata pressoché unanime nel vigilare sugli eventuali tentativi di infiltrazioni mafiose, nella Fase 3, con il progressivo decadimento dell’attenzione, quando i riflettori si abbasseranno, le mafie sicuramente tenderanno a riprendere spazio, insinuandosi nelle maglie della burocrazia”.
Le mani sulla sanità I fondi assegnati alla sanità sono una dei primi bersagli. Non è una novità: la presenza nel settore ormai è antica. La gestione regionale di stanziamenti e appalti permette ai clan di far pesare le reti di relazioni sul territorio, garantendo contratti per le proprie ditte. I corleonesi sono stati i primi a capirlo: sin dalla trasformazione del sistema sanitario nazionale in locale, Bernardo Provenzano decise di puntare sulle forniture ospedaliere. Non a caso, nei primi anni Duemila si diceva che la “mafia è bianca”, come il colore dei camici, perché ai vertici di Cosa Nostra palermitana c’era una pattuglia di medici. L’esempio è stato seguito in grande stile dalle famiglie calabresi, che si sono impossessate di centri clinici pubblici e privati. Poi è arrivata anche la camorra, casalese e napoletana, tanto da determinare in Campania primi casi di Asl commissariate per infiltrazione mafiosa. Un’espansione che guarda anche al Nord. E adesso vede la possibilità di moltiplicare i guadagni, come evidenzia il dossier della Dia: “La semplificazione delle procedure di affidamento, in molti casi legate a situazioni di necessità ed urgenza, potrebbe favorire l’infiltrazione delle organizzazioni criminali negli apparati amministrativi, specie di quelli connessi al settore sanitario. In proposito, la massiccia immissione sul mercato di dispositivi sanitari e di protezione individuale, in molti casi considerati infetti dopo l’utilizzo in ambienti a rischio, pone un problema di smaltimento di rifiuti speciali, settore notoriamente d’interesse della criminalità organizzata”.
Per questo secondo la Direzione investigativa guidata dal generale Giuseppe Governale, ex numero uno del Ros, “sono prevedibili, pertanto, importanti investimenti criminali nelle società operanti nel ciclo della sanità, siano esse coinvolte nella produzione di dispositivi medici (ad esempio mascherine e respiratori) nella distribuzione (a partire dalle farmacie, in più occasioni cadute nelle mire delle cosche), nella sanificazione ambientale e nello smaltimento dei rifiuti speciali, prodotti in maniera più consistente a seguito dell’emergenza. Non va, infine, trascurato il fenomeno della contraffazione dei prodotti sanitari e dei farmaci. Un polo di interessi, quello sanitario, appetibile sia per le consistenti risorse di cui è destinatario, sia per l’assistenzialismo e il controllo sociale che può garantire, come dimostrano i commissariamenti per infiltrazioni mafiose, nel 2019, delle Aziende Sanitarie di Reggio Calabria e Catanzaro”.
Certo, la lotta alle cosche non può bloccare l’erogazione di risorse indispensabili per la sopravvivenza del Paese. Ecco perché la Dia ritiene “fortemente auspicabile” l’adozione di una strategia di prevenzione antimafia “adattativa”. Una strategia, cioè, “che tenga prioritariamente conto della necessità di non precludere o ritardare in alcun modo l’impiego delle ingenti risorse finanziarie che verranno stanziate” passando anche attraverso “una radicale semplificazione delle procedure di affidamento di tutti gli appalti e servizi pubblici”. La soluzione proposta dalla Direzione Investigativa è quella del “modello già positivamente sperimentato per il Ponte Morandi di Genova, dove si è raggiunta una perfetta sintesi tra efficacia delle procedure di monitoraggio antimafia e celerità nell’esecuzione dei lavori”.
I padroni del malessere sociale. Ma il potere criminale non nasce dai soldi: la sua radice è nel consenso sociale, che la pandemia potrebbe addirittura consolidare. “Le organizzazioni si stanno proponendo come welfare alternativo a quello statale, offrendo generi di prima necessità e sussidi di carattere economico. Si tratta di un investimento sul consenso sociale, che se da un lato fa crescere la ‘rispettabilità’ del mafioso sul territorio, dall’altro genera un credito, da riscuotere, ad esempio, come ‘pacchetti di voti’ in occasione di future elezioni”. Già diverse indagini hanno registrato questa nuova “popolarità” dei clan, soprattutto nelle periferie e nei quartieri impoveriti dalla nuova disoccupazione. Una situazione che potrebbe spingere i boss a sfruttare il controllo dei territori per animare rivolte e proporsi alle istituzioni come i “signori del territorio”. “Lo scenario post Covid impone che, sul piano sociale, una particolare attenzione deve essere rivolta al mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica. Appare evidente che le organizzazioni criminali hanno tutto l’interesse a fomentare episodi di intolleranza urbana, strumentalizzando la situazione di disagio economico per trasformarla in protesta sociale, specie al Sud”.
Scarcerazioni come resa ai clan Per questo è fondamentale che lo Stato non mostri segnali di cedimento davanti ai clan. “La scarcerazione di un mafioso, addirittura ergastolano, è avvertita dalla popolazione delle aree di riferimento come una cartina di tornasole, la riprova di un’incrostazione di secoli, diventata quasi un imprinting: quello secondo cui mentre la sentenza della mafia è certa e definitiva, quella dello Stato può essere provvisoria e a volte effimera”. La relazione non le cita, ma è un chiaro riferimento alle scarcerazioni decise dal ministero della Giustizia durante la prima fase dell’epidemia e poi sospese dopo una campagna nata dalle rivelazioni di Repubblica: “Qualsiasi misura di esecuzione della pena alternativa al carcere per i mafiosi rappresenta un vulnus al sistema antimafia”. L’uscita dei mafiosi, scrivono gli investigatori, ha infatti “indubbi e negativi riflessi”: rappresenta l’occasione per “rinsaldare gli assetti criminali sul territorio”, può “portare alla pianificazione di nuove strategie affaristiche”, consentire ai capi più giovani di darsi alla latitanza e anche favorire le faide tra clan rivali.  Gianluca Di Feo La Repubblica 17.7.2020


