Quando Paolo ci disse di essere stato tradito…
GIOVANNI LEGNINI – Vicepresidente CSM – Con il titolo della pubblicazione “L’antimafia di Paolo Borsellino” si è voluta sottolineare la straordinaria levatura di un uomo che, insieme all’amico Giovanni Falcone, contribuì ad ideare e realizzare metodi di contrasto alla mafia che hanno segnato un’epoca. Un tributo alla memoria e alla grandezza di un magistrato indimenticabile, che oggi rinnoviamo in questa occasione solenne.19 Luglio 2017
LEONARDO GUARNOTTA – magistrato componente del pool antimafia, collega di Falcone e Borsellino – L’intitolazione della Biblioteca Civica di Como alla memoria di Paolo Borsellino vuole essere l’ennesimo pubblico riconoscimento della figura di un magistrato che, in tutta la sua carriera, ha voluto e saputo essere portatore ed interprete di quegli irrinunciabili e non negoziabili valori di giustizia, legalità, democrazia, solidarietà e condivisione ai quali ha sempre improntato le sue funzioni di magistrato e per i quali ha sacrificato il bene supremo della vita. Qualcuno potrebbe chiedersi come mai e perché a distanza di oltre 26 anni dalla sua scomparsa per mano mafiosa, Paolo Borsellino sia ancora ricordato, ogni 19 luglio, con partecipate manifestazioni pubbliche ed ancora gli si intitolino in Italia ed all’estero strade, piazze, scuole ed altri luoghi di cultura come la Biblioteca Civica di Como. Perchè Paolo Borsellino, un grande giudice ed un grande uomo, continuerà a vivere nella nostra memoria ed a essere ricordato con imperitura riconoscenza per quello che ha fatto per tutti noi e soprattutto per la preziosissima eredità che ha lasciato a tutti noi. Non una eredità fatta di beni, rendite o patrimoni ma bensì una eredità ricca di insegnamenti, di gesti, di parole, di comportamenti, di memoria lasciata da chi ci è venuto a mancare e tutti gli uomini di buona volontà, che si sono sentiti più soli dopo la sua morte, devono fare tesoro della sua testimonianza, del suo impegno, del suo sacrificio, del modo con il quale ha provato a dare un senso alla sua esistenza. Non è una eredità di sangue ma è una eredità simbolica che, rendendolo presente nelle nostre vite, ci infonde coraggio, ci consiglia di non arrendersi mai, ci invita a credere che un cambiamento è sempre possibile, ci insegna il suo modello di lavoro e di vita, ci ricorda che la presa di distanza dal malaffare e da ogni forma di criminalità è un impegno inderogabile da assumere da parte di tutti noi, ci fa comprendere che, in un contesto temporale in cui sembra smarrito il senso profondo dell’interesse generale, del futuro, dello Stato, della giustizia, si impone un soprassalto di fierezza e di dignità, ed è necessario uno sforzo comune da parte di tutte le componenti sane della società civile per realizzare una opera di bonifica morale e sociale che consenta a tutti di vivere ed operare in una società nella quale la forza del diritto abbia la meglio sul diritto della forza. Paolo Borsellino non appartiene soltanto alla storia del nostro paese ma è ancora presente tra noi e lo sarà ancora a lungo perché la sua speranza in un domani migliore e il suo coraggio sono la stessa speranza e lo stesso coraggio ereditati e fatti propri da tutti coloro che lo hanno amato, condividendo quei valori per i quali Paolo Borsellino ha sacrificato il bene supremo della vita, e re cependo il suo insegnamento di non fermarsi mai davanti agli ostacoli, di reagire alle incomprensioni ed alle avversità con le quali inevitabilmente ciascuno di noi si imbatterà nel proprio cammino. Infine, desidero ricordare una fra le numerose celebri frasi di Paolo Borsellino. “La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come viene ritenuto, in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri insieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione che, o financo, vorrei dire, dalla certezza che tutto questo può costarci caro” In questa incisiva ed intensa frase mi sembra possano compendiarsi l’insegnamento, il richiamo al dovere e la speranza di un domani migliore, che costituiscono la preziosa, inestimabile eredità lasciataci da Paolo Borsellino.
LEONARDO GUARNOTTA, La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come viene ritenuto, in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri insieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione che, o financo, vorrei dire, dalla certezza che tutto questo può costarci caro” In questa incisiva ed intensa frase mi sembra possano compendiarsi l’insegnamento, il richiamo al dovere e la speranza di un domani migliore, che costituiscono la preziosa, inestimabile eredità lasciataci da Paolo Borsellino – Progetto San Francesco
ANTONINO CAPONNETTO – Capo del pool antimafia – Queste sono le parole di un vecchio ex magistrato che e’ venuto nello spazio di due mesi due volte a Palermo con il cuore a pezzi a portare l’ultimo saluto ai suoi figli, fratelli e amici con i quali ho diviso anni di lavoro di sacrificio di gioia, anche di amarezza. Soltanto poche parole per un ricordo, per un doveroso atto di contrizione che poi vi diro’ e per una preghiera laica ma fervente. Il ricordo e’ per l’amico Paolo, per la sua generosita’, per la sua umanita’, per il coraggio con cui ha affrontato la vita e con cui e’ andato incontro alla morte annunciata, per la sua radicata fede cattolica, per il suo amore immenso portato alla famiglia e agli amici tutti. Era un dono naturale che Paolo aveva, di spargere attorno a se’ amore. Mi ricordo ancora il suo appassionato e incessante lavoro, divenuto frenetico negli ultimi tempi, quasi che egli sentisse incombere la fine. Ognuno di noi e non solo lo Stato gli e’ debitore; ad ognuno di noi egli ha donato qualcosa di prezioso e di raro che tutti conserveremo in fondo al cuore, e a me in particolare mancheranno terribilmente quelle sue telefonate che invariabilmente concludeva con le parole: “Ti voglio bene Antonio” ed io replicavo “Anche io ti voglio bene Paolo”. C’e’ un altro peso che ancora mi opprime ed e’ il rimorso per quell’attimo di sconforto e di debolezza da cui sono stato colto dopo avere posato l’ultimo bacio sul viso ormai gelido, ma ancora sereno, di Paolo. Nessuno di noi, e io meno di chiunque altro, puo’ dire che ormai tutto e’ finito. Pensavo in quel momento di desistere dalla lotta contro la delinquenza mafiosa, mi sembrava che con la morte dell’amico fraterno tutto fosse finito. Ma in un momento simile, in un momento come questo coltivare un pensiero del genere, e me ne sono subito convinto, equivale a tradire la memoria di Paolo come pure quella di Giovanni e di Francesca. In questi pochi giorni di dolore trascorsi a Palermo che io vi confesso non vorrei lasciare piu’, ho sentito in gran parte della popolazione la voglia di liberarsi da questa barbara e sanguinosa oppressione che ne cancella i diritti piu’ elementari e ne vanifica la speranza di rinascita. E da qui nasce la mia preghiera dicevo laica ma fervente e la rivolgo a te, presidente, che da tanto tempo mi onori della tua amicizia, che e’ stata sempre ricambiata con ammirazione infinita. La gente di Palermo e dell’intera Sicilia, ti ama presidente, ti rispetta, e soprattutto ha fiducia nella tua saggezza e nella tua fermezza. Paolo e’ morto servendo lo Stato in cui credeva cosi’ come prima di lui Giovanni e Francesca. Ma ora questo stesso Stato che essi hanno servito fino al sacrificio, deve dimostrare di essere veramente presente in tutte le sue articolazioni, sia con la sua forza sia con i suoi servizi. E’ giunto il tempo, mi sembra, delle grandi decisioni e delle scelte di fondo, non e’ piu’ l’ora delle collusioni degli attendismi dei compromessi e delle furberie, e dovranno essere, presidente, dovranno essere uomini credibili, onesti, dai politici ai magistrati, a gestire con le tue illuminate direttive questa fase necessaria di rinascita morale: e’ questo a mio avviso il primo e fondamentale problema preliminare ad una vera e decisa lotta alla barbarie mafiosa. Io ho apprezzato le tue parole, noi tutti le abbiamo apprezzate, le tue parole molto ferme al Csm dove hai parlato di una nuova rinascita che e’ quella che noi tutti aspettiamo, e laddove anche con la fermezza che ti conosco hai giustamente condannato, censurato, quegli errori che hanno condotto martedi’ pomeriggio a disordini che altrimenti non sarebbero accaduti perche’ nessuno voleva che accadessero. Solo cosi’ attraverso questa rigenerazione collettiva, questa rinascita morale, non resteranno inutili i sacrifici di Giovanni, di Francesca, di Paolo e di otto agenti di servizio. Anche a quegli agenti che hanno seguito i loro protetti fino alla morte va il nostro pensiero, la nostra riconoscenza, il nostro tributo di ammirazione. Tra i tanti fiori che ho visto in questi giorni lasciati da persone che spesso non firmavano nemmeno il biglietto come e’ stato in questo caso, ho visto un bellissimo lilium, splendido fiore il lilium, e sotto c’erano queste poche parole senza firma: “Un solo grande fiore per un solo grande uomo solo”. Mi ha colpito, presidente, questa frase che mi e’ rimasta nel cuore e credo che mi rimarra’ per sempre. Ma io vorrei dire a questo grande uomo, diletto amico, che non e’ solo, che accanto a lui batte il cuore di tutta Palermo, batte il cuore dei familiari, degli amici, di tutta la Nazione. Caro Paolo, la lotta che hai sostenuto fino al sacrificio dovra’ diventare e diventera’ la lotta di ciascuno di noi, questa e’ una promessa che ti faccio solenne come un giuramento. La “preghiera laica ma fervente” ai funerali di Paolo Borsellino il 24 luglio 1992 a Palermo
ANTONINO CAPONNETTO Allora dissi: “Paolo, arrivederci a presto”. Non è facile descrivere, né dimenticare lo sguardo che mi dette Paolo […] “Ma sei sicuro” -disse- “Antonio, che ci rivedremo?”. La domanda mi turbò, mi turbò molto, cercai di mascherare il mio turbamento, la volsi un po’ in tono scherzoso: “Ma che stai dicendo, Paolo? Certo che ci rivedremo”. E allora mi abbracciò, ma mi abbracciò con una, con una forza… che mi fece male! Mi strinse, non se ne rendeva conto… ma mi abbracciò come… come a non volersi distaccare, come a volere… tenere avvinto qualcosa di caro e portarselo via. Ecco, quello è stato… lì ho sentito che era l’addio di Paolo.(tratto da un’intervista su Paolo Borsellino)
ANTONINO CAPONNETTO Era un dono naturale che Paolo aveva, di spargere attorno a se’ amore. Mi ricordo ancora il suo appassionato e incessante lavoro, divenuto frenetico negli ultimi tempi, quasi che egli sentisse incombere la fine. Ognuno di noi e non solo lo Stato gli e’ debitore; ad ognuno di noi egli ha donato qualcosa di prezioso e di raro che tutti conserveremo in fondo al cuore, e a me in particolare mancheranno terribilmente quelle sue telefonate che invariabilmente concludeva con le parole: Ti voglio bene Antonio” ed io replicavo “Anche io ti voglio bene Paolo. Il ricordo e’ per l’amico Paolo, per la sua generosita’, per la sua umanita’, per il coraggio con cui ha affrontato la vita e con cui e’ andato incontro alla morte annunciata, per la sua radicata fede cattolica, per il suo amore immenso portato alla famiglia e agli amici tutti. Tra i tanti fiori che ho visto in questi giorni lasciati da persone che spesso non firmavano nemmeno il biglietto come e’ stato in questo caso, ho visto un bellissimo lilium, splendido fiore il lilium, e sotto c’erano queste poche parole senza firma: “Un solo grande fiore per un solo grande uomo solo. Allora dissi: “Paolo, arrivederci a presto”. Non è facile descrivere, né dimenticare lo sguardo che mi dette Paolo […] “Ma sei sicuro” -disse- “Antonio, che ci rivedremo?”. La domanda mi turbò, mi turbò molto, cercai di mascherare il mio turbamento, la volsi un po’ in tono scherzoso: “Ma che stai dicendo, Paolo? Certo che ci rivedremo”. E allora mi abbracciò, ma mi abbracciò con una, con una forza… che mi fece male! Mi strinse, non se ne rendeva conto… ma mi abbracciò come… come a non volersi distaccare, come a volere… tenere avvinto qualcosa di caro e portarselo via. Ecco, quello è stato… lì ho sentito che era l’addio di Paolo.
Borsellino fu tra i primi ad arrivare al pronto soccorso dell’Ospedale Civico. Lo Voi lo portò lì con la sua macchina blindata, a una velocità tale che Borsellino disse a un certo punto: «Rallenta o ci ammazzeremo!».
In ospedale Borsellino chiese di Falcone. Due dottori lo riconobbero e, prendendolo per il braccio, gli fecero attraversare una porta a vetri, mentre Lo Voi lo seguiva. La figlia Lucia lo aspettò su una panchina.
Dopo mezz’ora, i dottori che lottavano per rianimare Falcone dovettero arrendersi. Il giudice fu dichiarato morto alle diciannove e cinque. Il motivo del decesso fu registrato come shock emorragico dovuto a lesioni interne, specialmente nell’addome. Più tardi, dall’autopsia emerse che Falcone aveva otto costole rotte, che avevano perforato i polmoni. L’addome era pieno di sangue e aveva una vertebra lombare fratturata.
Lo Voi capì che era morto quando vide Borsellino rannicchiato in un angolo, con la testa tra le mani. La coppia poi andò a vedere Francesca; i dottori stavano provando in tutti i modi a salvarla, e iniziarono a pensare che sarebbe sopravvissuta. Poco dopo la dichiarazione della morte di Falcone, il telefono di Borsellino squillò. Era Caponnetto, che cercava di contattarlo da quando aveva sentito la notizia dell’esplosione alla televisione.
Borsellino salutò Caponnetto; non gli era rimasto che un filo di voce.
«Paolo, come sta Giovanni?», chiese Caponnetto. Caponnetto riuscì a sentire solo le lacrime di Borsellino. «Paolo, mi vuoi rispondere? Come sta Giovanni?», insistette Caponnetto.
«È morto un minuto fa tra le mie braccia», rispose Borsellino.
Lì accanto, Francesca trovò la forza di chiedere: «Dov’è Giovanni?».
La persona cui rivolse la domanda l’aveva appena visto morire, ma non ebbe il coraggio di dirle la verità.
Mentre aspettava, Lucia vide comparire il padre dalla porta a vetri. Camminava curvo e sembrava pallido e smarrito.
Borsellino abbracciò la figlia, dicendole soltanto: «È morto così, tra le mie braccia».
Lucia scoppiò a piangere. Non solo per Falcone. Sentì che la morte si stava avvicinando anche per suo padre: anche lui aveva accompagnato Falcone così tante volte in quel tratto di autostrada. E il padre le aveva raccontato un migliaio di volte che considerava l’amico come il proprio scudo: «Prima uccideranno lui e poi me», aveva detto.
Ora le bisbigliava: «Non piangere, Lucia, non dobbiamo dare spettacolo». Ma anche lui improvvisamente iniziò a singhiozzare senza fermarsi, tra le braccia della figlia. Lucia sentì le sue lacrime sul collo.
«Papà, ma adesso come farai a continuare?», gli chiese.
«Non lo so, non lo so», rispose.
Alfredo, il fratello di Francesca, comparve dalla porta a vetri. Borsellino capì dandogli un’occhiata – era bianco come un cencio, senza parole e stordito – che c’era ben poco da sperare per la donna.
I singhiozzi facevano sobbalzare il corpo curvo di Borsellino. Tenendo stretta Lucia, mormorò: «No, pure Francesca, no…».
ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE CORTE D’APPELLO DI PALERMO– A PAOLO BORSELLINO IN OCCASIONE DEL VENTESIMO ANNIVERSARIO DELLA STRAGE DI VIA D’AMELIO“ Caro Paolo, oggi siamo qui a commemorarti in forma privata perché più trascorrono gli anni e più diventa imbarazzante il 23 maggio ed il 19 luglio partecipare alle cerimonie ufficiali che ricordano le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite – per usare le tue parole – emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà. E come se non bastasse, Paolo, intorno a costoro si accalca una corte di anime in livrea, di piccoli e grandi maggiordomi del potere, di questuanti pronti a piegare la schiena e a barattare l’anima in cambio di promozioni in carriera o dell’accesso al mondo dorato dei facili privilegi. Se fosse possibile verrebbe da chiedere a tutti loro di farci la grazia di restarsene a casa il 19 luglio, di concederci un giorno di tregua dalla loro presenza. Ma, soprattutto, verrebbe da chiedere che almeno ci facessero la grazia di tacere, perché pronunciate da loro, parole come Stato, legalità, giustizia, perdono senso, si riducono a retorica stantia, a gusci vuoti e rinsecchiti. Voi che a null’altro credete se non alla religione del potere e del denaro, e voi che non siete capaci di innalzarvi mai al di sopra dei vostri piccoli interessi personali, il 19 luglio tacete, perché questo giorno è dedicato al ricordo di un uomo che sacrificò la propria vita perché parole come Stato, come Giustizia, come Legge acquistassero finalmente un significato e un valore nuovo in questo nostro povero e disgraziato paese. Un paese nel quale per troppi secoli la legge è stata solo la voce del padrone, la voce di un potere forte con i deboli e debole con i forti. Un paese nel quale lo Stato non era considerato credibile e rispettabile perché agli occhi dei cittadini si manifestava solo con i volti impresentabili di deputati, senatori, ministri, presidenti del consiglio, prefetti, e tanti altri che con la mafia avevano scelto di convivere o, peggio, grazie alla mafia avevano costruito carriere e fortune. Sapevi bene Paolo che questo era il problema dei problemi e non ti stancavi di ripeterlo ai ragazzi nelle scuole e nei dibattiti, come quando il 26 gennaio 1989 agli studenti di Bassano del Grappa ripetesti: “Lo Stato non si presenta con la faccia pulita… Che cosa si è fatto per dare allo Stato… Una immagine credibile? La vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni”. E a un ragazzo che ti chiedeva se ti sentivi protetto dallo Stato e se avessi fiducia nello Stato, rispondesti: “No, io non mi sento protetto dallo Stato perché quando la lotta alla mafia viene delegata solo alla magistratura e alle forze dell’ordine, non si incide sulle cause di questo fenomeno criminale”. E proprio perché eri consapevole che il vero problema era restituire credibilità allo Stato, hai dedicato tutta la vita a questa missione. Nelle cerimonie pubbliche ti ricordano soprattutto come un grande magistrato, come l’artefice insieme a Giovanni Falcone del maxiprocesso che distrusse il mito della invincibilità della mafia e riabilitò la potenza dello Stato. Ma tu e Giovanni siete stati molto di più che dei magistrati esemplari. Siete stati soprattutto straordinari creatori di senso. Avete compiuto la missione storica di restituire lo Stato alla gente, perché grazie a voi e a uomini come voi per la prima volta nella storia di questo paese lo Stato si presentava finalmente agli occhi dei cittadini con volti credibili nei quali era possibile identificarsi ed acquistava senso dire ” Lo Stato siamo noi”. Ci avete insegnato che per costruire insieme quel grande Noi che è lo Stato democratico di diritto, occorre che ciascuno ritrovi e coltivi la capacità di innamorarsi del destino degli altri. Nelle pubbliche cerimonie ti ricordano come esempio del senso del dovere. Ti sottovalutano, Paolo, perché la tua lezione umana è stata molto più grande. Ci hai insegnato che il senso del dovere è poca cosa se si riduce a distaccato adempimento burocratico dei propri compiti e a obbedienza gerarchica ai superiori. Ci hai detto chiaramente che se tu restavi al tuo posto dopo la strage di Capaci sapendo di essere condannato a morte, non era per un astratto e militaresco senso del dovere, ma per amore, per umanissimo amore. Lo hai ripetuto la sera del 23 giugno 1992 mentre commemoravi Giovanni, Francesca, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Parlando di Giovanni dicesti: “Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato”. Questo dicesti la sera del 23 giugno 1992, Paolo, parlando di Giovanni, ma ora sappiamo che in quel momento stavi parlando anche di te stesso e ci stavi comunicando che anche la tua scelta di non fuggire, di accettare la tremenda situazione nella quale eri precipitato, era una scelta d’amore perché ti sentivi chiamato a rispondere della speranza che tutti noi riponevamo in te dopo la morte di Giovanni. Ti caricammo e ti caricasti di un peso troppo grande: quello di reggere da solo sulle tue spalle la credibilità di uno Stato che dopo la strage di Capaci sembrava cadere in pezzi, di uno Stato in ginocchio ed incapace di reagire. Sentisti che quella era divenuta la tua ultima missione e te lo sentisti ripetere il 4 luglio 1992, quando pochi giorni prima di morire, i tuoi sostituti della Procura di Marsala ti scrissero: “La morte di Giovanni e di Francesca è stata per tutti noi un po’ come la morte dello Stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e che, immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo spesso che non ce la faremo, che lo Stato in Sicilia è contro lo Stato e che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello Stato”. Missione doppiamente compiuta, Paolo. Se riuscito con la tua vita a restituire nuova vita a parole come Stato e Giustizia, prima morte perché private di senso. E sei riuscito con la tua morte a farci capire che una vita senza la forza dell’amore è una vita senza senso; che in una società del disamore nella quale dove ciò che conta è solo la forza del denaro ed il potere fine a se stesso, non ha senso parlare di Stato e di Giustizia e di legalità. E dunque per tanti di noi è stato un privilegio conoscerti personalmente e apprendere da te questa straordinaria lezione che ancora oggi nutre la nostra vita e ci ha dato la forza necessaria per ricominciare quando dopo la strage di via D’Amelio sembrava – come disse Antonino Caponnetto tra le lacrime – che tutto fosse ormai finito. Ed invece Paolo, non era affatto finita e non è finita. Come quando nel corso di una furiosa battaglia viene colpito a morte chi porta in alto il vessillo della patria, così noi per essere degni di indossare la tua stessa toga, abbiamo raccolto il vessillo che tu avevi sino ad allora portato in alto, perché non finisse nella polvere e sotto le macerie. Sotto le macerie dove invece erano disposti a seppellirlo quanti mentre il tuo sangue non si era ancora asciugato, trattavano segretamente la resa dello Stato al potere mafioso alle nostre spalle e a nostra insaputa. Abbiamo portato avanti la vostra costruzione di senso e la vostra forza è divenuta la nostra forza sorretta dal sostegno di migliaia di cittadini che in quei giorni tremendi riempirono le piazze, le vie, circondarono il palazzo di giustizia facendoci sentire che non eravamo soli. E così Paolo, ci siamo spinti laddove voi eravate stati fermati e dove sareste certamente arrivati se non avessero prima smobilitato il pool antimafia, poi costretto Giovanni ad andar via da Palermo ed infine non vi avessero lasciato morire. Abbiamo portato sul banco degli imputati e abbiamo processato gli intoccabili: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei Servizi segreti e della Polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi di vertice dell’economia e della finanza e molti altri. Uno stuolo di sepolcri imbiancati, un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole, che affollano i migliori salotti, che nelle chiese si battono il petto dopo avere partecipato a summit mafiosi. Un esercito di piccoli e grandi Don Rodrigo senza la cui protezione i Riina, i Provenzano sarebbero stati nessuno e mai avrebbero osato sfidare lo Stato, uccidere i suoi rappresentanti e questo paese si sarebbe liberato dalla mafia da tanto tempo. Ma, caro Paolo, tutto questo nelle pubbliche cerimonie viene rimosso come se si trattasse di uno spinoso affare di famiglia di cui è sconveniente parlare in pubblico. Così ai ragazzi che non erano ancora nati nel 1992 quando voi morivate, viene raccontata la favola che la mafia è solo quella delle estorsioni e del traffico di stupefacenti. Si racconta che la mafia è costituita solo da una piccola minoranza di criminali, da personaggi come Riina e Provenzano. Si racconta che personaggi simili, ex villici che non sanno neppure esprimersi in un italiano corretto, da soli hanno tenuto sotto scacco per un secolo e mezzo la nostra terra e che essi da soli osarono sfidare lo Stato nel 1992 e nel 1993 ideando e attuando la strategia stragista di quegli anni. Ora sappiamo che questa non è tutta la verità. E sappiamo che fosti proprio tu il primo a capire che dietro i carnefici delle stragi, dietro i tuoi assassini si celavano forze oscure e potenti. E per questo motivo ti sentisti tradito, e per questo motivo ti si gelò il cuore e ti sembrò che lo Stato, quello Stato che nel 1985 ti aveva salvato dalla morte portandoti nel carcere dell’Asinara, questa volta non era in grado di proteggerti, o, peggio, forse non voleva proteggerti. Per questo dicesti a tua moglie Agnese: “Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno”. Quelle forze hanno continuato ad agire Paolo anche dopo la tua morte per cancellare le tracce della loro presenza. E per tenerci nascosta la verità, è stato fatto di tutto e di più. Pochi minuti dopo l’esplosione in Via D’Amelio mentre tutti erano colti dal panico e il fumo oscurava la vista, hanno fatto sparire la tua agenda rossa perché sapevano che leggendo quelle pagine avremmo capito quel che tu avevi capito. Hanno fatto sparire tutti i documenti che si trovavano nel covo di Salvatore Riina dopo la sua cattura. Hanno preferito che finissero nella mani dei mafiosi piuttosto che in quelle dei magistrati. Hanno ingannato i magistrati che indagavano sulla strage con falsi collaboratori ai quali hanno fatto dire menzogne. Ma nonostante siano ancora forti e potenti, cominciano ad avere paura. Le loro notti si fanno sempre più insonni e angosciose, perché hanno capito che non ci fermeremo, perché sanno che è solo questione di tempo. Sanno che riusciremo a scoprire la verità. Sanno che uno di questi giorni alla porta delle loro lussuosi palazzi busserà lo Stato, il vero Stato quello al quale tu e Giovanni avete dedicato le vostre vite e la vostra morte. E sanno che quel giorno saranno nudi dinanzi alla verità e alla giustizia che si erano illusi di calpestare e saranno chiamati a rendere conto della loro crudeltà e della loro viltà dinanzi alla Nazione.” Palermo, 19 luglio 2012
ROBERTO SCARPINATO «Ho provato a chiedere in questi giorni a degli amici, chi fu il responsabile della morte di Gesù Cristo. Alcuni mi hanno risposto Caifa e i sacerdoti del sinedrio, altri Ponzio Pilato, altri Giuda. Tutti hanno dimenticato che il vero e ultimo responsabile della morte di Cristo fu il popolo. Pilato, poiché in occasione della Pasqua aveva la possibilità di graziare un condannato, si rivolse al popolo e chiese di scegliere tra il ladrone Barabba e Gesù Cristo. Il popolo gridò all’unisono: «Crocifiggi Cristo e salva Barabba». Gli storici si sono interrogati su questo comportamento del popolo e quindi sul rapporto tra giustizia e democrazia. Ciò tenuto conto che in mezzo al popolo c’erano molte persone che fino al giorno prima avevano osannato Cristo quando faceva i miracoli. Alcuni dicono che i sacerdoti del sinedrio avevano pagato vari sobillatori confusi in mezzo al popolo i quali avevano il compito di orientarne gli umori. Altri sostengono che in mezzo alla folla vi erano anche degli estimatori di Cristo che, tuttavia, ebbero paura di chiedere la sua salvezza temendo ritorsioni personali e si accodarono a quelli che votarono per Barabba. Altri dicono che molti votarono per Barabba invece che per Cristo perché la salvezza di Cristo avrebbe determinato la delegittimazione dei sacerdoti del sinedrio che ne avevano voluto la morte forzando la mano a Pilato e quindi una grave crisi politica dello Stato di Israele che avrebbe favorito il potere dell’invasore romano. Altri ancora dicono che alcuni votarono Barabba delusi dal fatto che il Cristo dei miracoli si era rivelato un uomo impotente e che poteva essere deriso e gli voltarono le spalle. Altri infine sostengono che una parte del popolo votò Barabba perché, sì era un ladro, ma era anche un capo popolo che distribuiva parte dei proventi alle masse e quindi ne guadagnava il consenso. Forse tutte queste ragioni e altre ancora sono vere. Un impasto inestricabile di ragioni di Stato, potere romano, interesse di classe, sacerdoti del sinedrio, piccole viltà, opportunismo individuale, ingenuità, dunque tutto questo mandò a morte Cristo. Ciascuno di noi potrebbe esercitarsi ad attualizzare questa storia nei nostri giorni dando un volto e un nome ai sacerdoti del sinedrio, a Pilato, a Giuda, ai troppi che in questi anni si sono dileguati, che sono stati alla finestra o si sono accodati al coro di “crocifiggi”, a volte per mero opportunismo, a volte viltà o per calcolo politico.
Allora rispondere alla domanda del convegno «quale mafia ha ucciso Paolo Borsellino?» ci porterebbe molto lontano, fin dentro noi stessi, dentro la nostra storia e il male oscuro di una intera società. Poiché dietro gli esecutori materiali ci sono i capi di Cosa nostra e poi ci sono i mandanti a volto coperto e dietro costoro vi è il “gioco grande” del potere che, oggi come ieri, non può permettersi la verità. Dietro il gioco grande del potere ci siamo noi e persone come noi, oggi come ieri, la maggioranza di Barabba. Forse qualcuno penserà che sia eccessivo accostare alla memoria la condanna a morte di Cristo alle vicende di oggi, ma ricordando Paolo penso che ciò sia dovuto. Non solo perché Paolo era credente ma anche per un altro motivo. Dopo la strage di Capaci le bare di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo furono esposte nell’atrio del Palazzo di Giustizia. Un fiume di gente di tutte le età e di tutte le estrazioni sociali sfilò dinanzi alle bare. Molti erano commossi e piangevano. Paolo, io e altri magistrati antimafia eravamo scoraggiati, alcuni pensavano di andar via. A un certo punto Paolo, vedendoci in quello stato d’animo, ci disse: «Ragazzi vi parlo come un padre, come un fratello maggiore, ho il dovere di dirvi che non possiamo farci illusioni, se restiamo, il futuro di alcuni di noi sarà quello!» Con una mano indicò le bare di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. Poi aggiunse: «Io resto e resto solo per loro» e con una mano indicò la folla. Paolo disse: «Non posso lasciarli soli!» Il 19 luglio, quando in via D’Amelio vidi il corpo di Paolo quelle parole mi ossessionavano. Quell’uomo aveva scelto di morire per amore, perché era innamorato del destino degli altri. C’era molto di più del senso del dovere di cui si parla nella retorica ufficiale, c’era qualcosa di grande che si chiamava amore. Non tradiamo questo atto d’amore e ricambiamo, restando sempre e comunque al nostro posto. Non molliamo! Qualunque cosa sia accaduta qualunque cosa dovesse accadere. Non cediamo mai alla tentazione, per calcolo, per viltà o per stanchezza di accodarci alla maggioranza di Barabba».
