Biografia di Paolo Borsellino

 

Paolo Borsellino nasce a Palermo il 19 gennaio 1940 in una fami- glia borghese, nell’antico quartiere di origine araba della Kalsa. En- trambi i genitori sono farmacisti. Al momento dello sbarco degli al- leati in Sicilia la madre di Borsellino vieta ai figli di accettare qual- siasi dono dai soldati americani. “La Patria è sconfitta, i sacrifici sono stati inutili, non c’è da essere felici…” è una delle frasi della madre di Borsellino in quel momento.

Paolo frequenta il Liceo classico “Meli” e si iscrive presso la facoltà di Giurisprudenza di Palermo: all’età di 22 anni consegue la laurea con il massimo dei voti. Pochi giorni dopo la laurea subisce la per- dita del padre. Prende così sulle sue spalle la responsabilità di prov- vedere alla famiglia. Si impegna con l’ordine dei farmacisti a tenere l’attività del padre fino al conseguimento della laurea in farmacia della sorella. Con piccoli lavoretti e lezioni private sostiene gli studi per il concorso in magistratura che supera nel 1963. Fare il magi- strato a Palermo ha un senso profondo, non è una professione qua- lunque. L’amore per la sua terra, per la giustizia gli danno quella spinta interiore che lo porta a diventare magistrato senza trascurare i doveri verso la sua famiglia.

Nel 1965 è uditore giudiziario presso il tribunale civile di Enna. Due anni più tardi ottiene il primo incarico direttivo: Pretore a Ma- zara del Vallo nel periodo successivo al terremoto.

Si sposa alla fine del 1968 e nel 1969 viene trasferito alla pretura di Monreale dove lavora in stretto contatto con il capitano dei Carabi- nieri Emanuele Basile.

È il 1975 quando Paolo Borsellino viene trasferito al tribunale di Palermo; a luglio entra all’Ufficio istruzione processi penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Con il Capitano Basile lavora alla prima indagine sulla mafia: da questo momento comincia il suo grande impegno, senza sosta, per contrastare e sconfiggere l’organizzazione mafiosa.

A partire dal 1980 il consigliere istruttore Rocco Chinnici dà vita ad un’intensa azione investigativa volta ad attaccare il cuore del potere mafioso, cioè i legami tra l’organizzazione militare Cosa Nostra e la cosiddetta borghesia mafiosa. Chinnici svolge questa innovativa at- tività istruttoria coordinando magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ed avvalendosi della preziosa collaborazione di co- raggiosi ufficiali di Polizia quali Ninni Cassarà e Beppe Montana. I magistrati dell’Ufficio Istruzione di Palermo pretendono l’intervento dello Stato perché si rendono conto che il loro lavoro, da solo, non basta. Borsellino lavora senza sosta, firma provvedi- menti, indaga, ascolta con dedizione e responsabilità. Per questo Chinnici scrive una lettera al presidente del tribunale di Palermo per sollecitare un encomio nei confronti suoi e di Giovanni Falcone, importante per eventuali incarichi direttivi futuri. A proposito di Borsellino così scrive Chinnici: “Magistrato degno di ammirazione, dotato di raro intuito, di eccezionale coraggio, di non comune senso di responsabilità, oggetto di gravi minacce, ha condotto a termine l’istruzione di procedimenti a carico di pericolose associazioni a de- linquere di stampo mafioso”. L’encomio richiesto non è mai arriva- to.

Il 4 maggio 1980 il capitano Basile viene ucciso in un agguato. Nel- lo stesso anno per la famiglia Borsellino arriva la prima scorta con le difficoltà che ne conseguono. Da questo momento il clima in casa Borsellino cambia: il giudice deve relazionarsi con i ragazzi della scorta che gli sono sempre a fianco e che cambieranno per sempre le sue abitudini e quelle della sua famiglia. Dalle parole della mo- glie si può comprendere il rispetto e la sofferenza che si alternano nei loro cuori: “…Il suo modo di esercitare la funzione di giudice lo condivido perché anch’io credo nei valori che lo ispirano… Non penso mai, per egoismo, per desiderio di una vita facile di ostacolar- lo… Non è stato un sacrificio immolare la sua vita al mestiere di giudice: ama tantissimo cercare la verità, qualunque essa sia.”

