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Luigi Bonaventura (Crotone, 12 ottobre 1971) è un ex mafioso e collaboratore di giustizia italiano dal 2006, noto in passato per essere stato reggente dell’omonima cosca ‘ndranghetista dei ‘Ndrina Vrenna-Corigliano-Bonaventura -Ciampà, operante nel territorio di Crotone.
Figlio di Salvatore Bonaventura detto Rino, capobastone dell’omonima cosca, e nipote di Luigi Vrenna (detto “U Zirru”) oltre che dei boss reggenti Gianni e Mario, viene cresciuto da bambino soldato, subendo una forte e violenta educazione ndranghetistica; ricorda di aver sparato la prima volta all’eta di 10 anni.
Nel 1990 partecipa alla strage di piazza Pitagora, dove vengono uccisi Giuseppe Sorrentino, Rosario Garceo e Ugo Perri nell’ambito della cosiddetta faida del Marchesato tra le ‘ndrine di Cirò e Crotone.
La famiglia di Bonaventura gli commissiona il suo primo omicidio il 14 dicembre 1991, quando viene ucciso il pescivendolo Rosario Villirillo a colpi di revolver con cartucce .38 Special[1].
Collaboratore di giustizia A seguito della notizia di Luigi intenzionato a diventare collaboratore di giustizia il padre avrebbe deciso di ucciderlo. Il 19 settembre 2006 si sarebbe dovuto compiere il delitto ma alla fine è Luigi a ferire il padre con un colpo di pistola all’inguine[2].
Dal 2006 diventa collaboratore di giustizia e la famiglia viene trasferita in una località protetta.[3] Nello stesso anno oltre che con la DDA di Catanzaro, collabora con la DDA di Bologna ed esordisce con la sua prima testimonianza proprio davanti ai giudici della corte d’assise di Ravenna, (udienza celebrata nel palazzo di giustizia di Bologna) nel processo per l’omicidio di Gabriele Guerra avvenuto a Cervia, le sue dichiarazioni alla fine porteranno a tre ergastoli. Bonaventura continua a collaborare e nonostante gli è stato revocato il programma (a suo dire ingiustamente per mere interviste non autorizzate di un contratto che era oramai scaduto) da anni lui va avanti (a spese sue). Fa interrogatori e testimonianze in vari processi, contribuendo con le sue dichiarazioni a portare anche di recente all’ operazione Malapianta (marzo 2019), coordinata dal Procuratore NIcola Gratteri contro le cosche Mannolo, Grande Aracri e altre, con oltre 35 arresti. In totale allo stato attuale Luigi ha dato un contributo collaborativo a 14 procure (Procura di Crotone, DDA di Catanzaro, Reggio Calabria, Torino, Salerno, Bari, Campobasso, L’Aquila, Ancona, Bologna, Venezia, Trieste, con la DNA e una Procura Tedesca) le sue dichiarazioni hanno portato a svariate operazioni non solo in Calabria ma in altre regioni di Italia, come Operazione “San Michele” condotta dalla DDA di Torino dal Dott. Sparagna, “Aemilia” DDA Bologna Dott. Mescolino, “Isola Felice” DDA L’Aquila Dott.ssa Picardi e altro, portando in tutti italia all’arresto o alla condanna di oltre 500 ndranghetisti e al sequestro di svariati milioni di euro. La sua collaborazione venne definita una vera inversione di marcia, che creò uno squarcio enorme nel muro di omertà dell’epoca e che portò in tanti a seguire le sue orme e a collaborare con la giustizia. Come: Vincenzo Marino, Salvatore Cortese, lo stesso zio di Bonaventura (il Boss Pino Vrenna) e altri. Questa inversione porto ad operazioni in tutta Italia e in tanti altri Stati, facendo conoscere come non mai la famigerata ndrangheta della jonica. Mai nessun pentito di ndrangheta portò a tali risultati e nonostante tutto Luigi è lasciato completamente solo e senza nessuna protezione.