MASSIMO RUSSO – Magistrato già collega di Borsellino – “Marsala è stata la mia prima sede, dopo avere terminato l’uditorato a Firenze. Lì ho fatto il giudice per due anni, successivamente sono stato trasferito alla Procura allora retta da Paolo Borsellino con il quale lavorai solo alcuni mesi, poiché nel marzo del 92 egli ritornò a Palermo per assumere l’incarico di procuratore aggiunto. Ma il rapporto umano iniziò da subito. Paolo Borsellino, per la comunità dei giovani magistrati del Palazzo di Giustizia di Marsala – molti, come me, di prima nomina- era un imprescindibile punto di riferimento umano e professionale. Paolo si imponeva per la sua esperienza, per il suo carisma e per il suo tratto umano: era un uomo semplice, un padre di famiglia, simpatico, dalla battuta sempre pronta, ironico e col sorriso stampato in faccia, appena smorzato dalla perenne sigaretta tra le labbra. Sempre disponibile a venirci incontro e a misurarsi con le nostre difficoltà di giovani magistrati già alle prese con indagini complesse, anche di mafia: all’epoca, prima dell’istituzione delle Direzioni Distrettuali Antimafia, la Procura di Marsala si stava infatti occupando di diversi e importanti procedimenti contro Cosa Nostra. Ricordo la sua battuta con la quale sintetizzò l’atteggiamento che dovevamo avere nei confronti dei mafiosi: “pugno di acciaio in un guanto di velluto”. Un’altra volta, quando si rese conto che mi aveva assegnato un’indagine in cui erano coinvolti soggetti di Mazara del Vallo -che è la mia città natale dove all’epoca vivevo – mi chiamò e dissimulando la sua reale preoccupazione mi disse sorridendo: “Adesso ti occupi anche dei tuoi concittadini?”. Poi più seriamente aggiunse: “Forse non è opportuno che tu lo faccia perché prima o poi te la faranno pagare”. Pur comprendendo il suo atteggiamento protettivo, di rincalzo e con la sua stessa ironia, gli risposi: “Scusa Paolo, ma tu di dove sei?”. “Di Palermo”, rispose. “E finora che hai fatto? Di cosa ti sei occupato?” E lui, messo alle strette: “Della mafia palermitana”. Ed io: “E allora che vuoi?”. “Comunque stai attento”, concluse”. Qual è l‘immagine più bella che lei ha di Paolo Borsellino? “Quella sorridente del felice periodo marsalese di quando, per esempio, insieme agli altri colleghi, ci ritrovavamo a pranzo con lui sul lungomare di Marsala continuando a discutere e parlare delle nostre indagini, tra le sue battute divertenti e i suoi aneddoti. Un’immagine ben diversa da quella che Paolo Borsellino ci diede dopo il 23 maggio, quella di un uomo distrutto dalla tragedia di Capaci, gravato dalla consapevolezza della morte che si annunciava anche per lui..”Ma Falcone e Borsellino sono stati molto di più che due grandissimi magistrati: con la loro costante dedizione al lavoro, con la loro incrollabile fiducia nelle Istituzioni, con le loro azioni giudiziarie, hanno dato risposta ad un forte bisogno di identificazione collettiva da parte della società sana, di quella parte che ha sempre creduto che il riscatto della Sicilia e del meridione passasse innanzitutto attraverso la lotta al potere mafioso. Così, sono divenuti l’emblema della lotta alla mafia e in molti si sono riconosciuti nel loro esempio, da imitare piuttosto che ammirare Cose di Cosa Nostra nei ricordi di un magistrato antimafia. Dall’intervista di Enzo Guidotto a Massimo Russo – 7 Luglio 2016
GIUSEPPE PIGNATONE – Procuratore della Repubblica di Roma e già collega alla Procura di Palermo collega di Borsellino a Palermo: L’eredità di Paolo Borsellino – L’eredità più preziosa di Paolo Borsellino per tutti noi cittadini di questo Paese. è il suo esempio: senso delle istituzioni e senso del dovere spinti fino al limite estremo del sacrificio, oltre che –naturalmente- eccezionali qualità professionali e umane. Un altro punto di riflessione è l’attenzione alla concretezza del lavoro, al suo risultato in sede giudiziaria. In una delle sue rare interviste Paolo Borsellino ricorda che nel Maxi processo erano iscritte come indiziate di reato circa 850 persone, ma il rinvio a giudizio fu disposto nei confronti di 475 soggetti, per gran parte dei quali il processo si concluse con l’affermazione di responsabilità e la pronunzia di sentenze di condanna. Una selezione, quindi, tanto attenta quanto rigorosa. E, prima di tutto, il valore etico del lavoro visto quasi come una missione quale emerge da una delle sue ultime interviste: «Io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tantialtri insieme a me. E so che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuare a farlo senza lasciarci condizionare dalla sensazione o, financo, vorrei dire, dalla certezza, che tutto questo può costarci caro» Seguendo questo esempio potremo realizzare quello che ha detto, il 23 maggio 2015, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella «Sconfiggere per sempre le mafie è un’impresa alla nostra portata, ma per raggiungere questo traguardo è necessario un salto in avanti che dobbiamo compiere come collettività». – dichiarazione rilasciata al Centro Studi Sociali contro le mafie – Progetto San Francesco il 20.10.2018
L’eredità più preziosa di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone per i giovani magistrati, ma prima ancora per tutti noi cittadini di questo Paese, è il loro esempio: senso delle istituzioni e senso del dovere spinti fino al limite estremo del sacrificio, oltre che – naturalmente – eccezionali qualità professionali e umane. La prima lezione che ci viene da Borsellino, Falcone e dagli altri magistrati e appartenenti alle forze di polizia di quegli anni è che le indagini vanno fatte a 360 gradi, come spesso si dice, senza mai accettare che ci siano tabù o zone franche. C’è poi un nuovo metodo di lavoro: il lavoro di équipe (anche se nessuno ha mai dubitato del ruolo preminente di Falcone e Borsellino), un lavoro metodico volto a cogliere i nessi e i collegamenti tra una miriade di fatti apparentemente slegati tra loro, l’attenzione –forse per la prima volta- agli aspetti patrimoniali e alle indagini bancarie, la “scoperta” (se così si può dire) e l’utilizzo, tra mille polemiche, dei collaboratori di giustizia. Gli esiti di tutto questo sono ormai scritti nelle sentenze del maxiprocesso, nei libri di storia e anche, purtroppo nelle stragi di Capaci e via D’Amelio. Ma accanto a questo una riflessione ulteriore ci porta, io credo, a sottolineare altri aspetti dell’attività di Paolo Borsellino e dei suoi colleghi. Il primo è la disponibilità ad affrontare le indagini con quello che io chiamo spirito laico, cioè senza pregiudizi di alcun tipo. Questo è tanto più necessario quando oggetto delle indagini sono realtà complesse o addirittura segrete per definizione come sono le associazioni mafiose. Certo a volte, specialmente oggi, può sembrare che sappiamo tutto delle mafie o –addirittura – che tutto fosse già scritto nei libri degli studiosi di 50 o 150 anni fa. Non è così. Bisogna sempre rimettere in discussione le proprie convinzioni e le proprie certezze. Falcone e Borsellino hanno detto che Buscetta ci ha fornito “i codici” per leggere e capire Cosa Nostra e in effetti con Buscetta è cominciata una nuova conoscenza della Mafia siciliana. Ma ci sono volute intelligenza e disponibilità per rimettere in discussione tutto quello che si credeva di sapere. Non dimentichiamoci che appena dieci anni prima, nel 1973, nessuno aveva creduto alle dichiarazioni di Leonardo Vitale, tanto simili a quelle che poi avrebbe reso Tommaso Buscetta. E lo stesso spirito laico ci deve guidare oggi ad affrontare le indagini sull’evoluzione di Cosa nostra sulla presenza della ‘ndrangheta al nord, negata per decenni pur dopo i grandi processi milanesi dei primi anni ’90, e quelle sulle nuove mafie che potrebbero svilupparsi in altre città italiane. E a proposito della ‘ndrangheta mi sembra opportuno sollecitare tutti noi a non dimenticare, nelle analisi – per altro verso corrette – sul sempre maggiore ricorso delle mafie al metodo corruttivo/collusivo, la forza “militare” e la capacità di ricorso alla violenza che l’organizzazione calabrese tuttora possiede e che la rende, per giudizio unanime, la mafia più potente e pericolosa in questa fase storica. Un altro punto di riflessione è l’attenzione alla concretezza del lavoro, al suo risultato in sede giudiziaria. In una delle sue rare interviste Paolo Borsellino ricorda che nel maxiprocesso erano iscritte come indiziate di reato circa 850 persone, ma il rinvio a giudizio fu disposto nei confronti di 475 soggetti, per gran parte dei quali il processo si concluse con l’affermazione di responsabilità e la pronunzia di sentenze di condanna. Una selezione, quindi, tanto attenta quanto rigorosa. Naturalmente dalle indagini emergono elementi di conoscenza della realtà sociale, economica e politica attorno a noi ma, almeno secondo me, le indagini si fanno, e si giustificano, per fare i processi ed avere una pronunzia del Giudice su fatti specifici addebitati a persone specifiche. Mi sono tornate in mente a questo proposito le parole di Papa Francesco al Csm, il 17 giugno 2014, secondo cui la virtù specifica del giudice è la prudenza. Naturalmente il Papa parla della prudenza come virtù cardinale e infatti si affretta a precisare: «Non è una virtù per restare fermo. “Io sono prudente: sono fermo, no! È una virtù di governo per portare avanti le cose, la virtù che inclina a ponderare con serenità le ragioni di diritto e di fatto che debbono stare alla base del giudizio». Si avrà prudenza, aggiunge Papa Francesco «se si possiederà un elevato equilibrio interiore, capace di dominare le spinte provenienti dal proprio carattere, dalle proprie vedute personali, dai propri convincimenti ideologici». Questo ci conduce a un’ulteriore riflessione per la quale voglio solo citare le parole di Giovanni Falcone al Csm davanti al quale era stato chiamato a giustificarsi, proprio lui, dall’accusa sempre ricorrente, di “avere tenuto le carte nei cassetti”, di avere “insabbiato” – come si dice in gergo giornalistico – le indagini sull’on. Salvo Lima. «A me sembra profondamente immorale che si possano avviare delle imputazioni e contestare delle cose nella assoluta aleatorietà del risultato giudiziario. Non si può ragionare: intanto contesto il reato e poi si vede. Perché da queste contestazioni poi derivano, soprattutto in determinate cose, conseguenze incalcolabili. Quindi io continuo a essere convinto che questo tipo di elementi a carico di Salvo Lima non fossero tali, nemmeno per giustificare una informazione di garanzia, non so poi per quale reato». La mia ultima riflessione si riaggancia alla prima, ma ha una portata più vasta e prende spunto non solo dell’opera di Paolo Borsellino e del pool antimafia ma anche – e soprattutto – delle vicende dei processi per la strage di via D’Amelio. Dobbiamo essere sempre acutamente consapevoli del rischio di sbagliare e del fatto che l’errore del magistrato può colpire o addirittura travolgere beni essenziali del cittadino: la sua libertà, la sua vita familiare, la sua reputazione. Naturalmente l’errore non è mai del tutto eliminabile perché siamo uomini, ma proprio l’esperienza ci deve spingere a una sempre maggiore attenzione. Da un lato, il maxiprocesso ha consentito di rivisitare e spesso modificare gli esiti di indagini precedenti, anche con la revisione di sentenze irrevocabili di condanna. Dall’altro lato, la serie di processi per la strage di via Amelio costituiscono una lezione che tutti noi dovremmo sempre tenere presente. Vi sono stati processi, celebrati con tutte le garanzie che il nostro ordinamento assicura, che hanno portato alla condanna di decine di persone, molte delle quali innocenti. Nella buona fede di tutti i magistrati di varie sedi giudiziarie fino alla Cassazione, sono state pronunziate sentenze di condanna all’ergastolo che si sono rivelate sbagliate. È un fallimento drammatico, non giustificato neanche dall’eventuale depistaggio iniziale perché i processi servono anche a evitare o svelare i depistaggi. Dall’altro lato è pure vero – ed è un dato anch’esso importante- che, sia pur tardivamente, il sistema processuale si è rivelato capace, proprio in questo caso così drammatico ed emblematico, di correggere se stesso e di rimettere in discussione anche sentenze irrevocabili così importanti e “sofferte” (se così si può dire).Solo poche settimane fa, il presidente della Repubblica ha affermato che «sconfiggere per sempre le mafie è un’impresa alla nostra portata, ma per raggiungere questo traguardo è necessario un salto in avanti che dobbiamo compiere come collettività» ( 23 maggio 2015). A noi magistrati spetta, insieme alle forze di polizia, innanzi tutto, il compito della repressione, che dobbiamo svolgere nel modo migliore, ispirandoci all’esempio di Paolo Borsellino il quale, in una delle sue ultime interviste, disse: «Io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri insieme a me. E so che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuare a farlo senza lasciarci condizionare dalla sensazione o, financo, vorrei dire, dalla certezza, che tutto questo può costarci caro». Sole 24 Ore 19 Luglio 2015
FERDINANDO IMPOSIMATO – Magistrato – A Paolo dedico le parole di Shakespeare: «ripudia l’ambizione, ama te stesso come ultima cosa, accarezza quei cuori che ti odiano, l’onestà è più potente della corruzione. Nella tua destra porta la dolce pace per ridurre al silenzio le lingue invidiose. Sii giusto e non temere. Tutti i fini a cui miri siano quelli del tuo Paese, di Dio, della famiglia e della verità: allora se cadrai, cadrai da martire benedetto». E così è stato ed è caduto Paolo, martire ed eroe immortale Per me è un onore commemorare Paolo Borsellino che ho ammirato come magistrato integerrimo e imparziale e amato come fratello minore. Aveva quattro anni meno di me. Ma Paolo lo onorano la sua vita esemplare, l’amore immenso per la sua famiglia: la madre Maria, la moglie Agnese, i figli Tancredi, Lucia e Fiammetta, i fratelli Rita e Salvatore, le agende rosse nate per tenere desta la fiaccola della verità e della giustizia, l’eroica scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Eddie Cosina, Claudio Traina. Ricordo Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e la loro scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo. Solidarietà a Maria Falcone per spregevole attacco al busto di Giovanni Falcone, amico fraterno di Paolo. In Paolo incontrai saggezza e umiltà, anche se a soli 23 anni divenne il più giovane magistrato d’Italia. Donò tutto se stesso alla giustizia e sacrificò la sua nobile vita per conoscere la verità e rendere giustizia a Giovanni. Era convinto che un Paese può vivere senza benessere, non senza giustizia. Un Paese senza giustizia si disintegra. Antonino Caponnetto, il capo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino scolpì la figura di Paolo in modo mirabile e disse: «Paolo ebbe estrema semplicità, profonda umiltà e immensa umanità, enorme carica d’amore verso il prossimo, senso religioso del lavoro, generosità e coraggio con cui affrontò vita e andò incontro a morte annunciata». Conobbi Paolo e Giovanni ai primi anni 80 per indagini contro banchiere Michele Sindona, corruttore di politici con soldi di Cosa Nostra: indagini che io conducevo a Roma per sequestro simulato per estorcere denaro ai politici; e Paolo e Giovanni a Palermo per associazione mafiosa. A Palermo conobbi il consigliere Rocco Chinnici che creò il pool antimafia. Inviai a Paolo e Giovanni il procedimento romano contro i mafiosi Rosario Spatola, Salvatore Inzerillo e Giovanni Gambino su cui indagava il commissario Boris Giuliano, poi assassinato da Leoluca Bagarella. Iniziò così la sinergia tra i pool di Roma e Palermo con scambio di informazioni e strategia antimafia, che favorì fenomeno pentiti con Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno e altri pentiti. Ciò provocò grande preoccupazione di politici, governanti e imprenditori che temevano si scoprisse il rapporto mafia politica imprenditoria. Paolo e Giovanni nel 1984 a un convegno di Fiuggi, in memoria di mio fratello Franco, accusarono il Ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro d’inerzia sulla legge a favore pentiti da lui promessa. Egli percepiva illegittimamente 100 milioni di lire al mese dai servizi segreti italiani. Nel 1983 erano iniziati terribili omicidi e stragi opera di una struttura segreta creata negli USA da poteri massonici, che attraverso la CIA-servizi segreti americani-, che si serviva della mafia e del terrorismo italiani, commetteva stragi e omicidi di magistrati, poliziotti, carabinieri e assassini di cittadini innocenti, come quello di Umberto Mormile e tanti altri, per creare paura e fare leggi liberticide. Ricordo alcuni di questi barbari assassini: gennaio 1983 venne ucciso il giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto, ad agosto 1983 il consigliere istruttore di Palermo, Rocco Chinnici, ad ottobre fu ucciso dalla banda della Magliana mio fratello Franco Imposimato per fermare le mia indagini su Cosa Nostra e sul barbaro assassinio di Aldo Moro, nell’estate del 1985 furono uccisi a Palermo i commissari di Polizia Beppe Montana e Ninni Cassarà, e fu commessa a Trapani la strage di Pizzolungo contro il giudice Carlo Palermo, in cui furono uccise una mamma e due bambine, colpite dalla esplosione di una potente carica di esplosivo. Dopo 2 anni dalla uccisione di Franco, per minacce di morte a altri miei fratelli e sorelle, fui costretto a lasciare l’Italia e ad andare a Vienna, sede dell’UNFDAC, e in America Latina alle Nazioni Unite per l’addestramento dei giudici colombiani, boliviani, ecuadoregni e peruviani. Non potevo fare l’eroe sulla pelle dei miei fratelli e delle mie sorelle. Paolo nel 1987 subì la ingiusta accusa di essere professionista dell’antimafia, lui nemico del carrierismo e votato solo alla causa della giustizia. Era una calunnia, che non scalfì la reputazione adamantina di Paolo Borsellino ma preparò il terreno alla sua delegittimazione, preludio della uccisione. Paolo e Giovanni continuarono da soli lotta a mafia. Ma dopo omicidi a Trapani del Giudice Alberto Giacomelli, 14 settembre 1988, e l’assassinio feroce del giudice Antonino Saetta e del figlio Stefano del 25 settembre 1988, Cosa Nostra alzò il tiro: nel Giugno 89 eseguì l’attentato a Addaura a Falcone, fallito per l’eroico intervento degli agenti Emanuele Piazza e Antonino Agostino, assassinati assieme a Ida Castelluccio, moglie di Agostino, in attesa di un bambino. Il Consiglio Superiore della Magistratura nel gennaio 88 aveva bocciato Giovanni Falcone come successore di Caponnetto alla guida dell’Ufficio Istruzione di Palermo e scelto Antonino Meli, che subito dopo sciolto il pool antimafia. Il CSM condusse contro Falcone 3 inchieste nell’89, 90 e 91. L’accusa a Falcone era di insabbiamento delle indagini per gli omicidi dell’onorevole Piersanti Mattarella avvenuto nel 1980 e dell’on. Pio La Torre nel 1982. Paolo Borsellino reagì in difesa di Falcone e fu ammonito da CSM. Paolo e Falcone si sentirono feriti dalle inchieste devastanti del CSM: Falcone rilasciò una intervista e disse a una giornalista: il CSM mi ha delegittimato, sarò ucciso. Il governo mondiale invisibile Nell’agosto del 1990 il Presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti rivelò l’esistenza di una organizzazione paramilitare, Gladio Stay Behind, alla Camera dei deputati. La funzione ufficiale di Gladio era stata, secondo Andreotti, la difesa dell’Italia da una possibile invasione da parte della Unione Sovietica. Ma vedremo che ben altri erano gli scopi. Andreotti e il Ministro dell’Interno Francesco Cossiga erano capi della Gladio in Italia. Giovanni e Paolo, che indagavano sui delitti politici di Palermo, intuirono una terribile verità: Gladio era coinvolta nei delitti politici commessi in Italia tra cui gli omicidi del Presidente della Regione Piersanti Mattarella, dell’onorevole Pio La Torre e del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie Emanuela Setti Carraro. Intanto nel settembre 1990 fu ucciso il giudice Rosario Livatino della Procura di Agrigento. La Commissione parlamentare Stragi accertò la verità sulla vera natura di quella misteriosa associazione: Gladio – Stay Behind non serviva a difendere l’Italia da una possibile invasione da parte della Unione Sovietica; era associazione illegittima a guida Cia (Central Intelligence Agency) che controllava i servizi segreti italiani e altri servizi segreti del mondo occidentale. Tutti i membri di Gladio avevano il Nulla Osta sicurezza NATO. Ma la NATO era anche la entità da cui provenivano gli esplosivi usati per tutte le stragi commesse in Italia. A questo punto occorre inquadrare la vera natura di Gladio, il mistero dei misteri, l’enigma della Repubblica. Le analisi della Commissione Stragi non erano sufficienti, né quelle della stampa e degli storici. E mentre mi dibattevo per cercare di risolvere il segreto, la buona sorte mi venne incontro. Eseguendo ricerche storiche, trovai alcuni documenti allegati alla requisitoria del Pubblico Ministero Emilio Alessandrini sulla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Quella strage era stata lo spartiacque di tutte le stragi.A darmi un aiuto fondamentale fu il mio amico ex giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio, napoletano, divenuto senatore. Egli mi diede, nel 2012, la requisitoria di Alessandrini, con tre allegati. Erano un documento del 1967 e due del maggio1969, nascosti a Montebelluna, in una banca locale, dal terrorista di Ordine Nuovo Giovani Ventura arrestato per le stragi di Milano. Essi descrivevano il governo mondiale invisibile, che aveva come struttura portante Gladio SB, parlavano della «guerra occulta», cioè della strategia della tensione, alimentata dal world deep state da anni, in varie parti del mondo e di «gruppi di pressione internazionali», tra cui Bilderberg che si valeva della CIA come braccio armato, e della necessità di compiere attentati con il sostegno di alcuni Paesi tra cui gli Stati Uniti. Il rapporto 1967 rivelò una verità sconvolgente «In un primo tempo, queste forze (Bilderberg, Cia) appoggiavano i movimenti cattolici a tendenza liberal progressista che si andavano manifestando in tutto il mondo. Ma a partire dalla Amministrazione Kennedy – «con la quale la CIA conseguiva la maggiore età» – la loro posizione si orienta verso posizioni sempre più estremiste, fino a divenire un autentico governo invisibile che orienta a suo capriccio la politica governativa, con una potenza ed una abbondanza di mezzi che non hanno precedenti nella storia americana. La CIA, in origine progettata come organismo informativo per la elaborazione della politica estera del Capo della Casa Bianca, si è trasformata in una forza di sovversione che si insinua negli affari interni degli altri paesi» (rapp RSD I Z n 230 5.VI.1967). Ma la Cia si valeva in Italia di politici, forze dell’ordine, terroristi, Cosa Nostra e di ogni tipo di criminali. Una conferma venne dalla scoperta fatta nel 2012: i servizi italiani avevano gli uffici in via Sicilia a Roma, a breve distanza da un ufficio del OSS, della CIA, di una sede di Gladio SB, di una società di copertura di Ordine Nuovo e della associazione massonica ONPAM fondata da Licio Gelli. (Imposimato Repubblica Stragi Newton Compton 2012 p46). Tutto questo aiuta a capire cosa c’era dietro le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Tornando a via D’Amelio e alle stragi che la precedettero, il gladiatore Francesco Elmo, studente universitario di destra, confessò ai PM di Trapani che di Gladio facevano parte uomini delle istituzioni, politici, civili, militari e mafiosi; disse che Gladio era coinvolta nella strage dell’ Addaura, contro Falcone – salvo per il coraggio di due coraggiosi agenti di Polizia, Emanuele Piazza e Antonino Agostino, poi uccisi-, e negli omicidi dell’onorevole Pio La Torre, Piersanti Mattarella, nella strage del consigliere Rocco Chinnici, nella strage Pizzolungo contro Calo Palermo, e in altri delitti (A. Sorrentino: chi ha ucciso Pio La Torre). Nel 2008 scoprii che Aldo Moro era stato vittima di una operazione Gladio; la quale aveva agito attraverso l’agente della Cia Steve Pieczenik,- inviato in Italia da Henry Kissinger consulente del Ministro dell’Interno Francesco Cossiga, – i servizi segreti inglesi e tedeschi. Pieczenick accusò Andreotti e Cossiga di avere voluto la morte di Aldo Moro. Ma Kissinger era anche uno dei fondatori del gruppo Bilderberg.Il rapporto 1967 fa un’ammissione straordinaria «In un primo tempo, queste forze (Bilderberg, Cia ed Ada) appoggiavano i movimenti cattolici a tendenza liberal progressista che si andavano manifestando in tutto il mondo. Ma a partire dalla Amministrazione Kennedy- con la quale la CIA conseguiva la maggiore età – la loro posizione (ADA e AFL-CIO) si orienta verso posizioni sempre più estremiste, fino a divenire un autentico governo invisibile che orienta a suo capriccio la politica governativa, con una potenza ed una abbondanza di mezzi che non hanno precedenti nella storia americana. La CIA, in origine progettata come organismo informativo per la elaborazione della politica estera del Capo della Casa Bianca, si è trasformata in una forza di sovversione che si insinua negli affari interni degli altri paesi» (all RSD I Z n 230 5.VI.1967 oggetto: gruppi di pressione internazionale in occidente) La svolta: Gladio nel mirino di Falcone e Borsellino Nel 1990 avvenne la svolta: Falcone decise di indagare su Gladio e sulla sua probabile implicazione negli omicidi Mattarella, La Torre e altri. Il Procuratore di Palermo, Pietro Giammanco, amico di Andreotti, si oppose in modo frontale a quella scelta. Qualcuno disse che Giammanco faceva parte di Gladio, ma non c’erano prove certe. Falcone fu costretto a lasciare la Procura di Palermo e ad andare al Ministero della Giustizia. Il suo obiettivo era fare la legge sui pentiti, la Procura Nazionale Antimafia, la legge sull’isolamento dei mafiosi più pericolosi (il famoso 41 bis), ed altre leggi necessarie alla lotta alla mafia. Alla Procura di Palermo, Paolo restò solo ma continuò a vedere Giovanni Falcone sia andando al Ministero in via Arenula, sia incontrandolo a Palermo, quando Giovanni Falcone tornava perché aveva nostalgia della sua terra. Nel 1991 Falcone scrisse nella sua agenda elettronica appunti sul ruolo di Gladio negli assassini di Palermo; e Paolo Borsellino era perfettamente d’accordo su questa diagnosi, ma entrambi trovarono ostacoli nel Procuratore di Palermo Giammanco che rifiutò di seguire la pista della connessione degli omicidi Mattarella e La Torre con la associazione Gladio, definita illegittima dalla Commissione Stragi: Giovanni ne parlò amareggiato con Paolo, che probabilmente annotò le notizie su Gladio su agenda rossa, quella agenda che poi scomparve dalla macchina di Borsellino perché prelevata e sottratta ai familiari di Paolo. Il 25 giugno 92 a Palermo, PaoloBorsellino rivelò «di avere saputo molte cose da Giovanni Falcone prima della strage di Capaci ma non poteva parlare pubblicamente», «parlerò col Procuratore della Repubblica di Caltanissetta (Celesti): circa i diari di Giovanni Falcone posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano, anche su questi appunti innescare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul Sole 24 ore dalla giornalista Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi» (Giommaria Monti Falcone e Borsellino, la calunnia, il tradimento Editori Riuniti). Ma cosa dicevano questi appunti? Il cuore di questi appunti di Falcone riguardava Gladio «Si è rifiutato di telefonare a Giudiceandrea per la Gladio, prendendo pretesto dal fatto che il procedimento non era stato assegnato ad alcun sostituto» (il Procuratore della Repubblica di Roma indagava personalmente su Gladio nella Capitale e chiese l’archiviazione in cambio della proroga della permanenza in servizio fino a 72 anni decisa dai gladiatori Andreotti e Cossiga) «Nella riunione di pool per la requisitoria Mattarella, mi invita in maniera inurbana a non interrompere i colleghi (13 dicembre 1990) «18.12.1990. dopo che ieri pomeriggio si è deciso di riunire i processi Reina, Mattarella e La Torre, stamattina gli ho ricordato che vi è istanza di parte civile nel processo La Torre di svolgere indagini su Gladio. Ho suggerito di chiedere al giudice istruttore di svolgere noi le indagini in questione, incompatibili col vecchi rito, acquisendo copia dell’istanza in questione». Falcone voleva fare indagini su Gladio. «19.12.1990. Altra riunione con lui, con Sciacchitano». Insistono nel rinviare tutto alla requisitoria finale e, nonostante mi opponga, esclude il nesso con Gladio «19.12.1990. Non ha più telefonato a Giudiceandrea e così viene meno la possibilità di incontrare i colleghi romani che si occupano di Gladio» Era chiaro che la ossessione di Falcone era l’indagine su Gladio. Paolo sapeva di Gladio, costato la vita all’onorevole La Torre, come aveva accertato l’avv. Armando Sorrentino difensore della moglie di La Torre Precisi elementi, ricavati dai tre predetti documenti, allegati alla requisitoria di Emilio Alessandrini, mi consentirono di scoprire che Gladio era responsabile della strategia stragista in Italia a partire dalla Strage di Portella della Ginestra. Stragi di Capaci e via D’Amelio ebbero stessi organizzatori ed esecutori: Cosa Nostra. Ecco gli elementi che legano le stragi a Gladio 1) I documenti 67 e 69 allegati alla requisitoria del PM Emilio Alesandrini parlavano di governo mondiale occulto di cui Cia, definita un mostro, era braccio armato, che si serviva di terrorismo nero e rosso e di Cosa Nostra 2) in tutte le stragi, comprese quelle di Capaci e via D’Amelio, c’era stato uso esplosivo T4 di tipo militare NATO, che non si trova in commercio 3) il mafioso Francesco Di Carlo disse ai magistrati: dopo Addaura agenti con accento inglese e il dottor La Barbera, andarono più volte in carcere Full Sutton Londra e gli chiesero il nome di un esperto in esplosivi per uccidere Giovanni Falcone, Di Carlo indicò agli agenti il nome di Antonino Gioè che indicò quello di Pietro Rampulla che partecipò a Capaci: e fu condannato all’ergastolo. 3) l’on Rino Formica nel 2014 disse alla giornalista Stefania Limiti dell’arrivo a Palermo, il giorno dopo Capaci, di agenti FBI che avevano avocato le indagini e gestito al posto degli inquirenti italiani. Essi in realtà depistarono indagini secondo tecniche esposte in sentenza dal Giudice Istruttore Leonardo Grassi di Bologna che indagava sulla strage di Bologna. Lo stesso avvenne con Strage di via D’Amelio. 4) Pentiti di Cosa Nostra dissero «ordine da America era di fare un botto enorme». Per Falcone attentato Addaura era fallito perché volevano un attentato eclatante 5) Elmo indicò la matrice Gladio per strage Addaura e altri delitti come l’uccisione del giudice Rocco Chinnici 6) Totò Riina secondo una ricerca di una tesista della facoltà di scienze dell’Investigazione della Università l’Aquila, Luisiana Noviello, era un agente CIA, (che gestiva Gladio ndr) 7) L’ex Pubblico Ministero, dr Luca Tescaroli, che era stato in servizio a Caltanissetta, accertò che Vito Ciancimino era membro di Gladio. Nel settembre 2016, nella NY University tenni diverse conferenze in cui ricostruii la strategia della tensione in Italia, che aveva condizionato in senso reazionario la vita politica del nostro Paese, e indicai nel Governo mondiale il mandante occulto dei massacri, a partire da Portella della ginestra per proseguire con Piazza Fontana fino alle stragi di Capaci e via D’Amelio e a quelle del 1993 a Galleria degli uffizi in via dei Georgofili a Firenze, a San Giovanni, a Roma, e a Milano.(Rep Str imp oggetto di dibattito in NY University, che ha pubblicato la copertina sul grande schermo). – Conclusione: i depistaggi istituzionali nelle indagini e nei processi per le stragi del 1992 hanno impedito per anni l’accertamento della verità. Tuttavia le Corti Assise di Caltanissetta e di Catania nel 2017 hanno riconosciuto i depistaggi istituzionali e hanno assolto Scarantino e tutti quelli accusati da lui su pressione del commissario La Barbera e altri. La Corte Caltanissetta, il 20 aprile 2017, ha quindi rilanciato la pista del depistaggio istituzionale e concluso che Scarantino fu indotto a mentire da altri, e trasmesso gli atti alla Procura nissena perché riapra indagine che nel 2015 si era chiusa con l’archiviazione del Giudice Indagini Preliminari. Grazie alla tenacia di Salvatore Borsellino e della sua nobile famiglia, di fronte alla quale mi inchino per la sua dignità e il suo coraggio, grazie alle indagini degli avvocati Fabio Repici, Stefano Mormile e di tanti altri, è stato dato un contributo formidabile alla verità e scongiurato un errore che avrebbe ostacolato le ricerche e offeso la memoria di Paolo. Solidarietà ad Angelina Manca, Vincenzo Agostino, Paola Caccia, Nunzia e Stefano Mormile, i coniugi Domino per la perdita dei loro familiari ad opera di feroci assassini. – Politici italiani e stragi. No a speculazione politica, ma non posso tacere con omertà e reticenza. Sento, in questo momento solenne, verso Paolo, Giovanni, Francesca ed eroici uomini delle scorte e vittime stragi, un dovere di verità storica. Senza rifondare la verità non si rifonda l’Italia. A Palermo nel 2017 è nata l’associazione memoria e futuro per accertare la verità storica nelle stragi. Dopo avere parlato di Gladio e del Governo Mondiale invisibile di cui al documento «RSD I Z n 230 del 5.VI.1967 oggetto: gruppi di pressione internazionale in occidente», non sembri strano il riferimento a governanti italiani, che grazie al sostegno con ogni mezzo di quei gruppi di pressione internazionali, conquistarono il Potere eliminando i difensori della democrazia come Falcone e Borsellino, che si batterono contro Gladio: si tratta dell’entrata in scena di Silvio Berlusconi e di Marcello Dell’Utri, che nel libro la Repubblica delle stragi impunite del 2012, erano stati «indicati dal boss Gaspare Spatuzza come i nuovi interlocutori di Cosa Nostra» (F. Imposimato Repubblica delle stragi impunite Newton Compton p 312) «il richiamo a Berlusconi e Dell’Utri era stato fatto anche dal mafioso Giuseppe Monticciolo nel 2000. Egli raccontò al magistrato Chelazzi di Firenze, coraggioso e acuto, che le stragi del 1993 erano state richieste a Leoluca Bagarella da Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, tramite il fattore di Arcore Vittorio Mangano» (F. Imposimato ibidem p 312). Ma i rapporti di Berlusconi con Cosa Nostra erano antichi e risalivano alla metà degli anni settanta. Secondo quel documento, la CIA (e il gruppo Bilderberg nda) si era «poco a poco radicalizzata verso posizioni sempre più estremiste fino a divenire un autentico “Governo invisibile” che orienta a suo capriccio la politica governativa, con una potenza ed abbondanza di mezzi che non hanno precedenti nella storia americana. La CIA, in origine progettata come un organismo informativo per la elaborazione della politica estera del capo della Casa Bianca, si è trasformata in una forza di sovversione che si insinua negli affari interni degli altri paesi» Il documento del 1967 proseguiva dicendo «due anni or sono, tenendosi a Roma la riunione del consiglio direttivo del gruppo Bilderber(sic), mr Sulzberger, servendosi del New York Times, rendeva noto il nuovo cambio di rotta che si stava per intraprendere» (documento RSD/1 Z n 230 5.6.1967 gruppi di pressione internazionale in occidente) «l’esistenza di una guerra occulta non è una novità». Del resto le connessioni tra il Governo italiano e Gladio sono apparse evidentissime nella guerra all’Iraq. La decisione del Presidente USA George Bush e del premier inglese Tony Blair di scatenare la ingiusta guerra all’IRAQ, causa delle nostre rovine attuali, in base all’inesistente «pericolo Saddam Hussein guerra nucleare», fu favorita dalla CIA, architrave di Gladio. E pienamente sostenuta dal premier italiano Silvio Berlusconi «uno degli ispiratori della frode del Niger Gate». Il 19 febbraio 2003 al Senato della Repubblica, Berlusconi fece riferimento a «elementi di prova sul riarmo di Saddam Hussein», e in seguito disse «Gli Stati Uniti non resteranno soli nell’impedire la proliferazione delle armi di distruzione di massa», che poi Bush (2008) e Blair (2015) ammisero pubblicamente essere stata una totale falsità dei fatti che aveva provocato la guerra all’IRAQ. (F. Imposimato La grande menzogna 2006 Koinè p 61). In tal modo si comprende come il Governo Berlusconi sia stato emanazione del Governo mondiale invisibile che ha governato l’Italia e ha eseguito gli ordini della CIA e di Gladio, coinvolte nelle stragi di Capaci e via D’Amelio. Concludendo – Molti pentiti, credibili per i magistrati di Palermo e Firenze, affermano che stragi del 92 e 93 erano funzionali al ricambio di referenti politici della I Repubblica e al sostegno ai nuovi referenti nella conquista del potere. I pentiti sono Gaspare Spatuzza, Giuseppe Monticciolo, Salvatore Cancemi, Giuseppe Graviano, Francesco di Carlo e diversi altri. I rapporti di Berlusconi con i capi di Cosa Nostra, secondo il mafioso Di Carlo, risalivano a metà degli anni settanta. I fatti sono stati ricostruiti in documenti e libri inchiesta e anche in sentenze, le quali non hanno mai portato alla condanna di Silvio Berlusconi. Verità storica e verità processuale possono non coincidere, nel senso che una sentenza esclude la rilevanza penale di alcuni accadimenti, i quali siano però fattualmente accertati. In questi casi, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, non può essere predicata la non verità dei fatti solo perché una sentenza ne ha escluso la illiceità penale (Pisauro, Provvisionato e Imposimato Corruzione ad alta velocità ed Koinè p 21) I fatti emergono da 1) un documento del 5 aprile 1984, risulta che un pentito rivelò a Falcone e Borsellino riciclaggio di esponente di Cosa Nostra, Gaetano Fidanzati in imprese immobiliari di giovane imprenditore: Silvio Berlusconi. Nessuno ha mai messo in dubbio veridicità di quel verbale pubblicato in libro. Il Tribunale di Roma in sentenza su banda della Magliana denunziava inerzia di Procura di Roma di fronte a fatti penalmente rilevanti «Tra marzo 1980 e luglio 1981 un grande flusso di denaro derivante dai finanziamenti di Silvio Berlusconi, per l’acquisizione di terreni in Sardegna,..I rapporti tra Carboni e Comincioli, come quelli fra Carboni e Berlusconi, che hanno interessato un movimento di più di 20 miliardi per operazione Olbia Due, non sono stati giudicati come sospetti dagli inquirenti» (R d S I p 317). 2) Spatuzza dichiara, il 16 giugno 2009, ai PM della DDA di Firenze Alessandro Crini e Giuseppe Nicolosi «Cosa Nostra era un’associazione mafiosa terroristica» essendosi spinta verso campi che non erano propri. (Lo Bianco e Rizza Agenda nera Chiare lettere p357). 3) Spatuzza racconta ai PM di Firenze incontro del luglio 1993 col capo mafia Giuseppe Graviano, in casolare di Campo Felice di Roccella, di Palermo. Graviano gli dice che gli attentati al patrimonio artistico italiano sono legati all’accordo con Berlusconi e Dell’Utri, indicati da Graviano come i nuovi interlocutori di Cosa Nostra. (Lo Bianco ib) Berlusconi e Dell’Utri «prima si accreditarono facendo fare le stragi» e poi apparvero come coloro in grado di farle cessare. Berlusconi e Dell’Utri negano. 4) Sembra certo che Berlusconi abbia versato a M. Dell’Utri l’equivalente di 80 miliardi di lire, (RSI p 312) la magistratura contestò l’estorsione a Dell’Utri. Le Magistrature di Firenze, Palermo e Caltanissetta definirono attendibile Spatuzza; del resto non si capiva l’interesse di Cosa Nostra a fare, nel 1993, attentati al patrimonio artistico di Firenze, Milano e Roma. Essi ne ignoravano persino la esistenza. Giuseppe Graviano confermò in colloquio con detenuto Adinolfi, il 10 aprile 1996 i collegamenti Cosa Nostra – Berlusconi alla vigilia delle stragi (Corsera 10.6. 17) Fatta salva la presunzione di non colpevolezza fino alla sentenza definitiva, esistono gravi accuse contro esponenti politici ben individuati, accuse che non possono essere ignorate. In base al principio di obbligatorietà dell’azione penale (art 112 “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”) le persone accusate devono essere oggetto di indagini, come avviene per tutti i cittadini, tanto più se si tratta di criminali socialmente pericolosi (Tribunale di Milano). La Costituzione e la legge Anselmi L’art 18 della Costituzione vieta le associazioni segrete come il gruppo Bilderberg e Gladio: afferma «sono proibite le associazioni segrete». La Legge Anselmi contro le associazioni segrete, del 1982, gennaio, firmata dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini aveva una precisa funzione. Dotare la Repubblica di una legge che ponesse fine alle associazioni segrete, il cancro che ha minato fino alle fondamenta la solidità democratica del nostro Paese negli anni dal 1948 fino al 1980. 40 anni dopo, forze esterne al Parlamento, tra cui il gruppo Bilderberg saltano fuori per condizionamenti illeciti e terrorismo che si sommano alle numerose inchieste dei magistrati di mezza Italia. Tutti gli elementi che richiamano in mente gli anni bui della loggia guidata da Licio Gelli, con molti piduisti rientrati in scena, tra cui Berlusconi. La legge Anselmi ritorna attuale. Essa dice Art. 1 Si considerano associazioni segrete, vietate dall’art 18 della Costituzione, quelle che, anche all’interno delle associazioni palesi, occultando la loro esistenza o tenendo segrete finalità e attività sociali, o tenendo segrete finalità e attività sociali, i soci svolgono attività diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi Costituzionali, di amministrazioni pubbliche, etc. (In questo tipo di associazione segreta rientrano la Trilateral commission e il gruppo Bilderberg) Art. 2 Chiunque promuove o dirige una associazione segreta, ai sensi dell’art 1, o svolge attività di proselitismo a favore della stessa, è punito con la reclusione da 1 a 5 anni. Chiunque partecipa ad una associazione segreta è punito con l’interdizione per un anno dai pubblici uffici. Ma essa non viene attuata, ma dovrebbe essere attuata. Ricordando Paolo, mi rivolgo ai giovani, la cui assenza dalla vita sociale e politica significa la fine della speranza per tutti noi. E’ responsabilità dei governanti e degli adulti non avere creato ai giovani un ambiente accogliente ove la speranza fosse possibile. Giovani, ispiratevi a Paolo e a Giovanni; fuggite le vacue tentazioni, sappiate ritrovare, come Paolo, le vie della faticosa preparazione, della modestia delle vigilie, del sacrificio e della dedizione nella preparazione. Non raccomando, a voi giovani, il facile successo come scopo della vita. L’uomo di successo è colui che riceve spesso moltissimo dal proprio prossimo, molto di più del servizio da lui prestato al prossimo. Il valore di un uomo si valuta da ciò che egli dà al prossimo, non da ciò che egli riesce a farsi dare. Ma i giovani devono impugnare la fiaccola della libertà e proseguire la nuova resistenza contro i poteri occulti, siano essi Bilderberg che Cosa Nostra o associazioni terroristiche. Paolo ebbe come baluardo la Costituzione; sia ancora, o giovani, la Costituzione la vostra stella polare, la vostra corazza, il vostro scudo come lo fu per Paolo e Giovanni: essa non è un arido elenco di articoli senza nome, ma il testamento spirituale di 200000 mila morti e oggi anche dei martiri della Nuova resistenza Paolo, Giovanni, Francesca, Emanuela Loi e tanti altri umili ma fieri servitori dello Stato. Dietro ogni articolo della Costituzione ci sono giovani, giovani come voi, caduti, caduti combattendo, giovani che hanno dato la vita perché le parole giustizia e libertà venissero scritte su questa carta. Viva Paolo Borsellino e Giovanni Falcone e tutti i caduti in difesa della democrazia.
