DIALOGO CON ISAIA SALES
Attorno allo studio e all’analisi delle mafie imperversano ormai da tempo le più disparate opinioni. Dopo anni di silenzio e spesso negazione dei fenomeni criminali, si è giunti all’estremo opposto: un’ampia gamma di “parole in libertà” che poco hanno a che vedere con lo studio ragionato, l’analisi sul campo fatta incrociando dati economici ed anche i risultati delle inchieste della magistratura, ma non solo. Ormai ci si ferma al primo titolo sui giornali di un’inchiesta e poi tutto cade nel dimenticatoio, perché per un processo ci vogliono anni. Perché non tutte le operazioni raccolgono interesse, quelle più complesse e che incidono sui territori sono le prime ad essere dimenticate.
Lo studio delle mafie è, quindi, soprattutto uno studio storico che non lascia nulla al caso, in cui ogni dato è fondamentale. I dati probabilmente sono meno affascinanti delle opinioni, ma sono, però, veri. Dialogare con il professore Isaia Sales, vuol dire avere la possibilità di ascoltare una vera e propria lectio magistralis non solo sulle mafie, ma sulla storia dell’Italia, dei suoi poteri e le sue relazioni, della sua società. E dai dati vengono estrapolati contesti e lucidità di pensiero che ricompongono una storia che si vuole frammentata e divisa. Isaia Sales insegna “Storia delle mafie” all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, saggista, editorialista, è stato tra l’altro sottosegretario al Ministero del Tesoro.
In un suo recente scritto ho trovato un passaggio a dir poco illuminante e soprattutto che pone un punto fondamentale: «I mafiosi sono i primi criminali nella storia che hanno trasformato la loro violenza in potere stabile, attraverso le relazioni intrecciate con coloro che avrebbero dovuto isolarli, contrastarli e reprimerli». Questa saldatura è ancora presente e cosa fare per spezzarla?
Avverto da tempo un disagio profondo verso il «racconto» dominante sulle mafie. Nonostante i notevolissimi passi in avanti fatti negli ultimi decenni sul piano del contrasto, sul piano della reazione delle popolazioni interessate, sul piano della consapevolezza generale del pericolo che esse rappresentano, la narrazione è rimasta pressoché immutata. La storia delle mafie viene raccontata come storia separata dalle vicende fondamentali che hanno caratterizzato il formarsi della nazione italiana, quasi come storia a parte, come “altra” storia, che si affianca a quella ufficiale ma non si mischia mai con essa. Ma in questo modo, se sono inconciliabili e incompatibili le due storie, diventa pressoché impossibile spiegarci il successo plurisecolare delle mafie.
Infatti, questo successo lo si può forse spiegare semplicemente con la forza militare che le mafie esercitano sui territori che controllano? È questa una ipotesi che non regge storicamente. I pirati e i briganti erano molto più organizzati sul piano militare rispetto ai mafiosi. I pirati avevano a disposizione navi attrezzate con cannoni ed erano armati fino ai denti. I briganti erano organizzati come eserciti regolari e affrontavano i militari italiani in scontri armati, in vere e proprie battaglie campali. No, le mafie non sono eserciti che occupano un territorio con le armi, anche se hanno a loro disposizione migliaia di affiliati che le sanno ben usare. Sicuramente la loro durata plurisecolare non è dovuta alla forza militare.
E allora, le mafie debbono il loro successo storico al consenso popolare? Neanche questa spiegazione regge. I briganti, ad esempio, hanno goduto di un consenso popolare di gran lunga più vasto di quello dei mafiosi, di cui sono ancora oggi testimonianza canzoni, aneddoti, racconti, favole; eppure, sono finiti.
Il mafioso è nella storia il superamento del bandito, del brigante e del pirata. Egli ha successo permanente perché si relaziona con il potere costituito e non si contrappone ad esso, sia sul piano politico, sia su quello economico che su quello sociale. Questa la spiegazione. La storia del successo delle mafie, direbbe Sciascia, è in fondo “una storia semplice”.
In genere, nelle società moderne la violenza privata viene associata a scontro, contrapposizione, guerra. Quella mafiosa, lo ripeto, non è violenza di contrapposizione o di scontro con lo Stato, non è violenza antistatuale e antisistema ma è una violenza “interstatuale”, non è esterna alla società e alle Istituzioni né viene esercitata solo con le armi in mano, è dentro, interna. Negli Stati moderni nessuna forma di potere, soprattutto se violento, può affermarsi, consolidarsi, durare tanto a lungo se non è in relazione permanente con il potere ufficiale e istituzionale. Nessun potere extra-istituzionale può vivere e sopravvivere in contrapposizione con quello statuale. Se le mafie, quindi, durano da due secoli, ciò vuol dire che esse non hanno rappresentato un potere alternativo e contrapposto a quello ufficiale, ma un potere relazionato con esso. Queste relazioni sono state diverse nel tempo, si sono allentate o rafforzate a seconda del contesto, delle circostanze, dei rapporti di forza, del grado di consenso sociale riscosso, ma sicuramente sono interne alla storia dei poteri in Italia.