Il 7 aprile 2008, grazie soprattutto alla collaborazione di Bonaventura con gli inquirenti, vengono arrestate 39 persone presunte affiliate al clan Vrenna-Corigliano-Bonaventura nell’ambito dell’operazione Heracles coordinata dalla DDA di Catanzaro. Le accuse vanno dal traffico di droga all’estorsione, oltre al rifornimento illecito di materiale esplosivo da parte della criminalità albanese. L’11 aprile di quell’anno vengono confermati 35 fermi[4][5][6][7][8][9]. Pochi giorni dopo il 28 aprile del 2008, sempre e grazie alla collaborazione di Bonaventura, scatta l’operazione Heracles 2 dove vengono effettuati altri numerosi arresti e le accuse vanno dall’associazione mafiosa, traffico di droga, omicidi, estorsioni ed altro.
Nel 2011, a suo dire, sarebbe stato avvicinato da uomini dei De Stefano che gli avrebbero chiesto di confessare, e quindi di agire da “finto pentito”, un riciclaggio di denaro del valore di 70 milioni di euro poi non riuscito in cui sarebbero stati presenti i soldi di partiti tra cui quelli della Lega Nord ma lui rifutò[10].
Dal 2012 però inizia a rifiutare di trasferirsi in una località protetta in Italia preferendo un luogo all’estero che non gli è stato concesso e incomincia ad esporsi mediaticamente.
Nell’agosto 2013 rivela il progetto per fare fuori Giulio Cavalli, attore teatrale ed ex consigliere regionale lombardo noto per alcune sue iniziative contro la mafia, indicazione giunta nella primavera del 2011 da parte di emissari del clan De Stefano-Tegano. In quel periodo Cavalli era già sotto scorta[11].
Il 22 ottobre 2014, in un’intervista rilasciata a Luigi Pelazza del programma televisivo Le iene, accusa lo Stato italiano di diverse carenze presenti all’interno del Programma di Protezione per i collaboratori di giustizia[12].
Il 27 luglio 2018 il Tar del Lazio legittima la revoca al programma di protezione e a cui aveva fatto ricorso Bonaventura[3].
In alcune interviste del 2019 rivela come la ‘ndrangheta usasse o tentasse di usare bitcoin per pagare la droga in Sud America, e la scelta di mandare giovani leve in altre regioni d’Italia come in Veneto per integrarsi nel territorio.
La storia di Luigi Bonaventura, ex ‘ndranghetista e collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura, classe 1971, porta addosso un cognome decisamente pesante. È stato reggente dell’omonima cosca ‘ndranghetista dei Ciampà-Vrenna-Corigliano-Bonaventura, nonché figlio del capobastone Salvatore Bonaventura e nipote di Luigi Vrenna, definito il “capo dei capi” della ‘ndrangheta crotonese.
Oggi Luigi è un uomo libero e, anche grazie alla sua collaborazione, sono state condotte le operazioni Heracles ed Heracles 2, coordinate dalla DDA di Catanzaro, che hanno portato all’arresto di tanti affiliati. Bonaventura è l’ideatore dell’Associazione “Sostenitori dei Collaboratori e Testimoni di giustizia”, con l’impegno di difendere i diritti di chi collabora e delle loro famiglie. In quest’intervista ci racconta la sua storia e la sua visione della mafia più potente al mondo: la ‘ndrangheta.
Cosa ricordi della tua adolescenza e qual è stato il rapporto con la tua famiglia?«È un ricordo molto triste, poiché ho poca memoria della mia adolescenza, come se questo periodo non fosse mai esistito. Ho ricevuto un’educazione sulla quale ha influito molto il contesto violento in cui mi trovavo e, quando hai sui dieci anni, o impazzisci, oppure reagisci in modo duro.
Difatti, da quell’età ho iniziato ad essere particolarmente violento: ricordo che quando andavo ai quartieri chiedevo agli altri ragazzini chi fosse “il capo” e, successivamente, lo picchiavo, affermando agli altri ragazzi che da quel momento in poi avrei comandato io.
Mettevo in opera un atteggiamento mafioso senza rendermene conto. Riguardo il rapporto con mio padre, non ho mai rinnegato il legame “di sangue”, anche perché so che è cresciuto in un ambiente ancor più terribile rispetto al mio. Rinnego di sicuro la strada che intraprese».
Cosa ti ha spinto a collaborare e quali rischi hai incontrato dopo questo importante passo?«È molto difficile iniziare a parlare di te, della tua famiglia, dei tuoi amici e dei tuoi nemici. Ho deciso di dissociarmi dall’organizzazione e, nel 2007, ho iniziato la mia collaborazione con la magistratura da uomo libero. Non avevo addosso alcuna incriminazione pesante.
