JVAN BAIO, una storia di ribellione alla mafia

 

 

Jvan Baio: una storia di ribellione.  Un vero dramma umano, familiare e  lavorativo quello di Baio: una storia che va ricostruita nel particolare ambiente socio-economico nel quale si svolge, con una famiglia di origine che non vede di buo

Da una parte una grande multinazionale, la più grande azienda d’Europa nel settore petrolchimico, dall’altra i clan della mafia siracusana con lo spaccio di droga, le scommesse clandestine, il contrabbando di sigarette, le estorsioni. In mezzo, stritolata in una realtà quotidiana sempre più complessa, la vita di Ivan Baio e della sua famiglia.

È una storia complessa quella di Ivan iniziata nel 2013 e ancora senza soluzione: operaio della Isab, decide di aprire un circolo ricreativo con due colleghi, una sorta di dopolavoro per gli operai della azienda; ma in pochissimo tempo, come lo stesso Ivan Baio ci racconta, «il circolo si trasforma in punto di spaccio della droga, contrabbando di sigarette, luogo di incontro per i rappresentanti dei clan mafiosi siracusani, in particolare i componenti del clan Bottaro Attanasio». Artefice di questa “trasformazione” un suo collega, «tale Luca Vella, che in breve tempo si rivela per ciò che realmente è: un operaio della azienda ma anche cugino di Pasqualino Mazzarella, uno dei reggenti del clan».

Ivan, vittima degli atteggiamenti malavitosi di Vella e di Cassio Concetto imposto come nuovo “socio” del circolo («esponente del clan Bottaro-Attanasio») subisce «minacce e pressioni con continue richieste di denaro» a cui non può e non vuole dar seguito. Così inizia a denunciare «le violenze e lo spaccio e il contrabbando». 

Dopo la chiusura del circolo, ad appena un mese dalla sua apertura e le denunce effettuate, inizia il calvario.

«Al lavoro il clima risulta avvelenato». Nei confronti dell’uomo si registrano ostilità. Ottiene il trasferimento presso un altro pontile (come da lui richiesto), ma diventa il “traditore”, “lo sbirro”, “l’infame” che ha denunciato il malaffare e cosi, dopo trasferimenti e buoni malattia, «inviati anche su suggerimento della stessa azienda», nel 2015 «arriva il licenziamento».

Fuori dal lavoro la situazione è  ugualmente difficile: «i clan chiedono il denaro non versato», estorcendolo a suo fratello, titolare di un’attività commerciale e «non ottenendolo, pochi giorni dopo, incendiano il negozio». «Non mancano le minacce di morte, le violenze fisiche e psicologiche».

Un vero dramma umano, familiare e lavorativo quello di Baio: una storia che va ricostruita nel particolare ambiente socio-economico nel quale si svolge, con una famiglia di origine che non vede di buon occhio la ribellione alla mafia da parte di un suo componente.

Ci racconta Ivan, ultimo di sei figli, di quando poco più che bambino chiese alla madre di abbandonare la casa in cui vivevano e quel quartiere dove era cosa normale vedere un noto capo clan sul terrazzo di fronte stappare una bottiglia di spumante per festeggiare l’uccisione del giudice Giovanni Falcone la sera della strage di Capaci.

Una famiglia non mafiosa quella di Ivan, ma nata e cresciuta in un territorio dove la mafia è per molti quotidianità, normalità e dove far finta di “non vedere” diventa prassi.

Lui vuole altro e denuncia ai suoi superiori quello che avviene presso i pontili, su quel tratto meraviglioso di costa siracusana, sperando di essere creduto è tutelato. Dopo il licenziamento si è fatto protagonista anche di  forme estreme di contestazione e protesta incatenandosi ai cancelli dell’azienda o protestando a Roma sotto Montecitorio. Ivan potrebbe tirarsi indietro, rinnegare tutto, abbassare la testa e sottostare alla violenza dei clan e a quella cultura mafiosa che lui sta cercando in ogni modo di tenere lontana dai suoi figli e dalla vita della sua famiglia.

Per quel che concerne il procedimento penale si attende la conclusione del primo grado, che vede rinviati a giudizio colleghi e alcuni appartenenti ai clan, con accuse che vanno dalla tentata estorsione alla minaccia e alla violenza privata.