La storia delle mafie, dunque, è nei fatti storia dei rapporti che parte della società ha stabilito, nel tempo, con i fenomeni criminali e viceversa. La forza delle mafie sta nelle relazioni con coloro che avrebbero dovuto combatterle. Senza queste relazioni, senza questi rapporti le mafie non sarebbero tali, non sarebbero durate tanto a lungo, non peserebbero come un macigno sul passato, sul presente e sul futuro dell’Italia.
Oggi queste relazioni sono meno stabili a livello nazionale che locale, rispetto al periodo precedente, ma esistono ancora. Se non si spezzano queste relazioni, non ce la faremo mai a sconfiggere le mafie.
Uno dei suoi libri più importanti, dal mio punto di vista, è Storia mafiosa dell’Italia; partendo dal presupposto che se le mafie sono così connesse alla nostra storia, si deve studiare una storia che le comprenda e che spieghi quanto esse abbiano influito. Questo suo appello è stato raccolto, si vuole veramente affrontare questo tema che pone la nostra Democrazia davanti a domande molto scomode?
Purtroppo no. Ancora oggi tra gli storici italiani si fa fatica a comprendere che quando fenomeni criminali durano tanto a lungo, quando essi rompono facilmente l’argine entro il quale si pensava fossero storicamente e socialmente confinati, e quando tutti i tentativi di reprimerli o di ridimensionarli si sono dimostrati inefficaci o non definitivamente risolutivi, ciò vuol dire che le mafie non sono riducibili solo a “storia criminale”, ma fanno parte a pieno titolo della storia italiana. Perché se fossero solo criminalità organizzate, sarebbero state da lungo tempo sconfitte o ridimensionate, come è avvenuto nel corso della storia per tutte le forme criminali che si sono contrapposte alle Istituzioni vigenti, appunto come è successo con i banditi, i pirati e i briganti. Se dopo due secoli dalla loro nascita in Italia ciò non è ancora avvenuto, vuol dire che le ragioni del loro successo non si possono rintracciare solo nelle qualità criminali ma nell’intreccio di queste qualità con le vicende storiche delle classi dirigenti italiane e del loro concreto operare nella costruzione della nazione.
Il Sud non è altra cosa dall’Italia, non è un mondo isolato, ha e ha avuto relazioni stabili con la storia d’Italia, che ha influenzato e da cui è stato influenzato.
Confrontando i delitti tra Italia e l’Europa la differenza consiste proprio in questo: che in Sicilia e nelle altre regioni a presenza mafiosa il delitto si iscrive dentro una strategia del potere, in altre parti risponde quasi sempre solo a un obiettivo specificamente delinquenziale.
Non si capiscono, certo, le mafie senza uno sguardo attento al contesto in cui sono nate, ma non si dà loro la giusta dimensione storica se non si guarda alla nazione, alla sua formazione e all’insieme delle sue classi dirigenti, quelle che hanno sostenuto i mafiosi e quelle che ne hanno accettato i voti e il sostegno. Se le mafie sono un prodotto di una parte della Sicilia, di una parte della Campania, di una parte della Calabria, esse debbono il loro successo alle modalità con le quali questi territori sono stati integrati nello Stato-nazione e alla reciproca influenza tra economia locale e nazionale, tra classi dirigenti locali e nazionali. Se il contesto socio-politico sotto i Borbone le hanno fatte nascere, esse si sono consolidate e sono assurte a protagoniste della storia nazionale dopo l’Unità. Era nelle possibilità del nuovo Stato di renderle un residuo borbonico e feudale, e invece le ha fatte diventare soggetti influenti sulla storia nazionale.
Se non è giusto considerare le mafie, dunque, come un risultato dell’Unità d’Italia, è più che giusto ricordare che l’unificazione italiana non è riuscita a superarle, anzi le ha ulteriormente legittimate. La classe che proteggeva i mafiosi sosteneva i governi nazionali, e i governi nazionali erano così consapevoli di questo sostegno che mai hanno ingaggiato una battaglia frontale contro i mafiosi. Le mafie hanno avuto bisogno che si formasse lo Stato nazionale per assumere un ruolo centrale che prima non erano riuscite a svolgere completamente sotto i Borbone. Il nuovo Stato e le sue classi dirigenti sentirono come una necessità governare il Sud servendosi degli ordinamenti in essere in quei territori (comprese le mafie) e riconoscendoli ufficiosamente. Il disprezzo che molti di essi provavano verso i ceti dirigenti e possidenti meridionali non li spingeva a rifiutarne l’alleanza.
