COSE di COSA NOSTRA

 

 

 

Intervista con Marcelle Padovani. Trent’anni dopo Capaci, vi racconto Giovanni FALCONE



“Cose di Cosa Nostra” compie trent’anni. 
In memoria di Giovanni Falcone

Sono trascorsi trentuno anni dalla pubblicazione della prima edizione di Cose di Cosa Nostra di giudice Giovanni Falcone, tratto da una serie di interviste rilasciate alla giornalista francese Marcelle Padovani: abbiamo voluto dedicare un breve commento ad un’opera che, pur nella sua apparente estemporaneità, ha di fatto precorso decenni di sentenze e processi di mafia intuendone con stupefacente precisione quelle che ne sarebbero state le linee evolutive.

«Falcone diventerà un magistrato da manuale, un servitore dello Stato che dà per scontato che lo Stato debba essere rispettato – non uno Stato ideale e immaginario, ma questo Stato, così com’è. Paradossalmente, cercando solo di applicare la legge, si è trasformato in un personaggio disturbante, un giudice che dà fastidio, un eroe scomodo».

dal Prologo alla prima edizione

«”Ho fiducia in lei, giudice Falcone, come ho fiducia nel vicequestore Gianni De Gennaro. Ma non mi fido di nessun altro. Non credo che lo Stato italiano abbia veramente l’intenzione di combattere la mafia. (…) Dopo questo interrogatorio lei diventerà una celebrità. Ma cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. E con me faranno lo stesso. Non dimentichi che il conto che ha aperto con Cosa Nostra non si chiuderà mai. È sempre del parere di interrogarmi?”».

 Tommaso Buscetta, collaboratore di giustizia, cap. I

Ci accingiamo ad accogliere il 2021 sotto l’insegna di una circostanza singolare. Da una parte saranno trascorsi ventinove anni dalle stragi di Capaci e di via d’Amelio, in cui persero la vita rispettivamente i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, insieme agli uomini delle loro scorte.

Dall’altra, ne saranno trascorsi trenta esatti dalla pubblicazione (per BUR) della prima edizione di quel saggio – ai tempi dai più ingiustamente osteggiato tanto quanto lo fu in vita il suo autore – che Falcone ebbe modo di scrivere nel 1991 con la collaborazione di Marcelle Padovani, corrispondente da Roma per Le nouvel Observateur.

Un saggio dalla forma apparentemente estemporanea, perlopiù aneddotica, frutto di una ventina di interviste rilasciate dallo stesso Falcone alla giornalista francese e raccolte in 6 capitoli. Che lascia tuttavia intravedere fin dal titolo, Cose di Cosa Nostra, una decisa aspirazione a segnare un punto di svolta nella lotta alle mafie in generale, e a Cosa Nostra siciliana in particolare.

E se quest’aspirazione si è potuta realizzare, è stato grazie a una minuta ricostruzione dei metodi, delle strategie, degli affari – illeciti e non – di Cosa Nostra, che il libro condensa in un linguaggio chiaro e diretto. In esso Falcone riversa la sua quasi trentennale esperienza di magistrato e il conseguente bagaglio di conoscenze apprese, in qualità di giudice istruttore, da pentiti del calibro di Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno, Antonino Calderone, Francesco Marino Mannoia.

Il 13 marzo 1991 Giovanni Falcone viene nominato Direttore Generale presso la sezione Affari Penali del Ministero della Giustizia. Sono anni difficili, in cui l’isolamento del magistrato palermitano raggiunge l’apice. Il distacco dal capoluogo siciliano s’impone quasi di necessità. Una scelta su cui influiscono non poco le forti delegittimazioni subite financo nei più paludati ambienti istituzionali, come quelli di Montecitorio e di Palazzo dei Marescialli. Proprio le istituzioni che, paradossalmente, avrebbero dovuto più stargli vicino. E che invece si adoperano vergognosamente per fare terra bruciata attorno a lui e al collega e amico Paolo Borsellino: due tra i magistrati più esposti d’Italia, che insieme al pool organizzato e diretto da Antonino Caponnetto hanno istruito il maxiprocesso a Cosa Nostra del 1986 (le cui condanne sarebbero state confermate dalla Cassazione il 30 gennaio 1992).