LUCIANO COSTANTINI – Magistrato collega di Borsellino Vivo e lavoro ormai lontano dalla Sicilia e le mie opinioni si formano solamente sulla base di una lettura dei fatti di cronaca riportati dai giornali e su un esame critico dei provvedimenti legislativi fioriti in questi anni, oltre che su conversazioni (ahimè, sempre più sporadiche) con i colleghi che ancor lavorano in quei luoghi, ed al termine delle mie riflessioni, non posso che pervenire alla conclusione che forse il giorno in cui la mafia sarà debellata è ancora molto lontano. E, con un sapore amaro, mi ritornano in mente le parole di Paolo che, invece, nel suo inguaribile ottimismo sosteneva con convinzione che “cosa nostra” era destinata ad un’ineluttabile sconfitta. Il suo ragionamento non era, però, destituito di fondamento, ma si basava (come sempre, del resto) su elementi di fatto incontestabili in quei tempi. Osservava Paolo che uno della sua generazione non poteva essere pessimista perché quando lui era ancora un bambino che giocava nel quartiere della Kalsa di Palermo chi nominava la mafia era considerato uno che voleva diffamare la Sicilia ed i siciliani perché, secondo l’opinione comune, “la mafia non esisteva” e non doveva esistere. Con il passare degli anni egli, invece, aveva potuto constatare che nelle vie di Palermo i giovani hanno iniziato a parlare della mafia, ne hanno ammesso l’esistenza e, nel contempo, hanno cominciato a negarle il consenso. Se quindi è vero, come sosteneva Paolo Borsellino, che discutere di mafia, anzi, il solo fatto di nominarla costituisce il primo ineludibile gradino per combatterla e sconfiggerla, l’assordante silenzio sul cancerogeno fenomeno mafioso ascoltato nei programmi elettorali e di governo mi induce a ritenere che si è fatto certamente un passo indietro rispetto alle realistiche previsioni formulate dal compianto collega. Oggi la lotta alla mafia rappresenta una vuota “clausola di stile” da inserire nei discorsi propagandistici ed il contrasto ai poteri criminali non è più inteso come impegno della comunità nel suo intero, ma solo come attività demandata all’esclusivo ed encomiabile impegno di magistrati totalmente isolati dal resto della società e delle istituzioni. Mi è stato sollecitato un ricordo di Paolo Borsellino ed io non posso che rammentare la sua bontà. Molte persone, non appena vengono a sapere dell’esperienza di lavoro che ho vissuto con Paolo, mi chiedono un giudizio personale su di lui. lo rispondo sempre: “Paolo era un uomo buono” e tale affermazione mi pare che deluda i miei interlocutori, i quali mi sembra che la intendano come riduttiva della figura di questo straordinario magistrato. lo, invece, ancora oggi ritengo che nessun’altra definizione meglio si attagli a ciò che Paolo è stato. Con questo non voglio sottacere le straordinarie doti professionali di Paolo, magistrato insigne, dotato di grande carisma, in grado di individuare subito il punto fondamentale di ogni questione che gli si poneva di fronte e capace di risolverla sempre nel modo più equo e conforme a giustizia. Di lui ho saputo apprezzare l’eccezionale capacità di garantire a noi sostituti una completa autonomia, facendoci sempre, nel contempo, sentire la sua vigile presenza protettiva e considero come fondamentale insegnamento di civiltà giuridica le sue continue esortazioni a rispettare la legge e ad applicarla con rigore ed equità. Del resto, i successi professionali di Paolo Borsellino sono noti a tutti: basti pensare alla sentenza-ordinanza del primo maxi- processo alla mafia, scritta, insieme a Giovanni Falcone, durante un’estate trascorsa all’interno dell’istituto penitenziario dell’Asinara, ove lo Stato li aveva costretti ad alloggiare in quanto impossibilitato a garantirgli altrove un’idonea protezione, oppure agli ordini di cattura emessi sempre nell’ambito di quel processo e dei quali, con orgoglio, Paolo amava ripetere che erano passati indenni al seppur severo vaglio della Corte di Cassazione. Nonostante ciò, però, io continuo a ritenere che la dote più rilevante di Paolo Borsellino sia stata la bontà d’animo ed in questo sono stato confortato da quanto riferitomi anche da sua moglie Agnese che mi ha parlato di quel “fanciullino di pascoliana memoria” che albergava nell’animo si suo marito. Paolo era un puro d’animo, un uomo di specchiata onestà e di grande integrità morale, una persona che ha vissuto una vita cristallina. Io ho sempre ammirato la sua abilità di individuare la parte più debole di ogni vicenda umana in cui per ragioni personali o professionali si imbatteva e la sua capacità di schierarsi immediatamente a fianco di chi aveva subito dei torti. Lo rammento come un uomo di grande sensibilità e tra tutti i ricordi che si affastellano nella mia mente mi piace ricordare un episodio che ha visto come protagonista una bimba, perché in esso ritrovo la sintesi più mirabile delle qualità di Paolo e perché ritengo che solo una persona munita di grande sensibilità, come era lui, è in grado di stabilire un rapporto così intenso con chi, come i bambini, costituisce l’espressione più alta della purezza dei sentimenti e della ingenuità. Ero appena arrivato a Marsala e Paolo alla fine di una giornata di lavoro mi invitò a cena insieme agli altri colleghi. Mi disse che voleva portarmi a mangiare in un posto incantevole. In effetti il ristorante si trovava su una lingua di terra proiettata nel mare siciliano e la serata di tarda primavera faceva sì che al tramonto il mare ed il cielo si accendessero di mille luci e quasi si confondessero in un caleidoscopio di colori. Appena entrati nel ristorante vidi farsi incontro a Paolo una bambina di non più di sei anni, con capelli biondi raccolti in due codine, che si gettò tra le sue braccia. Paolo la prese in braccio e la accarezzò teneramente, tant’è che la bimba rimase per quasi tutta la serata sulle sue ginocchia. Tale atteggiamento mi colpì, ma il mio stupore cessò quando alla fine della serata seppi chi era quella bimba. Si trattava dell’unico testimone oculare della caduta di un aereo militare avvenuta nei pressi dell’aeroporto di Trapani. Paolo, che indagava su quel fatto, aveva dovuto sentire quella bambina rimasta comprensibilmente scossa dalla scena alla quale aveva assistito e, consapevole della forma di violenza che inevitabilmente andava ad esercitare sulla bambina, obbligandola a ricordare un fatto per lei doloroso, era riuscito a trovare quelle parole, quei modi e quei gesti che solo chi ha una grande purezza d’animo può utilizzare senza ferire la sensibilità di un essere ingenuo e fragile come una bambina di quell’età. Quest’uomo era Paolo Borsellino e così mi piace ricordarlo. da Mì, periodico napoletano n. 5-6 luglio-agosto 2001
LUCIANO COSTANTINI collega di Paolo Borsellino alla Procura di Marsala “Conobbi Paolo Borsellino alle 7,00 del 2 novembre 1990, quando egli personalmente passò a prendermi all’albergo di Palermo dove alloggiavo. Ero arrivato la sera prima, perché da pochi giorni avevo scelto la prima sede del mio lavoro di magistrato: sostituto procuratore della Repubblica a Marsala. Cioè, la Procura di Paolo Borsellino. Avevo voglia di sapere dove avrei trascorso i prossimi anni della mia vita, ma soprattutto morivo dal desiderio di conoscere Paolo. Immaginate quale fu la sorpresa quando mi disse che lui stesso sarebbe venuto a prendermi per andare insieme a Marsala. Il 1° novembre era festa, e quella sera Palermo era davvero splendida: calda, accogliente e piena di gente come sa essere una grande città del sud. Girare per le sue piazze e le sue strade, respirare quell’aria tiepida di un’estate che laggiù non finisce mai, era il miglior modo per attendere l’incontro dell’indomani. Il giorno dopo sarebbero stati commemorati i defunti e anche questa è una grande festa, laggiù nell’isola: quella notte i morti portano ai bimbi la frutta Martorana, e in qualche paese alcune famiglie vanno ancora a banchettare al cimitero con i loro cari. C’è un continuum inscindibile tra vita e morte. Giovanni Falcone diceva che “la vita vale un bottone”. Ed è vero. Ricordo che a Marsala fu ucciso un ragazzo di quattordici anni. Si scoprì subito che gli autori erano stati alcuni suoi amici, entrambi minorenni, e che il movente era stato il furto di un ciclomotore. Ha raccontato uno dei due omicidi che l’amico gli chiese se fosse stato opportuno uccidere quel loro coetaneo che gli aveva rubato il motorino ed egli rispose: “Pi mia”. La stessa cosa che decidere se trascorrere la serata al cinema o al ristorante. “Pi mia, per me è uguale”. La vita non vale niente nell’ignoranza che la mafia coltiva e fa crescere. La cortesia di Paolo di passare a prendermi in albergo mette in risalto una delle sue più grandi doti: l’umiltà. Uno dei più famosi magistrati italiani e del mondo va a prendere l’ultimo degli uditori che si appresta ad iniziare a lavorare nella sua Procura. Paolo aveva con sé l’Alfa Romeo blindata che guidava personalmente, e insieme ci avviammo verso Marsala. Credo che quel giorno Paolo, incallito fumatore, abbia battuto il record di astinenza dal fumo. Era rimasto senza sigarette, e siccome nell’autostrada che collega Palermo a Trapani non esiste né una stazione di servizio né un autogrill, ha dovuto rassegnarsi a non fumare. Nel breve volgere di quell’ora e mezza di viaggio, con la sua affascinante capacità di sintesi, Paolo mi parlò del lavoro, della città, dei colleghi, dei suoi collaboratori e anche di parte della sua vita”. “Era un sabato di settembre del 1991, ero l’unico dei sostituti non in ferie e, naturalmente, ero di turno. Stavo guardando in tv il giro ciclistico del Lazio e, da poco in Sicilia, avevo il cuore gonfio di nostalgia, che passava appena un po’ quando guardavo luoghi per me familiari. Squillò il telefono cellulare e dall’altra parte c’era Paolo. Mi disse subito: “indovina chi mi ha chiamato?”. Io feci qualche fallimentare tentativo fino a quando Paolo mi disse che aveva appena ricevuto una telefonata dall’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. In quei giorni tutti i media nazionali davano conto di un contrasto insorto tra la Procura della Repubblica di Marsala e quella di Trapani in ordine alla competenza territoriale per le indagini sul rapporto mafia-politica e per cui erano indagati tre parlamentari nazionali residenti ed eletti nel circondario della città libetana. Alla fine la Procura di Trapani cedette e trasmise gli atti a Marsala. Paolo rivendicò con tutta la sua autorevolezza la competenza della sua Procura e per questo ricevette la telefonata di Cossiga. Anche la seconda domanda che Paolo mi rivolse (“Sai cosa mi ha detto?”) ha avuto una mia risposta sbagliata. “Mi ha detto: vada avanti così, Procuratore”. Detta così la frase è di poca importanza, ma chiunque l’avesse ascoltata con le sue orecchie, sarebbe scoppiato in una grossa risata. Infatti, Paolo la pronunciò imitando (male) il presidente. Ora, chi ha conosciuto Paolo sa che egli aveva una marcata inflessione non solo palermitana, ma di palermitano del quartiere della Kalsa. E sentirlo parlare con quella buffa pronuncia che aveva la pretesa di essere sarda era davvero esilarante. All’epoca era ancora in vigore la normativa che prevedeva l’autorizzazione a procedere per i parlamentari e imponeva che, entro un mese dall’iscrizione del nominativo nel registro delle notizie di reato, il Pubblico Ministero chiedesse quella autorizzazione alla Camera di appartenenza. Paolo iniziò a ritmo serrato le indagini, che conduceva nella sua stanza interrogando tutto il giorno testimoni e indagati. Una sera, al termine della giornata, lo andai a salutare e gli dissi che “si era preso proprio una patata bollente” e lui mi rispose: “Si, è una patata bollente, ma a me piace scottarmi”. La frase mi colpì, ma solo dopo anni ne compresi il significato. Con quelle parole Paolo mi aveva indicato l’essenza intima del mestiere del giudice, che è quella di prendersi la responsabilità delle scelte. “Ci sono alcuni esempi da me appresi direttamente che rivelano le inarrivabili qualità di Paolo come magistrato. Un giorno, parlando dell’associazione per delinquere di stampo mafioso, il discorso cadde sul significato di omertà, lavoro che ha affaticato decine di autorevoli giuristi e che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro. A un certo punto Paolo mi disse: “Sai cos’è l’omertà? E’ quando io interrogo Paolo Borsellino e gli chiedo se si chiama Paolo Borsellino, e lui mi risponde: questo non glielo posso negare”. Una risposta geniale, che meglio di ogni cosa sapeva spiegare il tratto caratteristico più deteriore della mafia: quello di rifiutare pervicacemente l’autorità dello Stato. In un’altra occasione di fronte a una signora che dirigeva un importante traffico di stupefacenti nella città di Marsala e che tentennava di fronte alla prospettiva di collaborare con la giustizia, Paolo disse: “Signora, si ricordi: nessuno si è mai pentito di essersi pentito con Paolo Borsellino”. L’espressione è divertente, ma contiene molto di più di un motto di spirito. Con quella frase Paolo metteva in gioco tutto sé stesso e l’intera sua autorità dicendo al proprio contraddittore: “Io sono lo Stato. Di me ti puoi, ti devi fidare”. Sì, proprio quello Stato incapace che lo aveva relegato in un penitenziario di una piccola isola perché non era in grado di proteggerlo. E che gli aveva fatto pagare il prezzo del soggiorno. Con quel gioco di parole Paolo Borsellino consegnava all’intera collettività – e, quindi, a tutti noi- la sua autorità, la sua storia ed il suo volto, sì da costringere a quel punto l’interlocutore a scegliere lo Stato perché lui ne era il garante e il rappresentante. E quanto sia importante sforzarsi a essere migliori e più efficienti di Cosa Nostra me ne sono accorto qualche anno più tardi quando, applicato dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, mi capitò di assistere al primo colloquio con un mafioso di un piccolo paese della provincia di Trapani che aveva deciso di collaborare. Quando il procuratore gli domandò perché era diventato mafioso, questi rispose in siciliano stretto: ”perché quando ero piccolo chi comandava era la mafia”. Quell’uomo esprimeva un concetto tanto elementare quanto inattaccabile: gli uomini stanno tendenzialmente dalla parte di chi vince, di chi è più efficiente. E’ amaro constatare che in Sicilia troppo spesso e troppe volte lo Stato, in tutte le sue espressioni territoriali, quando si tratta di efficienza, soccombe alla mafia. Questa dote di Paolo di impersonare lo Stato consente di comprendere le ragioni di quella che molti considerano la settima vittima della strage di via D’Amelio. Sette giorni dopo l’eccidio, gettandosi dal balcone di una casa della periferia romana, si è suicidata Rita Atria, figlia di un noto capo-mafia della valle del Belice, che poco tempo prima aveva deciso di iniziare la collaborazione con la giustizia, svelando fatti importanti riguardanti la sua famiglia e la faida mafiosa che aveva insanguinato per anni le strade di Partanna, suo paese natale. Per la giovane donna l’identificazione di Paolo con lo Stato era così completa che la morte di Paolo ha determinato il crollo dei motivi della sua scelta di vita e il venir meno della sua stessa ragione di esistere. L’autorevolezza di Paolo era così forte che non aveva bisogno di mostrare i muscoli per far rispettare le regole: bastava la forza persuasiva della sua persona. Nella Procura di Marsala c’era un impiegato che la mattina entrava in ufficio in ritardo. Nessuna minaccia di rilievi disciplinari, nessun procedimento iniziato verso quella persona. È bastato a Paolo una mattina mettersi all’ingresso del palazzo di giustizia alle otto con la sua inseparabile sigaretta tra le labbra e salutare l’impiegato ritardatario mentre arrivava. Questi, che era una persona intelligente, capì che non poteva entrare al lavoro dopo il suo dirigente, e da quella mattina il suo orologio tornò a essere puntuale. L’esempio di chi ricopre posizioni di vertice può molto di più di mille sanzioni disciplinari”. Ricordo che l’ultima volta che l’ho visto il 4 luglio 1992, quando venne a salutare tutti i colleghi e i collaboratori di Marsala, da cui tre mesi prima era andato via rapidamente, per dare un taglio brusco e netto ad un legame troppo forte- era un uomo non solo affranto per la perdita dell’amico di una vita, ma anche una persona piena di timore. Non era necessario ascoltare le parole preoccupate del suo discorso, ma bastava vedere il suo sguardo privato della tipica lucentezza per capire che qualcosa lo tormentava. Qualcuno di noi gli chiese se sarebbe andato a villeggiare a Villagrazia di Carini, come faceva tutte le estati. E Paolo rispose di no, aggiungendo che la moglie Agnese aveva paura (“Agnese si scanta”, disse) a passare tutti i giorni per Capaci, sull’autostrada dove da poco era saltato in aria Giovanni Falcone. Ascoltai quelle parole e capii subito che a “scantarsi” era soprattutto Paolo e per questo non voleva esporre a pericoli la sua famiglia. Personalmente mi salutò con un bacio, una vigorosa stretta del braccio e soprattutto un sorriso un po’ forzato che voleva essere rassicurante. Perché, ne sono convinto, Paolo sapeva quello che rischiava, ma il suo senso di responsabilità, la sua etica gli imponeva di andare avanti e di non far preoccupare chi gli voleva bene. Ecco perché, più che a un eroe, a me piace paragonarlo a uno di quei personaggi della letteratura dell’antica Grecia che erano consapevoli del loro tragico destino e, nonostante ciò, l’affrontavano. E visto che ho avuto sempre una simpatia per Ettore, mi piace poter dire che, così come Ettore sapeva che doveva soccombere contro Achille, e tuttavia questo non gli ha impedito di varcare le rassicuranti porte Scee per sfidarlo, così Paolo era consapevole di essere ormai un obiettivo di Cosa Nostra, ma il suo senso del dovere, la sua assoluta integrità intellettuale, la consapevolezza di rappresentare lo Stato lo hanno spinto a continuare fino all’ultimo giorno nel lavoro di una vita. Con una sola, ma non secondaria differenza: che Ettore sfidava un guerriero leale come Achille con il supporto di tutti i troiani, mentre Paolo era isolato davanti a un nemico composito, di cui era parte anche qualcuno che avrebbe dovuto essere al suo fianco e che, però, si è mescolato ai suoi avversari”. Debbo confessare che quando sento dire che Paolo è stato un eroe provo un senso di fastidio. E mi sono accorto che è una reazione comune anche ad altri che hanno avuto la fortuna di frequentarlo anche più di me. Perché è una definizione che lo colloca lontano dagli uomini, e, invece, Paolo Borsellino è stato soprattutto un uomo con tutte le debolezze e le paure che animano la nostra vita quotidiana. Parlare di Paolo come un eroe significa collocarlo lontano dagli uomini, renderlo irraggiungibile, e consegnare un alibi a tutti noi: è un eroe, ha doti sovraumane, quindi io non posso fare quello che ha fatto lui. Ma non è così. Posso essere appassionato di bel canto, ma per quanto cerchi di esercitarmi non sarò mai come Luciano Pavarotti. Ho una passione sfrenata per la pittura, ma, nonostante la quotidiana applicazione a colori e tele, non riuscirò mai a emulare Vincent Van Gogh. Tiro calci a un pallone da quando ho iniziato a camminare, mi alleno da una vita, ma non potrò mai raggiungere l’abilità di Maradona: perché questi personaggi così diversi tra loro avevano dei talenti rari. Il buon Dio li aveva muniti di doti di cui sono sforniti tutti gli altri esseri umani. Ma Paolo Borsellino, no. Paolo era un uomo come noi, aveva solo un rigore morale e un senso del dovere che gli hanno fatto vivere un’esistenza giusta, che lo hanno naturalmente condotto a non cedere di fronte all’ingiustizia e ai soprusi. E a ribellarsi. Ma questo lo possiamo fare tutti noi: basta volerlo. Non servono talenti rari. Solo la consapevolezza di essere uomini. “Io ricordo che Paolo non gradì che nell’undicesimo scrutinio per l’elezione del Presidente della Repubblica del 1992 il gruppo parlamentare del Movimento Sociale Italiano votasse per lui, esprimendo 47 voti. E la sua contrarietà fu evidentemente percepita da chi lo aveva votato, se è vero che nei successivi scrutini cessò di esprimere la sua preferenza a Paolo. Questo nonostante fosse notoria la vicinanza di Paolo alle idee conservatrici. Ma è lo stesso Paolo a farci capire qual era la sua posizione nei confronti della politica. A chi gli chiedeva di che partito fosse, rispondeva che era monarchico. Il consueto ricorso al paradosso, l’ennesima straordinaria esibizione di intelligenza, la solita, fulminante risposta che invita garbatamente l’interlocutore a cambiare domanda perché quella che ha fatto è sbagliata: chiedere ad un giudice qual è il suo orientamento politico significa attentare alla sua indipendenza. Guardo quello che succede oggigiorno e mi chiedo quanti miei colleghi hanno davvero compreso questo insegnamento”. “Paolo era un puro d’animo, un uomo di specchiata onestà e di grande integrità morale, una persona che ha vissuto una vita cristallina. Era profondamente cattolico e un giorno arrivò quasi a spaventarmi. Mi stava accompagnando all’aeroporto di Punta Raisi con l’Alfa Romeo blindata che egli stesso guidava. All’imbocco dell’autostrada a Trapani, Paolo inforcò gli occhiali da sole e si fece il segno della croce. Io lo guardai preoccupato perché quel gesto mi faceva dubitare delle sua capacità automobilistiche. Lui mi rassicurò: mi disse che era credente e in quel modo si raccomandava al suo Dio. Talvolta era, invece, di una ingenuità disarmante. Qualcuno gli ha rimproverato di fidarsi troppo di persone che, invece, si sono rivelate poco affidabili, se non addirittura dei delinquenti. Io voglio, invece, ricordare un episodio che mi ha stupito molto. Mi disse che, per acquistare una farmacia a Palermo, all’epoca, c’era bisogno di un miliardo di lire: una cifra enorme. Aggiunse che voleva comprare una farmacia alla figlia Lucia, che si sarebbe laureata da lì a poco ed io gli chiesi dove avrebbe trovato i soldi. Paolo con grande candore mi rispose che avrebbe venduto la sua casa di via Cilea a Palermo. Io gli obiettai dove sarebbe andato a vivere con Agnese e i figli, e lui mi disse che non ci aveva pensato, ma che avrebbe potuto andare a vivere in una casa in affitto. E con grande tenerezza mi sovviene il ricordo di quando Paolo mi disse che pochi giorni prima era entrato in una farmacia e aveva sentito quell’odore che aveva accompagnato la sua infanzia, quando andava a far visita al padre farmacista. Mi disse che quei profumi a lui così familiari gli avevano fatto sorgere il dubbio di aver sbagliato mestiere, perché anche lui doveva fare il farmacista. Ascoltando quelle parole, io lo avrei voluto abbracciare, perché svelavano un lato intimo della sua persona, che rimane, come tutti, aggrappata allo struggente ricordo della propria infanzia e dei propri genitori”.