 Coronavirus: i legami tra mafie e sanità

Gli atti giudiziari dei vari tribunali italiani ci confermano che tutte le gestioni commissariali dell’emergenza, si sono rivelate un cumulo di sprechi, ritardi e, non dimentichiamolo, d’infiltrazioni mafiose. In Italia oltre la crisi delle piccole e medie imprese che consentirà con alta probabilità alle mafie di accaparrarsele, vi è anche la sanità con tutti i suoi rivoli, che aprirà un varco a nuove infiltrazioni mafiose. La privatizzazione del sistema sanitario è stata ed è ancora il tallone di Achille che farà spazio a mafie e corruzione. E’ un dato di fatto che, dove vi sia più pubblico, ci sono meno casi d’infiltrazioni mafiose in sanità rispetto a dove vi sia più privato. L’emergenza Coronavirus a livello nazionale ha messo sul piatto, circa, venticinque miliardi di euro, sui trenta totali della spesa pubblica per il servizio sanitario nazionale. Fondi che saranno gestiti attraverso Consip (una S.p.A.), società del Ministero dell’Economia. Lo stanziamento straordinario per l’emergenza Covid-19 è gestito dal Dipartimento della Protezione Civile e dal Commissario straordinario, Domenico Arcuri, già amministratore delegato di Invitalia (una S.p.A.), una delle più importanti stazioni appaltanti che opera per la Pubblica Amministrazione italiana. Alcuni strumenti ci sono già e sono stati messi in atto. A gestire questi soldi saranno soggetti che fanno parte o hanno fatto parte con ruoli apicali di società per azioni. Inevitabilmente nella gestione dell’emergenza e del post emergenza in ambito sanitario molti servizi, di cura e non, dovranno essere esternalizzati. Proprio in questa fase ci saranno sicuramente le prime infiltrazioni della criminalità organizzata e dei colletti bianchi. Il mio assunto è già stato confermato dall’indagine sui dispositivi di protezione individuale, su cui indaga la Procura della Repubblica di Roma e dimostra il primo arresto di un imprenditore romano per la turbativa di gara Consip per ventiquattro milioni di euro, bloccata dalla Guardia di Finanza proprio su un sospetto caso d’infiltrazione mafiosa. Chi studia il fenomeno mafioso sa che l’esternalizzazione dei servizi è un fattore di rischio infiltrazione. Le mafie, con la collaborazione diretta o implicita della politica e dell’amministrazione sanitaria, riescono a entrare nel business dei servizi esternalizzati legalmente, con propri rappresentanti incensurati e al di sopra di ogni sospetto. La liberalizzazione di molte gare d’appalto in ambito sanitario è una miniera d’oro in cui le mafie riciclano denaro derivante da proventi illeciti o si aggiudicano, attraverso opportune strategie corruttive, importanti appalti da cui ottenere nuovi profitti. La cosiddetta “zona grigia” composta di colletti bianchi è spesso complice delle mafie. Addirittura le organizzazioni criminali con il sistema delle collusioni politiche incidono anche sulle nomine del personale medico-sanitario e amministrativo. I mafiosi hanno festeggiato quando è iniziato il processo di liberalizzazione del