Eppure, gli omicidi eccellenti di quegli anni (fra cui quello del commissario della Squadra Mobile di Palermo Giuseppe Montana e del vicequestore aggiunto Ninni Cassarà, entrambi avvenuti nell’85) e il fallito attentato dell’Addaura del giugno 1989 non bastarono ad “aprire gli occhi” a politici e colleghi magistrati su una realtà che allora si seguitava a fingere di non vedere: il fatto, cioè, che su chiunque – magistrato, politico, membro delle forze dell’ordine – si fosse schierato in prima linea contro Cosa Nostra, pendeva una sentenza di morte già scritta, con in bianco solo la data.

La mafia – scrive Falcone nel suo libro – non è affatto da immaginare come una «piovra» o un «cancro» che inquina il «tessuto sano» della società civile. È, al contrario, un fenomeno umano che vive in perfetta simbiosi con i meccanismi politici, amministrativi, istituzionali ed economici del consorzio sociale. Figlia di un sistema profondamente distorto e di quel «bisogno di ordine» che negli ultimi due secoli in Sicilia (ma non solo) si è sempre più avvertito, di fronte ad uno Stato talora del tutto assente, talora incapace di affrontare efficacemente il problema a causa della puntuale sottovalutazione delle sue dimensioni.

La mafia è un’organizzazione che fa della violenza e dell’intimidazione il suo inconfondibile modus operandi. Eppure, quando vi ricorre, non lo fa mai in via gratuita, bensì in via di «extrema ratio». C’è sempre una finalità accessoria, quella di mandare dei «messaggi», tanto agli appartenenti quanto a soggetti esterni. Si dà fuoco a un escavatore per indurre l’impresa edile a non proseguire questi o quei lavori; si punisce indefettibilmente ogni «sgarro» commesso da un affiliato per garantire il rispetto del sistema di regole “interno” all’organizzazione – naturale effetto della controspinta psicologica.

«Chi tentenna di fronte alla necessità di uccidere è un uomo morto».

«…l’uomo d’onore non può permettersi il lusso di avanzare dubbi sulle modalità di un omicidio. O è in grado di eliminare la vittima designata con il massimo di efficienza e professionalità o non lo è. Punto e basta».

(Cap. I – Violenze)

Salvo rari casi – tra cui, ad esempio, quelli di Luigi D’Aquino e del boss Antonino Salomone – nessun uomo d’onore è mai rimasto indenne dopo essersi sottrattoall’ordine di omicidio proveniente dalla Commissione o dal capofamiglia. La maggiore o minore efferatezza dei metodi usati per uccidere (strangolamento e scioglimento nell’acido, lupara bianca, calibro 38, kalashnikov, stragi come quella di viale Lazio per l’eliminazione di Michele Cavataio, ritenuto dal ‘triumvirato’ Bontate, Badalamenti e Leggio il principale responsabile della prima guerra di mafia) non è in alcun modo correlata alla gravità della condotta a cui fanno séguito: «…non esistono categorie predeterminate di reazione ai diversi tipi di crimine. Né per quelli consumati all’interno dell’organizzazione né per quelli esterni».

L’uomo d’onore (e in particolare il “soldato”) uccide per acquisire credito agli occhi dei capi, ma paradossalmente anche essere uccisi («morire in piedi») è ragione di prestigio per i parenti dell’ucciso.

Non a caso la Sicilia è la culla di una «doppia morale» – o misoneismo, un misto di servo encomio e di malcelata riottosità – che il metodo mafioso esaspera fino alle estreme conseguenze.

«La tendenza dei siciliani alla discrezione, per non dire al mutismo, è proverbiale. Nell’ambito di Cosa Nostra raggiunge il parossismo. L’uomo d’onore deve parlare soltanto di quello che lo riguarda direttamente, solo quando gli viene rivolta una precisa domanda e solo se è in grado e ha diritto di rispondere. Su tale principio si basano i rapporti interni alla mafia e i rapporti tra mafia e società civile. Magistrati e forze dell’ordine devono adeguarsi

(Cap. II – Messaggi e messaggeri)

Per poter conoscere la mafia, magistrati e inquirenti devono saper anche padroneggiare la «griglia interpretativa dei segni». «Tutto è messaggio, tutto è carico di significato nel mondo di Cosa Nostra, non esistono particolari trascurabili. È un esercizio affascinante che esige tuttavia una attenzione sempre vigile. Tommaso Buscetta è un modello in questo campo e ho l’impressione che i nostri rapporti siano sempre stati in codice» (Cap. II).