“Paolo Borsellino è stato soprattutto un uomo con tutte le debolezze e le paure che animano la nostra vita quotidiana. E devo far fatica a trattenere la commozione quando ricordo che lo sentii dire che lui aveva paura, ma aveva anche il coraggio per superarla. A pensarci bene in questa frase dal contenuto molto laico stava la consapevolezza della limitatezza dell’uomo, ma anche la convinzione che è solo dalle nostre capacità che dipende il superamento di quei limiti. Tutto il contrario di quella rassegnazione che è la migliore alleata della mafia e delle ingiustizie. Detta poi da chi è nato e vissuto nella terra del Gattopardo dove “tutto cambia per rimanere uguale” e dove ancora trova larga applicazione il proverbio “piegati giunco finché passa la piena”, la frase ha un significato indubbiamente rivoluzionario. E Paolo aveva paura negli ultimi giorni della sua vita.
“Anche se confinato in provincia, Paolo non perse di vista la dimensione generale del contrasto alla mafia: fu tra i primi a denunciare la pervicace opera tesa a demolire l’esperienza del pool antimafia a Palermo e si rese protagonista di una lucida e coriacea battaglia per difendere il fraterno amico Giovanni Falcone, ormai esautorato dei suoi poteri e clamorosamente estromesso dal pool dopo la decisione del C.s.m. di preferirgli, quale consigliere istruttore, Antonino Meli. Una vicenda incomprensibile, che nella migliore delle ipotesi non ha avuto altro significato che quello di fare un dispetto a Falcone, e che, invece, nel più malizioso sospetto, è stato l’ennesimo cedimento dello Stato a Cosa Nostra. Era il 1988, e con l’entrata in vigore del nuovo codice l’Ufficio istruzione sarebbe sparito, cancellato dalla nuova procedura penale. Sarebbe diventato un reperto archeologico del processo, utile solo per gli storici. Quell’incarico avrebbe perso presto importanza, ma la nomina di Falcone sarebbe stato il più forte segnale di ostilità alla mafia. Paolo difese l’amico con tutte le sue forze fino all’ultimo giorno, e il 25 giugno 1992, in occasione di un’indimenticabile manifestazione alla biblioteca di Palermo, ricordò pubblicamente l’episodio e disse che nel C.S.M. c’era “un giuda” che aveva tradito Falcone. Si trattava del consigliere Vincenzo Geraci, che prima assicurò il suo voto a Falcone e poi, invece, glielo negò, favorendo così la nomina di Antonino Meli. Successivamente Geraci disse che Paolo non si riferiva a lui quando parlò del “giuda”. Posso smentire Geraci perché ho ascoltato con le mie orecchie quello che Paolo disse a Marsala il 4 luglio 1992: offro una testimonianza autentica.
Nell’estate del 1985 uno Stato inetto deportò lui, Giovanni Falcone e i loro familiari nell’isola dell’Asinara perché stavano redigendo la sentenza ordinanza del maxiprocesso (Abate + 476, mi sembra che ci fosse scritto così sui faldoni allineati che egli custodiva nella libreria della sua stanza) e gli dissero che, siccome rischiavano di essere ammazzati da Cosa Nostra e lo Stato non era in grado di proteggerli e che, se fossero morti, nessuno avrebbe potuto sostituirli nella stesura del provvedimento, dovevano andare in quell’isola sarda dove c’era un penitenziario che poteva ospitarli. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in carcere! Alla fine quello Stato incapace e privo di umana riconoscenza richiese ai due giudici il pagamento di una somma di denaro per la loro permanenza lì dentro insieme alle famiglie. Ma il prezzo umano che Paolo sopportò fu ancora più alto: Lucia, la primogenita, era appena adolescente e non voleva abbandonare Palermo in quell’estate in cui i giovani mordono la vita e se la divorano ogni sera. L’allontanamento dei genitori e dei fratelli da Palermo, motivato dal pericolo della loro morte, cagionò alla ragazza un tremendo stress che le procurò una grave malattia, che Paolo fu costretto a rivelare pubblicamente quando Leonardo Sciascia e Leoluca Orlando lo accusarono di essere “un professionista dell’Antimafia”, ed egli dovette difendersi davanti al Consiglio Superiore della Magistratura. Paolo Borsellino messo sotto processo! Ebbene, Paolo parlando del maxiprocesso, rivendicò con legittimo orgoglio che tutte le centinaia di provvedimenti di cattura emessi erano passati indenni al severo vaglio della Corte di Cassazione. La cosa mi colpì, ma non ne compresi appieno la ragione. Solo molti anni e migliaia di processi dopo ho capito il senso di quella frase e il vero significato di quell’orgoglio. E questo ha costituito un insegnamento che porterò sempre con me nella mia vita professionale fino a quando attribuirò torti e ragioni. Paolo poteva ricordare il maxiprocesso e dire che è stato il più importante processo della storia giudiziaria di questo paese, che è stata la più alta risposta dello Stato a Cosa Nostra, che per la prima volta subì l’onta di centinaia di condanne per i suoi più importanti appartenenti. Oppure che in quell’indagine furono sperimentate tecniche innovative, come quella dell’audizione dei collaboratori di giustizia, oppure adottato un rivoluzionario modo di operare dei giudici, come quello del lavoro in pool e della circolazione interna delle informazioni, fino ad allora sconosciute e poi diventate di uso abituale. E, invece, no. Paolo sottolineò solo che quei provvedimenti avevano “retto fino in Cassazione”, come si dice nell’ambiente. Perché questo è il mestiere dei giudici: adottare provvedimenti che siano conformi alla legge. Noi magistrati traiamo tutta la nostra legittimazione dal rispetto della legge, e solo la legge ci restituisce l’autorità di cui abbiamo bisogno per imporre ad un uomo il sacrificio del bene più importante che ha dopo la vita: la libertà personale. Come il Dio dantesco, la legge è ciò da cui noi giudici partiamo e ciò a cui dobbiamo necessariamente ritornare. Qualsiasi deviazione dalla legge, anche per le più nobili finalità, costituisce un’ingiustizia che automaticamente ci indebolisce. Ci sono situazioni in cui si forza il dato normativo per fini non necessariamente illeciti o egoistici: perché si avverte la necessità di contrastare il malaffare, di arrestare il decadimento morale e materiale di questa nostra Repubblica, di dare una risposta all’opinione pubblica toccata da eventi tragici e luttuosi. Sono ragioni rispettabili, ma hanno un valore solo se sono conformi alla legge. Altrimenti sono pericolose e controproducenti: e il magistrato resta nudo. Una delle prime raccomandazioni che mi fece Paolo è stata quella di rispettare la legge, perché, diceva che, non appena chi è tenuto a far rispettare la legge la viola, i criminali lo puniscono.
A riflettere bene, una sorta di “concorrenza sleale” che la criminalità non sopporta: solo lei ha il monopolio dell’illegalità, e se il suo contraddittore si azzarda a invaderle il campo, viene punito. Quindi, secondo Paolo, la legge, e solo la legge, è lo scudo che difende i giudici. E, ripensandoci a distanza di venti anni, queste parole mi sono sembrate un triste presagio della sua tragica fine. Da alcuni processi che si stanno ancora svolgendo sembrerebbe che una delle possibili ragioni della morte di Paolo sarebbe stata la sua strenua opposizione a una trattativa tra lo Stato e dei criminali che facevano saltare per aria le autostrade uccidendo onesti servitori di quello stesso Stato. Se così fosse stato davvero, saremmo di fronte a una palese violazione della legge, un vile tradimento del patto che lega lo Stato ai suoi cittadini, una evidente illegalità che, come egli aveva previsto, ha reso debole e inerme Paolo e la sua scorta trucidata il 19 luglio 1992. Con grande amarezza nella lettera di saluto che noi sostituti di Marsala consegnammo a Paolo l’ultima volta che lo abbiamo incontrato, scrivemmo che in Sicilia lo Stato è contro lo Stato: mi accorgo ora, a oltre vent’anni di distanza, che le nostre preoccupazioni erano purtroppo realtà”.
Durante il suo discorso di commiato Paolo polemizzò con chi, in occasione della sua nomina a Marsala, perfidamente disse che in questo modo aveva ottenuto la tanta desiderata “Procura al mare”. Ritornando verso il suo ufficio al termine della cerimonia, un collega gli chiese a chi si riferiva, e Paolo rispose che nel libro I disarmati di Luca Rossi, da poco uscito, tale espressione era stata usata proprio da Vincenzo Geraci. E aggiunse: “L’altra sera alla biblioteca di Palermo l’ho chiamato “giuda” con tutto il cuore. Quando, ero accanto alla bara di Giovanni Falcone, nella camera ardente all’interno del palazzo di giustizia di Palermo, ad un certo punto mi sono sentito tirare per la toga. Mi sono girato ed era Antonino Meli. L’ho visto così piccolo e dimesso, e, meschino, l’ho perdonato. Ma Geraci no. Lui non lo perdonerò mai”. Queste sono le parole pronunciate da Paolo e che io ho sentito con le mie orecchie. Non posso pronunciarmi sulla fondatezza dell’opinione espressa da Paolo sull’operato di Geraci: non ho strumenti per valutare se il medesimo sia stato leale o meno. Quello che mi preme far conoscere è che Paolo viveva l’amicizia come un sentimento nobile che ti impone di intervenire sempre in aiuto dell’amico in difficoltà”
“Il 5 maggio del 2013 è morta Agnese, la donna che ha accompagnato Paolo nella sua vita. Agnese era una donna minuta, con lo sguardo dolce, e un fisico apparentemente fragile. Ma dopo la morte del marito si è trasformata in una donna di acciaio: ha riunito intorno a sé i tre splendidi figli e insieme ci hanno confezionato l’ultimo regalo di Paolo: la sua famiglia. Non è passato inosservato il comportamento della famiglia di Paolo nei venticinque anni successivi all’eccidio di via D’Amelio: mai una polemica, mai un innalzamento dei toni, mai una gratuita ricerca di visibilità, ma una costante affermazione della fiducia nello Stato e nel rispetto delle legge. Anche quando fatti inquietanti e situazioni opache hanno circondato la vicenda della strage del 19 luglio 1992, Agnese e i suoi figli hanno affidato ai mass media dichiarazioni in cui ribadivano la loro incrollabile fiducia nelle istituzioni e nella magistratura, dimostrando che la vera giustizia è solo quella che passa attraverso le sentenze dei giudici: come avrebbe fatto Paolo”. “Ricordo ancora le occasioni conviviali in cui ci riunivamo con le nostre famiglie: poteva capitare che qualche carabiniere ci offrisse una cena a base di cacciagione o che qualche collega mettesse a disposizione la sua casa di campagna per un pranzo domenicale. C’erano anche i figli piccoli dei giudici o dei sostituti che correvano, giocavano, ridevano e piangevano: facevano quell’allegra confusione tipica della loro età. Paolo si avvicinava a loro, e con quel tono da falso cattivo, gli diceva che, se avessero continuato a disturbare, se li sarebbe mangiati. E dopo una breve e studiata pausa, aggiungeva: “Crudi!”. I bambini spaventati scappavano e Paolo se ne rimaneva lì a ridere divertito.
Il ricordo più struggente è, però, legato un episodio che ha visto come protagonista una bimba. Ero appena arrivato a Marsala e Paolo, alla fine di una giornata di lavoro, mi invitò a cena insieme agli altri colleghi. Mi disse che voleva portarmi a mangiare in un posto incantevole. In effetti il ristorante si trovava su una lingua di terra proiettata nel mare siciliano, tra le isole Egadi e lo Stagnone, e la serata di primavera inoltrata faceva sì che al tramonto il mare ed il cielo si accendessero di mille luci e quasi si confondessero in un caleidoscopio di colori. Appena entrati nel ristorante vidi farsi incontro a Paolo una bambina di non più di sei anni, con i capelli biondi raccolti in due codine, che si gettò tra le sue braccia. Paolo la prese in braccio e la accarezzò teneramente, tant’è che la bimba rimase per quasi tutta la serata sulle sue ginocchia. Tale atteggiamento mi colpì, ma lo stupore cessò quando, alla fine della serata, seppi chi era quella bimba. Era l’unico testimone oculare della caduta di un aereo militare avvenuta nei pressi dell’aeroporto di Trapani. Paolo, che indagava su quel fatto, aveva dovuto sentire quella bambina rimasta comprensibilmente scossa dalla scena alla quale aveva assistito e, consapevole della forma di violenza che inevitabilmente andava ad esercitare su di lei, obbligandola a ricordare un fatto, comunque, traumatico, era riuscito a trovare quelle parole, quei modi e quei gesti che solo chi ha una grande purezza d’animo può utilizzare senza ferire la sensibilità di un essere ingenuo e fragile come una bambina di quell’età. Qualche estate fa ho incontrato di nuovo quella bambina che ora è diventata una giovane donna. Mi ha raccontato che l’ultima volta che aveva visto Paolo, lui le aveva promesso una bambola che, purtroppo, non fece in tempo a donarle. Quei criminali che hanno premuto il telecomando che ha fatto esplodere l’auto imbottita di tritolo hanno distrutto qualcosa anche dentro quella bambina dalle codine bionde. Vorrei che tutti lo ricordassero così Paolo, affettuoso e premuroso, con quel lampo negli occhi e quel sorriso raggiante che riscaldava come un abbraccio”.
“Personalmente quello che oggi più mi stupisce è la straordinaria attualità del suo insegnamento, che talvolta mi arriva così, all’improvviso. Dopo ventisette anni di carriera ancora mi capita di imbattermi in alcune situazioni che sollecitano delle riflessioni e che mi ricordano quello che ho ascoltato da lui. E solo in quel momento mi accorgo della profondità di certe sue parole”. dall’ Intervista a cura di “Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino” e “Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso”
In questa lunga intervista, LUCIANO COSTANTINI racconta la figura professionale e umana del collega Paolo Borsellino: “Noi magistrati traiamo tutta la nostra legittimazione dal rispetto della legge, e solo la legge ci restituisce l’autorità di cui abbiamo bisogno per imporre ad un uomo il sacrificio del bene più importante che ha dopo la vita: la libertà personale. Come il Dio dantesco, la legge è ciò da cui noi giudici partiamo e ciò a cui dobbiamo necessariamente ritornare” Il 4 luglio 1992, Paolo Borsellino tenne il discorso di commiato a Marsala. Era andato via mesi prima per trasferirsi a Palermo come procuratore aggiunto ma la festa di commiato fu preparata, dai colleghi, a Luglio. Per ricordare quell’evento, qualche settimana fa, abbiamo contattato il Dr Luciano Costantini che fu collega del giudice ed era presente in quell’occasione. Ne è nata un’intervista in cui ci ha parlato dei suoi ricordi privati. Una lunga conversazione che ha toccato più punti sulla vita del Giudice Borsellino: dalla professione alla famiglia, dal metodo investigativo all’amicizia con il collega Giovanni Falcone, dalle delusioni all’ironia, dalla paura al coraggio. E tanti aneddoti inediti come la telefonata che gli fece il Presidente Francesco Cossiga nel 1991 o l’accusa a Vincenzo Geraci di essere il “Giuda” che tradì il suo amico Giovanni nella votazione al Csm, nel gennaio 1988, o ancora la paura, nel 1992, di villeggiare a Villagrazia. Ne esce un quadro che ci fa comprendere ancora di più chi fosse Paolo Borsellino ed allo stesso tempo ci fa rimpiangere, per l’ennesima volta, la perdita dell’Uomo, così buono, giusto ed onesto. Luciano Costantini, classe 1962, dal 1991 al 1994 ha svolto le funzioni di sostituto procuratore della repubblica presso il Tribunale di Marsala (TP) con applicazioni alla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo. Dal 1995 al 2004 ha svolto le funzioni di sostituto procuratore della repubblica presso il Tribunale di Pistoia con applicazioni alla Direzione distrettuale antimafia di Firenze. Dal 2005 al 2015 ha svolto le funzioni di giudice presso il tribunale di Pistoia prima nella sezione civile e dal 2007 nella sezione penale. Dal 29 settembre 2015 è presidente della sezione penale del Tribunale di Siena. Fino al Luglio 2016 ha esercitato le funzioni di Presidente del Tribunale in assenza del titolare. Si è occupato, e si occupa tuttora, di insegnamento, presso l’università di Siena e di Firenze e presso la scuola di formazione forense “Cino da Pistoia” su temi di diritto penale e di procedura penale. E’ anche relatore nel master in tecniche dell’investigazione organizzato annualmente dal dipartimento di diritto pubblico della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Siena nella materia delle intercettazioni telefoniche. Dal 2002 tiene docenze periodiche in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro –profili penali- in corsi organizzati da vari ordini professionali della toscana, enti locali e enti privati destinati a professionisti e funzionari pubblici. Costantini ha curato il commento gli artt. 496-524 e 549-567 del codice di procedura penale edito da Cedam nel 2012.
Dottore Costantini, ci racconta quando ha incontrato, per la prima volta, Paolo Borsellino? “Conobbi Paolo Borsellino alle 7,00 del 2 novembre 1990, quando egli personalmente passò a prendermi all’albergo di Palermo dove alloggiavo. Ero arrivato la sera prima, perché da pochi giorni avevo scelto la prima sede del mio lavoro di magistrato: sostituto procuratore della Repubblica a Marsala. Cioè, la Procura di Paolo Borsellino. Avevo voglia di sapere dove avrei trascorso i prossimi anni della mia vita, ma soprattutto morivo dal desiderio di conoscere Paolo. Immaginate quale fu la sorpresa quando mi disse che lui stesso sarebbe venuto a prendermi per andare insieme a Marsala. Il 1° novembre era festa, e quella sera Palermo era davvero splendida: calda, accogliente e piena di gente come sa essere una grande città del sud. Girare per le sue piazze e le sue strade, respirare quell’aria tiepida di un’estate che laggiù non finisce mai, era il miglior modo per attendere l’incontro dell’indomani. Il giorno dopo sarebbero stati commemorati i defunti e anche questa è una grande festa, laggiù nell’isola: quella notte i morti portano ai bimbi la frutta Martorana, e in qualche paese alcune famiglie vanno ancora a banchettare al cimitero con i loro cari. C’è un continuum inscindibile tra vita e morte. Giovanni Falcone diceva che “la vita vale un bottone”. Ed è vero. Ricordo che a Marsala fu ucciso un ragazzo di quattordici anni. Si scoprì subito che gli autori erano stati alcuni suoi amici, entrambi minorenni, e che il movente era stato il furto di un ciclomotore. Ha raccontato uno dei due omicidi che l’amico gli chiese se fosse stato opportuno uccidere quel loro coetaneo che gli aveva rubato il motorino ed egli rispose: “Pi mia”. La stessa cosa che decidere se trascorrere la serata al cinema o al ristorante. “Pi mia, per me è uguale”. La vita non vale niente nell’ignoranza che la mafia coltiva e fa crescere. La cortesia di Paolo di passare a prendermi in albergo mette in risalto una delle sue più grandi doti: l’umiltà. Uno dei più famosi magistrati italiani e del mondo va a prendere l’ultimo degli uditori che si appresta ad iniziare a lavorare nella sua Procura. Paolo aveva con sé l’Alfa Romeo blindata che guidava personalmente, e insieme ci avviammo verso Marsala. Credo che quel giorno Paolo, incallito fumatore, abbia battuto il record di astinenza dal fumo. Era rimasto senza sigarette, e siccome nell’autostrada che collega Palermo a Trapani non esiste né una stazione di servizio né un autogrill, ha dovuto rassegnarsi a non fumare. Nel breve volgere di quell’ora e mezza di viaggio, con la sua affascinante capacità di sintesi, Paolo mi parlò del lavoro, della città, dei colleghi, dei suoi collaboratori e anche di parte della sua vita”.
Paolo Borsellino arriva a Marsala a fine estate del 1986, con una decisione del Csm che in quel momento ribaltava i soliti canoni. Fu preferita la competenza sull’anzianità. Il giudice aveva compreso che bisognava indagare in un territorio fino ad allora lasciato isolato ma che aveva un alto grado di pervasività mafiosa, che oggi conosciamo, basta pensare alla consorteria dei Messina Denaro di Castelvetrano. “Infatti vi arrivò grazie ad un’illuminata decisione del Consiglio Superiore della Magistratura che lo nominò privilegiando, per la prima volta, la competenza sull’anzianità. Qualcuno malignò che Paolo voleva essere ricompensato con una “Procura al mare”, ma la frase è ferocemente e gratuitamente perfida. Come ebbe a ricordare proprio Paolo nel discorso tenuto il 4 luglio 1992, nel corso della sua permanenza a Marsala egli il mare lo ha visto solo “attraverso il prisma dei vetri blindati dell’auto” che lo portava da casa (situata all’interno del Commissariato di polizia) all’ufficio. Paolo Borsellino aveva, invece, capito che in quel momento Cosa Nostra non poteva essere combattuta solo a Palermo, ma doveva essere stanata in provincia, là dove l’arretratezza culturale ed economica la rendeva ancora più forte, e quasi inscindibile era il suo legame con il territorio. Quella periferica Procura di una piccola città collocata sul lembo più occidentale della Sicilia arrivò, grazie a Paolo, al centro dell’attenzione nazionale. Per la prima volta si indagò sulla pervasiva presenza di Cosa Nostra nel trapanese, che si scoprì essere una vera e propria roccaforte mafiosa, e spuntarono i primi collaboratori di giustizia dopo Tommaso Buscetta. Il destino di Paolo si incrociò anche con uno dei grandi misteri italiani: la rotta del DC9 dell’ITAVIA, che si inabissò al largo dell’isola di Ustica, fu registrata dal radar di Marsala e Borsellino iniziò indagini che si rivelarono utili per la ricostruzione del fatto”.
Lei è stato a Marsala con Paolo Borsellino da Novembre 1990 a febbraio 1992, quando poi il Giudice si trasferì a Palermo in quella che era la DDA appena nata. Ed ha continuato a vederlo. Quindi lo ha conosciuto in anni che non sono stati sempre sereni, ma che hanno portato anche dei punti critici nella vita del giudice. Ci riferiamo ad esempio all’estate del 1991 quando il settimanale Epoca pubblicò dei verbali di Rosario Spatola resi al dottore Taurisano della Procura di Trapani. Questi verbali contenevano dichiarazioni su politici dell’epoca e per competenza territoriale, le indagini spettavano a Marsala. Il dottore Borsellino apprese dell’esistenza di quelle dichiarazioni proprio con la pubblicazione su Epoca. Borsellino chiese la trasmissione degli atti e nei primi di settembre del 91 fece la relazione al procuratore generale per chiedere un migliore coordinamento nelle indagini di quel territorio onde evitare fatti simili. E per questo caso, oltre al clamore pubblico, il giudice subì anche l’audizione davanti al Csm avvenuta il 10 dicembre 1991. In una parte di essa, esprimeva tutta la sua amarezza con questa frase: “Addirittura, la stampa parlò di camion di documenti che venivano trasferiti da Trapani a Marsala e io fui accusato di essere ‘scippatore’ e ‘insabbiatore’ di inchieste, per avere solo chiesto la copia di un verbale! Mi consenta, Presidente, però ognuno di noi ha dei figli, e quando i miei figli leggono sul giornale che il loro padre, che loro ritengono essere Magistrato serio, che fa il suo dovere, diventa uno ‘scippatore’ e ‘insabbiatore’ di inchieste, mi consenta che dal punto di vista psicologico qualche cosa se ne risente’. Il giudice, come affrontò quei fatti? Ebbe mai ad esprimersi inrelazione a quelle vicende? “Era un sabato di settembre del 1991, ero l’unico dei sostituti non in ferie e, naturalmente, ero di turno. Stavo guardando in tv il giro ciclistico del Lazio e, da poco in Sicilia, avevo il cuore gonfio di nostalgia, che passava appena un po’ quando guardavo luoghi per me familiari. Squillò il telefono cellulare e dall’altra parte c’era Paolo. Mi disse subito: “indovina chi mi ha chiamato?”. Io feci qualche fallimentare tentativo fino a quando Paolo mi disse che aveva appena ricevuto una telefonata dall’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. In quei giorni tutti i media nazionali davano conto di un contrasto insorto tra la Procura della Repubblica di Marsala e quella di Trapani in ordine alla competenza territoriale per le indagini sul rapporto mafia-politica e per cui erano indagati tre parlamentari nazionali residenti ed eletti nel circondario della città libetana. Alla fine la Procura di Trapani cedette e trasmise gli atti a Marsala. Paolo rivendicò con tutta la sua autorevolezza la competenza della sua Procura e per questo ricevette la telefonata di Cossiga. Anche la seconda domanda che Paolo mi rivolse (“Sai cosa mi ha detto?”) ha avuto una mia risposta sbagliata. “Mi ha detto: vada avanti così, Procuratore”. Detta così la frase è di poca importanza, ma chiunque l’avesse ascoltata con le sue orecchie, sarebbe scoppiato in una grossa risata. Infatti, Paolo la pronunciò imitando (male) il presidente. Ora, chi ha conosciuto Paolo sa che egli aveva una marcata inflessione non solo palermitana, ma di palermitano del quartiere della Kalsa. E sentirlo parlare con quella buffa pronuncia che aveva la pretesa di essere sarda era davvero esilarante. All’epoca era ancora in vigore la normativa che prevedeva l’autorizzazione a procedere per i parlamentari e imponeva che, entro un mese dall’iscrizione del nominativo nel registro delle notizie di reato, il Pubblico Ministero chiedesse quella autorizzazione alla Camera di appartenenza. Paolo iniziò a ritmo serrato le indagini, che conduceva nella sua stanza interrogando tutto il giorno testimoni e indagati. Una sera, al termine della giornata, lo andai a salutare e gli dissi che “si era preso proprio una patata bollente” e lui mi rispose: “Si, è una patata bollente, ma a me piace scottarmi”. La frase mi colpì, ma solo dopo anni ne compresi il significato. Con quelle parole Paolo mi aveva indicato l’essenza intima del mestiere del giudice, che è quella di prendersi la responsabilità delle scelte. Non è altro il lavoro di chi giudica: assumersi la responsabilità di decidere chi ha torto e chi ha ragione. Non so se sia vero quello che Antonio Monda nel suo splendido romanzo Assoluzione affida alle parole dell’avvocato Stella, e cioè che i giudici portano in sé una parte di divinità perché restituiscono l’armonia dell’ordine attraverso l’applicazione del diritto e avvicinano al mistero di Dio, o quanto dice Rusty Sabich nel prologo di Presunto innocente di Scott Turow, e cioè che siamo i burocrati del male e del bene. So solo che la collettività, in nome della quale ogni giorno pronuncio le mie sentenze, mi ha affidato il compito delicato di decidere chi ha torto e chi ha ragione secondo la mia scienza e la mia coscienza, e che questa è una scelta a cui non posso, anzi, non devo, sottrarmi mai. E quanto è più difficile la decisione, tanto è più importante il mio lavoro: non posso decidere di non decidere. Ecco che voleva dire Paolo quando mi disse che non dovevo avere paura di scottarmi le mani con le patate bollenti che maneggio ogni giorno”.
Paolo Borsellino professionalmente, come lo descriverebbe? “Ci sono alcuni esempi da me appresi direttamente che rivelano le inarrivabili qualità di Paolo come magistrato. Un giorno, parlando dell’associazione per delinquere di stampo mafioso, il discorso cadde sul significato di omertà, lavoro che ha affaticato decine di autorevoli giuristi e che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro. A un certo punto Paolo mi disse: “Sai cos’è l’omertà? E’ quando io interrogo Paolo Borsellino e gli chiedo se si chiama Paolo Borsellino, e lui mi risponde: questo non glielo posso negare”. Una risposta geniale, che meglio di ogni cosa sapeva spiegare il tratto caratteristico più deteriore della mafia: quello di rifiutare pervicacemente l’autorità dello Stato. In un’altra occasione di fronte a una signora che dirigeva un importante traffico di stupefacenti nella città di Marsala e che tentennava di fronte alla prospettiva di collaborare con la giustizia, Paolo disse: “Signora, si ricordi: nessuno si è mai pentito di essersi pentito con Paolo Borsellino”. L’espressione è divertente, ma contiene molto di più di un motto di spirito. Con quella frase Paolo metteva in gioco tutto sé stesso e l’intera sua autorità dicendo al proprio contraddittore: “Io sono lo Stato. Di me ti puoi, ti devi fidare”. Sì, proprio quello Stato incapace che lo aveva relegato in un penitenziario di una piccola isola perché non era in grado di proteggerlo. E che gli aveva fatto pagare il prezzo del soggiorno. Con quel gioco di parole Paolo Borsellino consegnava all’intera collettività – e, quindi, a tutti noi- la sua autorità, la sua storia ed il suo volto, sì da costringere a quel punto l’interlocutore a scegliere lo Stato perché lui ne era il garante e il rappresentante. E quanto sia importante sforzarsi a essere migliori e più efficienti di Cosa Nostra me ne sono accorto qualche anno più tardi quando, applicato dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, mi capitò di assistere al primo colloquio con un mafioso di un piccolo paese della provincia di Trapani che aveva deciso di collaborare. Quando il procuratore gli domandò perché era diventato mafioso, questi rispose in siciliano stretto: ”perché quando ero piccolo chi comandava era la mafia”. Quell’uomo esprimeva un concetto tanto elementare quanto inattaccabile: gli uomini stanno tendenzialmente dalla parte di chi vince, di chi è più efficiente. Ed è amaro constatare che in Sicilia troppo spesso e troppe volte lo Stato, in tutte le sue espressioni territoriali, quando si tratta di efficienza, soccombe alla mafia. Questa dote di Paolo di impersonare lo Stato consente di comprendere le ragioni di quella che molti considerano la settima vittima della strage di via D’Amelio. Sette giorni dopo l’eccidio, gettandosi dal balcone di una casa della periferia romana, si è suicidata Rita Atria, figlia di un noto capo-mafia della valle del Belice, che poco tempo prima aveva deciso di iniziare la collaborazione con la giustizia, svelando fatti importanti riguardanti la sua famiglia e la faida mafiosa che aveva insanguinato per anni le strade di Partanna, suo paese natale. Per la giovane donna l’identificazione di Paolo con lo Stato era così completa che la morte di Paolo ha determinato il crollo dei motivi della sua scelta di vita e il venir meno della sua stessa ragione di esistere. L’autorevolezza di Paolo era così forte che non aveva bisogno di mostrare i muscoli per far rispettare le regole: bastava la forza persuasiva della sua persona. Nella Procura di Marsala c’era un impiegato che la mattina entrava in ufficio in ritardo. Nessuna minaccia di rilievi disciplinari, nessun procedimento iniziato verso quella persona. È bastato a Paolo una mattina mettersi all’ingresso del palazzo di giustizia alle otto con la sua inseparabile sigaretta tra le labbra e salutare l’impiegato ritardatario mentre arrivava. Questi, che era una persona intelligente, capì che non poteva entrare al lavoro dopo il suo dirigente, e da quella mattina il suo orologio tornò a essere puntuale. L’esempio di chi ricopre posizioni di vertice può molto di più di mille sanzioni disciplinari”.