sistema sanitario regionale. Un famoso pentito di mafia a tal proposito disse: “la regione è territorio nostro e comandiamo noi”. Questo è accaduto e accade tuttora perché vi è un sistema di controllo insufficiente in ambito privato e in questo varco sono entrate mafia e corruzione arrivando poi anche al pubblico. In questo momento l’Italia è la più esposta in Europa alla corruzione e alle infiltrazioni mafiose che mieteranno vittime tra gli operatori sanitari, ma, soprattutto, tra gli anziani e i disabili e cioè nella parte più debole ed esposta della popolazione. Sono convinto che le misure adottate in caso di emergenza sanitaria debbano essere specifiche ed eccezionali, rigorosamente proporzionate e limitate non solo al tempo di durata dell’emergenza. Il Parlamento deve, inoltre, essere informato in tempo reale al fine di esercitare i suoi poteri di controllo sull’azione amministrativa e sull’uso del denaro pubblico. Ritengo occorrano nuovi strumenti in grado di creare un meccanismo che consenta agli investigatori di seguire più facilmente i flussi finanziari, al fine di identificare i soggetti che percepiscono il denaro pubblico, con la finalità di evitare, mediante la tracciabilità, che finisca nelle mani della criminalità organizzata.  ARTICOLO21 7 Maggio 2020 VINCENZO MUSACCHIO

 

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Procuratore antimafia di Milano: “La ‘ndrangheta punta al business dei tamponi e mascherine”In Lombardia esiste un altro virus oltre al Covid. Quello della ‘ndrangheta, presente sul territorio ormai da anni e che oggi, con l’emergenza sanitaria in corso, rischia di “infettare” imprenditori e farsi spazio in nuovi business: “Abbiamo avvisaglie che la criminalità organizzata stia puntando al mercato delle mascherine e dei tamponi”, spiega il procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Milano Alessandra Cerreti in un’intervista a Fanpage.it. La Lombardia è al centro anche di questa seconda ondata Covid. Lo era già stata dallo scorso febbraio, da quella prima diagnosi al pronto soccorso di Codogno, e da allora il Coronavirus non se ne è più andato. Ma il Sars-Cov2 non è l’unico “virus” a infettare la Lombardia: da anni il territorio lotta contro la criminalità organizzata che si infiltra nell’economica sana e la fa propria. La prima grande e vera “diagnosi” è stata nel 2010 con l’operazione Infinito della Direzione distrettuale antimafia di Milano che elencò tutte le locali di ‘ndrangheta presenti in Lombardia. A risvegliare i cittadini dall’omertà del Varesotto sono stati anche gli ultimi arresti del luglio 2019 e del settembre 2020 quando l’operazione Krimisa portò alla luce i legami tra la locale di Legnano-Lonate Pozzolo e funzionari pubblici. A coordinare le indagini c’è il sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Milano Alessandra Cerreti, insieme alla dottoressa Vassena, che in un’intervista a Fanpage.it mette in guardia gli imprenditori a non cedere alla criminalità organizzata in questi tempi di emergenza sanitaria ed economica.