Proprio Buscetta – ricorda Falcone – ha avuto un ruolo fondamentale nel consentire la piena comprensione da parte dei magistrati (e, in generale, dell’opinione pubblica) della struttura e dei meccanismi di funzionamento interno di Cosa Nostra: «Prima di lui, non avevo – non avevamo – che un’idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro. Ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, sulle tecniche di reclutamento, sulle funzioni di Cosa Nostra. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno. Ci ha dato una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice. È stato per noi come un professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza parlare con i gesti» (Cap. I).

Caso emblematico dell’importanza di conoscere questo linguaggio, e di saper interpretare la subcultura di cui è espressione, è quello – arcinoto – del pacchetto di sigarette che Buscetta avrebbe accettato da Falcone in quanto già aperto. Diversamente, se fosse stato un pacchetto nuovo o un’intera stecca, Buscetta avrebbe creduto – parole sue – che il giudice avesse voluto «umiliarlo». I magistrati devono stare attenti a cogliere i messaggi – sottili, laconici – lanciati uomini d’onore. Come le intimidazioni fatte passare a Falcone in interrogatorio dal boss di Ciaculli Michele Greco, o le missive anonime del “Corvo” inviate a Falcone e De Gennaro prima dell’episodio del mancato scoppio dei 58 candelotti di dinamite ai piedi della villa affittata da Falcone lungo la scogliera dell’Addaura (giugno 1989). Lettere che accusavano Falcone, insieme ad altri magistrati, di aver «manipolato» il pentito Salvatore Contorno per farlo tornare in Sicilia a «fare la guerra» ai Corleonesi.

Prosegue la recensione analitica del saggio scritto da Falcone nel 1991 con la collaborazione della giornalista francese Marcelle Padovani. Preziosa eredità letteraria che ci ha lasciato il magistrato, a ventinove anni dalla sua morte nella strage di Capaci e – va ricordato – a trentaquattro (tanti saranno nel 2021) dalla storica sentenza di condanna di primo grado nel maxiprocesso di Palermo a Cosa Nostra, istruito proprio da Falcone insieme a Borsellino e al pool di magistrati organizzato da Antonino Caponnetto.

Cosa Nostra – afferma Falcone – è un’organizzazione criminale che si regge essenzialmente sull’obbligo di «dire la verità». Perché la verità – soleva ripetere ai colleghi – rappresenta per l’uomo d’onore «”una regola di sopravvivenza quando è libero, e maggiormente quando non lo è più. Se l’obbligo di dire la verità in presenza di un uomo d’onore non è più rispettato dai mafiosi, è segno inequivocabile che o sarà lui a morire o sarà il suo interlocutore ad essere soppresso”» (Cap. II). Piuttosto di rivelare fatti che, se interpellato, sarebbe costretto a dire, il mafioso tace (in ciò consiste l’«omertà»). Se egli decide di dissociarsi e di collaborare con la giustizia, per Cosa Nostra diviene da quel momento un «infame», esposto quindi ai sentimenti di vendetta di altri uomini d’onore.

Un ruolo fondamentale, però, è giocato dal «prestigio» di cui il pentito eventualmente goda in seno all’organizzazione. Quando il «traditore» Tommaso Buscetta è interrogato dal presidente della Corte d’Assise di Palermo, a parlare non è solo un pentito: è un uomo al quale sono stati uccisi due figli in conseguenza della sua decisione di collaborare, e di denunciare un’organizzazione che secondo lui aveva “rinnegato” i suoi principi fondamentali. Nessuno dei presenti dubita che lì, in quell’aula Bunker, sia lui in realtà l’unico “vero” uomo d’onore. Questo spiega il silenzio assoluto dei Corleonesi rinchiusi nei gabbiotti.

Falcone fa poi l’esempio e riferisce aneddoti su molti altri pentiti: Salvatore Contorno, Antonino Calderone, il “soldato” di Stefano Bontate Francesco Marino Mannoia (detto ‘Mozzarella), i non affiliati Vincenzo Sinagra, “estraneo” a Cosa Nostra, e Nicolò Trapani, contrabbandiere e narcotrafficante palermitano stipendiato dalle famiglie catanesi e calabresi. Ma un ricordo va anche a Leonardo Vitale, il primo storico collaboratore di giustizia, le cui dichiarazioni, rilasciate nel 1973, avrebbero trovato riscontro undici anni dopo in quelle di Buscetta. Sul momento, però, Vitale non venne creduto a causa di alcune aberrazioni mentali che lo affliggevano (tra cui la coprofagia). Fu ucciso poco dopo esser stato dimesso dal manicomio nel 1984. La rievocazione della sua parabola di vita induce Falcone ad auspicare che la nuova legge sui pentiti, all’epoca appena approvata (il 16 marzo 1991), assicuri ai collaboratori di giustizia adeguate premialità e protezioni.