Il 29 luglio 1983 il giudice Rocco Chinnici viene ucciso a Palermo con un’autobomba. Il giudice Antonino Caponnetto decide di rac- cogliere la scomoda eredità di Chinnici e presenta domanda al CSM che accoglie la richiesta e nomina Caponnetto Consigliere Istruttore a Palermo all’inizio del novembre 1983. Caponnetto prosegue l’attività istruttoria di Chinnici e dà vita al pool antimafia di Paler- mo chiamando al suo fianco i magistrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. Il metodo di lavoro del pool si basa sulla circolazione delle informazioni e sulla condivisione delle responsabilità. I frutti di questo nuovo approccio nella lotta Cosa Nostra non tardano ad arrivare. Nel 1984 si pente Tommaso Buscetta e sfruttando appieno la sua collaborazione, i magistrati del pool istruiscono il cosiddetto maxiprocesso che co- mincia nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo il 10 febbraio 1986. 474 imputati vengono rinviati a giudizio per i reati di associazione mafiosa, omicidio, estorsione e traffico di droga. Il processo termina il 16 dicembre 1987 con la condanna di 360 impu- tati e la piena conferma dell’impianto accusatorio istruito dal pool. Questa sentenza rappresenta la prima significativa vittoria processu- ale dello Stato nella lotta alla mafia.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono consapevoli che una buona parte della forza di Cosa Nostra risiede nelle province sicilia- ne. Pochi mesi dopo l’inizio del maxiprocesso, Borsellino chiede il trasferimento da Palermo per ricoprire l’incarico di Procuratore Ca- po a Marsala e riceve la nomina il 19 dicembre 1986. A Marsala vi- ve in un appartamento nella caserma dei Carabinieri per risparmiare gli uomini della scorta. In suo aiuto arriva Diego Cavaliero, magi- strato di prima nomina, lavorano tanto e con passione. Sempre fian- co a fianco, Borsellino è un esempio per il giovane, non si risparmia mai. Altri giovani sostituti si formeranno a Marsala sotto la guida di Borsellino: tra questi Antonio Ingroia ed Alessandra Camassa.

Nel 1987 Antonino Caponnetto è costretto a lasciare la guida del pool di Palermo per motivi di salute. Tutti a Palermo attendono la nomina di Giovanni Falcone al posto di Caponnetto, anche Borsel- lino è ottimista. Ma il CSM non è dello stesso parere ed il 18 genna- io 1988 nomina a stretta maggioranza Antonino Meli quale succes- sore di Caponnetto, giustificando la decisione con la maggiore an- zianità di servizio di Meli rispetto a Falcone. L’impostazione che Meli imprime all’Ufficio Istruzione è diametralmente opposta a quella di Caponnetto: la visione di Cosa Nostra come organizzazio- ne unitaria con vertice a Palermo e diramazioni sul territorio viene nei fatti negata ed i singoli procedimenti per reati di stampo mafioso vengono frammentati fra diversi Uffici Istruzione. La circolazione di informazioni all’interno del pool palermitano viene meno e quel delicatissimo congegno investigativo entra in stato di stallo. Borsellino avverte subito la gravità del problema, si rende conto che il fruttuoso metodo di lavoro inaugurato da Caponnetto rischia di venire demolito per sempre e denuncia pubblicamente la pericolosi- tà della situazione: nel luglio del 1988 il Magistrato rischia il prov- vedimento disciplinare per aver denunciato lo smantellamento del metodo investigativo del pool alla stampa. Anche all’interno della magistratura le resistenze nei confronti del metodo del pool antima- fia sono fortissime. Il Presidente della Repubblica Francesco Cossi- ga interviene in appoggio a Borsellino chiedendo di indagare sulle sue dichiarazioni per accertare cosa stia accadendo nel palazzo di giustizia palermitano. Il CSM procede nell’agosto dello stesso anno ad una serie di audizioni sia di Borsellino che dei magistrati dell’Ufficio Istruzione di Palermo, ma la decisione finale del Plenum lascia di fatto lo stato delle cose inalterato: da un lato il CSM riprende Borsellino per essersi rivolto alla stampa ma non di- sconosce la fondatezza della sua denuncia. Dall’altro conferma Meli alla guida dell’Ufficio Istruzione di Palermo invitandolo ad una maggior collaborazione con i suoi colleghi.