Procuratore, questa nuova chiusura di attività commerciali aumenta il rischio di un avvicinamento tra imprenditori e criminalità organizzata? Non è tanto la decisione di chiudere o tenere aperto a far aumentare il rischio, quanto piuttosto la tempestività con cui lo Stato interviene per stanziare aiuti. Più gli aiuti saranno concreti e veloci, più il piccolo e medio imprenditore lombardo non si lascerà tentare dalla liquidità sempre presente nelle mani della criminalità organizzata. La ‘ndrangheta sul territorio è abile ad adattarsi alle realtà socio economiche del momento e infiltrarsi nei nuovi mercati.

Soprattutto in momenti di emergenza sanitaria come questi?  Sì, abbiamo avvisaglie che la criminalità organizzata stia puntando al mercato delle mascherine e dei tamponi. Ovvero il business più lucroso che ci sia in questo momento. Dalla loro hanno tanta liquidità che possono facilmente investire. Tra le ipotesi, quella di acquistare mascherine dal mercato illegale e rivenderle sul territorio a un prezzo molto più alto. Potrebbe succedere anche per tamponi e vaccini: in tanti sarebbero disposti a pagare a prezzi spropositati se necessario pur di avere una dose per il parente più anziano. Per questo la sanità pubblica deve intervenire tempestivamente e non può permettersi ritardi. Mentre sul territorio locale è necessario creare un fronte comune tra enti statali, associazioni di categoria e rappresentanze sindacati per supportare l’imprenditore.

Qualcosa che manca in Lombardia? Qui si fa poca rete. Cosa che invece succede nelle regioni del Sud dove, ahimè, le stragi sono state sì un duro colpo per il territorio, ma hanno fatto anche prendere consapevolezza al cittadino della presenza delle mafie. In Calabria e in Sicilia ci sono tante associazioni antiracket, l’imprenditore sa quindi a chi rivolgersi per chiedere aiuto.

Lei ha lavorato sia in Calabria che in Lombardia e ora soprattutto sul caso di Lonate Pozzolo. La ‘ndrangheta qui agisce in modo diverso rispetto al Sud? Assolutamente no. Occupandomi del Varesotto ho notato le stesse dinamiche di giù: il cittadino comune a Lonate Pozzolo si rivolgeva alla ‘ndrangheta per risolvere i suoi problemi. Non si rivolge allo Stato. Esattamente lo stesso succede in Calabria. Eppure in Lombardia è più comodo pensare che la ‘ndrangheta resti sempre un problema del Sud. Si sbagliano. In Lombardia però c’è silenzio totale. Basti pensare che nessun Comune o altri enti istituzionali si costituiscano parte civile nei processi. Cosa che invece avviene sempre in regioni come la Calabria e la Sicilia.

C’è chi però ha avuto coraggio. Un filone delle indagini sulla locale di Lonate Pozzolo è iniziato grazie alla denuncia di un giovanissimo imprenditore: una cosa più unica che rara? Non capitava da anni che un imprenditore lombardo denunciasse, ha avuto coraggio. Oggi è l’unica denuncia, durante il processo a Busto Arsizio contro la locale di ‘ndrangheta c’è stato persino qualcuno che davanti ai giudici ha preferito prendersi una denuncia per falsa testimonianza piuttosto che andare contro gli ‘ndranghetisti. Piuttosto negano tutto pur di denunciare.