A metà anni 80, Borsellino e Falcone furono alle prese con la preparazione di ciò che poi porterà alla prima sentenza su un maxi processo di mafia. Ed entrambi vengono “deportati “all’Asinara perché nel periodo in cui preparavano l’istruttoria di quel processo, era trapelata una notizia secondo cui erano in pericolo imminente, Cosa Nostra aveva deciso di ucciderli. Il Giudice, raccontandole della sua vita, le parlò mai di quegli anni? “Nell’estate del 1985 uno Stato inetto deportò lui, Giovanni Falcone e i loro familiari nell’isola dell’Asinara perché stavano redigendo la sentenza ordinanza del maxiprocesso (Abate + 476, mi sembra che ci fosse scritto così sui faldoni allineati che egli custodiva nella libreria della sua stanza) e gli dissero che, siccome rischiavano di essere ammazzati da Cosa Nostra e lo Stato non era in grado di proteggerli e che, se fossero morti, nessuno avrebbe potuto sostituirli nella stesura del provvedimento, dovevano andare in quell’isola sarda dove c’era un penitenziario che poteva ospitarli. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in carcere! Alla fine quello Stato incapace e privo di umana riconoscenza richiese ai due giudici il pagamento di una somma di denaro per la loro permanenza lì dentro insieme alle famiglie. Ma il prezzo umano che Paolo sopportò fu ancora più alto: Lucia, la primogenita, era appena adolescente e non voleva abbandonare Palermo in quell’estate in cui i giovani mordono la vita e se la divorano ogni sera. L’allontanamento dei genitori e dei fratelli da Palermo, motivato dal pericolo della loro morte, cagionò alla ragazza un tremendo stress che le procurò una grave malattia, che Paolo fu costretto a rivelare pubblicamente quando Leonardo Sciascia e Leoluca Orlando lo accusarono di essere “un professionista dell’Antimafia”, ed egli dovette difendersi davanti al Consiglio Superiore della Magistratura. Paolo Borsellino messo sotto processo! Ebbene, Paolo parlando del maxiprocesso, rivendicò con legittimo orgoglio che tutte le centinaia di provvedimenti di cattura emessi erano passati indenni al severo vaglio della Corte di Cassazione. La cosa mi colpì, ma non ne compresi appieno la ragione. Solo molti anni e migliaia di processi dopo ho capito il senso di quella frase e il vero significato di quell’orgoglio. E questo ha costituito un insegnamento che porterò sempre con me nella mia vita professionale fino a quando attribuirò torti e ragioni. Paolo poteva ricordare il maxiprocesso e dire che è stato il più importante processo della storia giudiziaria di questo paese, che è stata la più alta risposta dello Stato a Cosa Nostra, che per la prima volta subì l’onta di centinaia di condanne per i suoi più importanti appartenenti. Oppure che in quell’indagine furono sperimentate tecniche innovative, come quella dell’audizione dei collaboratori di giustizia, oppure adottato un rivoluzionario modo di operare dei giudici, come quello del lavoro in pool e della circolazione interna delle informazioni, fino ad allora sconosciute e poi diventate di uso abituale. E, invece, no. Paolo sottolineò solo che quei provvedimenti avevano “retto fino in Cassazione”, come si dice nell’ambiente. Perché questo è il mestiere dei giudici: adottare provvedimenti che siano conformi alla legge. Noi magistrati traiamo tutta la nostra legittimazione dal rispetto della legge, e solo la legge ci restituisce l’autorità di cui abbiamo bisogno per imporre ad un uomo il sacrificio del bene più importante che ha dopo la vita: la libertà personale. Come il Dio dantesco, la legge è ciò da cui noi giudici partiamo e ciò a cui dobbiamo necessariamente ritornare. Qualsiasi deviazione dalla legge, anche per le più nobili finalità, costituisce un’ingiustizia che automaticamente ci indebolisce. Ci sono situazioni in cui si forza il dato normativo per fini non necessariamente illeciti o egoistici: perché si avverte la necessità di contrastare il malaffare, di arrestare il decadimento morale e materiale di questa nostra Repubblica, di dare una risposta all’opinione pubblica toccata da eventi tragici e luttuosi. Sono ragioni rispettabili, ma hanno un valore solo se sono conformi alla legge. Altrimenti sono pericolose e controproducenti: e il magistrato resta nudo. Una delle prime raccomandazioni che mi fece Paolo è stata quella di rispettare la legge, perché, diceva che, non appena chi è tenuto a far rispettare la legge la viola, i criminali lo puniscono. A riflettere bene, una sorta di “concorrenza sleale” che la criminalità non sopporta: solo lei ha il monopolio dell’illegalità, e se il suo contraddittore si azzarda a invaderle il campo, viene punito. Quindi, secondo Paolo, la legge, e solo la legge, è lo scudo che difende i giudici. E, ripensandoci a distanza di venti anni, queste parole mi sono sembrate un triste presagio della sua tragica fine. Da alcuni processi che si stanno ancora svolgendo sembrerebbe che una delle possibili ragioni della morte di Paolo sarebbe stata la sua strenua opposizione a una trattativa tra lo Stato e dei criminali che facevano saltare per aria le autostrade uccidendo onesti servitori di quello stesso Stato. Se così fosse stato davvero, saremmo di fronte a una palese violazione della legge, un vile tradimento del patto che lega lo Stato ai suoi cittadini, una evidente illegalità che, come egli aveva previsto, ha reso debole e inerme Paolo e la sua scorta trucidata il 19 luglio 1992. Con grande amarezza nella lettera di saluto che noi sostituti di Marsala consegnammo a Paolo l’ultima volta che lo abbiamo incontrato, scrivemmo che in Sicilia lo Stato è contro lo Stato: mi accorgo ora, a oltre vent’anni di distanza, che le nostre preoccupazioni erano purtroppo realtà”.
Nel 1988, Paolo Borsellino, in alcune interviste, denunciò pubblicamente il fatto che Falcone fosse stato silurato, nel gennaio precedente, dal Csm e che questo poi aveva portato ad una nuova organizzazione dell’Ufficio Istruzione, diretto da Antonino Meli. A causa di quelle dichiarazioni si ritrovò, insieme a Falcone, ad essere sentito, in un’audizione del 31 luglio, dallo stesso Consiglio. Voleva difendere l’amico Giovanni… “Anche se confinato in provincia, Paolo non perse di vista la dimensione generale del contrasto alla mafia: fu tra i primi a denunciare la pervicace opera tesa a demolire l’esperienza del pool antimafia a Palermo e si rese protagonista di una lucida e coriacea battaglia per difendere il fraterno amico Giovanni Falcone, ormai esautorato dei suoi poteri e clamorosamente estromesso dal pool dopo la decisione del C.s.m. di preferirgli, quale consigliere istruttore, Antonino Meli. Una vicenda incomprensibile, che nella migliore delle ipotesi non ha avuto altro significato che quello di fare un dispetto a Falcone, e che, invece, nel più malizioso sospetto, è stato l’ennesimo cedimento dello Stato a Cosa Nostra. Era il 1988, e con l’entrata in vigore del nuovo codice l’Ufficio istruzione sarebbe sparito, cancellato dalla nuova procedura penale. Sarebbe diventato un reperto archeologico del processo, utile solo per gli storici. Quell’incarico avrebbe perso presto importanza, ma la nomina di Falcone sarebbe stato il più forte segnale di ostilità alla mafia. Paolo difese l’amico con tutte le sue forze fino all’ultimo giorno, e il 25 giugno 1992, in occasione di un’indimenticabile manifestazione alla biblioteca di Palermo, ricordò pubblicamente l’episodio e disse che nel C.S.M. c’era “un giuda” che aveva tradito Falcone. Si trattava del consigliere Vincenzo Geraci, che prima assicurò il suo voto a Falcone e poi, invece, glielo negò, favorendo così la nomina di Antonino Meli. Successivamente Geraci disse che Paolo non si riferiva a lui quando parlò del “giuda”. Posso smentire Geraci perché ho ascoltato con le mie orecchie quello che Paolo disse a Marsala il 4 luglio 1992: offro una testimonianza autentica. Durante il suo discorso di commiato Paolo polemizzò con chi, in occasione della sua nomina a Marsala, perfidamente disse che in questo modo aveva ottenuto la tanta desiderata “Procura al mare”. Ritornando verso il suo ufficio al termine della cerimonia, un collega gli chiese a chi si riferiva, e Paolo rispose che nel libro I disarmati di Luca Rossi, da poco uscito, tale espressione era stata usata proprio da Vincenzo Geraci. E aggiunse: “L’altra sera alla biblioteca di Palermo l’ho chiamato “giuda” con tutto il cuore. Quando, ero accanto alla bara di Giovanni Falcone, nella camera ardente all’interno del palazzo di giustizia di Palermo, ad un certo punto mi sono sentito tirare per la toga. Mi sono girato ed era Antonino Meli. L’ho visto così piccolo e dimesso, e, meschino, l’ho perdonato. Ma Geraci no. Lui non lo perdonerò mai”. Queste sono le parole pronunciate da Paolo e che io ho sentito con le mie orecchie. Non posso pronunciarmi sulla fondatezza dell’opinione espressa da Paolo sull’operato di Geraci: non ho strumenti per valutare se il medesimo sia stato leale o meno. Quello che mi preme far conoscere è che Paolo viveva l’amicizia come un sentimento nobile che ti impone di intervenire sempre in aiuto dell’amico in difficoltà”
Parlaste mai di politica? “Io ricordo che Paolo non gradì che nell’undicesimo scrutinio per l’elezione del Presidente della Repubblica del 1992 il gruppo parlamentare del Movimento Sociale Italiano votasse per lui, esprimendo 47 voti. E la sua contrarietà fu evidentemente percepita da chi lo aveva votato, se è vero che nei successivi scrutini cessò di esprimere la sua preferenza a Paolo. Questo nonostante fosse notoria la vicinanza di Paolo alle idee conservatrici. Ma è lo stesso Paolo a farci capire qual era la sua posizione nei confronti della politica. A chi gli chiedeva di che partito fosse, rispondeva che era monarchico. Il consueto ricorso al paradosso, l’ennesima straordinaria esibizione di intelligenza, la solita, fulminante risposta che invita garbatamente l’interlocutore a cambiare domanda perché quella che ha fatto è sbagliata: chiedere ad un giudice qual è il suo orientamento politico significa attentare alla sua indipendenza. Guardo quello che succede oggigiorno e mi chiedo quanti miei colleghi hanno davvero compreso questo insegnamento”.
Borsellino era un uomo molto religioso ed altruista, ricorda episodi che mettessero in evidenza queste sue caratteristiche? “Paolo era un puro d’animo, un uomo di specchiata onestà e di grande integrità morale, una persona che ha vissuto una vita cristallina. Era profondamente cattolico e un giorno arrivò quasi a spaventarmi. Mi stava accompagnando all’aeroporto di Punta Raisi con l’Alfa Romeo blindata che egli stesso guidava. All’imbocco dell’autostrada a Trapani, Paolo inforcò gli occhiali da sole e si fece il segno della croce. Io lo guardai preoccupato perché quel gesto mi faceva dubitare delle sua capacità automobilistiche. Lui mi rassicurò: mi disse che era credente e in quel modo si raccomandava al suo Dio. Talvolta era, invece, di una ingenuità disarmante. Qualcuno gli ha rimproverato di fidarsi troppo di persone che, invece, si sono rivelate poco affidabili, se non addirittura dei delinquenti. Io voglio, invece, ricordare un episodio che mi ha stupito molto. Mi disse che, per acquistare una farmacia a Palermo, all’epoca, c’era bisogno di un miliardo di lire: una cifra enorme. Aggiunse che voleva comprare una farmacia alla figlia Lucia, che si sarebbe laureata da lì a poco ed io gli chiesi dove avrebbe trovato i soldi. Paolo con grande candore mi rispose che avrebbe venduto la sua casa di via Cilea a Palermo. Io gli obiettai dove sarebbe andato a vivere con Agnese e i figli, e lui mi disse che non ci aveva pensato, ma che avrebbe potuto andare a vivere in una casa in affitto. E con grande tenerezza mi sovviene il ricordo di quando Paolo mi disse che pochi giorni prima era entrato in una farmacia e aveva sentito quell’odore che aveva accompagnato la sua infanzia, quando andava a far visita al padre farmacista. Mi disse che quei profumi a lui così familiari gli avevano fatto sorgere il dubbio di aver sbagliato mestiere, perché anche lui doveva fare il farmacista. Ascoltando quelle parole, io lo avrei voluto abbracciare, perché svelavano un lato intimo della sua persona, che rimane, come tutti, aggrappata allo struggente ricordo della propria infanzia e dei propri genitori”.
Paolo Borsellino dava molta importanza ai media, infatti fu uno dei primi Magistrati a partecipare a programmi televisivi, ma per questo fu spesso attaccato, e accusato, insieme a Falcone, di “protagonismo”. “Io ebbi la fortuna di occupare la stanza un tempo riservata al dirigente della Procura della Repubblica di Marsala: era accanto a quella del Procuratore, da cui era separata da un corridoio dove si trovava il bagno. Un inequivocabile segno di potere, secondo quanto disse Paolo, che, sarcastico come sempre, mi disse che il segnale più evidente del successo in carriera è quello di avere un ufficio con i servizi igienici esclusivi. In quel corridoio c’era la fotocopiatrice, e un giorno vidi che Paolo fotocopiava un articolo di giornale (mi sembra pubblicato su L’Unità), e, giovane magistrato cresciuto nella convinzione che i giudici dovessero mantenere la massima riservatezza, ne fui sorpreso. Paolo comprese queste mie perplessità e mi disse subito che lui si esponeva mediaticamente perché quello era l’unico modo per difendersi. Attaccato da più parti, e con la sua integrità fisica e morale in pericolo, egli doveva necessariamente trovare nell’opinione pubblica e nella notorietà un alleato che lo proteggesse. E questa, ne sono convinto, è l’unica valida ragione perché un magistrato possa cedere alle (talvolta) irresistibili lusinghe della popolarità che le partecipazioni a trasmissioni televisive o le interviste rilasciate ai giornali garantiscono. In altri termini, Paolo si esponeva per costruire intorno a sé la solidarietà dell’opinione pubblica che gli garantisse quella protezione che le strutture statali non erano in grado di fornirgli. Anche in questo caso ripenso a quei miei colleghi che non perdono l’occasione per apparire in televisione, magari per parlare di processi che stanno trattando e per dire la loro su argomenti che non li riguardano se non nella misura in cui conferiscono a loro la ricercata notorietà. E con rabbia leggo che proprio per giustificare questi atteggiamenti si richiamano a Borsellino e Falcone, dicendo che anche loro rilasciavano interviste o scrivevano libri. Solo che loro lo facevano per difendersi, altri lo hanno fatto per garantirsi un seggio a Strasburgo o trovare un’ospitata nel talk show di successo”.
Insieme al Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, a Giovanni Falcone ed a Rocco Chinnici, Paolo Borsellino fu uno dei primi ad accorgersi dell’importanza della scuola per educare le nuove generazioni (in cui credeva moltissimo) a scelte consapevoli. Oggi molti ragazzi, vedono in Borsellino e Falcone due eroi inarrivabili. E lei, ad un certo punto ha deciso di parlare di Borsellino nelle scuole, dopo anni di riservatezza. Come mai questa scelta? “Se solo qualche anno fa mi fosse stato chiesto di parlare in pubblico di Paolo Borsellino, avrei rifiutato. Avevo vissuto fino a quel momento il ricordo del mio breve rapporto con Paolo come un fatto esclusivamente privato da custodire gelosamente, una storia solo mia. Poi, il giorno che ho iniziato la mia esperienza all’università di Firenze e il preside della facoltà mi ha chiesto di raccontare agli studenti chi era Paolo, tutto è cambiato. Le parole e le curiosità di quei ragazzi mi hanno fatto capire che, invece, era giusto portare il mio piccolo e personale contributo per far conoscere a tutti chi è stato questo straordinario uomo. E, anzi, proprio l’ascolto delle domande che rivolgevano mi ha fatto comprendere veramente la dimensione di questa eccezionale persona. Debbo confessare che quando sento dire che Paolo è stato un eroe provo un senso di fastidio. E mi sono accorto che è una reazione comune anche ad altri che hanno avuto la fortuna di frequentarlo anche più di me. Perché è una definizione che lo colloca lontano dagli uomini, e, invece, Paolo Borsellino è stato soprattutto un uomo con tutte le debolezze e le paure che animano la nostra vita quotidiana. Parlare di Paolo come un eroe significa collocarlo lontano dagli uomini, renderlo irraggiungibile, e consegnare un alibi a tutti noi: è un eroe, ha doti sovraumane, quindi io non posso fare quello che ha fatto lui. Ma non è così. Posso essere appassionato di bel canto, ma per quanto cerchi di esercitarmi non sarò mai come Luciano Pavarotti. Ho una passione sfrenata per la pittura, ma, nonostante la quotidiana applicazione a colori e tele, non riuscirò mai a emulare Vincent Van Gogh. Tiro calci a un pallone da quando ho iniziato a camminare, mi alleno da una vita, ma non potrò mai raggiungere l’abilità di Maradona: perché questi personaggi così diversi tra loro avevano dei talenti rari. Il buon Dio li aveva muniti di doti di cui sono sforniti tutti gli altri esseri umani. Ma Paolo Borsellino, no. Paolo era un uomo come noi, aveva solo un rigore morale e un senso del dovere che gli hanno fatto vivere un’esistenza giusta, che lo hanno naturalmente condotto a non cedere di fronte all’ingiustizia e ai soprusi. E a ribellarsi. Ma questo lo possiamo fare tutti noi: basta volerlo. Non servono talenti rari. Solo la consapevolezza di essere uomini. A me piace pensare che Roberto Vecchioni quando nella sua splendida canzone “Sogna ragazzo sogna”, ha scritto: “sogna ragazzo sogna quando cala il vento, ma non è finita, quando muore un uomo per la stessa vita che sognavi tu”, pensasse proprio a Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Perché loro hanno sacrificato le loro giovani vite per rendere il mondo migliore. Se proprio mi si chiede di dover descrivere oggi Paolo con un aggettivo, non posso che prendere a prestito quello che suo figlio Manfredi ha scritto nella prefazione di un libro che raccoglieva gli scritti di suo padre, e cioè che Paolo è invincibile. E mi pare che a venti anni di distanza tutta l’attenzione e l’ammirazione che desta questo uomo soprattutto nelle nuove generazioni ci fa dire con grande soddisfazione che Paolo ha vinto. Almeno sul piano personale. Meno positivo è il bilancio del successo degli insegnamenti di Paolo: se guardiamo agli esiti della lotta (?) alla mafia condotta dalla Stato e alla perdurante pervasività della cultura mafiosa nei comportamenti pubblici e privati dei cittadini, il successo sembra ancora lontano”.
“La paura è normale che ci sia, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, sennò diventa un ostacolo che ti impedisce di andare avanti”. Manifestò mai dei sentimenti di paura? “Paolo Borsellino è stato soprattutto un uomo con tutte le debolezze e le paure che animano la nostra vita quotidiana. E devo far fatica a trattenere la commozione quando ricordo che lo sentii dire che lui aveva paura, ma aveva anche il coraggio per superarla. A pensarci bene in questa frase dal contenuto molto laico stava la consapevolezza della limitatezza dell’uomo, ma anche la convinzione che è solo dalle nostre capacità che dipende il superamento di quei limiti. Tutto il contrario di quella rassegnazione che è la migliore alleata della mafia e delle ingiustizie. Detta poi da chi è nato e vissuto nella terra del Gattopardo dove “tutto cambia per rimanere uguale” e dove ancora trova larga applicazione il proverbio “piegati giunco finché passa la piena”, la frase ha un significato indubbiamente rivoluzionario. E Paolo aveva paura negli ultimi giorni della sua vita. Ricordo che l’ultima volta che l’ho visto –il 4 luglio 1992, quando venne a salutare tutti i colleghi e i collaboratori di Marsala, da cui tre mesi prima era andato via rapidamente, per dare un taglio brusco e netto ad un legame troppo forte- era un uomo non solo affranto per la perdita dell’amico di una vita, ma anche una persona piena di timore. Non era necessario ascoltare le parole preoccupate del suo discorso, ma bastava vedere il suo sguardo privato della tipica lucentezza per capire che qualcosa lo tormentava. Qualcuno di noi gli chiese se sarebbe andato a villeggiare a Villagrazia di Carini, come faceva tutte le estati. E Paolo rispose di no, aggiungendo che la moglie Agnese aveva paura (“Agnese si scanta”, disse) a passare tutti i giorni per Capaci, sull’autostrada dove da poco era saltato in aria Giovanni Falcone. Ascoltai quelle parole e capii subito che a “scantarsi” era soprattutto Paolo e per questo non voleva esporre a pericoli la sua famiglia. Personalmente mi salutò con un bacio, una vigorosa stretta del braccio e soprattutto un sorriso un po’ forzato che voleva essere rassicurante. Perché, ne sono convinto, Paolo sapeva quello che rischiava, ma il suo senso di responsabilità, la sua etica gli imponeva di andare avanti e di non far preoccupare chi gli voleva bene. Ecco perché, più che a un eroe, a me piace paragonarlo a uno di quei personaggi della letteratura dell’antica Grecia che erano consapevoli del loro tragico destino e, nonostante ciò, l’affrontavano. E visto che ho avuto sempre una simpatia per Ettore, mi piace poter dire che, così come Ettore sapeva che doveva soccombere contro Achille, e tuttavia questo non gli ha impedito di varcare le rassicuranti porte Scee per sfidarlo, così Paolo era consapevole di essere ormai un obiettivo di Cosa Nostra, ma il suo senso del dovere, la sua assoluta integrità intellettuale, la consapevolezza di rappresentare lo Stato lo hanno spinto a continuare fino all’ultimo giorno nel lavoro di una vita. Con una sola, ma non secondaria differenza: che Ettore sfidava un guerriero leale come Achille con il supporto di tutti i troiani, mentre Paolo era isolato davanti a un nemico composito, di cui era parte anche qualcuno che avrebbe dovuto essere al suo fianco e che, però, si è mescolato ai suoi avversari”.
Il rigore morale, filo conduttore di tutta la vita di Paolo Borsellino, è stato trasmesso alla famiglia stessa, alla signora Agnese ed ai figli. Lei ha definito la famiglia Borsellino “L’ultimo regalo di Paolo…” “Il 5 maggio del 2013 è morta Agnese, la donna che ha accompagnato Paolo nella sua vita. Agnese era una donna minuta, con lo sguardo dolce, e un fisico apparentemente fragile. Ma dopo la morte del marito si è trasformata in una donna di acciaio: ha riunito intorno a sé i tre splendidi figli e insieme ci hanno confezionato l’ultimo regalo di Paolo: la sua famiglia. Non è passato inosservato il comportamento della famiglia di Paolo nei venticinque anni successivi all’eccidio di via D’Amelio: mai una polemica, mai un innalzamento dei toni, mai una gratuita ricerca di visibilità, ma una costante affermazione della fiducia nello Stato e nel rispetto delle legge. Anche quando fatti inquietanti e situazioni opache hanno circondato la vicenda della strage del 19 luglio 1992, Agnese e i suoi figli hanno affidato ai mass media dichiarazioni in cui ribadivano la loro incrollabile fiducia nelle istituzioni e nella magistratura, dimostrando che la vera giustizia è solo quella che passa attraverso le sentenze dei giudici: come avrebbe fatto Paolo”.
La signora Agnese, nel suo libro testamento Ti racconterò tutte le storie che potrò parla del marito come di un eterno fanciullo, che si emozionava anche con piccole cose ed amava tanto i bambini. “Ricordo ancora le occasioni conviviali in cui ci riunivamo con le nostre famiglie: poteva capitare che qualche carabiniere ci offrisse una cena a base di cacciagione o che qualche collega mettesse a disposizione la sua casa di campagna per un pranzo domenicale. C’erano anche i figli piccoli dei giudici o dei sostituti che correvano, giocavano, ridevano e piangevano: facevano quell’allegra confusione tipica della loro età. Paolo si avvicinava a loro, e con quel tono da falso cattivo, gli diceva che, se avessero continuato a disturbare, se li sarebbe mangiati. E dopo una breve e studiata pausa, aggiungeva: “Crudi!”. I bambini spaventati scappavano e Paolo se ne rimaneva lì a ridere divertito. Il ricordo più struggente è, però, legato un episodio che ha visto come protagonista una bimba. Ero appena arrivato a Marsala e Paolo, alla fine di una giornata di lavoro, mi invitò a cena insieme agli altri colleghi. Mi disse che voleva portarmi a mangiare in un posto incantevole. In effetti il ristorante si trovava su una lingua di terra proiettata nel mare siciliano, tra le isole Egadi e lo Stagnone, e la serata di primavera inoltrata faceva sì che al tramonto il mare ed il cielo si accendessero di mille luci e quasi si confondessero in un caleidoscopio di colori. Appena entrati nel ristorante vidi farsi incontro a Paolo una bambina di non più di sei anni, con i capelli biondi raccolti in due codine, che si gettò tra le sue braccia. Paolo la prese in braccio e la accarezzò teneramente, tant’è che la bimba rimase per quasi tutta la serata sulle sue ginocchia. Tale atteggiamento mi colpì, ma lo stupore cessò quando, alla fine della serata, seppi chi era quella bimba. Era l’unico testimone oculare della caduta di un aereo militare avvenuta nei pressi dell’aeroporto di Trapani. Paolo, che indagava su quel fatto, aveva dovuto sentire quella bambina rimasta comprensibilmente scossa dalla scena alla quale aveva assistito e, consapevole della forma di violenza che inevitabilmente andava ad esercitare su di lei, obbligandola a ricordare un fatto, comunque, traumatico, era riuscito a trovare quelle parole, quei modi e quei gesti che solo chi ha una grande purezza d’animo può utilizzare senza ferire la sensibilità di un essere ingenuo e fragile come una bambina di quell’età. Qualche estate fa ho incontrato di nuovo quella bambina che ora è diventata una giovane donna. Mi ha raccontato che l’ultima volta che aveva visto Paolo, lui le aveva promesso una bambola che, purtroppo, non fece in tempo a donarle. Quei criminali che hanno premuto il telecomando che ha fatto esplodere l’auto imbottita di tritolo hanno distrutto qualcosa anche dentro quella bambina dalle codine bionde. Vorrei che tutti lo ricordassero così Paolo, affettuoso e premuroso, con quel lampo negli occhi e quel sorriso raggiante che riscaldava come un abbraccio”.
Che insegnamento professionale le ha lasciato e quanto sono attuali i valori in cui credeva Paolo Borsellino? “Personalmente quello che oggi più mi stupisce è la straordinaria attualità del suo insegnamento, che talvolta mi arriva così, all’improvviso. Dopo ventisette anni di carriera ancora mi capita di imbattermi in alcune situazioni che sollecitano delle riflessioni e che mi ricordano quello che ho ascoltato da lui. E solo in quel momento mi accorgo della profondità di certe sue parole”. Se potesse, oggi, dirgli qualcosa, qual è la prima frase che le sovviene? “Che la sua morte non è stata inutile perché venticinque anni dopo tanti giovani guardano a lui e a Giovanni Falcone come a degli esempi da imitare. In altri termini questi due uomini alimentano la speranza di chi crede ancora in un mondo giusto”. Intervista a cura di “Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino” e “Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso”
ANTONIO INGROIA – Magistrato – Parlare o scrivere di Paolo Borsellino non è facile. Ricordarlo è sempre un’emozione. E’stato per me un maestro ed un amico, ma anche qualcosa di più familiare, a metà fra uno zio ed un fratello maggiore. E perciò ogni parola sembra inadeguata, ogni aggettivo inappropriato. Da lui ho appreso i primi rudimenti del mestiere di magistrato inquirente. Ricordo con nostalgia quei giorni a Marsala, ove arrivai da giovanissimo sostituto, a confrontarmi – con curiosità, ma anche un pizzico di soggezione – con un procuratore della Repubblica che era già uno dei più prestigiosi magistrati italiani. E non posso dimenticare la giovialità di quell’uomo semplice, che mi conquistò subito, riuscendo a rassicurarmi e ad infondere in me come negli altri giovanissimi colleghi un grande entusiasmo. Riuscì, nel breve volgere di qualche mese, a trasmetterci quella passione per la giustizia e quell’insofferenza nei confronti del sopruso organizzato, che gli aveva consentito di trasformare Marsala da anonima periferia in punto di riferimento nazionale della lotta alla mafia. E’ stato Paolo a trasmettermi l’amore per il nostro lavoro, un lavoro sempre difficile ed a volte frustrante, ma fondato su quella ostinazione nella ricerca della verità che gli consentiva di non cedere mai, neanche quando (e gli capitò spesso nel corso della sua carriera) quella sua fermezza lo aveva fatto circondare, negli ovattati palazzi di giustizia, da diffidenze, invidie e maldicenze, in un isolamento costante. Ma Paolo Borsellino non fu soltanto una guida professionale, prodigo di consigli e suggerimenti. Fu anche un maestro di “vita applicata”. Amava raccontare, con grande capacità narrativa e senso dell’humour, mille aneddoti, molti dei quali tratti dalla sua lunga attività professionale, che gli servivano anche per spiegarci – ad esempio – quanto fosse difficile, eppure importante, “dialogare” con un mafioso durante un interrogatorio. La sua umiltà non gli consentiva di mettersi in cattedra. I suoi insegnamenti derivavano, in modo naturale, dall’esperienza di vita vissuta, non da astratte teorizzazioni, per le quali Paolo provava, anzi, un certo fastidio. Questo è il “mio” Paolo Borsellino, quello degli anni di Marsala, gli anni della mia formazione professionale, in cui Paolo amava trascorrere le serate con i colleghi a ripercorrere i momenti più difficili ed esaltanti della sua attività a Palermo a fianco di Giovanni Falcone, o magari recitando in tedesco i versi dedicati a Palermo da Goethe. Un’oasi di serenità prima dei terribili mesi del ’92 a Palermo, ove andò incontro prima alle difficoltà interne dell’appena costituita Procura Distrettuale Antimafia, ove mille ostacoli furono frapposti alla sua attività, poi al colpo durissimo che subì per la tragica fine di Giovanni Falcone e di Francesca Morvillo. Paolo in quelle ultime settimane non era più lo stesso: un uomo improvvisamente stanco, provato, con una gran fretta di fare, perché piegato dal peso insostenibile del presentimento della morte incombente. Se all’indomani della strage di Capaci soltanto la sua forza riuscì a trascinare tutti gli investigatori ad andare ancora avanti, all’indomani della sua morte la tentazione di “mollare” fu forte per tutti, soprattutto per chi – come me – gli era stato particolarmente vicino. Se siamo riusciti a riprendere il nostro lavoro, a cercare – con tutti i nostri limiti – di proseguire la loro opera lasciata incompiuta, lo si deve, in primo luogo, alla fortissima reazione di sdegno di tutti i siciliani e italiani onesti, che, chiedendo con forza allo Stato di onorare il sacrificio di Paolo rinnovando l’impegno antimafia, riuscì a determinare una riscossa della legalità senza precedenti. Ma il merito principale è stato, ancora una volta, della lezione etico-morale di Paolo Borsellino, delle sue parole quando spiegava che il suo impegno era nato soprattutto dall’intima esigenza di raccogliere il testimone caduto dalle mani di un amico e collega ucciso dalla mafia. Nello stesso modo anche chi è stato vicino a Paolo Borsellino doveva e deve fare testimonianza, deve tenere vivo il suo ricordo proseguendo la sua opera. Per quel che mi riguarda, il suo ricordo in questi anni mi ha sempre accompagnato, momento per momento. Mille volte, coltivando i dubbi e gli interrogativi più che le certezze, mi sono chiesto: come si sarebbe regolato Paolo al posto mio? quali scelte avrebbe fatto? D’altra parte, in quest’epoca di rimozione collettiva, profittando del passare del tempo che (apparentemente) lenisce le ferite, sembra prevalere una gran voglia di dimenticare e dilaga la tentazione del disimpegno e dell’indifferenza. Ecco perché, oggi più che mai, è vitale – per il futuro della democrazia del nostro Paese – che la memoria sulle grandi tragedie della nostra storia (e le stragi di Palermo del 1992 sono certamente fra queste) sia sempre ravvivata, e che sia mantenuto vivo il ricordo dei grandi uomini e delle grandi donne che per il nostro Paese si sono sacrificati. A Paolo – lo so bene – poco piacevano certi discorsi che potevano apparire vuote commemorazioni retoriche. Quel che, secondo lui, contava più di tutto era l’agire quotidiano. Proprio perciò ogni occasione di memoria deve trasformarsi in un’occasione di azione. Cercare di resistere nei momenti difficili, ma soprattutto agire, a costo anche di rinnovarsi nella continuità: questo è quello che Borsellino, come Falcone, avrebbero cercato di fare anche oggi. Ed è a questo, fra i loro tanti insegnamenti, che forse ci si dovrebbe ispirare. Di Paolo Borsellino due immagini mi vengono alla memoria più frequentemente. Quando, nel comunicarmi la sua decisione di trasferirsi da Marsala a Palermo, dove andò incontro alla morte, mi disse: “io devo tornare a Palermo per continuare ad occuparmi di processi di mafia; per me fare antimafia è ormai una questione di vita”. E poi quando, nel giorno della strage di Capaci, da uomo solare diventò cupo, come svuotato, piegato dalla violenza mafiosa che gli aveva appena strappato l’amico più caro e stimato, Giovanni Falcone. Queste immagini sono le più insistenti perché esprimono il senso profondo del testamento morale di Borsellino. La sua immagine senza sorriso dopo la strage di Capaci ricorda infatti un aspetto fondamentale della sua personalità: Paolo era provato, ma non sconfitto. Anche nei momenti più difficili sapeva trovare la forza di reagire sfidando, per amore di verità e giustizia, non solo la violenza intimidatrice mafiosa, ma anche i conformismi imperanti, l’atavico atteggiamento etico-culturale incline al compromesso. Ecco allora che l’emozione suscitata dal ricordo di Borsellino deve trasformarsi in impegno. E’ per amore della verità, è anche per avere ricercato la verità sulla strage di Capaci che Paolo Borsellino andò incontro alla morte. Ed è il suo stesso amore per la verità e la giustizia che tutti abbiamo il dovere di ricercare: tutti, ognuno per la sua parte, ispirandoci allo stesso senso di giustizia che guidava Borsellino, anche a costo di dover affrontare isolamenti, amarezze, sconfitte. A qualsiasi costo, perché questo discende dal senso di responsabilità, un senso di responsabilità che la nostra comunità nazionale non ha mai davvero sentito neppure di fronte ai suoi morti. Assenza di senso di responsabilità che più clamorosamente si è rivelata nel fastidio, a volte nell’imbarazzo, e perfino nell’omertà e nelle coperture depistanti con cui il Paese tutto, Paese legale e Paese reale, si è rapportato con il tabù della verità sulla strage di Borsellino e sulla scellerata trattativa dello Stato italiano con la mafia che quella strage determinò. E’ triste doverlo registrare a 22 anni da quella strage. Ma la verità amara è che l’Italia non ha saputo, ancora una volta, affrontare la verità facendo i conti con il proprio passato. Dimostrando di avere fatto assai poco tesoro della lezione di intransigenza etico-morale lasciata da Borsellino. E’ questo il senso più profondo di tutti gli attacchi contro la magistratura palermitana che ha indagato sulla trattativa, e di tutti gli ostacoli contro quell’indagine e quel processo, e perfino dei depistaggi di Stato che hanno oscurato fino ad oggi la verità. Cosa si vuole? Che non si faccia luce. Che gli italiani non sappiano la verità. Che passino solo verità di comodo: la mafia come bassa macelleria, coppola e lupara senza colletti bianchi, ed uno Stato puro come un giglio, senza nessuna colpa nella stagione delle stragi verso le sue vittime. Ma ossequio alla verità significa innanzitutto smascherare la comodità delle mistificazioni oggi ampiamente diffuse, che tendono – ad esempio – a cancellare dalla memoria collettiva gli attacchi calunniosi e le contumelie più infamanti che colpirono Falcone e Borsellino quando le loro investigazioni avevano iniziato a svelare il livello delle “contiguità politico-mafiose”, spesso ad opera degli stessi ambienti, a volte perfino degli stessi uomini e con lo stesso tenore di accuse scaricate in anni più recenti contro la procura di Palermo. Per rispetto della storia e per onestà intellettuale anche tutto questo va ricordato, e fare tesoro di una delle più importanti lezioni di Paolo Borsellino: il criterio della convenienza non può essere una guida dell’azione del magistrato. Quante volte avrebbe potuto volgersi da un’altra parte, e non lo fece; quante volte avrebbe potuto lasciare il campo, magari andare via da Palermo, subito dopo la strage di Capaci, e non lo fece. In occasione dell’incriminazione di un importante uomo politico, mi disse: “Mi tremano le vene ai polsi al pensiero delle polemiche che ci investiranno, ma è il nostro dovere e non possiamo tirarci indietro”. La legge imponeva quell’incriminazione e Borsellino, da magistrato veramente autonomo ed indipendente, sapeva di essere soggetto soltanto alla legge, senza mezze misure, senza arretramenti. Perché pensava che ogni tiepidezza doppiopesista fosse madre di quella rassegnazione, di quella (inconsapevole?) accettazione di aree di contiguità con la mafia, che garantiva la forza del sistema di potere mafioso. Non è un caso che Paolo affidò il ricordo di Falcone a queste parole, ormai celeberrime: “La lotta alla mafia deve essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”. Da La RIBATTUTA 16 Luglio 2014
ANTONIO INGROIA – Magistrato collega di Borsellino a Marsala – Parlare o scrivere di Paolo Borsellino non è facile. Ricordarlo è sempre un’emozione. E’ stato per me un maestro ed un amico, ma anche qualcosa di più familiare, a metà fra uno zio ed un fratello maggiore. E perciò ogni parola sembra inadeguata, ogni aggettivo inappropriato. Da lui ho appreso i primi rudimenti del mestiere di magistrato inquirente. Ricordo con nostalgia quei giorni a Marsala, ove arrivai da giovanissimo sostituto, a confrontarmi – con curiosità, ma anche un pizzico di soggezione – con un procuratore della Repubblica che era già uno dei più prestigiosi magistrati italiani. E non posso dimenticare la giovialità di quell’uomo semplice, che mi conquistò subito, riuscendo a rassicurarmi e ad infondere in me come negli altri giovanissimi colleghi un grande entusiasmo. Riuscì, nel breve volgere di qualche mese, a trasmetterci quella passione per la giustizia e quell’insofferenza nei confronti del sopruso organizzato, che gli aveva consentito di trasformare Marsala da anonima periferia in punto di riferimento nazionale della lotta alla mafia. E’ stato Paolo a trasmettermi l’amore per il nostro lavoro, un lavoro sempre difficile ed a volte frustrante, ma fondato su quella ostinazione nella ricerca della verità che gli consentiva di non cedere mai, neanche quando (e gli capitò spesso nel corso della sua carriera) quella sua fermezza lo aveva fatto circondare, negli ovattati palazzi di giustizia, da diffidenze, invidie e maldicenze, in un isolamento costante. Ma Paolo Borsellino non fu soltanto una guida professionale, prodigo di consigli e suggerimenti. Fu anche un maestro di “vita applicata”. Amava raccontare, con grande capacità narrativa e senso dell’humour, mille aneddoti, molti dei quali tratti dalla sua lunga attività professionale, che gli servivano anche per spiegarci – ad esempio – quanto fosse difficile, eppure importante, “dialogare” con un mafioso durante un interrogatorio. La sua umiltà non gli consentiva di mettersi in cattedra.