Giovanni Falcone, sempre più ostacolato nel suo lavoro di magistra- to a Palermo, decide di trasferirsi nel marzo 1991 a Roma e di as- sumere l’incarico di Direttore degli affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia. Si fa quindi promotore di una serie di efficaci provvedimenti antimafia ed in particolare di un disegno di legge che prevede l’istituzione della Direzione Nazionale Antimafia (DNA) − la cosiddetta Superprocura − e della Direzione Investigativa Anti- mafia (DIA), due strutture ispirate all’esperienza del pool di Capon- netto ed al modello organizzativo delle autorità preposte al contrasto della criminalità organizzata negli Stati Uniti.

Si sente la necessità di coinvolgere le più alte cariche dello Stato nella lotta alla mafia. La magistratura da sola non può farcela, con Falcone a Roma si ha un appoggio in più: Borsellino decide nel di- cembre 1991 di tornare a Palermo, lo seguono il sostituto Antonio Ingroia e il maresciallo Carmelo Canale. Maturati i requisiti per es- sere dichiarato idoneo alle funzioni direttive superiori − sia requi- renti che giudicanti − Paolo Borsellino chiede e ottiene di essere trasferito alla Procura della Repubblica di Palermo con funzioni di Procuratore Aggiunto. Grazie alle sue indiscusse capacità investiga- tive, Borsellino è delegato al coordinamento dell’attività dei Sosti- tuti facenti parte della Direzione Distrettuale Antimafia. Tuttavia il procuratore capo Pietro Giammanco assegna a Borsellino il coordi- namento delle indagini antimafia relative alle sole province di Agri- gento e Trapani, senza affidargli lo stesso ruolo per Palermo. Borsellino ricomincia a lavorare con l’impegno e la dedizione di sempre. Nuovi pentiti e nuove rivelazioni confermano il legame tra mafia e politica. “I rapporti tra mafia e politica? Sono convinto che ci siano − dice Borsellino − e ne sono convinto non per gli esempi processuali, che sono pochissimi, ma per un assunto logico: è l’essenza stessa della mafia che costringe l’organizzazione a cercare il contatto con il mondo politico. È maturata nello Stato e nei politici la volontà di recidere questi legami con la mafia? A questa volon- tà del mondo politico non ho mai creduto”.

Nella primavera del 1992 le inchieste giudiziarie condotte a Milano ed in altre città della penisola portano alla luce un diffuso sistema di corruzione che vede protagonisti esponenti di vertice dei partiti poli- tici di maggioranza. Le elezioni politiche del 5 aprile confermano il calo di credibilità dei referenti politici di governo presso l’elettorato. In Parlamento non si trova un accordo sulla nomina del nuovo Presidente della Repubblica, essendosi dimesso Francesco Cossiga il 26 aprile. Nel pieno di questa grave crisi istituzionale, il 23 maggio 1992, Giovanni Falcone viene ucciso nella strage di Ca- paci insieme alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Di Cillo ed Antonio Montinaro.