Perché secondo lei? Per pura convenienza. L’imprenditore non denuncia e diventa colluso con la ‘ndrangheta perché gli conviene. Ma non capiscono che una volta che fai entrare la criminalità organizzata nella tua azienda poi ne diventi schiavo. Non te ne liberi più. Come quello che può succedere ora con la pandemia, non è che se chiedi liquidità alla ‘ndrangheta finita l’emergenza te ne liberi. No, diventa padrone della tua azienda.

Lo stesso vale per il rapporto tra politica e ‘ndrangheta, esattamente come è successo a Lonate Pozzolo? La ‘ndrangheta mira al centro del potere e quindi alle amministrazioni politiche. Cercano un canale comunicativo e spesso lo trovano nei piccoli paesi di provincia. Ma non per questo vuol dire che non cerchino di infiltrarsi nella politica delle grandi città. È sicuramente più difficile perché il politico è più esposto mediaticamente, ma ci provano. A Lonate Pozzolo era tutto alla luce del sole: c’erano reati spia come incendi, linciaggi e percosse nel centro della piazza del paese. Ma nessuno ha detto o fatto nulla.

La ‘ndrangheta è un “virus” di cui la Lombardia non si libererà mai? No, ma bisogna insistere. L’operazione Infinito di dieci anni fa è stato un duro colpo alla criminalità organizzata, per tanti indagati poi si sono aperte le porte del carcere. Ma una volta scontata la pena, i boss sono ritornati al loro posto e hanno ripreso il controllo del territorio. La loro grande capacità è quella di adattarsi alle nuove realtà socio economiche. Per questo i cittadini devono prendere coscienza della presenza della ‘ndrangheta sul territorio e lo Stato deve insistere per contrastarla. 16 NOVEMBRE 2020  di Giorgia Venturini FANPAGE

Finti rider per portare droga e sigarette: così la camorra aggira il lockdown Covid. Lo stratagemma di usare finti rider per spostare sigarette di contrabbando e droga non sembra essere un caso isolato, ma una vera strategia della criminalità: i fattorini passano praticamente inosservati e possono muoversi anche nelle zone rosse e durante i lockdown, in quanto consegnano cibo. In pochi giorni fermati a Napoli due rider, uno con 4 chili di hashish e l’altro con 9 chili di sigarette. Da novità che destava curiosità a presenza a cui siamo tutti abituati, a cui ormai non si fa più caso. Col passare dei mesi i rider che sfrecciano a ogni ora in bicicletta o in scooter tra le vie della città sono diventati una costante, nonostante siano a centinaia si confondono con l’arredo urbano. Sotto gli occhi di tutti, eppur nascosti. Ed è così che anche la malavita organizzata ha fiutato l’affare, ha trovato in questo lavoro relativamente nuovo una opportunità per spostare droga, sigarette e chissà che altro, sfilando in tranquillità anche davanti alle pattuglie delle forze dell’ordine.

Spaccio e contrabbando durante il lockdown Non si tratta dei rider veri, è bene precisarlo, che ogni giorno macinano decine di chilometri per consegnare cibo da un punto all’altro della città: quelli, con questa storia, non c’entrano nulla, così come non ci sono collegamenti con le società che gestiscono le app di prenotazione. La questione riguarda i fattorini falsi, dei millantatori in un certo senso: semplice manovalanza al servizio di piccoli gruppi criminali o clan, che scorrazzano tra i vicoli con sulle spalle un borsone termico identico a quello usato dalle startup più famose. Capita così che le forze dell’ordine, che pure hanno fiutato il sistema e hanno avviato i controlli ad hoc, ne fermino uno e, invece di lasagne, pizze o panini, trovino ben altro. E c’è un particolare, fondamentale, che rende particolarmente redditizio lo stratagemma: i rider sono tra i pochi lavoratori che hanno libertà di muoversi durante il lockdown, che possono spostarsi senza problemi anche in zona rossa: lavorano con le attività di ristorazione, che secondo le norme anti Covid non possono più accogliere clienti ma possono continuare con le consegne a domicilio.