Devo dire che a questa decisione hanno contribuito in maniera determinante mia madre e la sua famiglia, estranei all’ambiente mafioso, oltre che mia moglie e mio figlio. Per lui volevo un futuro diverso. Dopo la collaborazione è arrivato un forte lutto che, sinceramente, non mi aspettavo: per tutta la mia famiglia e per il mio paesino ero improvvisamente morto. Come se non esistessi più, è stata una vera e propria morte esistenziale».
La ‘ndrangheta ha subito un grosso attacco da parte della giustizia italiana. Cosa ne pensi del lavoro del dott. Gratteri?«Gratteri ci ha mostrato davvero cos’è la ‘ndrangheta oggi. Con quest’operazione sono emersi i rapporti con i famosi “colletti grigi”, relazioni fondamentali per l’organizzazione. Il dott. Gratteri è andato fino in fondo e, seguendo questa strada, non possiamo far altro che sostenere le istituzioni. Ciò che sta avvenendo in Calabria ha bisogno di molta attenzione, non dobbiamo dimenticare».
La forza delle cosche sta in un inserimento fittissimo nella società calabrese e, soprattutto, all’interno dei comuni. In relazione anche alla cosca di cui hai fatto parte, a cos’è dovuta questa forza?«La Calabria è un territorio di guerra, con un conflitto tra due poteri, Stato e ‘ndrangheta, che va avanti ormai da moltissimi anni. La ‘ndrangheta è la mafia più pericolosa al mondo perché è anche strutturata con il vincolo di sangue, quindi spesso troviamo “una cupola nella cupola”. Le cosche sono spesso unite da vincoli familiari e distaccarsi da questi è estremamente difficile. Rompere il vincolo di sangue significa parlare dei tuoi familiari, non è per niente semplice.
Per chi ha nelle mani grandi business come quello dei rifiuti o quello riguardante la produzione della cocaina, non c’è partner migliore della ‘ndrangheta, date le sue influenze globali. Garantisce, inoltre, un rischio di tradimento molto minore rispetto alle altre mafie».
Parliamo ora dei bambini soldato di “mamma ‘ndrangheta”. Chi sono?«I bambini soldato della ‘ndrangheta sono principalmente i primogeniti, sono tutti quei bambini concepiti per essere ‘ndranghetisti. Nelle famiglie di ‘ndrangheta se si hanno cinque figli, si potrebbe decidere che i primi due debbano intraprendere la strada malavitosa, mentre gli altri dovranno inserirsi nella società civile, per poi tornare a servire la famiglia. I bambini soldato sono anche i ragazzini dei quartieri degradati, che diventano manovalanza per la ‘ndrangheta e così, come anche in Campania, nascono delle vere e proprie culle di criminalità all’interno di queste zone abbandonate.
Ci tengo molto a questo argomento perché ho sofferto anche io da piccolo, come ti ho raccontato, aspettavo costantemente qualcuno che mi tirasse fuori da lì». Antonio Casaccio 7.2.2020 INFORMAREONLINE
‘Ndrangheta, l’ex boss Luigi Bonaventura: “sono stato abbandonato dallo Stato” Vivo senza un vero programma di protezione e ogni giorno rischio la vita con tutta la mia famiglia” Con l’uscita nelle sale italiane del film su Tommaso Buscetta “Il Traditore”, è tornata al centro delle cronache la questione “pentiti di mafia”. Se ne è parlato a “La Storia Oscura” su Radio Cusano Campus dove dal suo rifugio segreto è intervenuto l’ex boss della ‘ndrangheta Luigi Bonaventura, collaboratore di giustizia dal 2006 e noto in passato per essere stato reggente della cosca ‘ndranghetista dei Ciampà-Vrenna-Corigliano-Bonaventura, operante nel territorio di Crotone. Da pentito fino a oggi Bonaventura ha fornito il suo contributo determinante a 14 procure antimafia. Intervistato da Fabio Camillacci, l’ex boss ha detto: “Se ho paura? Io sono nato sul campo di battaglia, dove acquisisci un istinto, un qualcosa di particolare dentro di te che ti insegna a convivere con la paura e quindi non fai nemmeno in tempo a sentirla che riesci a dominarla con delle soluzioni che tu pensi siano utili per metterti al sicuro. Non potrei fare altrimenti visto che quattro anni fa mi è stato revocato il programma di protezione da parte dello Stato. Tutto questo perché ho denunciato mediaticamente ma anche a livello giuridico delle problematiche serie nel programma di protezione e per questo mi hanno contestato delle violazioni comportamentali tipo interviste non autorizzate in cui denunciavo delle verità e dei rifiuti di trasferimento. In pratica con me lo Stato italiano si è comportato come una donna gelosa e possessiva che non accettava di essere rifiutata e quindi ha preferito cacciarmi e mettermi in mezzo alla strada per punizione insieme a due miei nuclei familiari. Lo Stato in tal modo ha messo a rischio la mia vita e le vite dei miei cari.