Un percorso sicuramente ancora lungo e difficile che, nel frattempo, vede una famiglia in gravi condizioni  economiche, nella difficoltà di trovare un nuovo lavoro soprattutto in territorio siracusano. C’è anche stato il tentativo di lasciare tutto per andare addirittura in Valtellina, poi la voglia di tornare e di riavere quel posto di lavoro.

«La cosa che più fa soffrire è proprio il profondo senso di ingiustizia, il dover soccombere alla violenza», il mancato appoggio. «Molti vorrebbero farmi passare per “pazzo”, per  visionario, con quella tecnica della delegittimazione che tutto offusca e rende poco credibile». 

C’è ancora un sistema che non riesce a tutelare chi si ribella al mondo mafioso. Non solo a Siracura, non solo in Sicilia. C’è un Paese ancora sotto scacco, dove sempre più la malavita si infiltra e cerca di dettare le regole del gioco.

La mafia dei colletti bianchi che, senza coppola e lupara, fa meno rumore ma più danno; quella mala che frequenta i salotti buoni e che manda la manovalanza a fare il lavoro sporco. Le denunce di Ivan Baio hanno portato anche alla sua audizione di fronte alla Commissione Parlamentare Antimafia, presieduta da Nicola Morra: uno spiraglio di luce in tanto buio.

La storia di Ivan Baio e della sua famiglia (una moglie tenace e forte, tre bambini amatissimi ed una anziana mamma guerriera e fragile allo stesso tempo) non finirà a breve. Il prossimo 21 maggio inizierà il processo di appello per la causa lavorativa: sarà confermato il licenziamento o sarà reintegrato in quella azienda che per anni è stata la sua “casa” e per la quale vorrebbe tornare a lavorare?

Il 28 maggio avrà inizio il processo penale. Continueremo a seguire questa storia, a dare voce a chi non accetta e non si piega alla violenza delle mafie.  Alessandra Ruffini 14.5.2020 WordNews 


Ivan Baio, storia di un cittadino lasciato solo contro la mafia. Lo Stato e le forze dell’ordine continuano con gli appelli: “denunciate, denunciate, denunciate”. DENUNCIARE è la parola d’ordine. Ed è giusto che sia così. Però poi bisogna pagare un prezzo altissimo, fatto di difficoltà e rinunce. Ma soprattutto di minacce e pericolose ritorsioni. È questo che offre uno Stato serio?

Si chiama Ivan Baio. Aveva un ottimo lavoro presso una multinazionale del settore petrolifero. Poteva chiudere gli occhi, ma non l’ha fatto: ha denunciato traffici di droga, contrabbando di sigarette, estorsioni. Ha conosciuto da vicino, sulla propria pelle, la violenza e le minacce della mafia a Siracusa.

Si è imbattuto nei loschi affari del clan Bottaro-Attanasio e da cittadino onesto non si è piegato alla malavita e ha denunciato tutto. Ha denunciato all’autorità giudiziaria e ai suoi superiori, ai vertici della Isab (la multinazionale), convinto che sarebbe stato tutelato. «Ero certo che avrebbero allontanato i dipendenti infedeli che commettevano reati dentro e fuori l’azienda».

Ma questo è un paese strano. Baio ha denunciato mafiosi e trafficanti. Il risultato ottenuto è stato il licenziamento e l’inizio di una serie di procedimenti che lo vedono interessato nella duplice veste di denunciato e denunciante.

Adesso senza un lavoro, con tre bambini piccoli e totalmente solo. Baio e la sua famiglia vivono anni difficili, per la mancanza di una occupazione e per la totale assenza di risposte da parte delle istituzioni. 

Non ha mai rinunciato all’idea di ottenere giustizia, come non ha mai rinunciato all’intento di riprendersi quel posto di lavoro che gli è stato sottratto.

La famiglia Baio è costretta, anche, a subire gravissime minacce da parte di soggetti che palesemente (o dietro ad un falso profilo social) mostrano di conoscere sia Baio che i suoi spostamenti.