Finti rider arrestati Uno dei finti rider è stato arrestato insieme a due complici nel centro di Napoli da una pattuglia dei Falchi. Gli agenti avevano notato in via Galileo Ferraris uno scooter con due persone a bordo, preceduto da una motocicletta, e avevano seguito il terzetto fino in via Foria, dove i due veicoli sono stati bloccati col supporto di altre pattuglie. Nel borsone c’erano 4 chili di hashish, diretto in qualche piazza di spaccio dove sarebbe stato diviso in dosi e venduto al dettaglio. A Casoria i carabinieri hanno intercettato un altro finto rider, che utilizzava un borsone con logo della stessa startup di quello napoletano; in questo caso, però, trasportava delle sigarette di contrabbando. Quando i militari hanno imposto l’alt per il controllo, l’uomo, un pregiudicato di 50 anni di San Pietro a Patierno, si è fermato bruscamente e ha finto di dover effettuare una consegna. Nemmeno il quantitativo era stato scelto a caso: 45 stecche, per un peso complessivo di 9 chili, uno in meno rispetto alla soglia che dalla denuncia fa scattare l’arresto. Un altro contrabbandiere era stato fermato a settembre, nel quartiere Mercato: con il borsone pieno di stecche, riforniva le bancarelle. L’escamotage non è chiaramente una prerogativa di Napoli: ad aprile a Firenze un finto rider di 32 anni è stato arrestato in piazza della Libertà con dieci grammi di marijuana (e in casa i poliziotti gliene hanno trovati altri 254, oltre a 20 grammi di ecstasy, 2,5 di cocaina e 6 di anfetamine); a maggio a Torino è stato arrestato un 42enne: durante l’orario di lavoro per una nota piattaforma approfittava anche per consegnare anche droga, nel contenitore del cibo aveva 178 grammi di stupefacenti tra marijuana e hashish; pochi giorni fa, infine, è stato denunciato un finto fattorino 28enne a Catania, fermato mentre consegnava una dose di stupefacente a un cliente. 17 NOVEMBRE 2020   di Nico Falco FANPAGE


Farmabusiness, intrecci tra ‘ndrangheta e politica: “Il consigliere comunale e i favori al clan” –

Sono ventuno in tutto i faldoni che formano gli atti dell’inchiesta Farmabusiness, che hanno portato il 19 novembre scorso i carabinieri a notificare diciannove misure cautelari e complessivi venticinque avvisi di garanzia, nei confronti di boss, gregari e affiliati alla famiglia di ‘ndrangheta capeggiata da “Mano di gomma”.  Un cospicuo carteggio che svela il grande affare nella distribuzione dei farmaci e le collusioni tra ‘ndrangheta, imprenditoria e politica, legata alla cellula criminale denominata Mellea, operante nella provincia di Catanzaro e clan satellite dei Grande Aracri di Cutro. Atti da cui si evince che Domenico Tallini, non era il solo politico a favorire la ‘ndrangheta, che con il suo ruolo di assessore al Personale, riusciva ad agevolare l’iter burocratico delle licenze per il consorzio Farmaeko e che poteva contare sul mediatore Domenico Scozzafava per il suo bacino elettorale. Emerge anche la figura del consigliere comunale Andrea Amendola, nel 2012 eletto alle amministrative di Catanzaro con “Alleanza di Centro-Pionati”, poi passato a Forza Italia e oggi capogruppo in Consiglio comunale con la lista civica “Obiettivo comune”, lista comunque satellite di Forza Italia.