L’Unità d’Italia, dunque, consentì a fenomeni legati alla sopravvivenza di ordinamenti feudali di transitare nel nuovo assetto statuale. Era una legittimazione di necessità senza la quale non si sarebbe formata la nazione. L’Unità d’Italia, e in particolare il modo in cui si stabilirono i rapporti tra classe dirigente del Nord e quella del Sud, ha consentito l’influenza delle mafie nella storia politica ed elettorale del nostro Paese. Ma abbiamo dovuto attendere il 1982 (più di un secolo dopo l’Unità d’Italia) per varare una prima normativa antimafia degna della nazione che più di ogni altra aveva prodotto e allevato questa particolare criminalità. Forse le mafie possono essere considerate come il più grande insuccesso della storia unitaria dell’Italia.
Le mafie sono diventate irrimediabilmente una risposta economica alle dinamiche del mercato? Cosa vede nell’orizzonte temporale dei prossimi anni?
Che lo saranno ancora di più. La violenza, con i mafiosi, è entrata a pieno titolo nelle relazioni di mercato facendosi beffa delle sue presunte regole “morali”, che cioè il mercato è uguale a democrazia, che il mercato è contrapposto a illegalità, che la criminalità è distruttrice di ricchezza, secondo i canoni classici del capitalismo moderno dettati da Adam Smith e John Stuart Mill.
È l’ipocrisia sulle regole del mercato che ha tenuto nascosto che anche nelle economie produttive le forze violente non sono respinte di per sé ai margini, non c’è contrapposizione tra mercato e violenza, tra economia legale e illegale. L’economia criminale è contro le leggi degli Stati, ma non contro quelle dei mercati. L’economia è molto più aperta della rigida regolazione della legge. Si può fare economia anche fuori o addirittura contro la legge: le mafie ne sono la più autentica e duratura dimostrazione.
Principalmente tre fattori hanno portato all’“esplosione” odierna della questione criminale.
A) Il monopolio del traffico di droghe, una attività economica che non ha pari per profitti con nessun’altra merce legale e illegale. Aver lasciato nelle mani dei mafiosi la gestione di un traffico del genere a causa del proibizionismo si è rivelato, al di là di qualsiasi altra considerazione, un’opportunità straordinaria di crescita economica per le mafie ben superiore di quella offerta dall’alcool negli Usa alla mafia statunitense. Il traffico delle droghe ha radicalmente modificato la disponibilità economica dei criminali come nessun altro affare nella storia della criminalità e, dunque, è stata questa circostanza a determinare la fase attuale del potere delle mafie in Italia e nel mondo. Sarebbe assurdo non tenerne conto negli studi e nelle soluzioni da adottare per sconfiggerle.
B) La globalizzazione dell’economia, e la sua progressiva finanziarizzazione, ha consentito anche ai criminali mafiosi di fare soldi con i soldi (avendone accumulati molti). La finanziarizzazione dell’economia si è mostrata assolutamente congeniale alle caratteristiche “imprenditoriali” dei mafiosi e al riuso dei loro capitali. Le mafie sono, perciò, tra le forze protagoniste dell’attuale fase della finanziarizzazione dell’economia. Per detenere un ruolo economico importante non basta il controllo del traffico di droghe, ma servono un meccanismo, un metodo, un’opportunità che permettano un riuso dei profitti illecitamente acquisiti. Dentro il vecchio ordine finanziario le mafie non avrebbero potuto ottenere questa chance, almeno nelle proporzioni in cui è possibile oggi. Senza la possibilità di riciclare i proventi delle droghe con i meccanismi usati abitualmente per nascondere la ricchezza, sottrarla alle tasse o utilizzarla senza passare per la produzione di beni, sarebbe stato per le mafie enormemente più complicato riutilizzare i loro capitali. Tutto ciò è avvenuto in maniera accelerata a partire dagli ultimi due decenni del XX secolo quando le mafie hanno sempre più strutturato le operazioni su scala transazionale, il peso attuale della criminalità mafiosa nell’economia mondiale è elemento stabile della globalizzazione. Anche chi non lo considera un prodotto della globalizzazione, non può comunque non considerarlo un problema serissimo della globalizzazione.
C) L’assonanza tra regole opache dall’attuale funzionamento dell’economia e alcuni valori imprenditoriali delle mafie. La crescita della criminalità mafiosa non sembra sia stata ostacolata dall’economia legale. Nella dimensione imprenditoriale non esiste un confine sicuro, certo e invalicabile tra attività legali e quelle illegali. E non basta la morale o la religione a porli. L’economia legale non scaccia automaticamente l’economia illegale e criminale, tra le due non c’è totale incompatibilità, l’una non contrasta l’altra, anzi, la convivenza sembra essere la caratteristica del loro rapporto. L’inconciliabilità tra economia legale ed economia illegale sembra essere una pia aspirazione del pensiero economico classico, più che una certezza scientifica. Nella prassi la compatibilità e un loro reciproco adattamento sembrano prevalere.