L’uomo, in questi anni ha chiesto giustizia, ha esposto fatti, ha documentato le sue denunce. Si è rivolto alla giustizia, alla politica, al settore dell’informazione. Non sono arrivate risposte, di nessun tipo. «Non ha risposto il Prefetto di Siracusa Giuseppe Castaldo, non ha risposto il Questore Corrado Basile, non risponde la giustizia che, dopo oltre 20 denunce, continua a trattare ogni esposto singolarmente, senza aver mai lavorato ad un filone unico di inchiesta.»

Nel mese di luglio una automobile, dello stesso modello di quella della famiglia Baio, parcheggiata sotto la loro casa è stata data alle fiamme. Nelle settimane precedenti, alcuni personaggi denunciati, lo avevano avvicinato con fare intimidatorio mentre erano soliti frequentare un bar situato a pochi metri dalla sua abitazione. L’attività commerciale è stata chiusa, pochi mesi fa, a seguito di una retata che ha portato agli arresti oltre venti persone della famiglia Cassia. «Nessuno mi ha contattato per il preoccupante episodio dell’auto data alle fiamme.»

 In questa assurda vicenda i colpi di scena non mancano. Dal suo profilo Facebook, dove racconta questi fatti gravissimi, Baio ha reso pubbliche le minacce ricevute – nei giorni scorsi – da un individuo che «con fare mafioso e senza alcun timore mi ha minacciato pesantemente, chiamando in causa tutta la mia famiglia, compresi i miei figli.»

Dai messaggi si capisce che c’è una conoscenza diretta della famiglia, dei suoi spostamenti, dei luoghi che frequenta.

Non è il primo episodio, ce ne sono stati tantissimi tra minacce reali e altre fatte attraverso i social: qualche mese fa da un profilo falso sono arrivate intimidazioni e ingiurie dopo che il nostro giornale aveva raccontato la storia di Ivan, cercando di dar voce alla sua disperata ricerca di giustizia.

La famiglia Baio, ancora una volta, presenterà una querela nelle sedi opportune, ma ciò che deve fare riflettere è la mancanza di qualsiasi tutela da parte dello Stato e delle istituzioni nei confronti di quei cittadini che denunciano mafie e malavita.

Senza lavoro, senza aiuti economici, senza alcuna tutela personale, Ivan Baio continua a lottare a testa alta trovando la forza in sè stesso, nella sua meravigliosa famiglia. All’ultima udienza del 30 ottobre, nel procedimento contro alcuni esponenti dei clan mafiosi, non è stata assegnata alcuna scorta e il tragitto, ancora una volta, tra casa e tribunale lo ha percorso con un mezzo privato. In assoluta solitudine.

In questi anni non sono mancati contatti con la politica. Baio è stato anche in commissione antimafia (novembre del 2019), ascoltato dalla parlamentare Piera Aiello, che si occupa di testimoni di giustizia, e dal parlamentare Michele Mario Giarrusso

Anche l’europarlamentare Dino Giarrusso si è reso disponibile a portare nelle sedi opportune questa storia. 

Purtroppo, però, dopo più di un anno non è ancora accaduto nulla.

 Chi denuncia non ritrova facilmente un lavoro onesto. Chi denuncia diventa l’infame, lo sbirro, il traditore.

Lo Stato e le forze dell’ordine continuano con gli appelli: “denunciate, denunciate, denunciate”. DENUNCIARE è la parola d’ordine. Ed è giusto che sia così. Però poi bisogna pagare un prezzo altissimo, fatto di difficoltà e rinunce. Ma soprattutto di minacce e pericolose ritorsioni.

 È questo che offre uno Stato serio? 25.11.2020 WordNews 

Siracusa. Dalla ‘carcerazione preventiva’ all’antimafia, Baio: “Chi denuncia non è eroe ma gente normale”  Il rischio era dietro l’angolo. Jvan Baio ne aveva sentito il puzzo sin dalle torrette della Isab Srl dove come operaio ha lavorato fino al 2015. E non era per l’inquinamento atmosferico, ma per un’altra mano invisibile.