Fortunatamente -ha precisato Luigi Bonaventura- in seguito all’intervento del Consiglio di Stato, della magistratura e della DDA di Catanzaro, almeno i miei familiari, sono stati messi sotto programma di protezione ma la protezione è scarsissima come l’assistenza e l’aiuto logistico per cercare d’inserirsi. Un fatto che trasforma la nostra vita in un inferno. Faccio presente che il programma di protezione per la mia famiglia prevede uno stipendio di 1.300 euro, un alloggio, ma la protezione vera e propria dalla malavita che mi ha messo nel mirino non esiste, inutile prenderci in giro. Per questo sono molto deluso dallo Stato italiano. Tanto è vero che nella località in cui viviamo, i miei figli vanno a scuola con il cognome originale. Quindi, in questa sede vorrei anche smentire quanto è stato detto da Buscetta in poi a proposito dei soldi che lo Stato avrebbe versato ai pentiti di mafia: per un nucleo di 4 persone al massimo si può arrivare a 1500 euro al mese più quelli per l’affitto della casa”. Poi sollecitato dalla criminologa e psicologa dell’Università Niccolò Cusano Mary Petrillo, secondo cui il pentito diventa un effettivo collaboratore di giustizia quando avviene in lui un vero e proprio cambiamento di pensiero e culturale, l’ex boss Bonaventura ha risposto: “Anche se io e i miei familiari rischiamo la vita ogni giorno, non mi pento della scelta che ho fatto: non ho deciso di lasciare la criminalità organizzata per orgoglio o per altro. La mia è stata una reale conversione interiore e oggi mi sento un uomo spiritualmente molto più ricco di prima. Insomma, per fare un gioco di parole, non mi pento di essermi pentito. Però lo Stato italiano deve fare molto di più per i collaboratori di giustizia e i loro familiari. Deve tutelarli di più”. STRETTO WEB 10 Giugno 2019 08:16 | Danilo Loria
Il figlio del pentito Bonaventura, dopo 14 anni di calvario addio Italia E’ un addio all’Italia quello del 20enne figlio dell’ex boss crotonese Luigi Bonaventura, scritto in una lettera indirizzata al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alla ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, con il Servizio centrale di protezione, al capo della Direzione nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, al capo della Commissione Antimafia, Nicola Morra e al magistrato e capo della Procura di Catanzaro, Nicola Gratteri. Un addio che racconta i 14 anni di calvario della famiglia dopo la decisione del padre di diventare un collaboratore di giustizia: “Sono maggiorenne, in piena età della ragione, e decido io, ora, per me: qui in Italia non vivo oggi e non vivrò domani”.
Il grido di dolore è anche una denuncia: “A chi aveva promesso sicurezza e vita, avete fallito. Incessantemente la mia famiglia ha chiesto un cambio definitivo e completo di generalità, lettere ed istanze partono quasi sempre, ma quasi mai torna una risposta”. In particolare – racconta nella lettera che l’AGI ha potuto visionare – “relativamente di recente mi è stata comunicata l’impossibilità di frequentare l’università nella località protetta. Le possibili opzioni date sono tanto confusionarie quanto pericolose. Dovrei sfoggiare il mio cognome originale addirittura al di fuori della provincia e quindi senza alcuna protezione. In alternativa io e tutta la mia famiglia dovremmo nuovamente trasferirci ed utilizzare un documento di copertura non definitivo”.