Il nome di Tallini era tra gli omissis di Kyterion In base alle carte dei sostituti procuratori Paolo Sirleo, Domenico Guarascio, dell’aggiunto Vincenzo Capomolla con la supervisione del procuratore capo Nicola Gratteri, Amendola, avrebbe dato una grossa mano al clan riconducibile ai Grande Aracri per fatti risalenti al 2014. Fatti però non così datati come sembra. Per quale motivo? Negli atti risulta che Tallini era già indagato nell’inchiesta Kyterion, ma il suo nome in quell’operazione antimafia compariva tra gli omissis, così come tra gli omissis c’era anche Andrea Amendola. Entrambi i nomi, ricompresi negli atti di indagine di Farmabusiness, vengono fuori in una richiesta della Dda di procedere all’apertura di un nuovo fascicolo datato primo gennaio 2019. Secondo la Procura distrettuale, la cellula catanzarese aveva una straordinaria capacità di acquisizione e controllo dell’economia e della cosa pubblica e poteva vantare su conoscenze influenti nelle amministrazioni regionali e comunali, grazie a Domenico Tallini e ad Andrea Amendola. Quest’ultimo avrebbe fornito alla stregua dell’ex presidente del Consiglio regionale un concreto aiuto alla cellula criminale capeggiata da Gennaro Mellea in cambio di voti raccolti durante le elezioni del 22 gennaio 2013.

Le intercettazioni imbarazzanti di Amendola A supporto della impostazione accusatoria su Amendola, la Dda riporta una serie di intercettazioni, in una delle quali il consigliere parla con  Roberto Corapi, colui che, fin dall’inchiesta Terremoto era deputato a curare i rapporti tra le varie articolazioni criminali locali: “Eravamo i primi Robè… Quattrocento… li abbiamo trovati… abbiamo trovato tutti i voti…”. Inoltre Amendola si sarebbe messo a completa disposizione di Domenico Scozzafava nella vicenda relativa al trasferimento della residenza da effettuare ad alcuni amici compiacenti in modo da ottenere artatamente i loro voti alle elezioni amministrative per il Comune di Sellia Marina. “Che la geniale procedura fosse illecita- si legge negli atti- lo sapevano anche i soggetti interessati, difatti nel corso di una telefonata intercorsa tra Amendola e Scozzafava quest’ultimo beffardamente affermava mi arrestano”. L’aiuto offerto dal consigliere Amendola sarebbe stato ricambiato da Scozzafava con piccoli favori personali, come ad esempio prezzi di favore su impianti Sky per amici. Tra l’altro Amendola da tempo nelle fila degli ultras del Catanzaro Calcio, avrebbe permesso a Scozzafava e ad altri della consorteria malavitosa ingressi gratuiti allo stadio Ceravolo in occasione di eventi calcistici.

Le residenze da spostare da un Comune a un altro In un’altra conversazione, Scozzafava, visto che si era candidato a Sellia Marina, chiede ad Amendola come deve fare per spostare una decina di residenze sottolineando “dobbiamo essere sicuri che gli danno la scheda… perché sono in dubbio. Tu lo potresti sapere lì in comune”. E Amendola gli risponde richiamami lunedì mattina che te lo vado a controllare. Scozzafava lo ricontatta: “Andrè a proposito… ti dovevo chiamare ieri… se una residenza la facciamo subito? Un decina… e il consigliere annuisce, aggiungendo che sarebbe andato in Comune proprio per questo. Nelle successive chiamate Scozzafava chiede sempre al consigliere se si fa in tempo “per queste cagno di cambio di residenze” e questo ultimo lo rassicura: “Ci vogliono due mesi… calcola che in 2 mesi si fa tutto… capito? Tu inizia a prenderti i nominativi… capito? Così vediamo nome, cognome, e data di nascita… la via mi serve… la residenza dove deve essere spostata da una parte all’altra… quindi le due vie… capito?”. E Amendola nel confermare che sarebbero stati necessari due mesi aggiunge: “ma io all’epoca mi ricordavo che in un paio di mesi si faceva tutto, perché l’ho fatto pure io, all’epoca lo feci da Roccelletta qua a  Catanzaro… quindi io penso che in un paio di mesi si possono fare”.  Scozzafava conclude la conversazione: “ ho una bella lista da spostare” e Amendola: “allora tu prepara tutto… l’unica cosa che poi mi devi dire dove vanno…”. 30 Novembre 2020 CALABRIA7 di Gabriella Passariello