I suoi insegnamenti derivavano, in modo naturale, dall’esperienza di vita vissuta, non da astratte teorizzazioni, per le quali Paolo provava, anzi, un certo fastidio. Questo è il “mio” Paolo Borsellino, quello degli anni di Marsala, gli anni della mia formazione professionale, in cui Paolo amava trascorrere le serate con i colleghi a ripercorrere i momenti più difficili ed esaltanti della sua attività a Palermo a fianco di Giovanni Falcone, o magari recitando in tedesco i versi dedicati a Palermo da Goethe. Un’oasi di serenità prima dei terribili mesi del ’92 a Palermo, ove andò incontro prima alle difficoltà interne dell’appena costituita Procura Distrettuale Antimafia, ove mille ostacoli furono frapposti alla sua attività, poi al colpo durissimo che subì per la tragica fine di Giovanni Falcone e di Francesca Morvillo. Paolo in quelle ultime settimane non era più lo stesso: un uomo improvvisamente stanco, provato, con una gran fretta di fare, perché piegato dal peso insostenibile del presentimento della morte incombente. Se all’indomani della strage di Capaci soltanto la sua forza riuscì a trascinare tutti gli investigatori ad andare ancora avanti, all’indomani della sua morte la tentazione di “mollare” fu forte per tutti, soprattutto per chi – come me – gli era stato particolarmente vicino. Se siamo riusciti a riprendere il nostro lavoro, a cercare – con tutti i nostri limiti – di proseguire la loro opera lasciata incompiuta, lo si deve, in primo luogo, alla fortissima reazione di sdegno di tutti i siciliani e italiani onesti, che, chiedendo con forza allo Stato di onorare il sacrificio di Paolo rinnovando l’impegno antimafia, riuscì a determinare una riscossa della legalità senza precedenti.
Ma il merito principale è stato, ancora una volta, della lezione etico-morale di Paolo Borsellino, delle sue parole quando spiegava che il suo impegno era nato soprattutto dall’intima esigenza di raccogliere il testimone caduto dalle mani di un amico e collega ucciso dalla mafia. Nello stesso modo anche chi è stato vicino a Paolo Borsellino doveva e deve fare testimonianza, deve tenere vivo il suo ricordo proseguendo la sua opera. Per quel che mi riguarda, il suo ricordo in questi anni mi ha sempre accompagnato, momento per momento. Mille volte, coltivando i dubbi e gli interrogativi più che le certezze, mi sono chiesto: come si sarebbe regolato Paolo al posto mio? quali scelte avrebbe fatto? D’altra parte, in quest’epoca di rimozione collettiva, profittando del passare del tempo che (apparentemente) lenisce le ferite, sembra prevalere una gran voglia di dimenticare e dilaga la tentazione del disimpegno e dell’indifferenza. Ecco perché, oggi più che mai, è vitale – per il futuro della democrazia del nostro Paese – che la memoria sulle grandi tragedie della nostra storia (e le stragi di Palermo del 1992 sono certamente fra queste) sia sempre ravvivata, e che sia mantenuto vivo il ricordo dei grandi uomini e delle grandi donne che per il nostro Paese si sono sacrificati. A Paolo – lo so bene – poco piacevano certi discorsi che potevano apparire vuote commemorazioni retoriche. Quel che, secondo lui, contava più di tutto era l’agire quotidiano. Proprio perciò ogni occasione di memoria deve trasformarsi in un’occasione di azione. Cercare di resistere nei momenti difficili, ma soprattutto agire, a costo anche di rinnovarsi nella continuità: questo è quello che Borsellino, come Falcone, avrebbero cercato di fare anche oggi. Ed è a questo, fra i loro tanti insegnamenti, che forse ci si dovrebbe ispirare.
Di Paolo Borsellino due immagini mi vengono alla memoria più frequentemente. Quando, nel comunicarmi la sua decisione di trasferirsi da Marsala a Palermo, dove andò incontro alla morte, mi disse: “io devo tornare a Palermo per continuare ad occuparmi di processi di mafia; per me fare antimafia è ormai una questione di vita”. E poi quando, nel giorno della strage di Capaci, da uomo solare diventò cupo, come svuotato, piegato dalla violenza mafiosa che gli aveva appena strappato l’amico più caro e stimato, Giovanni Falcone. Queste immagini sono le più insistenti perché esprimono il senso profondo del testamento morale di Borsellino. La sua immagine senza sorriso dopo la strage di Capaci ricorda infatti un aspetto fondamentale della sua personalità: Paolo era provato, ma non sconfitto. Anche nei momenti più difficili sapeva trovare la forza di reagire sfidando, per amore di verità e giustizia, non solo la violenza intimidatrice mafiosa, ma anche i conformismi imperanti, l’atavico atteggiamento etico-culturale incline al compromesso. Ecco allora che l’emozione suscitata dal ricordo di Borsellino deve trasformarsi in impegno. E’ per amore della verità, è anche per avere ricercato la verità sulla strage di Capaci che Paolo Borsellino andò incontro alla morte. Ed è il suo stesso amore per la verità e la giustizia che tutti abbiamo il dovere di ricercare: tutti, ognuno per la sua parte, ispirandoci allo stesso senso di giustizia che guidava Borsellino, anche a costo di dover affrontare isolamenti, amarezze, sconfitte. A qualsiasi costo, perché questo discende dal senso di responsabilità, un senso di responsabilità che la nostra comunità nazionale non ha mai davvero sentito neppure di fronte ai suoi morti. Assenza di senso di responsabilità che più clamorosamente si è rivelata nel fastidio, a volte nell’imbarazzo, e perfino nell’omertà e nelle coperture depistanti con cui il Paese tutto, Paese legale e Paese reale, si è rapportato con il tabù della verità sulla strage di Borsellino e sulla scellerata trattativa dello Stato italiano con la mafia che quella strage determinò.
Paolo Borsellino diceva con una frase – che se noi ripetessimo, oggi saremmo accusati di essere politicamente schierati – che il nodo della lotta alla mafia è essenzialmente politico, perché prima di una magistratura antimafia occorre una politica antimafia. Invece, la magistratura è stata lasciata da sola nell’impegno di far luce su quella stagione di sangue e capovolgimenti istituzionali. Sul piano politico non è stato fatto alcun passo in tal senso. E questo è il risultato
Paolo Borsellino, si sa, era un uomo coraggioso. Aveva coraggio e lo sapeva infondere negli altri. Ridimensionando la propria statura faceva crescere negli altri la fiducia in se stessi e quindi il coraggio. Quasi dicesse: «Ho il coraggio di una persona normale, come chiunque può averlo». Aveva un buon rapporto con il coraggio, e anche con la paura. A chi gli chiedeva se non avesse paura di combattere un’organizzazione criminale così pericolosa e sanguinaria come Cosa Nostra, rispondeva semplicemente: «La paura è un sentimento umano. Quindi, è normale avere paura. L’importante è avere ancora più coraggio». Una frase che mi è rimasta impressa nella mente e nel cuore. Aveva un modo semplice per mostrare il suo coraggio e per cercare di fare “scuola di coraggio” attorno a sé. Con la forza dell’esempio. Dimostrava il proprio coraggio nella normalità del lavoro quotidiano. Come in un episodio avvenuto nel carcere di Trapani. Un giorno d’estate, battuto dallo scirocco africano, ci troviamo nella sala magistrati del carcere
Paolo non si è suicidato. Ne parlo come di un paradosso, ma con accento di verità. Un tipo di iconografia, che potremmo definire martirologica, presenta certi uomini come santi, come superuomini, perciò distanti dall’umano, dalla realtà, dal mondo reale. È il caso di Borsellino rappresentato come santo-martire, che andò incontro alla morte, quasi volendo morire, quasi cercando il sacrificio. Qualcosa come un ingenuo visionario, privo di senso della realtà. Credo che una simile contraffazione sia da respingere, in quanto malevola e fuorviarne, nonostante le intenzioni apparentemente nobili. Borsellino non era così e non si sarebbe affatto riconosciuto in questa descrizione. Paolo era profondamente umano, era un uomo che amava la vita. Era una persona di grande vitalità, un trascinatore, che trasmetteva calore ed entusiasmo. Certo, nelle ultime settimane, dopo la morte di Falcone, avvertiva il pericolo in modo molto acuto, sentiva la minaccia della morte. Ma non si sarebbe mai rassegnato ad andarle incontro a braccia aperte. Da lottatore quale era, avrebbe lottato, come ha lottato strenuamente sino alla fine
Pubblico ministero alle prime armi, sono a fianco di Borsellino durante l’interrogatorio di un imputato. Mi limito a osservare la scena, attento a non farmi sfuggire nulla di quel dialogo, ma soprattutto a «studiare» la tecnica seguita da Borsellino, le sue mosse, le sue pause, le espressioni del suo volto. Nonostante l’amata maglietta Lacoste, abbigliamento casual per lui irrinunciabile d’estate, Borsellino è molto professionale, preciso, deciso. Come imparerò dai tanti interrogatori cui assisterò e poi parteciperò, a seconda dell’atmosfera dell’atto istruttorio, Borsellino è pronto a stemperare l’aria grave dell’inchiesta giudiziaria di mafia con una battuta al vetriolo, magari in siciliano. Ma non è questo il caso. Sono stati arrestati i capimafia delle famiglie della valle del Belice, fra le più pericolose della Sicilia. Borsellino è tutto concentrato sull’esito dell’operazione e sugli interrogatori conseguenti. Cerca di fare breccia nell’impenetrabile muro di omertà, che in quelle zone è particolarmente compatto. Ne vedo lo sguardo teso, raccolto, a tratti contrariato dalle risposte dei mafiosi che via via interroga, palesemente false o reticenti. Ma la sua reazione è sempre contenuta. Nel rispetto dei ruoli: il mafioso fa l’imputato e lui l’accusatore. Dopo qualche ora di interrogatori – alcuni terminati in pochi minuti per la scelta degli accusati di avvalersi della facoltà di non rispondere – finiamo la verbalizzazione e ci prepariamo ad andar via. Improvvisamente, siamo richiamati dal gran trambusto proveniente da un cortile vicino, con urla che risuonano nei locali del carcere. Borsellino chiede notizie. È un detenuto tunisino che si ribella agli agenti penitenziari, gli spiegano. Raccogliamo rapidamente le carte e corriamo verso il cortile. Si presenta una scena preoccupante. Il tunisino è un energumeno di circa due metri. Urla, un pòi in arabo un pò’ in siciliano, contro gli agenti e brandisce uno sgabello di ferro per tenerli lontani. Gli uomini in divisa lo circondano, tenendosi però, prudentemente, a una certa distanza. La scena è bloccata in uno stato di forte tensione. Gli agenti di custodia non osano affrontare quel gigante che guardano dal basso in alto, ne prendono le misure, ma lo temono. Aspettano un suo passo falso. A Borsellino il volto del tunisino non è nuovo. Il magistrato oltrepassa il cerchio degli agenti e va deciso incontro al detenuto, che, interdetto, si ferma con lo sgabello a mezz’aria. Lo riconosce: è il procuratore! Che vuole fare? Lui ne approfitta. Gli urla di mettere giù lo sgabello, di piantarla, che tanto non serve a nulla, peggiora soltanto le cose. L’arabo sembra ora meno spavaldo e minaccioso. Non è uno qualsiasi quello che gli parla. È il procuratore Borsellino un pò’ smarrito, abbassa lo sgabello. Il magistrato gli chiede, ancora a distanza, che problema abbia. Il detenuto si lamenta di non essere stato ascoltato dal personale di custodia, che viene trattato male, che non va trattato così un uomo, anche se criminale. Borsellino lo invita a parlarne con lui, lo avvicina, lo prende sottobraccio, lo rimprovera paterno, prima con voce alterata, poi sempre più comprensivo. Il gigante si fa condurre pian piano dagli agenti verso la cella, mentre racconta al magistrato i motivi della sua ribellione. Per un po’ rimango solo nel cortile, dove vedo ritornare lentamente la calma e svanire la tensione. Anche in me succede qualcosa di analogo, dopo aver vissuto con crescente apprensione una situazione mai sperimentata prima. Quando Borsellino finalmente mi raggiunge, lo fisso con stupore e un residuo di ansia per lui. Quasi rispondendo a una domanda che non riesco a fargli, mi dice in siciliano: «Che ci putìa fare? Io il Procuratore sono!». Prosegue: «La paura c’è, ma di coraggio ce ne vuole un po’ di più!». E ride, con quella risata contagiosa e rassicurante che gli illumina gli occhi e gli apre il volto. Nel Labirinto degli Déi: Storie di Mafia e di Antimafia,” di Antonio Ingroia
ALESSANDRA CAMASSA – Magistrato collega di Borsellino a Marsala «A fine giugno del 1992 io e il collega Massimo Russo avemmo un incontro con Paolo Borsellino. Era un dialogo normale, si parlava di indagini. A un certo punto lui si alzò, si stese sul divano e cominciò a lacrimare e disse: “non posso credere che un amico mi abbia tradito”». A raccontare l’episodio, già riferito ai magistrati e finito negli atti della nuova inchiesta sulla strage di via D’Amelio, è il giudice Alessandra Camassa, ex pubblico ministero a Marsala quando il magistrato assassinato dalla mafia era a capo della Procura. Camassa ricostruisce dunque ancora una volta quei momenti deponendo al processo per favoreggiamento alla mafia al generale dei carabinieri Mario Mori.
ALESSANDRA CAMASSA – UN SOGNO – Nei giorni successivi alla vicenda di Via D’Amelio ero stato preso dallo sconforto. Che senso ha promuovere qui al Nord, ormai da dieci anni, iniziative di approfondimento culturale e di sensibilizzazione civica sulla dimensione nazionale del fenomeno mafioso – continuavo a chiedermi – se poi laggiù, nel più profondo Sud, le migliori “punte avanzate” del fronte della lotta alla “piovra” finiscono in questo modo? Una notte, però, sognai Paolo. «Cosa dobbiamo fare ora?» gli chiesi con la voce che tradiva il pessimismo del momento. «Cosa dobbiamo fare? Che domanda!» rispose subito lui. «Dobbiamo continuare a combattere! Non vedi che io me ne sto fregando che mi abbiano fatto fuori!». Mi svegliai contento e andai a comprare i giornali per seguire gli ultimi sviluppi delle indagini sulla strage. Ebbene, proprio quella mattina, “l’Osservatore Romano” pubblicava un’intervista a Manfredi, il figlio di Paolo: «Mio padre – aveva detto parlando anche a nome delle sorelle Lucia e Fiammetta – è caduto per i valori in cui credeva fermamente e che ci ha trasmesso. Se sei coerente con la tua fede la morte per gli ideali che professi non può essere che un ritorno alla vita». Nella copertina di un settimanale c’era invece un pensierino tratto da “Cose di Cosa Nostra” di Giovanni Falcone, altro “seminatore di valori”: «Gli uomini cambiano, le idee restano. Restano te loro tensioni morali e continueranno camminare sulle gambe di altri uomini».
SOLO EROI? – Borsellino e Falcone: semplici eroi dei nostri giorni? «E non si potrebbero considerare “santi” – scriveva don Dionisio su “Vita del Popolo” – anche credenti che, oggi nel tempo della vita, offrono ad altri credenti esempi luminosi di fede, di dedizione, di impegno d’amore?». Ed ancora: «Se è vero che tutti in Cristo sono “fratelli” come tutti muoiono in Adamo, allora ogni morte è legata a quella di Cristo e, quando questa morte è sotto il segno dell’amore è morte santa, sia che avvenga per curare i lebbrosi o nel consumarsi a favore degli handicappati, oppure nel lottare per la giustizia o nell’essere trucidati nella lotta al crimine, alla corruzione, alla mafia». Che fare allora davanti allo squallore di quanti, dopo un episodio raccapricciante, cominciano a tergiversare sui loro doveri civici facendo discorsi basati sull’«ormai non c’è più niente da fare?» Gli agnostici e i rassegnati vanno invitati a meditare su quella “cultura dell’ottimismo” di Paolo che emerge dai suoi appunti ripresa e sviluppata nell’intervista a Zavoli per il suo “Viaggio nel Sud”: «A Palermo i ragazzi di oggi sono perfettamente coscienti del gravissimo problema col quale conviviamo. E questa è la ragione per la quale, allorché mi si domanda qual’è il mio atteggiamento, se cioè ci sono motivi di speranza nei confronti del futuro, io mi dichiaro sempre ottimista. E mi dichiaro ottimista nonostante gli esiti giudiziari, tutto sommato non soddisfacenti del grosso lavoro che si è fatto. E mi dichiaro ottimista anche se so che oggi la mafia è estremamente potente, perché sono convinto che uno dei maggiori punti di forza dell’organizzazione mafiosa è il consenso. E’ il consenso che circonda queste organizzazioni che le contraddistingue da qualsiasi altra organizzazione criminale. Se i giovani oggi cominciano a crescere e a diventare adulti, non trovando naturale dare alla mafia questo consenso e ritenere che con essa si possa vivere, certo non vinceremo tra due-tre anni. Ma credo che, se questo atteggiamento dei giovani viene alimentato e incoraggiato, non sarà possibile per organizzazioni mafiose, quando saranno questi giovani a regolare questa società, trovare quel consenso che purtroppo la mia generazione diede e dà in misura notevolissima. E questo ma fa essere ottimista».
OTTIMISMO – Il suo ottimismo era basato anche sul fatto che a Palermo, «dall’inizio degli anni Ottanta era cominciata a crescere una notevole rinascita della coscienza civile». Una volta, invece, le cose non stavano così. «Quando avevo quindici-sedici anni – spiegava Paolo – io vivevo nell’assoluta indifferenza del fenomeno mafioso, che allora era grave quanto oggi. Addirittura mi capitava di pensare a questa curiosa nebulosa della mafia, di cui si parlava o non si parlava, comunque non se ne parlava nelle dichiarazioni degli uomini politici, come qualcosa che contraddistinguesse noi palermitani o siciliani in genere, quasi in modo positivo, rispetto al resto dell’Italia».
«Palermo – diceva spesso Paolo – non mi piaceva. Per questo imparai ad amarla, perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non piace per poterlo cambiare». Un testamento spirituale che non può non essere raccolto da tutti, con riferimento non soltanto a Palermo, alla Sicilia e al Meridione, ma anche – considerato il dilagare del malcostume e della cultura mafiosa diffusi ormai dappertutto – all’intero Paese. Enzo Guidotto, da PAOLO BORSELLINO VIVE – Pubblicato su “Opinioni”, periodico curato dai Circoli Tecnopolis di Canicattì e Venezia – Ottobre 1993
alessandra camassa Falcone e Borsellino? Non chiamateli eroi ma magistrati con l’anima Intervista con il giudice Alessandra Camassa, collega e amica di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino attuale presidente del tribunale di Marsala: “Falcone e Borsellino dettarono un metodo per indagare Cosa Nostra e fecero la ‘rivoluzione’ contro la mafia… Quel giorno che Paolo mi disse piangendo che ‘Non posso credere che un amico mi ha tradito’… Io conosco molti ragazzi in gamba, molto preparati e motivati, ma la politica odierna li tiene fuori”
Una conversazione la nostra mirata alla ricerca storica in un determinato periodo in quanto Alessandra Camassa è stata, dal 1989 al 1993, impegnata in attività di indagini contro le cosche del Trapanese, quel territorio dove è ancora latitante il boss Matteo Messina Denaro.
Camassa ha conosciuto i Giudici Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Si è occupata dei vari aspetti di Cosa Nostra, sia sul piano giudiziario e sia su quello sociale. Ha interrogato collaboratori di giustizia e testimoni. Una donna da sempre impegnata su più fronti contro la criminalità organizzata.
In magistratura dalla fine degli anni 80, ha cominciato come sostituto procuratore a Marsala con Paolo Borsellino. In DDA a Palermo fino al 1993 e successivamente passata in Tribunale come giudice a Marsala, ha continuato ad occuparsi prevalentemente di criminalità organizzata. Dall’anno 2000 al Tribunale di Trapani è stata giudice monocratico, in collegio e in Corte d’Assise, occupandosi anche di misure di prevenzione antimafia. Dal 2010 Presidente della Sezione penale del Tribunale di Trapani e dal Giugno del 2016 Presidente di Tribunale a Marsala.
Malgrado l’impegnativa attività professionale, il giudice Camassa ha comunque sempre tenuto un grande impegno nel sociale, intervenendo in varie scuole d’Italia per parlare di legalità e scrivendo brani e testi teatrali messi in scena in diverse località italiane.
Lei ha frequentato sia Paolo Borsellino che Giovanni Falcone. Addirittura Falcone lo conosceva bene fin da ragazzina. Ci racconta come li ha conosciuti? “Paolo l’ho conosciuto per ragioni di ufficio perché è stato il mio primo capo ufficio a Marsala. Io arrivai a Marsala nel settembre del 1989, da uditrice, insieme al collega Antonio Ingroia. Paolo era il procuratore. Invece, con Giovanni la situazione è stata diversa, con lui non ho mai lavorato anche perché lavorava a Palermo e la mia prima sede è stata Marsala. Ma Giovanni lo conoscevo sicuramente molto meglio di Paolo perché prima di trasferirsi a Palermo lavorava a Trapani, la mia città. Poi verso il 1978-79 si trasferì nel capoluogo. In contemporanea al suo trasferimento io iniziai l’università a Palermo. Giovanni, appunto, aveva vissuto 12 anni a Trapani ed era molto amico di mia sorella Paola e di mio cognato Ninni. Quando tornò a Palermo, le amicizie che aveva in quella città si erano molto diradate a causa di questa sua permanenza a Trapani, per cui tra i migliori amici con cui usciva di frequente, magari la sera, c’erano appunto mia sorella e mio cognato che nel frattempo si erano trasferiti nel capoluogo. Giovanni, che già incominciava a istruire il processo Spatola, ma non era scortato, non era ancora il giudice Falcone che poi tutti hanno conosciuto; mi veniva a prendere la sera – perché io vivevo in una casa con altre colleghe universitarie – e andavamo a cenare da Paola e Ninni. Mia sorella all’epoca stava iniziando la sua attività professionale, per cui, come accade alle giovani coppie, spesso non aveva qualcosa di pronto e quindi io e Giovanni andavamo a comprare qualcosa da mangiare e ci recavamo da Paola, quindi per me Giovanni era un carissimo amico di mia sorella che io conoscevo da sempre”.
Che carattere avevano? “Giovanni molto istituzionale; ed era anche consapevole, a ragione, delle sue capacità, delle sue qualità e di avere una visione che gli altri Magistrati non avevano. Vi erano bravi giudici ma Giovanni aveva una visione diversa. Io dico sempre che era un “magistrato statista”. Un giudice che capiva perfettamente come si deve modificare la legge per ottenere determinati risultati o che era particolarmente consapevole del modo in cui bisogna operare nel mondo giudiziario per ottenere risultati migliori. Una visione ampia. Infatti a lui dobbiamo tante innovazioni nel campo della giustizia: la legge sui collaboratori, quella sulle DDA e sulla DNA, sul coordinamento delle indagini. L’ intera struttura dell’organizzazione della lotta alla mafia fu ideata da lui.
Anche Paolo era un uomo che aveva un alto senso del dovere, una grande capacità di sintesi, una grande memoria, un grande acume investigativo e scriveva molto bene. Aveva questo accento siciliano marcato che poteva non fare una bella impressione a chi non lo conosceva, invece era profondo e attento ai particolari ed era una “una bella penna”, scriveva benissimo.
Ma soprattutto Paolo e Giovanni, oltre alla preparazione, avevano una buona quantità di “anima” intesa sia come sensibilità che come passione.
Tra l’altro furono i primi a subire attacchi assai poderosi, seguiti anche successivamente in altri casi; attacchi critici che vennero poi estesi a tutta la magistratura e a cui nel tempo ci siamo, magari, abituati. Ma loro furono i primi bersagli, e questo, probabilmente, li ha in parte fortificati”.
Ce l’ha un ricordo particolare del giudice Falcone? “Tanti sono ricordi molto personali e sono forse i più belli. Ricordi di un Giovanni meno istituzionale, diverso da quello che poi è diventato o è apparso nel tempo. Ho ricordi bellissimi di pranzi, di quando ero ragazzina, a casa sua a Trapani. E poi ricordi con Francesca. Conoscevo benissimo anche lei per vari motivi, tante festività trascorse insieme a loro a casa di mia sorella.
Le racconto un episodio da cui si evince l’essenza sempre molto istituzionale di Giovanni.
Nel 1988 Paolo rilasciò delle interviste alla stampa, e sia lui che Giovanni finirono per essere chiamati davanti al Csm il 31 luglio del 1988. La vicenda riguardava le dichiarazioni di Paolo sull’allora Capo dell’ufficio istruzione. Aveva sostenuto che il sistema del “pool” era stato distrutto da questa nuova organizzazione che aveva impostato il Consigliere Antonino Meli. All’esterno si mostrarono molto compatti nel difendere la loro impostazione del pool antimafia. E infatti, quando Giovanni venne sentito al Csm sostenne le dichiarazioni di Paolo. In realtà, ricordo che Giovanni, tempo dopo, riferendosi a quell’episodio, a casa di mia sorella mi disse: “Ma insomma glielo vuoi dire a Paolo che deve parlare poco?”. Perché Giovanni era il tipo che, pur non essendo d’accordo con le direttive di Meli, si adeguava comunque. Il suo pensiero era “Meli è il Capo dell’ufficio Istruzione, e pur non essendo d’accordo con le sue direttive, io comunque obbedisco”. Giovanni era questo. Non si sarebbe mai messo contro il capo dell’Ufficio Istruzione. Paolo invece, disse chiaramente ciò che pensava sulle nuove direttive imposte da Meli. E Giovanni, sentito al Csm, sostenne ciò che aveva esternato Paolo. In sostanza Giovanni era d’accordo con ciò che disse Paolo ma lui non l’avrebbe mai detto pubblicamente. Ma questa sua “obbedienza” nei confronti dello Stato si era manifestata anche in altre occasioni. Quando Cossiga, a metà anni 80, mandò i Carabinieri al Consiglio Superiore della Magistratura, ci fu una riunione del nostro gruppo, Movimento per la Giustizia, e anche se ero molto giovane ricordo bene che molti di noi volevano scioperare e, invece, lui disse: “Non si sciopera contro il capo dello Stato, torto o ragione che abbia”. Giovanni non era facile, aveva le sue idee veramente, era quasi “tetragono” in queste cose, a volte non sentiva ragioni”.
È vero che si arrabbiava moltissimo quando perdeva a scacchi con suo nipote Enrico? “Si arrabbiava tantissimo… e mio nipote lo chiamava “Erode”. Avvenne l’ultima estate che andarono in vacanza insieme alla famiglia di mia sorella in Grecia, e c’era anche mio nipote. In pratica Giovanni aveva insegnato ad Enrico, che aveva solo dieci anni, a giocare a scacchi ma spesso proprio lui, che gli aveva insegnato a giocare, perdeva. Comunque, in generale, non era molto paziente con i bambini”.
Il fatto di aver conosciuto Giovanni Falcone da ragazzina, ha forse influito nella sua scelta di studiare Giurisprudenza e poi tentare il concorso in magistratura? “Assolutamente no. La mia scelta di studiare Giurisprudenza e poi fare il concorso in Magistratura è stata del tutto casuale senza nulla di glorioso. Io volevo iscrivermi in filosofia, anzi direi che stavo per iscrivermi. Tuttavia proprio l’estate della scelta universitaria mio marito, all’epoca soltanto fidanzato, aveva superato gli scritti del concorso in Magistratura e doveva prepararsi per gli orali, allora mi disse: “Alessandra ripeto qualcosa a te”. Un giovane che si iscrive all’università, in genere, non ha ancora le idee chiare, non sa esattamente cosa è e cosa non è il lavoro del Giudice. E io, ascoltando questi argomenti, mi appassionai e da li partì la mia scelta professionale”.