Una carta che però “ha funzionalità limitata all’azione per cui è stata emessa: per esempio sarei Rossi dietro al banco dell’università e Bonaventura fuori dalla provincia universitaria. Ho già vissuto così, con due nomi a seconda dell’evenienza, e posso assicurare che, con la confusione, l’irrealtà ed il sospetto che ciò porta, il fattore sicurezza è danneggiato. In entrambi i casi non verrebbero sostenuti né i costi di spostamento né di alloggio. E per via della mia impossibilità di lavorare nella località protetta, non ho alcun modo di compensare le spese che continuamente si accumulano sulle spalle della mia famiglia. Ho quasi 20 anni, sono obbligato ad essere un peso e impedito a diventare un uomo autonomo: tutto ciò di cui ho bisogno mi è negato”, lamenta il giovane.
Le motivazioni della rabbia sono nella storia stessa della sua famiglia e nei pregiudizi che ha dovuto affrontare. “Figlio di un collaboratore di giustizia, Luigi Bonaventura – racconta nella missiva il ragazzo – vivo sotto programma da quasi 14 anni: io e la mia famiglia veniamo presi, spostati in un’altra città, senza conoscenze, appigli o aiuti, ripresi nuovamente, sballottolati come giocattoli; cerchiamo di costruire con enormi difficoltà e sacrifici, e poi spostati nel giro di pochi giorni con disumana semplicità”.
A rendere la vita impossibile, poi, è “la paura che il cognome che porto possa risvegliare gli animi vendicativi di persone che mai un protetto dello Stato dovrebbe trovare vicino a sé. Ho accettato limitazioni agli spostamenti, alla socialità, al lavoro alla partecipazione alla vita pubblica e politica, alle mie libertà individuali per rimanere il più invisibile possibile, per poi sentirmi dire, dalla segretaria della Preside di scuola: ‘Tu sei Bonaventura, il figlio di… non ti preoccupare, sappiamo già tutto”.
Il passato mafioso del padre “è qualcosa che è ormai alle spalle e che è stato dovuto ad un contesto in cui si è trovato unicamente per nascita”. La decisione di collaborare però “andrebbe elogiata in quanto ha spezzato quella linea ereditaria che avrebbe fatto anche di me uno ‘ndranghetista”, chiede il ragazzo, che invece ancora oggi si sente “bollato come un mafioso” o come figlio di “un infame”. Il 20enne sottolinea la differenza di trattamento tra “testimoni e collaboratori di giustizia, relegati all’ultimo gradino della scala sociale”. La madre, ad esempio, ha visto “la propria attività bruciata in seguito per rappresaglia dalla ‘ndrangheta e mai ha avuto i giusti risarcimenti che spetterebbero a chi subisce crimini di mafia”.
“Comunico con enorme, sentita e provata tristezza, che entro la metà di questo mese, dall’Italia io parto per l’estero, verso una reale possibilità di lavoro, di studio, di sicurezza e di vita. Nella speranza che le cose cambino per me, la mia famiglia e per tutti i protetti, nella speranza di poter tornare un giorno in sicurezza in Patria. Per il momento, addio”, conclude la missiva.3 Settembre 2020
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Note
- ^ Omicidio Villirillo: condannati i Bonaventura – Gazzetta del Sud
- ^ Spari su via Cutro, preso anche il figlio, in ilcrotonese.it, 29 dicembre 2018. URL consultato il 29 dicembre 2018.
- ^ Salta a:a b ‘Ndrangheta, revoca protezione a Luigi Bonaventura. Il Tar conferma la decisione per il pentito crotonese, in quotidianodelsud.it, 27 luglio 2018. URL consultato il 29 dicembre 2018.
- ^ Maxi blitz nel crotonese, in Nuova Cosenza.
- ^ Maxi blitz nel crotonese (2), in Nuova Cosenza.
- ^ Crotone, blitz anti ‘ndrangheta “Intimidivano poliziotti e magistrati”, in Repubblica.it.
- ^ Maxi blitz nel crotonese (3), in Nuova Cosenza.
- ^ Calabria Ora dell’8 aprile 2008 – Il lungomare è Cosa nostra di Pablo Petrasso
- ^ Operazione Eracles, Nuova Cosenza
- ^ ‘Ndrangheta, il pentito Bonaventura: “I De Stefano di chiesero di toccare la Lega”, in ilfattoquotidiano.it, 14 maggio 2012. URL consultato il 29 dicembre 2018.
- ^ Giulio Cavalli, rivelazione choc dell’ex boss: “Il piano della ‘ndrangheta per ucciderlo” – Il Fatto Quotidiano
- ^ PELAZZA: Un boss pentito della ‘Ndrangheta – Le iene