«Sono dunque diventato – scrive Falcone – una sorta di difensore dei pentiti perché, in un modo o nell’altro, li rispetto tutti, anche coloro che mi hanno deluso, come in parte Contorno. Ho condiviso la loro dolorosa avventura, ho sentito quanto faticavano a parlare di sé, a raccontare misfatti di cui ignoravano le possibili ripercussioni negative personali, sapendo che su entrambi i lati della barricata si annidano nemici in agguato pronti a far loro pagare cara la violazione della legge dell’omertà.»

(Cap. II – Messaggi e messaggeri)

Chi scrive qui è il Falcone “uomo”, prima ancora del “magistrato”. L’uomo che si “immedesima” nel «dramma umano» di ciascun pentito, trovando argomenti che lo “confortino” nella sua «ansia di parlare». «Ma non ingannandolo mai sulle difficoltà che lo attendono per il semplice fatto di collaborare con la giustizia». (Cap. II).

«Per quanto possa sembrare strano, la mafia mi ha impartito una lezione di moralità. Questa avventura ha anche reso più autentico il mio senso dello Stato. Confrontandomi con lo “Stato-mafia” mi sono reso conto di quanto esso sia più funzionale ed efficiente del nostro Stato e quanto, proprio per questa ragione, sia indispensabile impegnarsi al massimo per conoscerlo a fondo allo scopo di combatterlo

(Cap. II – Messaggi e messaggeri)

In proposito, non si deve dimenticare che Cosa Nostra si regge anche sull’osservanza (il più delle volte solo a livello di facciata) dei più austeri valori di vita (ad es., non tradire la propria moglie, non trarre profitto dalla prostituzione, non praticare gioco d’azzardo, ecc.).

«Un uomo che ha avuto più di una moglie o intrattiene relazioni extraconiugali note in pubblico, che non è quindi capace di autocontrollo sul piano sessuale e sentimentale, non è un uomo affidabile nemmeno sul piano “professionale”. L’unica donna veramente importante per un mafioso è e deve essere la madre dei suoi figli. Le altre “sono tutte puttane”.»

(Cap. III – Contiguità)

Ciò, d’altra parte, non impedisce al mafioso di compiere le azioni più nefande e, in generale, di vivere nella e della più completa «anomia». Non importa che il mafioso di sottecchi non si attenga al “codice”, intrattenga rapporti extraconiugali, o si dedichi ad affari “proibiti”: l’importante è che non si faccia notare. Questi sono i portati della nuova «cultura urbana e consumistica» sulla mentalità del mafioso, che pure si mantiene fedelmente ancorato ai «valori fondamentali» dell’organizzazione. In questo mix tra innovazione e tradizione, gli uomini d’onore hanno capito di doversi adattare in certa misura a una realtà in continuo mutamento. Fermo restando che da sempre, «in un mondo privo di punti di riferimento, i mafiosi tendono a conservare la loro identità».

Infatti, chiarisce Falcone, non esiste una “vecchia” mafia contrapposta ad una “nuova” e più violenta della prima. Esiste solo la mafia. La quale

«si caratterizza per la sua rapidità nell’adeguare valori arcaici alle esigenze del presente, per la sua abilità nel confondersi con la società civile, per l’uso dell’intimidazione e della violenza, per il numero e la statura criminale dei suoi adepti, per la sua capacità ad essere sempre diversa e sempre uguale a sé stessa

(Cap. IV – Cosa Nostra)

Dalla prima guerra di mafia ad oggi, Cosa Nostra ha conservato pressoché immutati i suoi caratteri. Quelli di un’organizzazione para-statale che, per quanto ancora restia a confondersi con il potere politico, tuttavia non esiterebbe (né, di fatto, ha mai esitato) a condizionarlo. E, se necessario, anche a impadronirsene, qualora le aspettative di profitto economico – sia illegale che legale – minacciassero di calare.