Parliamo della sua esperienza a Marsala. Lei arriva lì nel settembre dell’89, giovanissima. Che rapporto si instaura con il giudice Borsellino? “Ottimo perché era una persona molto affettuosa e accogliente. Devo dire che io ero molto autonoma come persona e il dottore Borsellino privilegiava, dal punto di vista affettivo, i colleghi più fragili emotivamente. Io di certo non lo ero. Era molto paternalista quindi “adottava” i colleghi che avevano più problemi personali. Con me, come con tutti, c’era comunque un rapporto eccellente. Di me apprezzava molto il fatto che avessi una certa capacità lavorativa ma non è che avessi un rapporto privilegiato rispetto agli altri. Poi sono una persona molto diretta così come lo era lui e quindi c’era una buona sintonia di carattere. Gli dicevo sempre quello che pensavo e Paolo faceva altrettanto. E questo era uno dei suoi maggiori pregi”.
Quando era a Marsala, si è occupata di collaboratori di giustizia. Qualcuno di questi, negli anni successivi, fu dichiarato inattendibile. “Li ho conosciuti tutti: Spatola, Calcara, la Filippello. Poi quelli di cui mi occupai nel processo in cui sostenni l’accusa: Rosalba Triolo, Rita Atria e Piera Aiello. Ho avuto modo di conoscerli e sentirli tutti. Alcuni come la Atria, la Aiello e la Triolo o la Filippello erano testimoni non collaboratori. Spatola e Calcara invece erano dei collaboratori.
Per quanto riguarda l’attendibilità: il problema è sempre lo stesso. Ci sono dei soggetti che quando parlano riferiscono vicende che conoscono direttamente, per aver commesso personalmente quei reati, ed in questo caso i riscontri sono più facilmente ottenibili. Ad esempio Spatola, riguardo al traffico di droga, poiché nella vita faceva questo, aveva le sue conoscenze, i suoi canali, fin quando parlava di traffici di droga era attendibile. Stessa cosa per il Calcara che, essendo un trafficante, poteva conoscere determinati fatti che gravitavano attorno a quel mondo. Se si incominciava a chiedergli la distinzione sulle famiglie, o sui mandamenti, allora bisognava essere più attenti. Quando poi qualcuno di questi collaboratori iniziava a parlare di politici nazionali allora lì il percorso cominciava a diventare più complesso e certamente andava verificato molto di più rispetto ai fatti che poteva conoscere per avervi preso parte in prima persona. La Filippello che era la compagna di Natale L’Ala (mafioso di un certo rango a Campobello di Mazara) aveva comunque notizie che si potevano riscontrare. Rita Atria e Piera Aiello, cognate tra di loro, avevano comunque vissuto nel clima e nell’ambiente mafioso in quanto la prima era figlia e sorella di mafiosi, mentre la Aiello moglie di mafioso. Quindi determinati fatti potevano sicuramente averli appresi, e sono stati riscontrati”.
È possibile che tra questi collaboratori alcuni abbiano appreso alcune notizie de relato e magari, dopo, le abbiano storpiate o ingigantite? “Certo tutto è possibile. Un collaboratore può raccontare quello che vuole, non è che gli si può impedire. Siamo noi che dobbiamo trovare i riscontri alle dichiarazioni. Io dico sempre, che poi è una norma di prudenza, che quando si ha un collaboratore che opera in un contesto piuttosto ristretto, forse alle domande che riguardano contesti più ampi, ci si dovrebbe arrivare per gradi. Ad esempio, se un collaboratore dice di conoscere un soggetto che a sua volta conosce un personaggio politico il quale è amico di un personaggio politico romano, allora teoricamente si può arrivare al personaggio politico romano. Però il percorso è molto più complesso e bisogna valutare e riscontrare in modo più attento. Ed è in quel momento che entra in gioco la nostra professionalità con controlli e verifiche che devono essere approfonditi.
Oggi poi, con la diffusione delle conoscenze tramite il web, è ancora peggio, perché si trova in pratica qualsiasi cosa che riguarda la storia dei processi. Per cui oggi il nostro lavoro è ancora più delicato perché bisogna capire cosa i collaboratori sanno veramente e quanto, magari, hanno letto da qualche parte. La valutazione deve essere più approfondita di prima e soprattutto deve essere ricostruito il percorso attraverso il quale hanno appreso alcune notizie che poi riferiscono all’Autorità giudiziaria.
Infatti a me, come a tutti, capita di farmi la domanda: “Ma questo soggetto come fa a sapere questa notizia o questo fatto?”. Però è anche vero che attualmente non ci sono tutti questi collaboratori fondamentali; o meglio ci sono ancora molte collaborazioni ma più circoscritte di un tempo e forse di soggetti di minore livello criminale. Le indagini usufruiscono soprattutto del supporto delle intercettazioni (telefoniche, ambientali e telematiche)”.
I collaboratori del Trapanese, di fine anni ’80 e inizio anni ’90, agivano in un ambito che sostanzialmente era sconosciuto ai Magistrati per cui teoricamente potevano dichiarare ciò che volevano, convinti di non essere smentiti fin quando non arrivarono dei collaboratori attendibili appartenenti a Cosa Nostra come Patti, Sinacori, Ferro e Brusca, i quali però smentirono totalmente l’appartenenza alla consorteria mafiosa di alcuni collaboratori. “Sì, però bisogna chiedersi ad esempio come si è arrivati a gente come Patti e Sinacori. Questi erano soggetti di un certo livello all’interno della consorteria mafiosa e quindi hanno dato notizie di prima mano e dirette, particolarmente riscontrate. Però per arrivare a questi si è dovuto passare da cerchi concentrici più lontani. I vari Spatola e la Filippello, molte cose le sapevano per sentito dire, perché comunque erano vicini al mondo che orbitava intorno a “Cosa Nostra”: Spatola, che certamente non era un associato, era però un trafficante ad alto livello, la Filippello conosceva certi fatti perché era la compagna di Natale l’Ala e quest’ultimo era un mafioso di un certo rango che poi fu ucciso. Filippello e Spatola fornirono molti elementi che hanno permesso di avvicinarsi agli appartenenti alla consorteria.
Spatola, pur non essendo interno all’organizzazione, ha permesso comunque di avvicinarsi a fatti e nomi interni all’organizzazione. Ci ha permesso di raccogliere elementi che poi hanno consentito l’arresto di Patti e Sinacori i quali, in seguito, collaborando, hanno riferito notizie di prima mano”.
Quando ha deposto al Borsellino quater ha parlato di un presunto attentato al dottor Borsellino di cui la notizia sarebbe arrivata da Radio Carcere e l’avrebbe portata il maresciallo Canale all’incirca nel febbraio 92. Nella stessa udienza il suo collega Massimo Russo parla di un’altra notizia che riguardava un presunto attentato al dottore Borsellino e che era stata riferita da Calcara a fine ’91. Ora noi ci chiediamo se si tratta della stessa notizia riportata in tempi diversi o se è possibile che gli attentati fossero due. “Certamente ciò che riporta il collega, e cioè che Calcara parlò di questo attentato, è sicuramente verissimo anche perché ricordo che si disse che questo soggetto aveva raccontato di questo possibile attentato. Ma è anche vero quello che riporto io. Ricordo nitidamente che un giorno il maresciallo Canale, al pian terreno del palazzo di giustizia di Marsala, mi fermò e mi disse: ”Dottoressa lo sa che c’è questa notizia su un possibile attentato al Dr Borsellino ed un altro sostituto?” Al che io chiesi chi fosse la fonte e lui mi rispose: ”Questo è quello che arriva da radio Carcere”. Poi se le due notizie provenissero dallo stesso soggetto e furono veicolate da Canale, tramite Calcara, io questo non lo so”.
Spesso ha raccontato di uno sfogo che Borsellino ebbe nel suo ufficio a Palermo, davanti a lei e al magistrato Massimo Russo. Scoppiò a piangere dicendo: “Non posso credere che un amico mi abbia tradito”. E lei racconta questo episodio dopo molti anni… Ha avuto dei rimorsi per non averlo riferito prima? “Ma io all’epoca non pensai che fosse un qualcosa di legato alla professione. Era presente, appunto, anche il mio collega Russo. E anche lui non pensò chiaramente a qualcosa di professionale. Pensavo fosse un problema personale e l’ho pensato fino a quando poi non uscirono tutte queste notizie strane sulla vicenda della trattativa. A quel punto ho ripercorso la vicenda ed ho parlato con il collega Sergio Lari spiegandogli che, avendo letto di queste notizie che venivano riportate sulla trattativa, forse dovevo raccontare un fatto che era accaduto, in mia presenza, nel periodo antecedente all’attentato di via D’Amelio perché magari poteva essere rilevante. E quindi fui sentita dalla Procura di Caltanissetta. Non ricordavo esattamente i tempi, poi scoprii che questa specie di sfogo coincideva con il periodo in cui Paolo avrebbe avuto questa presumibile rivelazione sulla trattativa ma io questo non lo sapevo all’epoca. Fu la Procura di Caltanissetta a ricostruire tutti i tempi, che io sinceramente non ricordavo, in cui sarebbe avvenuto questo sfogo. Il periodo era sicuramente fine giugno del ’92 perché in quell’incontro invitai Paolo per il saluto che volevamo fare il 4 luglio a Marsala”.
I collaboratori di giustizia non sono certamente tutti pentiti, anzi probabilmente non sono dei pentiti nel senso etimologico del termine. Lei ha conosciuto qualcuno che le abbia dato l’impressione di essere veramente pentito di ciò che aveva commesso?
“Ma del collaboratore di giustizia non dobbiamo certo avere l’idea di un soggetto che si pente nel significato cattolico del termine. Per quanto riguarda la mia esperienza, tra tutti coloro che ho interrogato, ne ho incontrato soltanto uno che mi ha dato l’impressione di essere veramente pentito, anche nel senso religioso, ed è stato Antonino Calderone. Mi è sembrata una persona che aveva rivisitato tutte le sue scelte. Comunque è una mia opinione personale”.
Il Commissario Rino Germanà, oggi in pensione, è un investigatore che era molto stimato dal dottor Borsellino e da tanti suoi colleghi. Ancora prima dei collaboratori del Trapanese aveva, con moltissime relazioni, disegnato le mappe delle famiglie di quella zona. Secondo lei perché fu allontanato da Palermo e mandato a Mazara del Vallo, visto che nel capoluogo lo aveva voluto proprio Borsellino? “Prima ancora dei collaboratori, prima dei testimoni, prima di qualsiasi pentito, lui aveva capito assolutamente tutto. Chi aveva un peso, chi contava, chi manovrava; era un investigatore di razza. Di un intelligenza pura. Dunque, ad un certo punto chiese il trasferimento ma non so dove. Sicuramente non pensava e non voleva essere trasferito a Mazara del Vallo. Era già stato Commissario proprio in quella cittadina; quindi tornare li, anche dal punto di vista della carriera, non aveva certamente senso. Sul perché sia stato trasferito a Mazara del Vallo è una domanda che ci siamo fatti. Io ricordo che gli avevo dato una delega di indagini per la vicenda di un notaio, Ferraro, che aveva contattato un collega, Salvatore Scaduti, il quale il giorno dopo doveva emettere una sentenza per l’omicidio Basile. La delega era finalizzata a verificare se era vero quello che ci risultava avesse raccontato Ferraro al magistrato dott. Scaduti e cioè che c’era un “politico trombato di nome Enzo dell’area Manniniana” che lo aveva incaricato di incontrare il dott. Scaduti prima della sentenza. Io delegai il Dottore Germanà per capire chi fosse questo politico di nome Enzo. Probabilmente, ma non posso esserne certa, tutto questo qualche disturbo lo creò perché Germanà fu chiamato a Roma. Qualcuno voleva sapere di questa delega: cosa aveva scoperto e come mai c’era questa indagine. Ed a distanza di poco tempo venne trasferito a Mazara. È vero che lui aveva fatto domanda per il trasferimento ma non certamente per andare a Mazara del Vallo; anzi era molto preoccupato di tornare proprio lì. Se la ragione del trasferimento a Mazara è stata quella delega io non lo posso proprio sapere. L’indagine che io gli avevo delegato poteva essere fatta come appartenente alla Criminalpol che era un ufficio distrettuale non certamente se fosse stato a Mazara. Infatti lo delegai in quanto operava alla Criminalpol, venendo trasferito non avrebbe più potuto seguirla e infatti non la seguì più. A Mazara del Vallo lo sapevano tutti che avrebbe corso grossi rischi e infatti poi si è purtroppo compreso. Di quella cittadina, di quel territorio, lui conosceva tutto avendo già lavorato lì; e tornando lì veniva esposto a rischi maggiori. Probabilmente si salvò dall’attentato che gli tesero nel settembre del 92 perché il kalashnikov aveva un problema di malfunzionamento. La potenza esplosiva veniva diminuita. Il primo colpo gli venne sparato con un fucile e prese il montante della macchina e fu ferito di striscio, riuscì a scendere dalla macchina e a buttarsi in mare. Poi cercarono di sparargli col kalashnikov ma, essendo in cattive condizioni d’uso, il colpo non riusciva a raggiungerlo. Questo, certamente, lui non poteva saperlo. Ci provarono varie volte. Riuscì ad esplodere un solo colpo e poi la pistola gli si inceppò; però fece finta di continuare a sparare per far capire che poteva difendersi. Si salvò così”.
Che rapporto aveva Borsellino con gli uomini della scorta? “Buono, ottimo, era molto affettuoso. Paolo era affettuoso con tutti, un padre. Spesso scappava alla tutela e andavamo a pranzo senza scorta”.
E Falcone come si comportava con la scorta? “Istituzionale e severo, rigoroso. Pretendeva molto ma era giusto così. Giovanni e Paolo erano diversi anche nei rapporti con le relative scorte. Giovanni non penso che uscisse senza scorta o perlomeno io non l’ho mai visto. Era molto prudente. Anche quando partiva in vacanza, e andava fuori, aveva comunque un controllo, anche se generico, da parte della polizia locale”.
Ha un ricordo particolare di Paolo Borsellino? “Spesso si ricordano le cose più dolorose. In particolare il giorno in cui lasciò Marsala per tornare a Palermo. Paolo era molto contento di tornare in Procura a Palermo. Tornava a casa sua, al suo territorio, alle sue indagini, dalla sua famiglia. Io questo momento l’ho vissuto male. Se ne andò un pomeriggio dopo pranzo. Lo vennero a prendere due colleghi di Palermo, di cui uno era il dottore Natoli. Era contentissimo. Si girò per salutarmi ma io sentii qualcosa come se fosse stato un saluto mancato. Volevo dirgli tante cose ma non ci riuscii, in quel momento mi sentii sospesa e un po’ abbandonata. La sensazione di aver desiderato di avere più tempo per salutarlo. E poi un ricordo, invece bello, è quello relativo all’inizio della collaborazione di Rita Atria. Arrivò una mattina che sembrava più ragazzino di tutti noi, era il più entusiasta. Mi disse: “Vai subito a sentirla, bisogna battere il ferro finché è caldo”. Aveva “l’entusiasmo dell’indagine” molto più forte dei colleghi più giovani, nonostante avesse 52 anni sembrava un ragazzino. Ma era così di suo. Arrivava al mattino, sempre effervescente e ci chiedeva subito: “Allora cosa avete fatto ieri ? Cosa è successo? Ci sono novità?” Era un uomo che si entusiasmava a 52 anni quando iniziava una nuova indagine. Ed era così anche nella vita, con la sua famiglia con i suoi figli. Abbiamo perso moltissimo perché Paolo era un padre in generale, era molto paternalista con tutti noi. Fare il padre era il ruolo che gli riusciva meglio. Il padre burbero, quello che ti rimprovera ma allo stesso tempo ti protegge, che ti coccola, e se fai una cosa sbagliata ti sgrida. Era così con noi:un padre”.
Quanto ci mancano? Quanto ha perso l’Italia nel ’92? “Ha perso moltissimo e la loro presenza è stata importantissima. Perché hanno voluto scavare all’interno di Cosa Nostra. Vede, già nel ’37 ci fu un certo dottore Allegra che ricostruì “cosa nostra” molto meglio di come ha fatto poi Buscetta perché era un medico, quindi aveva un livello culturale che gli consentiva di fare collegamenti, di intuire certe relazioni. Aveva rapporti con la politica, raccontava in maniera dettagliata tutta la struttura di Cosa Nostra: consigliere, capo decina, capo mandamento, capo provincia, tutto in maniera perfetta. Dichiarazioni perfette; addirittura, per quanto concerne la politica, raccontò come votavano i mafiosi e per chi. I nomi degli uomini d’onore di cui parlava erano gli stessi dei soggetti che poi noi abbiamo processato. Erano i nonni di quelli in cui ci siamo imbattuti dopo 50 anni.
Era, in pratica, un collaboratore di alto profilo ma non è successo nulla. Ce l’ha dovuto raccontare nel 1984 Buscetta cos’è la mafia. Quindi ciò significa che all’epoca, negli anni ’30, la magistratura non era certamente autonoma e indipendente. La mafia dell’epoca era sì la mafia dei campieri e dei gabellieri ma era strettamente connessa all’aristocrazia che di quei campieri si avvaleva per controllare il feudo e quindi alla politica che rappresentava proprio i ceti più abbienti, e quindi i processi cadevano e morivano.
Nell’84 i giudici, essendo in piena democrazia, quindi autonomi e indipendenti, volevano capire e conoscere. Soprattutto Falcone. Quindi scavarono all’interno di Cosa Nostra. E questa fu la loro rivoluzione. E la magistratura ebbe una svolta. Certamente le indagini sono continuate dopo la loro morte, non si sono fermate. Ci sono molti Magistrati validi che sono andati avanti ma loro, negli anni 80, diedero una svolta e dettarono un metodo. Loro fecero la “rivoluzione””.
Quelle stragi del 92 hanno dato anche una spinta sociale, hanno portato una presa di coscienza maggiore sul problema Cosa Nostra, specie a Palermo e in Sicilia? “Purtroppo la popolazione si rende conto solo quando ci sono i morti ma è meno sensibile quando l’organizzazione criminale opera in altri ambiti e condiziona l’economia”.
La scuola ha un ruolo fondamentale per i ragazzi e soprattutto per ciò che concerne la legalità; come si può evitare, secondo lei, che negli Istituti entrino soggetti che poi si rivelano dei falsi addetti ai lavori, falsi tecnici che parlano però di legalità ai ragazzi? “Non è semplice. Personalmente non credo ci sia una soluzione semplice, una ricetta, perché un Preside o un Professore non può sapere di un soggetto se pubblicamente si comporta in un certo modo e i giornali, per esempio, ne hanno scritto bene, lo hanno inserito in un certo contesto, in un certo ruolo. Quindi un Preside o un Professore non può conoscere, non può sapere se il soggetto è un falso addetto ai lavori o un ciarlatano. Guardi anche a me è capitato di essere in un convegno dove magari ero seduta di fianco a persone e poi si sono rivelate vicine a un certo mondo. L’antimafia di facciata è un problema grosso che investe qualsiasi settore. Il problema della falsa antimafia investe anche le associazioni quindi una scuola, anche se si rivolgesse ad un soggetto che sta all’interno di un’associazione, non ha mai garanzie. Un problema grande. Però, non dobbiamo generalizzare perché è un approccio superficiale e dannoso, personalmente vedo che gli insegnanti e i presidi si impegnano molto sul fronte dell’educazione alla legalità e con ottimi risultati”.
Secondo lei qual è il miglior modo per parlare ai giovani, soprattutto nelle scuole, di legalità, diritti e doveri? E cosa possono fare i ragazzi per far fruttare gli ideali lasciati in eredità dai Giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? Qual è la via da seguire per attuare quelle “idee che camminano sulle gambe di altri uomini”? “Personalmente credo che nelle scuole non dovrebbe esserci mai retorica, specie quando si tratta di ragazzi delle scuole superiori che hanno già formato una loro criticità, conoscono fatti, hanno letto molto e sono talmente maturi da avere una visione personale su determinati temi. E poi bisognerebbe evitare una certa “lacrimosità” che spesso purtroppo compare. Bisogna avere massimo rispetto per le vittime della mafia ma mantenere sempre una grande misura nei discorsi perché la retorica uccide la credibilità.
Ai ragazzi, ad esempio, non bisogna descrivere Giovanni e Paolo come degli eroi ma piuttosto come dei punti di riferimento a cui tendere. Se gli si presentano come eroi, i ragazzi si sconfortano, pensano di non potere mai riuscire, nemmeno lontanamente, a raggiungere certi risultati. Non voglio affrontare discorsi politici, sarebbe opportuno però evitare il qualunquismo riferito alla politica come “madre di tutti i mali”, perché alla fine siamo noi cittadini che votiamo, e i giovani devono credere nel cambiamento. E proprio loro possono fare molto. Ma oggi, in questa empasse politica creatasi, non solo si demoralizzano ma vengono quasi esclusi dalla stessa. Io conosco molti ragazzi in gamba, molto preparati e motivati che potrebbero fare molto, con ottime idee innovative, ma la politica odierna li tiene fuori. Certamente questo non permette un miglioramento nell’attuale sistema”.
Qual è stata la sua più grande soddisfazione professionale e la più grande delusione? “Soddisfazioni personali tante. Ad esempio, le vittime di un reato che ottengono giustizia tramite il nostro lavoro, ecco questa è una grande soddisfazione. E poi credo di aver spesso creato con i colleghi un rapporto “affettivo e affettuoso”. La stima e l’affetto reciproci che si instaurano nei rapporti umani, dovrebbero essere sempre presenti nella nostra professione. E’ indispensabile per lavorare in armonia.
Anche delusioni ci sono state e ci sono tuttora. Mi sconfortano, ad esempio, gli scempi del nostro patrimonio edilizio nonostante le varie condanne per abusivismo. Decine e decine di processi conclusisi con la condanna definitiva e poi vedere quegli ecomostri che distruggono il nostro territorio così bello ma, allo stesso tempo, così deturpato.
Tante delusioni quando vedo che molti non credono nella giustizia, si sottraggono alla testimonianza. Ecco questa carenza di senso di giustizia, la mancanza del bisogno di verità, sono per me inconcepibili. Mi riferisco soprattutto ai reati comuni. Posso comprendere – non del tutto però – la paura che pervade coloro che testimoniano nei processi per reati di criminalità organizzata ma nelle violenze sui minori, ad esempio, non è concepibile che ci si sottragga ad un obbligo prima di tutto morale quale è quello della testimonianza. Questa mancanza di senso di Giustizia è una delle cose che mi sconforta e mi delude di più. Manca una buona educazione alla legalità anche in questi termini. Quel “senso del dovere” in cui hanno creduto moltissimo Giovanni e Paolo”. 14.3.217 LA VOCE DI NEW YORK
ALESSANDRA DOLCI – MAGISTRATO : “NEL LORO SACRIFICIO LA FORZA PER CONTINUARE”Il capo della direzione distrettuale antimafia di Milano: “Troppi ragazzi che incontro non sanno chi siano Falcone e Borsellino. Ma un Paese senza memoria non ha futuro. Se vogliamo contrastare la mafia dobbiamo remare tutti insieme”. L’autorevolezza si coglie nella rapidità cortese con cui smista, senza negarsi a nessuno, le numerose interruzioni che si affacciano, bussando o trillando via telefono, al suo ufficio al sesto piano del Palazzo di Giustizia di Milano. Alessandra Dolci è da qualche mese al vertice della Direzione distrettuale antimafia (Dda) e solo alla quarta volta che non riesce a finire una frase, sbuffa tra sé ridendo: «Sembra il call center di un supermercato». Dietro la scrivania assieme a un poster di Castel Del Monte, emblema architettonico di una solida razionalità che le corrisponde, e ai crest araldici, omaggio delle forze dell’ordine, la foto sorridente di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e il manifesto simbolo dei magistrati uccisi nell’esercizio delle funzioni: due rose spezzate e l’elenco con i 27 nomi. Il senso di averli lì lo ha spiegato in pubblico, il 18 luglio 2018, commemorando al Pirellone alla Commissione antimafia di Milano, Paolo Borsellino e gli agenti caduti a via D’Amelio: «Capita nel nostro lavoro, di provare momenti di stanchezza, che di solito arriva dopo i periodi di massima tensione, di sentire lo sconforto per un risultato non raggiunto, per una sentenza che non condividi. In quei momenti mi volto, vedo le rose spezzate e sento tornare l’energia e la passione per il lavoro». Famiglia Cristiana 19 Luglio 2018
GIUSEPPE DI LELLO – Magistrato ciollega di Borsellino nel pool antimafia a Palermo – Lo Stato tiri fuori l’agenda rossa di Paolo Borsellino, solo così potrà recuperare credibilità». A parlare è Giuseppe Di Lello Finuoli, ex giudice istruttore e parlamentare, nel ’83 chiamato da Antonino Caponnetto a far parte del pool di Palermo dopo l’uccisione di Rocco Chinnici. Insieme a Leonardo Guarnotta, attuale presidente del tribunale di Palermo, Di Lello è l’unico testimone ancora in vita della stagione che li vide in prima fila nella lotta a Cosa nostra, gomito a gomito con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Cosa ricorda di quegli anni, quando nacque il pool e lavorò al fianco di Falcone e Borsellino? «Quando Gaetano Costa e Rocco Chinnici (entrambi vittime di mafia, ndr) cominciarono seriamente a indagare su Cosa nostra, ci si rese conto che in realtà era un fenomeno abbastanza perseguibile, cioè non era quel mostro sconosciuto e impenetrabile cui si faceva spesso riferimento. Ma le grandi intuizioni, quelle che cambiarono l’approccio, furono quelle di Giovanni Falcone. Mi riferisco al fatto di andare a guardare dentro le banche, di utilizzare le intercettazioni, di avviare rapporti con gli altri organi inquirenti. Era un innovatore, e il suo modo di indagare fu dirompente. Fino a quel momento a Palermo non c’era stata una magistratura credibile, ma Falcone aveva la fama di essere un giudice bravo, uno di cui ci si poteva fidare. Sono entrato nell’ufficio istruzione nell’82, c’erano già Falcone e Borsellino, il pool nacque con la morte di Chinnici, strutturalmente venne messo in piedi da Caponnetto. E anche la sua fu una grande intuizione: far lavorare insieme i giudici asse-gnatari di processi contro la mafia, per costruire un unico grande processo. Nacque così il pool che era composto da Falcone, Borsellino e me, poi arrivò Guarnotta, e noi quattro istruimmo i primi grandi processi contro Cosa nostra».
Che clima c’era a Palermo in quegli anni? «Il clima era di grandissima collaborazione, a capo della Procura c’era Vincenzo Pajno, e a capo dell’ufficio istruzione c’era Caponnetto, e loro due andavano abbastanza d’accordo. Tra di noi c’era una grande collaborazione, basata su stima e fiducia reciproca, e con la Procura non ci furono mai grandi tensioni».
E della trattativa Stato-Mafia? «Non c’è dubbio che alcuni pezzi dello Stato avranno tentato di trattare, adesso non so in quale misura, però non c’è neanche dubbio che tutto sommato lo Stato ha retto, perché alla fine di questa trattativa, che mirava a indebolire il regime sanzionatorio, di fatto si sono ritrovati con il 41bis addirittura stabilizzato per legge, quindi questa trattativa non c’è mai stata, almeno in termini ufficiali».
Che ricordi ha di Falcone e Borsellino? «Lavoravamo tutto il giorno insieme, c’era un legame di amicizia personale, familiare, molto forte. Falcone era un personaggio che non veniva scalfito da nessuna accusa, si riteneva un vincente e non c’è dubbio che lo fosse, perché era l’unico in Italia che poteva alzare il telefono e parlare con l’Fbi, con gli investigatori più importanti del mondo e avere una risposta. Borsellino era un po’ il complemento di Falcone, era un uomo dello Stato fino in fondo. Non si sarebbero mai tirati indietro, per nessun motivo, tant’è che sono stati ammazzati».
La morte di Borsellino è legata alla trattativa? «Questo è difficile dirlo. Dico solo una cosa: se lo Stato vuole fare lo Stato ed essere credibile, cominci a tirare fuori l’agenda rossa di Borsellino, per esempio. Non l’ha presa il primo che passava, se la sono presa, come si sono presi i documenti dalla cassaforte di Carlo Alberto Dalla Chiesa, come quelli trafugati dal covo di Totò Riina, come le agende di Falcone. Tutta una serie di acquisizione di dati. Non sono un complottista però credo che una parte dei Servizi in questo Stato non sono mai stati fedeli ad esso, ma fedeli solo a se stessi, al loro potere interno, tant’è che la politica è stata sempre succube di questi personaggi». Fabrizio Colarieti 17 Luglio 2012
BORSELLINO: QUELLE VOCI CHE RICORDANO UN MAGISTRATO, UN PADRE, UN AMICO – Ritratto inedito di un uomo giusto, ironico e sorretto da una fede forte e viva –«C’è l’elicottero sulle nostre teste, ci sono guardie ovunque. Mi chiede di accompagnarlo in macchina a prendere le sigarette e mi dice una frase che non dimenticherò mai, a freddo: “Sai Diego, quando subisci la perdita di un parente caro, tu vai al suo funerale e piangi non solo perché ti è morto il parente o l’amico, ma perché sai che la tua fine è più vicina”». Diego Cavaliero, oggi giudice d’appello a Palermo e primo sostituto procuratore di Paolo Borsellino a Marsala, ricorda i giorni che seguirono all’omicidio di Falcone e della sua scorta. Le parole di Paolo. Non un presagio astratto, ma una certezza. Parla per la prima volta, così a lungo, della sua vita accanto a quel magistrato con il quale lavorò fianco a fianco per due anni e otto mesi e al quale restò legato tutta la vita. Non è l’unica testimonianza inedita che Alessandra Turrisi ha raccolto per il volume
Paolo Borsellino. L’uomo giusto (San Paolo). «Grazie al figlio del giudice, Manfredi», spiega la giornalista palermitana, «mi sono potuta avvicinare a questo coro di voci che per 25 anni ha custodito dentro di sé il ricordo soprattutto umano di Borsellino. Persone che finora avevano parlato soltanto nelle aule giudiziarie, durante i processi».
Era giovane, Alessandra, quando la mafia uccideva magistrati, poliziotti, forze dell’ordine, quando si consumava il “sacco di Palermo” e la città stentava a reagire. «Poi venne la Primavera di Palermo, esplose Mani pulite, uccisero Falcone e Borsellino, cominciò la presa di coscienza della società civile. E oggi c’è un modo diverso di vivere la città, una maggiore responsabilità». C’è tutto questo, in controluce, nel racconto lucido e caldo della vita – e della morte – di Paolo Borsellino. C’è un giudice, un uomo «che non ha mai sottovalutato ciò che faceva, l’ambiente in cui era, il rischio che correva, ma che è sempre stato consapevole di dover fare comunque il proprio dovere».
C’è la fede, in questo libro, il Borsellino «credente, cristiano. Un aspetto forse un po’ tralasciato in passato», spiega l’autrice, «e che invece, secondo me, è il dato unificante della persona. Sono sicura che il giudice Borsellino ha potuto affrontare le prove che la vita gli ha messo davanti soprattutto perché aveva una solidità interiore sostenuta anche da questa fede molto forte, anche un po’ tradizionale». E c’è il racconto di un destino spesso imperscrutabile, e sul quale ancora si interrogano alcuni dei “sopravvissuti”: il cardiologo della mamma, al quale si rompe l’auto e che, per questo, non riesce a raggiungere via D’Amelio in quel pomeriggio di tritolo e sangue; l’agente di scorta Benedetto Marsala, oggi in pensione, che sarebbe stato di turno senza la licenza matrimoniale; la vicina di casa a letto da mesi per una gravidanza a rischio che, proprio quel giorno, ha voglia di aria fresca e sole. «Un intero pezzo d’infisso, con i frammenti di vetro ancora attaccati, si schianta sul letto dei miei genitori, proprio nel punto in cui mia madre, e io dentro di lei, stava coricata tutto il giorno, ma non quel giorno», racconta oggi Fabrizio. Che, con sua madre Rosaria, aggiunge nel libro: «Nelle nostre preghiere, i nomi delle vittime ci sono sempre, ci affidiamo a loro». Spaccati di vita, indagini giudiziarie, nodi irrisolti. La Turrisi ricorda l’agendina rossa da cui Borsellino non si separava mai e della quale non è rimasta traccia nella borsa che il giudice aveva con sé quel giorno e nella quale tutto il resto, invece, era intatto, «compreso il costume ancora umido del bagno a mare di qualche ora prima». Ricorda gli interrogatori con i collaboratori di giustizia, il suo modo di condurre le indagini. Ma il volume ricostruisce soprattutto il clima, l’ironia dissacrante del giudice e la sua grande capacità di lavoro, restituendoci l’umanità di «un uomo che riesce a essere sempre sé stesso quando è magistrato e quando è padre di famiglia, quando è amico, quando è collega, quando interroga un criminale. Quando incontra un politico e quando si confronta con la moglie di un uomo che è stato ucciso in un agguato mafioso, una povera donna che addirittura gli chiede un aiuto economico», conclude la Turrisi. «E io mi sento una privilegiata per essere diventata, in qualche modo, cassa di risonanza di queste voci che lo hanno raccontato, permettendo di compiere un tuffo in una memoria condivisa che fa emergere anche “l’uomo giusto”, l’interiorità di un personaggio così caro alla Sicilia, a Palermo, all’Italia intera».