Ci siamo occupati della sua storia a più riprese, l’ultima volta su la Spia due mesi fa quando ci aveva raccontato e aggiornato della sua situazione dopo le denunce al clan Bottaro-Attanasio, l’attesa di ricevere giustizia nei due processi che aveva aperti: uno penale contro la mafia e l’altro civile per tentare il reintegro sul posto di lavoro che forse, lui spera, avverrà a febbraio. Sì, perché dopo le denunce, Jvan viene isolato e licenziato. I due processi, pur nelle differenze oggettive, corrono di pari passo. Il rischio era dietro l’angolo insieme all’illusione di poter superare e vincere il malaffare da uomo rispettabile. E invece, proprio lì a Siracusa dove tutto era iniziato, c’era il rischio che tutto quello per cui aveva combattuto potesse inserirsi in un circolo vizioso fatto di burocrazia e intimidazioni. Il rischio che la stessa Giustizia potesse finire per mettergli il cappio al collo, era alto, ma non potendo reprimere il senso di lealtà che provava verso la sua famiglia e verso lo Stato aveva scelto di andare avanti a testa alta.

Tutti i verbi qui sono al passato e lo sono per un motivo. “La cosa più grave è che in uno Stato di diritto” spiega Baio, “chi denuncia, dal primo giorno viene devastato, perde il lavoro, la casa, i soldi, le carte di credito, il futuro della propria famiglia, non abbiamo più niente e dobbiamo aspettare anni per avere giustizia!”. Ma il problema non è né il disagio in cui egli versa né l’esasperante lentezza con cui i processi vengono avviati e portati in giudizio.  “Sono stanco” continua, “perché ci dicono di denunciare e perdere tutto? Con me la mafia ha vinto”. Il problema è che con queste sei parole lo Sato ha perso, ha fatto una pessima figura nelle aule di giustizia e nelle strade, ha ritratto la mano e lo sguardo lontano dai cittadini che con fiducia si erano affidati all’Istituzione.

L’ultima volta che lo avevamo sentito Baio era sicuro di gettare la spugna, davanti a uno Stato che sembra riuscire a raccogliere la sfida della legalità solo sull’onda dell’emergenza e della copertura mediatica. “Non ci metto più la faccia”, aveva detto.

Finché finalmente il 4 novembre scorso qualcosa è cambiato e la Commissione parlamentare antimafia, presieduta da Nicola Morra, lo ha chiamato a Roma per un’audizione. La documentazione relativa a quanto accadutogli era stata inviata e studiata a fondo, tante le domande sul ruolo della Isab Lukoil su cui si deve vedere chiaro prima di poter prendere dei provvedimenti. “Com’è possibile che stia succedendo questo in una zona già abbastanza martoriata, con i rifiuti industriali e i morti di cancro che ci sono nella mia zona? Questa azienda tutela i delinquenti o ha preso un abbaglio?” si chiede Baio, “la mafia come al solito se non è quella che spara è quella dei colletti bianchi che mi hanno tarpato le ali sempre, mi hanno umiliato, mi hanno denigrato e mascariato per anni”.

Esiste una mancanza di visione comune dello Stato che non si riscontra nel programma del governo giallo rosso in cui si parla in modo generico di “lotta alle organizzazioni mafiose”, pare legata più all’evasione fiscale, ma non del come e nessun riferimento si esprime nella protezione di chi denuncia che ad oggi rimane nel limbo, né al ricollocamento lavorativo e sociale, una mancanza che non è rivolta alla tutela, nel nostro caso specifico del denunciante, contro colui che commette il reato e alla disposizione di una pena adeguata al crimine.

Al dramma collettivo della mancanza, quindi, colui che faticosamente tenta di rialzarsi ritrova in Jvan Baio l’archetipo perfetto. Pensi ancora che la mafia abbia vinto?, gli chiedo. “Dire la mafia ha vinto sono i momenti di scoramento che uno ha, poi se lo Stato fa lo Stato la mafia non potrebbe vincere mai. Lo Stato basta che fa quello che deve fare per dare certezze e sicurezza al cittadino che denuncia” risponde lui deciso mentre ritrova la speranza, “il messaggio che deve passare è che noi non vogliamo essere eroi ma gente normale, se passasse il messaggio che chi denuncia è gente normale staremo già a un passo avanti”. ARTICOLO 21 15.11.2019