Ed eccola allora «farsi le leggi da sé», a cominciare dallo spostamento, in fase elettorale, di cospicui pacchetti di voti a favore dei candidati compiacenti verso questa o quella famiglia. O dall’infiltrazione diretta di suoi uomini all’interno di ambienti istituzionali – uomini non certo restii all’idea di interfacciarsi (il che è da sempre il tratto distintivo di Cosa Nostra) con quelli che ne costituiscono i massimi vertici. Ritorna così il tema della «doppiezza dell’anima siciliana», come la definisce Falcone: un «retaggio» della storia dell’isola, su cui il mafioso ha ricamato quasi una propria morale. Il mafioso

«[s]a perfettamente di dover vivere nell’ambito di strutture sociali, amministrative e politiche molto più forti della sua organizzazione, il che lo spinge a simulare cortesia, a mostrare una deferenza ipocrita. È l’atteggiamento di chi sa di trovarsi in situazione di inferiorità (in termini di strutture e di rapporti di forza, lo ripeto, non di valori), è consapevole che in caso di guerra – guerra vera – verrebbe inevitabilmente sconfitto e deve dunque accontentarsi della guerriglia, disporsi a subire la legge dominante. Appena la presenza dello Stato in Sicilia si indebolisce, il livello di scontro si alza. E il mafioso diventa più sicuro di sé, più convinto della propria impunità. Non dimentichiamo che la mafia è l’organizzazione più agile, duttile e pragmatica che si possa immaginare, rispetto alle istituzioni e alla società nel suo insieme.»

(Cap. III – Contiguità)

Per questo Cosa Nostra è sempre in cerca di consenso sociale. Stefano Bontate, ad esempio, negli anni ’70 si accreditò «agli occhi della popolazione locale» per aver ordinato di “far fuori” tutti i ladri del quartiere. Prima ancora, nelle campagne, il consenso era derivato alla mafia dalla cacciata dei «vecchi latifondisti» e dalla loro sostituzione con i «campieri», pagati dai mafiosi appositamente per sorvegliare la terra.

«Ma la mafia – chiosa Falcone – non è una società di servizi che opera a favore della collettività, bensì un’associazione di mutuo soccorso che agisce a spese della società civile e a vantaggio solo dei suoi membri. Mostra così il suo vero volto e si rivela per una delle maggiori mistificazioni della storia del Mezzogiorno d’Italia, per dirla con lo storico inglese Denis Mack Smith. Non frutto abnorme del solo sottosviluppo economico, ma prodotto delle distorsioni dello sviluppo stesso. A volte articolazione del potere, a volte antitesi dello Stato dominatore. E, comunque, sempre un alibi

(Cap. III – Contiguità)

È questa la mafia che colpisce e, in certo modo, “affascina” Giovanni Falcone. Sarebbero occorsi altri due anni prima dell’arresto di Totò Riina. E quindici prima della cattura del superlatitante Bernardo Provenzano, dopo che già nell’ottobre del 1995 lo Stato lo aveva in pugno in un casolare a Mezzojuso, dove si era rifugiato. Luogo che il confidente Luigi Ilardo aveva indicato al colonnello dei Carabinieri Michele Riccio, e che solo per ordine del comandante del Ros Mario Mori (condannato in primo grado a 12 anni nel processo sulla Trattativa il 20 aprile 2018) si rinunciò all’ultimo ad espugnare.

Con riguardo poi alla preoccupante crescita delle mafie in una dimensione sempre più globale, abbiamo avuto processi e sentenze che certificano il radicamento delle organizzazioni criminali nelle regioni del Centro-Nord Italia, il dilagare della ‘Ndrangheta in Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Valle d’Aosta, Piemonte e Toscana, il traffico illecito di rifiuti nella Terra dei Fuochi del Nord tra bergamasco e bresciano, e abbiamo il processo sulla Trattativa-Stato Mafia, in cui per la prima volta sono stati condannati in primo grado, insieme ai mafiosi, alcuni pezzi deviati dello Stato.

Oggi alla mafia non resta più nulla dell’originaria sicilianità. A Giovanni Falcone era ben noto dalle indagini bancarie (in primis quelle con cui istruì il processo Spatola del 1979) quanto la mafia “fatturasse” con il traffico di droga. E gli era noto come i mafiosi, pur disponendo delle competenze per svolgere loro stessi attività di impresa, tuttavia prediligessero la via del parassitismo per ragioni di mera convenienza: ormai la mafia si limita a riscuotere il pizzo senza più nemmeno (far credere di) assicurare protezione alla “povera gente“.