Una parte di Paolo Borsellino muore quello stesso giorno con Fal- cone al quale era legato da un fortissimo rapporto di amicizia. Dalle prime indagini nel pool, alle serate insieme, alle battute per sdram- matizzare, ai momenti di lotta più dura quando insieme sembravano “intoccabili”, al periodo forzato all’Asinara fino al distacco per Roma. Una vita speciale, quella dei due amici-magistrati, densa di passione e di amore per la propria terra. Due caratteri diversi, com- plementari tra loro, uno un po’ più razionale l’altro più passionale, entrambi con un carisma, una forza d’animo ed uno spirito di abne- gazione esemplari.

Ad un mese dalla morte dell’amico Falcone, tra le fiaccole e con molta emozione Borsellino parla di lui, cerca di raccontarlo: “Per- ché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione… per amore. La sua vita è stata un atto d’amore verso questa città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattut- to ed essenzialmente dare, per lui, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professio- nali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene… Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo, continuando la loro ope- ra… dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo”.

Pochi giorni dopo la strage di Capaci il ministro degli interni Vin- cenzo Scotti offre in maniera impropria ed improvvisa a Paolo Bor- sellino di prendere il posto di Falcone come candidato alla Super- procura. Borsellino rifiuta sebbene sia consapevole che quella sia l’unica maniera che ha per condurre in prima persona le indagini sulla strage. Così risponde in una lettera privata al ministro: “La scomparsa di Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento…” Resta a Palermo, nella procura dei veleni per continuare la lotta alla mafia, diventando sempre più consapevo- le che qualcosa si è rotto. Spesso i pentiti hanno chiesto di parlare con Falcone o con Borsellino perché sapevano di potersi fidare, per- ché ne conoscevano le qualità morali e l’intuito investigativo. Il pentito Gaspare Mutolo chiede espressamente di parlare con Borsel- lino, ma inizialmente il procuratore capo Pietro Giammanco rifiuta a Borsellino la delega, mettendo pesantemente a rischio la scelta collaborativa di Mutolo. Solo in seguito ad uno scontro molto acce- so Giammanco concede la delega a Borsellino, ma a patto che tutti gli interrogatori siano condotti in presenza di un altro magistrato, il dott. Vittorio Aliquò, che veste i panni di mediatore tra i due.

Paolo Borsellino lavora in modo massacrante in quelle che saranno le sue ultime settimane di vita. Il magistrato conduce numerosi col- loqui con collaboratori di giustizia che gli aprono scenari devastanti sulle complicità di pezzi delle Istituzioni con Cosa Nostra. Allo stesso tempo Borsellino è perfettamente consapevole che la sua condanna a morte è divenuta esecutiva e che il tritolo per lui è già arrivato a Palermo. Borsellino teme per gli altri, per la sua famiglia, per i ragazzi della scorta, è molto protettivo con i suoi collaboratori e con la sua famiglia. Nonostante l’intensificarsi delle minacce e la certezza che le sue scelte gli sarebbero costate la vita, Borsellino continua senza pausa ad impegnarsi nel suo lavoro. “Sto vedendo la mafia in diretta”, dice alla moglie Agnese negli ultimi giorni di vita. Ed ancora: “Quando sarò ucciso, sarà stata la mafia ad uccidermi, ma non sarà stata la mafia ad aver voluto la mia morte”.

Il 19 luglio 1992 Borsellino si reca a Villagrazia di Carini per rilas- sarsi. Si distende, va in barca con uno dei pochi amici rimasti. Dopo pranzo torna a Palermo per accompagnare la mamma dal medico: l’esplosione di un’autobomba sotto la casa di via D’Amelio strappa la vita al giudice Paolo Borsellino e agli uomini della sua scorta. Con il giudice perdono la vita gli agenti di scorta Agostino Catalano (43 anni), Vincenzo ‘Fabio’ Li Muli (22 anni), Eddie Walter Cosina (31 anni), Claudio Traina (22 anni) ed Emanuela Loi (24 anni), pri- ma donna poliziotto a essere uccisa in un attentato di mafia. 19Luglio1992.it