La parola antimafia ha ancora un senso, non è stata usata troppe volte come un vestito di comodo per giungere ad altre mete, svilendo di fatto il senso stesso di uno dei pilastri del nostro Paese?
Certo, quando posizioni assolutamente minoritarie si trasformano, sulla base di tempi nuovi, in posizioni maggioritarie, possono degenerare come tutte le forme di potere. Ma va sempre ricordato che la lotta antimafia non è un pallino di orde di fanatici che si sono inventati un pericolo che non c’è o che l’hanno ad arte esagerato.
La mafia c’è, le mafie ci sono e hanno un ruolo ancora forte e invasivo, e non più soltanto nel Sud d’Italia. Un processo di “nazionalizzazione delle mafie” è avvenuto da tempo e riguarda in gran parte la loro espansione e il loro ricadimento nelle regioni economicamente più importanti d’Italia. E in ogni caso meglio un eccesso di attenzione alle mafie che quel negazionismo su di esse che ha segnato i primi trent’ anni dell’Italia repubblicana. Caratteristica del movimento antimafia negli ultimi decenni è l’affiancamento, a chi è preposto all’azione di contrasto, di un originale movimento d’opinione prima inesistente. Che questo affiancamento civile abbia potuto generare forme di fanatismo, o di disconoscimento delle garanzie minime di uno Stato di diritto, è fuori dubbio. E vanno assolutamente riportate a sobrietà tutte le persone che operano nel campo, a partire dai magistrati. Ma non si può rimpiangere minimamente la situazione precedente.
Per esempio, come si fa a non cogliere il valore dirompente dell’organizzazione dei familiari delle vittime? Il dolore privato si è trasformato in dolore pubblico, rompendo un altro tabù in base al quale la morte violenta doveva essere tenuta dentro le pareti domestiche. I familiari hanno invertito la rassegnazione e la dimensione privata delle loro tragedie, spingendo le Istituzioni a intitolare strade, aule, biblioteche ai loro cari caduti, scrivendo biografie, ispirando mostre, romanzi, film, opere teatrali, canzoni. Sulla base di esperienze fatte in altri contesti (le madri e le nonne dei desaparecidos in Argentina e in Cile), il movimento antimafia si è impegnato a che nessuna vittima innocente debba essere dimenticata. E quando il dolore privato si espone sulla scena pubblica, ci possono essere eccessi e qualche protagonismo di troppo (dovuto anche alla non totale elaborazione del lutto da parte di alcuni familiari). Ma meglio il valore dirompente e a volte non equilibrato del dolore pubblico che la rassegnazione privata. Nel Sud tutto ciò è ancora più significativo perché si è dimostrato che in queste terre ci sono state sì le mafie, ma anche chi le ha combattute. In Italia gli eroi civili del secondo dopoguerra sono quasi tutti meridionali, e la lotta antimafia rappresenta il più originale contributo della società civile meridionale ai valori condivisi della nazione.
Molte volte, quando si discute di mafie sembra che ci siano più opinioni in libertà che un vero e approfondito studio, un’analisi laica dei fenomeni criminali. Che cosa si deve fare perché questo àmbito di studio delle mafie non sia soggetto ad approssimazione, avendo purtroppo in sé, storie vere di morti e di dolore, che non sono uno sceneggiato Tv?
Lo studio delle mafie dovrebbe entrare in tutte le Università italiane con apposite cattedre e con finanziamenti adeguati. Sarebbe importante studiare i fenomeni mafiosi non solo nelle carte dei magistrati, ma con approfondite ricerche sul campo stimolate e seguite da cattedre universitarie. In particolare, nelle facoltà di economia dove il ruolo delle mafie non è ancora considerato un problema serio dagli economisti del nostro Paese. In controtendenza rispetto ad altre opinioni, penso che la televisione abbia fatto molto nel fare entrare nelle case di tutti gli italiani il fenomeno mafioso e di averli costretti a una riflessione. La serie La piovra, ad esempio, ha rappresentato la prima nazionalizzazione delle mafie nella pubblica opinione italiana. Sono convinto, con Paolo Borsellino, che è fondamentale che si parli di mafie: in qualsiasi modo, ma che se ne parli. Preferisco la cattiva rappresentazione di esse al negazionismo e al silenzio. Di SERGIO NAZZARO 1 Marzo 2021 L’EURISPES