Alessandro Girardin WordNews 


Marcelle Padovani: “L’eredità di Falcone non è perduta”

23/05/2022  La giornalista francese cui Giovanni Falcone affidò la sua testimonianza raccolta nel libro “Cose di cosa nostra” è tornata a scrivere di lui: “Allora ebbi la sensazione di fare una cosa storica, oggi scrivo per dire che sarà pur vero che l’Italia ha inventato la mafia ma anche il modo di contrastarla”

Cose di cosa nostra è il libro scritto a quattro mani con Marcelle Padovanicon cui Giovanni Falcone nel 1991 quando era solo ed esposto, ha raccontato la mafia al mondo. Quel libro è ancora una pietra miliare per capire il lavoro di Giovanni Falcone. In qualche modo è stato il suo testamento professionale.

Marcelle, quanta consapevolezza c’era nel momento in cui lo scrivevate che avrebbe potuto essere anche questo?

«L’ho scritto in francese e lui lo ha corretto in italiano, in verità con pochissime correzioni. Devo dire che io quando ho cominciato queste conversazioni con Falcone e mi sono messa a scrivere, nell’agosto 1991 avevo coscienza di fare una cosa storica, ero convinta che quest’uomo avesse capito Cosa nostra, le mafie e come si contrastano. Avevo l’impressione di avere un compito fortissimo e ce l’ho messa tutta. A quel punto lui l’ha letto, ha fatto qualche correzione, ma non è che mi abbia fatto dei grandi complimenti, mi ha detto solo: “abbiamo lavorato bene”. Per me quel giudizio è stato una grande ricompensa. L’impressione mia, soggettiva, è che lui vedesse questo libro come se si fosse liberato di qualcosa, mi è sembrato che ci fosse una specie di sollievo nel fatto di aver formulato delle possibili soluzioni ai problemi, non so se si possa dire che avesse consapevolezza di fare un testamento, ma si è reso conto di aver detto cose autentiche che lo avevano liberato di un peso».

In quel momento era esposto e criticato non sarà stato facile conquistarne la fiducia, convincerlo a scrivere. Com’è andata?

«Non ho fatto una grande fatica, ho seguito il suo lavoro dal 1983 quando l’ho conosciuto fino alla fine della sua vita: ho seguito attentamente le evoluzioni delle mafie in Italia e la nascita dell’antimafia per Le nouvel observateur, gli mandavo sistematicamente tutto quanto scrivevo: penso che questo mi abbia fatto percepire come affidabile, capace di capire e di riferire. Si trattava di un rapporto solo professionale. Quando nel febbraio 1991 mi ha detto che sarebbe venuto a Roma a fare il direttore degli affari penali al Ministero della Giustizia. Io ho pensato subito al libro: mi son detta avrà un tempo sospeso in attesa del nuovo incarico. E ho rilanciato: vogliamo fare il libro? Lui mi ha guardata in un modo un po’ perplesso, il giorno dopo per fax gli ho mandato una specie di struttura del libro, chiedendogli di esaminarli. Mi ha risposto che era interessato, io ho chiamato il mio editore a Parigi che è venuto con un contratto già pronto e in 10 giorni in tutto abbiamo concluso, per dire che per fortuna sono stata molto reattiva e lui ha risposto a questa mia iniziativa».

Trent’anni dopo Marcelle Padovani è tornata a scrivere di lui, della sua eredità, un libro controcorrente: che cosa ha lasciato?

«Vedendo quante cose sono uscite mi rammarico di averlo fatto ora. Ho voluto raccontare la sua eredità, il metodo di indagine ma anche la straordinaria antimafia italiana come legislazione come capacità repressiva e come capacità di contrasto: ho voluto dare un giudizio molto positivo sulla lotta alla mafia, contrariamente a quanto da un paio di anni dice la vulgata a proposito della magistratura italiana». Che cosa l’ha convinta a questo libro di speranza? «Non è una scelta ideologica, ma la scelta di una persona che vive nel laboratorio italiano da quarant’anni e che ha potuto verificare che in momenti molto critici l’Italia ha le risorse per inventare delle cose: sarà anche vero che l’Italia ha inventato la mafia ma ha inventato anche gli strumenti a contrasto: l’antimafia».

Non quella delle parole, ma quella dei fatti, degli strumenti di indagine, della conoscenza del fenomeno e anche di tutto il lavoro serio che sarebbe ingrato buttare con l’acqua sporca degli scandali da Palamara in giù e in su. Senza andare nei dettagli, Marcelle Padovani fa capire benissimo che questa brutta storia che non le piace, come non le piacciono gli eredi di Falcone che non perdono occasione per autoproclamarsi tale, non è tutta la storia.