DIEGO CAVALIERO Magistrato collega di Borsellino a Marsala – «L’ultimo sorriso di Borsellino». Parla l’allievo Dagli insegnamenti sul campo alla grande fede. Sette giorni prima della strage, il magistrato palermitano aveva fatto da padrino di Battesimo al primogenito del giovane giudice salernitano «Paolo era un macinacarte. Per lui il lavoro era importantissimo, ma non era la sua vita». Non ha mai fatto a gara per essere amico o erede di Paolo Borsellino, ma Diego Cavaliero, oggi 59 anni e consigliere di Corte d’Appello di Salerno, del magistrato assassinato in via D’Amelio esattamente 25 anni fa assieme ai cinque agenti di scorta era una sorta di «figlio putativo». Per un quarto di secolo ha tenuto i suoi ricordi come un tesoro prezioso da custodire gelosamente. Del suo rapporto con il giudice palermitano ha parlato solo nelle aule di giustizia di Caltanissetta, durante gli innumerevoli processi per fare luce sulla strage del 19 luglio 1992, ma senza giungere a nessuna verità. Adesso di colui che riconosce come «padre, amico e maestro», parla nel libro ‘Paolo Borsellino. L’uomo giusto’ (San Paolo Editore) e tira fuori aneddoti, che fanno del giudice Borsellino una persona capace di porre attenzione all’altro con cui entra in relazione. Cavaliero incontra Borsellino, che è stato appena nominato procuratore capo a Marsala, quando viene assegnato come uditore giudiziario proprio alla procura di Marsala. I due magistrati, gli unici in servizio, a partire dal gennaio 1987, si dividono il lavoro a metà. Ma Borsellino capisce di avere alcune lacune sul lavoro da svolgere come pubblico ministero, avendo svolto sempre il ruolo di giudice istruttore, in vigore nel vecchio Codice di procedura penale sostituito poi nel 1988. Così un giorno, davanti a un piatto di spaghetti sul lungomare di Marsala, dice a Cavaliero: «Diego, insegnami a fare il procuratore della Repubblica. Ho sempre fatto il giudice istruttore, ma mi rendo conto che ho delle grosse lacune. Tu sei più fresco di studi». «Lui in ogni caso è il capo, un leader» sottolinea. «Grazie anche al suo ruolo in famiglia, riesce a mediare sempre tra la funzione di padre e quella di magistrato. Il pedagogo parla al giudice». I due vivono e lavorano in maniera simbiotica. Cavaliero diventa di casa dai Borsellino, frequenta la villetta di Villagrazia, fa amicizia coi figli, accompagna il giudice dalla mamma in via D’Amelio. Poi il giovane magistrato è costretto, per motivi familiari, a tornare a Salerno, ma ogni scusa è buona per incontrarsi. Accade anche alla fine di giugno 1992, a Giovinazzo, in Puglia, dove Borsellino si trova per un convegno. Giovanni Falcone è stato ucciso da poco più di un mese, l’albergo è assediato per motivi di sicurezza. «Mi dice: ‘Sai Diego, quando subisci la perdita di un parente caro, tu vai al suo funerale e piangi non solo perché ti è morto il parente o l’amico, ma perché sai che la tua fine è più vicina’» racconta Cavaliero. È la prova che Borsellino è perfettamente consapevole della fine a cui sta andando incontro. Cavaliero desidera che Borsellino faccia da padrino di battesimo al suo bambino, Massimo. La risposta è immediata: «Ne sono felice, così tolgo questo bambino dalle mani di un miscredente come te». Il battesimo è fissato a Salerno per il 12 luglio, domenica. Il luogo della strage a Palermo, in via D’Amelio, dove il magistrato palermitano si era recato a trovare l’anziana madre il 19 luglio 1992 «Ma non è Paolo quello che ho di fronte – racconta Cavaliero – è completamente assente». Tranne per un momento, quando prende il suo nuovo figlioccio sulle gambe e sorride. Probabilmente è l’ultima fotografia, appena sette giorni prima della strage. Cavaliero è un testimone prezioso anche del modo di vivere la fede cristiana di queste giudice: «Credo che la fede lo abbia aiutato in quello che è il concetto di morale, che va anche al di là della religione, ma individua ciò che è giusto o sbagliato in senso assoluto». Resta l’amarezza e la delusione su quella verità negata. «Perché è morto Paolo non si sa e forse non si saprà mai. Ci sono due fatti che da uomo della strada non riesco a capire. Il primo è il problema dell’agenda rossa sparita dalla borsa ritrovata dentro la Croma blindata in via D’Amelio. Perché non è stato fatto l’esame del Dna sulla borsa, visto che lo hanno fatto sui mozziconi di sigaretta ritrovati a Capaci, rendendo immediata l’individuazione di chi aveva schiacciato il telecomando per la strage?» si interroga Cavaliero. E poi la creazione del falso pentito Vincenzo Scarantino: «Come si è arrivati a questa figura?». «Paolo è morto da solo – aggiunge – con la consapevolezza di andare a morire, ha affrontato il proprio destino come un samurai, che credeva nella giustizia non come principio astratto ma come affermazione di verità, affrontando un nemico armato della propria fede cristiana e della propria idea di legalità e di giustizia». 19 luglio 2017
DIEGO CAVALIERO Cavaliero incontra Borsellino, che è stato appena nominato procuratore capo a Marsala, quando viene assegnato come uditore giudiziario proprio alla procura di Marsala. I due magistrati, gli unici in servizio, a partire dal gennaio 1987, si dividono il lavoro a metà. Ma Borsellino capisce di avere alcune lacune sul lavoro da svolgere come pubblico ministero, avendo svolto sempre il ruolo di giudice istruttore, in vigore nel vecchio Codice di procedura penale sostituito poi nel 1988. Così un giorno, davanti a un piatto di spaghetti sul lungomare di Marsala, dice a Cavaliero: «Diego, insegnami a fare il procuratore della Repubblica. Ho sempre fatto il giudice istruttore, ma mi rendo conto che ho delle grosse lacune. Tu sei più fresco di studi. Lui in ogni caso è il capo, un leader. «Grazie anche al suo ruolo in famiglia, riesce a mediare sempre tra la funzione di padre e quella di magistrato. Il pedagogo parla al giudice». I due vivono e lavorano in maniera simbiotica. Cavaliero diventa di casa dai Borsellino, frequenta la villetta di Villagrazia, fa amicizia coi figli, accompagna il giudice dalla mamma in via D’Amelio. C’è l’elicottero sulle nostre teste, ci sono guardie ovunque. Mi chiede di accompagnarlo in macchina a prendere le sigarette e mi dice una frase che non dimenticherò mai, a freddo: “Sai Diego, quando subisci la perdita di un parente caro, tu vai al suo funerale e piangi non solo perché ti è morto il parente o l’amico, ma perché sai che la tua fine è più vicina. Sette giorni prima della strage, Paolo Borsellino aveva fatto da padrino di Battesimo al primogenito del giovane giudice salernitano Cavaliero. Paolo era un macina carte. Per lui il lavoro era importantissimo, ma non era la sua vita. È la prova che Borsellino è perfettamente consapevole della fine a cui sta andando incontro. Cavaliero desidera che Borsellino faccia da padrino di battesimo al suo bambino, Massimo. La risposta è immediata: «Ne sono felice, così tolgo questo bambino dalle mani di un miscredente come te. Il battesimo è fissato a Salerno per il 12 luglio, domenica. Ma non è Paolo quello che ho di fronte – racconta Cavaliero – è completamente assente». Tranne per un momento, quando prende il suo nuovo figlioccio sulle gambe e sorride.
Liliana Ferraro, Dirigente ministero giustizia – audizione 16 febbraio 2011 AGOSTO 1985, PALERMO-ASINARA “Nell’anno 1985, del quale stiamo parlando, vi fu anche la cosiddetta estate maledetta di Palermo. Ai primi di agosto vennero uccisi i commissari di polizia Montana e Cassara`, strettissimi collaboratori del pool antimafia. La situazione di tensione nella citta` divento` cosı` forte che il prefetto di Palermo, dottor Finocchiaro, mi prego` di raggiungerlo immediatamente per convincere Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e le loro famiglie ad andare via da Palermo, perche´ lo stato di tensione faceva dubitare di poter garantire la loro incolumita`. Mi recai dal consigliere Caponnetto, che era ospitato nella caserma della Guardia di finanza, avendo la famiglia a Firenze, che mi disse: «Porta via Giovanni, Paolo e tutti. Vai a dirglielo immediatamente, li chiamero` anch’io, ma io non mi muovo di qua perche´ mai si dovra` dare l’immagine della giustizia che fugge davanti alla mafia». Fu cosı` che il giorno dopo, organizzato un trasporto con aerei speciali, giunsero tutti ad Alghero, per proseguire in macchina verso Porto Torres, da cui raggiunsero l’Asinara su motovedette della Polizia. Io arrivai all’Asinara il 15 agosto, avendo gia` ordinato l’approvvigionamento e il trasporto di scaffali, macchine da scrivere, carta e tutto quanto era necessario per lavorare. Lı` restarono per circa due mesi, anche se Giovanni volle assolutamente rientrare a Palermo, anche per un solo giorno, al fine di partecipare alla commemorazione in occasione dell’anniversario della morte del consigliere Rocco Chinnici.” “Tutti ricordano che ai giudici Falcone e Borsellino furono inviati i conti da pagare per il periodo di permanenza all’Asinara nel 1985. Di questa decisione, assunta dagli uffici del dottor Amato, anche il Ministro fu informato solo dai giornali che pubblicarono i legittimi commenti ironici dei magistrati.”
PIETRO GRASSO Collega di Paolo Borsellino al Tribunale di Palermo Dopo qualche giorno Paolo Borsellino si trovò a passare lì davanti (la stanza blindata dove erano custoditi gli atti del maxiprocesso, n.d.r.) e, intuendo il mio senso di umano sgomento dinanzi a quella mole imponente di documenti da studiare, mi fece omaggio della fotocopia delle sue famose rubriche: quaderni compilati con una grafia minuta e ordinata, dove erano annotati i nomi degli imputati, le centinaia di omicidi, i collegamenti tra gli imputati e i riferimenti alle pagine degli interrogatori dei collaboratori di giustizia, supporti indispensabili per una più rapida conoscenza dei fatti e degli elementi a carico dei soggetti da giudicare. Paolo fu sempre prodigo di chiarimenti e di suggerimenti, a mano a mano che mi addentravo nello studio degli atti, e questo suo atteggiamento paterno mi fece sentire protetto e pronto ad affrontare l’immane fatica che mi aspettava. In quel periodo l’operato dei giudici palermitani riscuoteva parecchi consensi, tanto che Borsellino era solito ripetere, con entusiasmo e ottimismo: «Sai, la gente fa il tifo per noi». Gli era accaduto di essere fermato per strada e di ricevere parole di approvazione e incoraggiamento. Del resto, era la prima volta che veniva istruito un processo così imponente contro la mafia e i suoi vertici.da “Per Non Morire di Mafia”, di Alberto La Volpe e Pietro Grasso
BEPPE SALVO Magistrati sopravvissuti alla mafia: Beppe Salvo, “figlioccio” di Paolo Borsellino Intervista al giudice oggi Sostituto Procuratore Generale a Venezia, che iniziò la carriera nella squadra di Paolo Borsellino a Marsala e nel ’92 lo sentì dire… di Fraterno Sostegno ad Agnese Borsellino
“Con Borsellino c’era un rapporto come tra padre a figlio, simbiotico per certi versi… A mia moglie, nel luglio del 1992, Borsellino disse: ‘Gisella, con Peppe è capitato che ci siamo scontrati, anche duramente, come a volte capita tra uomini, ma io ho sempre avuto la consapevolezza di avere davanti una persona leale e che mi voleva bene, non come adesso a Palermo che non so più da chi mi devo guardare prima… A mio modo di vedere il difetto capitale di Borsellino era quello di non ‘tenere la guardia alta’, forse sembrerà paradossale quello che dico, ma tendeva a fidarsi delle persone, anche troppo, quando invece determinate situazioni, determinati contesti e determinate persone avrebbero dovuto renderlo più guardingo…” Giuseppe Salvo è magistrato dal 1984. Attualmente svolge funzioni di Sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Venezia, ma nella sua vita professionale vi sono 5 anni, dal 1987 al 1992, in cui ha lavorato a Marsala quando il procuratore era Paolo Borsellino, 5 anni intensi di vicinanza professionale e familiare. Per questo siamo andati a intervistarlo. Beppe Salvo si è rivelato un uomo simpatico, umile e alla mano nonostante l’ufficio che ricopre. Ne è nata una conversazione che ha alternato momenti molto ironici ad alcuni molto toccanti, specie nel ricordare, con molta fatica, alcuni mesi terribili del 1992.Abbiamo parlato di vari argomenti, degli inizi a Marsala e delle indagini di cui si occupavano (i Messina Denaro, i primi collaboratori, Spatola e Calcara), e poi il rientro temporaneo a Palermo con il processo per l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il legame con Paolo Borsellino, il dossier mafia appalti e l’addio a Marsala. La sensazione che abbiamo avuto è che Beppe Salvo sia dovuto andare via da Marsala per sopravvivere psicologicamente ad un anno, il 1992, che gli aveva portato via un pezzo della sua vita.
Visto che leggeranno molti ragazzi vorremmo chiederle che studi ha fatto prima di Giurisprudenza e come arrivò a Marsala. “In realtà alla magistratura sono arrivato quasi per caso, c’entravo poco o niente. Già da dopo la scuola media avrei voluto fare altro tipo di studi, mi sarebbe piaciuto poter frequentare il Liceo Artistico ma l’istituto era Palermo, io vivevo con la mia famiglia a Marsala e, quindi, avendo 13-14 anni i miei non si posero minimamente la questione. Finii quindi per iscrivermi al Liceo Classico Giovanni XXIII; poi, terminati gli studi alle superiori, avrei voluto frequentare una famosa scuola di grafica pubblicitaria di Milano ma, anche quella volta, i miei non furono d’accordo che io mi trasferissi così lontano da casa, sicché alla fine, obtorto collo, mi iscrissi alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo. Dopo la laurea ho bazzicato per un po’ come “apprendista” in una agenzia di assicurazioni, per poi iniziare la pratica per avvocato: non durò molto, perché il dominus dello studio legale, notando un mio certo disimpegno riguardo ad alcuni aspetti della professione legale, mi fece presente che forse non ero particolarmente versato per l’avvocatura e mi congedò amabilmente suggerendomi di studiare per magistratura. Devo comunque dire che, in un certo qual modo, avvertivo il fascino della carriera in magistratura, essendo i miei genitori buoni amici del dr. Antonino Marino, all’epoca presidente di sezione della Corte d’Appello di Palermo, e fu proprio lui a consigliarmi di cominciare lo studio per il concorso di magistratura ed a propormi di iscrivermi alla scuola di preparazione, i cui corsi erano tenuti nelle aule dell’istituto “Gonzaga” da due magistrati (Antonio Ardito- pretore del lavoro con una grande passione per il diritto penale – ed Ettore Criscuoli – civilista di gran vaglia- ) e da un valente avvocato dello Stato (Beppe Dell’Aira), che ci insegnava diritto amministrativo. Cominciai a seguire le lezioni a corso già avviato, era gennaio del 1982, e sei mesi dopo, a giugno, volli provare il concorso di recente bandito, contro lo stesso parere dei miei “insegnanti” perché, a loro avviso, non ancora maturo e pronto per sostenere la prova scritta. Feci di testa mia e sfidai la sorte, consegnando tutti i miei elaborati, anche se avevo forti riserve sulla qualità di almeno uno dei tre scritti. In autunno ripresero le lezioni al “Gonzaga” fino a che, pochi giorni prima del Natale di quell’anno, durante una lezione il dr. Criscuoli mi si avvicinò per chiedermi se per caso avessi anche un secondo nome un po’ “strano”; risposi “si, mi chiamo Giuseppe e anche Costanzo”, e lui di rimando”Bene, allora tu sei passato… insieme alla “collega” Flora Randazzo (ben magro bottino, quell’anno, per i corsisti della scuola). Il 16 febbraio del 1983 – ancora sull’onda emotiva del recentissimo omicidio del Sostituto Procuratore della Repubblica di Trapani, Giangiacomo Ciaccio Montalto, sostenni gli esami orali negli uffici di via Arenula del Ministero di Grazia e Giustizia (al tempo ancora si chiamava così); mi congedai dal Banco di Sicilia, dopo aver vinto un concorso per accesso all’ufficio legale della banca, e restai in attesa del c.d. decreto di nomina. Passarono mesi, e siccome cominciavo un po’ ad annoiarmi per la lunga e improduttiva attesa, un amico di mio fratello, Giovanni “Nanni” Barracco, che era Pretore a Marsala, mi trovò una collocazione per un apprendistato “non ufficiale”, ad ore perse, presso il dr. Paolo Borsellino, suo caro amico e collega di concorso, a quel tempo Giudice Istruttore presso il Tribunale di Palermo: fu così che ancor prima della mia nomina ad uditore giudiziario – febbraio 1984 – conobbi Borsellino e cominciai a frequentarne l’ufficio. Andavo a Palermo un paio di mattine alla settimana, assistevo a qualche atto istruttorio (testimoni, interrogatori) seduto ad una piccola scrivania di fianco, prendevo appunti e spunti, era per me un’esperienza bellissima, incredibile… non mi sembrava vero. A marzo del 1984 iniziò il tirocinio ufficiale (c.d. uditorato) e, dopo essere stato assegnato per un trimestre a rotazione a diversi uffici, all’inizio dell’estate – complice un periodo feriale un po’ travagliato – si creò un vuoto nella programmazione, per rimediare al quale venni collocato all’Ufficio Istruzione ed affidato al dr. Leonardo Guarnotta, con l’intesa che mi sarei trattenuto non più di un paio di settimane (a quel tempo norme regolamentari vietavano agli uditori di prima nomina di svolgere le delicate funzioni di giudice istruttore, per cui non era prevista l’assegnazione in tirocinio a quell’ufficio). Quelle prime due settimane alla fine furono in realtà l’intera estate del 1984, visto che Guarnotta mi aveva preso in simpatia e si era offerto di “custodirmi” fino alla fine del periodo feriale. Ero dentro il “bunker”, quello che sarebbe presto diventato l’Ufficio Istruzione più conosciuto e famoso d’Italia, ne facevo a mio modo parte, potevo finalmente conoscere e osservare da vicino quei magistrati (Borsellino, Falcone, Di Lello, Guarnotta, Caponnetto) che fino, a quel momento, erano stati per me figure mitizzate. C’era il quotidiano rito del caffè della mattina, da prendere al bar interno al palazzo di giustizia, a cui venivo ammesso, giusto perché Falcone, quando incontrava gli altri colleghi, potesse dedicarmi la sua battuta preferita: “Vi presento il collega Salvo … della nota famiglia”; si era proprio fissato con questa storia della battuta sulla mia presunta parentela mafiosa, gli piaceva assai, alludeva agli omonimi Salvo, i cugini Nino e Ignazio, che erano già nel focus delle indagini dei giudici istruttori e che sarebbero stati arrestati nel novembre di quell’anno.
Logicamente Guarnotta mi faceva fare cose ordinarie, niente di complesso, fascicoletti contro ignoti, furtarelli, piccole rapine da strada; però c’era anche di mezzo la comune passionaccia per il calcio e la rituale partita del martedì sera. Guarnotta già era scortato e mi diceva: “Peppe, mi raccomando, stasera alle 8, puntuale come al solito sotto casa mia e poi si va al campo”. Io arrivavo lì con la mia Simca Talbot bianca e lo trovavo davanti alla portineria del condominio dove abitava, già cambiato in pantaloncini, scarpette e con la tuta, lo caricavo in macchina e andavamo al campo nel quartiere San Lorenzo, zona ad alta densità mafiosa.Nel giugno del 1985 il mio primo incarico, giudice al Tribunale di Mondovì, in provincia di Cuneo, ma prima che partissi Borsellino mi aveva confidato che stava pensando di “cambiare aria” e valutava di trasferirsi da Palermo, per cui gli promisi che se lo avessero nominato Procuratore della Repubblica a Marsala avrei subito fatto domanda per quell’Ufficio, come poi sostanzialmente avvenne, perché lui prese servizio a Marsala il 4 agosto del 1986, ed io a fine luglio dell’anno dopo, nel 1987″.
Quindi ha conosciuto anche il dr. Giovanni Falcone? Non ho mai lavorato con Giovanni Falcone, è vero però che con lui ho avuto il privilegio di condividere anche più di un caffè. Talvolta capitava che la domenica fossi a pranzo a casa di Borsellino coi miei familiari e che, nel primo pomeriggio, venissero in visita Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo, ricordo una volta anche il consigliere Caponnetto con sua moglie. Non posso dire “che i miei maestri sono stati Falcone e Borsellino ”, affermazione che spesso è corsa sulla bocca di colleghi che li avevano conosciuti assai meno di me, e frequentati ancor meno. Pur essendo da sempre stato per me figura di riferimento idealizzata, Falcone non è stato un mio “maestro”, nel senso che non mi ha trasmesso conoscenze professionali e non mi ha insegnato metodi e tecniche di lavoro. È con Borsellino che mi sono avvicinato per la prima volta al mondo delle indagini, cercando di fare tesoro dei suoi insegnamenti, non solo di lavoro ma, anche e soprattutto, umani e personali. C’era un rapporto come tra padre a figlio, simbiotico per certi versi; certo, scandito dalle rispettive peculiarità caratteriali e a volte da confronti, anche “vivaci”, ma con una sintonia sempre viva degli affetti di fondo: nell’87/88 mia figlia Bianca aveva un paio di anni e lo “zio Paolo” stravedeva per lei, la mozzicava affettuosamente sul naso, poi nel 1989 tenne a battesimo la mia seconda figlia, Laura”.
Quando lei è arrivato a Marsala vi occupavate anche di mafia visto che non c’era ancora la Direzione Distrettuale Antimafia. “A Marsala fui proiettato in una dimensione lavorativa che all’inizio non capivo, nel senso che essendo giovane e inesperto avevo una consapevolezza relativa del contesto operativo e dei moduli di lavoro di una Procura della Repubblica. C’era Borsellino, a cui mi affidavo completamente, e questo spianava qualsiasi ostacolo e risolveva ogni difficoltà, tutto quello che è avvenuto negli anni successivi è stato conseguenziale. Non è che io avessi un’idea compiuta di strategie o tecniche di indagini su questa o quella materia, la mia scelta professionale si era risolta nel tenere fede a quella mia promessa del 1985, raggiungere Borsellino alla Procura di Marsala ed avere finalmente la possibilità di lavorare assieme a lui”.
All’epoca nell’ufficio c’era solo Diego Cavaliero? “C’erano il Procuratore della Repubblica ed un solo Sostituto, Diego Cavaliero, che da circa un anno era “di turno” 365 giorni su 365, h.24; io ero il secondo Sostituto, poi arrivò la collega Stefania Mazzacori e, nel 1989, altri uditori: Alessandra Camassa, Antonio Ingroia, Lina Tosi e Luciano Costantini, cui da ultimo si aggiunsero Massimo Russo, che proveniva dalla locale Pretura, ed il mio carissimo amico dai tempi del liceo e dell’università Francesco Parrinello che il Pretore l’aveva fatto nella Val di Susa: in pratica nel giro di due anni la nostra “pianta” era cresciuta fino a nove Sostituti, un vero ufficio ben organizzato”.
A Marsala come “ha conosciuto“ il fenomeno mafioso? Che indagini si facevano? “Non avevo particolare conoscenza “diretta” del fenomeno mafioso, perché ero al mio primo incarico in una Procura della Repubblica e, prima, per due anni avevo fatto il giudice, tutt’altro lavoro e, per di più, in una sede del Piemonte. Fare il Sostituto Procuratore in Sicilia, addirittura mia stessa città natale, era una esperienza assolutamente inedita, tutto mi era nuovo”.
Eppure doveva essere più facile perché lei conosceva di più le persone del luogo o comunque le zone. “No, per me non fu così. Il primo approccio reale e concreto con “la mafia”, il mio battesimo del fuoco, furono chiaramente gli “omicidi di mafia”, e quell’estate del 1987 esordii con l’omicidio di Cocò “Nasca” Zichittella, un uomo d’onore della “famiglia” mafiosa di Cosa Nostra di Marsala, ucciso a colpi di arma da fuoco mentre si godeva una passeggiata in Vespa sul lungomare della c.da Spagnola. Quello fu il primo incrocio con la realtà operatività delle “famiglie” di mafia. Ricordo ancora l’autopsia dello Zichittella , nell’ obitorio del cimitero di Marsala, insieme al medico legale Michele Marino, vecchio amico di tante “battaglie”, vidi il cadavere steso sul tavolo settorio di marmo e, prima che me ne rendessi, conto me ne scappai fuori di corsa trattenendo a stento conati di vomito, per l’odore nauseabondo che pervadeva i locali. Fu la prima e l’ultima volta che misi piede in una sala autoptica, mi recavo sempre all’obitorio per le autopsie, perché era necessario, ma declinavo garbatamente l’invito ad assistere e me ne stavo fuori, tranquillamente in attesa che il medico finisse il suo lavoro e mi mettesse a parte delle sue valutazioni. Questo accadeva nell’estate del 1987. A dicembre di quell’anno Calogero “Rino o Lillo” Germanà, allora dirigente del Commissariato della Polizia di Stato di Mazara del Vallo, completò il rapporto giudiziario intestato Agate Mariano +72, tre volumi in tutto, di cui due di allegati, rilegato con nastro adesivo verde e di cui conservo ancora una copia, uno spaccato competente, lucido e dettagliato della geografia mafiosa della parte meridionale della Provincia di Trapani, da cui nel febbraio del 1988 originò l’ operazione della Procura della Repubblica di Marsala, personalmente coordinata e gestita da Borsellino, con l’arresto di numerosi uomini d’onore della “famiglia” mafiosa di Cosa di Nostra di Mazara. Per me un primo interessantissimo ed utilissimo osservatorio”.
La famiglia dei Messina Denaro però era conosciuta. Germanà, ha riferito in una sua deposizione che quando nel 1987 uccisero Vincenzo Luppino, fece eseguire un tampone-stub- per il prelievo di eventuali residui da sparo sulla persona di Matteo Messina Denaro e che, già prima, nel 1985, aveva personalmente partecipato ad una perquisizione domiciliare nell’abitazione del padre, Francesco Messina Denaro. “So di questa deposizione, ed a questo riguardo faccio la seguente considerazione: se un personaggio di assoluto rilievo e dello spessore criminale di Francesco Messina Denaro subisce per la prima volta una perquisizione domiciliare – assolutamente routinaria per ricerca armi ai sensi dell’art. 41 T.u.l.p.s. – solo nel 1985, già all’età di 57 anni, sembra evidente che l’attenzione degli investigatori sul nucleo dei Messina Denaro è stata fino ad un certo momento blanda o, comunque, non tempestiva. In quel periodo le figure che animavano il panorama mafioso di Cosa Nostra nel Circondario di Marsala e su cui convergevano gli interessi degli inquirenti erano, ad esempio, gli Agate a Mazara del Vallo, gli Spezia o i L’Ala a Campobello di Mazara, gli Accardo a Partanna, cui facevano da contraltare nella parte nord del Trapanese i Minore. Senza promuovere letture dietrologiche, mi limito ad osservare che sui Messina Denaro si è cominciato a lavorare tardi”.
E il primo rapporto di polizia sui Messina Denaro quando arriva? “Cronologicamente partendo dal dicembre 1987 vi è quello su Agate Mariano del Commissariato di Polizia di Mazara del Vallo che si concentra sulla “famiglia” mazarese, ma il filo che lega Mazara a Campobello di Mazara, Castelvetrano e Partanna è un continuum, vi era una saldatura molto evidente tra le diverse realtà di quelle zone. Successivamente, nel febbraio del 1989 Arma dei Carabinieri e Commissariato di Polizia di Castelvetrano presentarono all’Autorità Giudiziaria un rapporto congiunto, in cui concentravano le risultanze di più aggiornate attività investigative sulle attività delle “famiglie” mafiose di quel territorio. Restavano un po’ in ombra i “marsalesi”, “famiglia” agitata da conflittualità armata interna tra il gruppo degli Zichittella ed i loro oppositori”.
E mentre lei era a Marsala inizia a collaborare Rosario Spatola, dalla cui dichiarazioni nasce un processo, Alfano Nicolò +15, sconosciuto ai più ma che presenta interessanti peculiarità sia per le questioni tecniche-giuridiche, sia per l’impiego delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. L’ “Alfano” fu il primo processo di mafia celebrato in Italia secondo le norme del nuovo codice di procedura penale del 1989 (forse contemporaneo ad altro processo “milanese” a carico di Angelo Epaminonda, detto “il tebano”); è stato il primo processo di mafia in cui si fecero trasferte nelle aule bunker del Nord per l’audizione di collaboratori di giustizia; è stato il primo processo di mafia in cui la camera di consiglio si svolse in una struttura militare, la locale base marsalese dell’Aeronautica Militare; inoltre fu il primo processo nel quale vennero affrontate questioni delicate procedurali in seguito trattate sulle rassegne di giurisprudenza. Soprattutto, è stato l’unico processo che vide come imputato Francesco Messina Denaro, definitivamente condannato in latitanza a dieci anni di reclusione per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. Quel collegio era formato dal presidente Antonio Spina, dall’estensore della sentenza Bernardo “Dino” Petralia, attuale direttore del D.A.P., e dalla giudice Marina Ingoglia.
Vorremmo che ci raccontasse come nacque quel processo partendo dalla comparsa sulla scena di Spatola nel settembre 1989. “Nel settembre del 1989 un certo Spatola si mette in contatto telefonico con la Procura della Repubblica di Marsala, dice di essere sottoposto ad una misura di prevenzione – credo un obbligo di soggiorno a Messina o nella Provincia di Messina – afferma di essere in pericolo e manifesta propositi di collaborazione riguardo alle attività delittuose di personaggi di spessore criminale di Campobello di Mazara, suo paese natìo. Diceva di non potere raggiungere Marsala con mezzi propri e che, in ogni caso, aveva paura a farlo, sicché venne prelevato nel Messinese da personale della nostra Sezione Polizia Giudiziaria dei Carabinieri, delegati da Borsellino. Cominciano gli interrogatori di Rosario Spatola, in stato di libertà, condotti da Borsellino, cui presenzio sin dalla prima verbalizzazione, con l’assistenza “tecnica” del comandante della locale Sezione di Polizia Giudiziaria dei Carabinieri della Procura della Repubblica. Spatola parlava di traffici di droga, chiamando in causa personaggi di Campobello di Mazara, e le sue dichiarazioni venivano di volta in volta vagliate dalla polizia giudiziaria, cui il Procuratore Borsellino delegava specifici punti di accertamento e verifica. Queste verbalizzazioni proseguirono fino al dicembre del 1989, Spatola ricostruiva trame e protagonisti di traffici di droga, sul Territorio ed all’Estero, in cui egli stesso era stato coinvolto insieme a malavitosi di Campobello di Mazara e di Marsala, e le sue dichiarazioni ricevevano sempre puntuale verifica e riscontro. Ad un certo punto, all’inizio del 1990, Spatola cominciò ad avanzare qualche rivendicazione di tipo economico, e sembrava essere sul punto di interrompere la collaborazione e di scappare, per cui venne emesso nei suoi confronti un mandato di arresto, eseguito con la successiva traduzione nel carcere romano di Rebibbia. Borsellino ed io andammo ad interrogarlo in carcere, e in quel momento Spatola aprì il capitolo mafia, di cui prima non aveva mai parlato. Fu sorprendente apprendere di un rito di affiliazione fatto addirittura in Svizzera, di cui sarebbe stato “padrino” tale Angelo Caravà, originario di Campobello di Mazara, frattanto deceduto. Spatola stesso, quindi, si accreditava di essere appartenente a Cosa Nostra, come ritualmente affiliato secondo il tradizionale rituale di iniziazione. Su questa parte delle sue dichiarazioni non abbiamo mai nascosto nostre (di Borsellino e mie) personali riserve e, tuttavia, Spatola forniva informazioni assai dettagliate su appartenenti all’organizzazione mafiosa gravitanti nel Circondario della Procura della Repubblica di Marsala, parlando anche di Francesco Messina Denaro. Nel maggio del 1990 a Campobello di Mazara veniva ucciso Natale L’Ala, figura di spicco di quella “famiglia” mafiosa di Cosa Nostra e, all’inizio dell’autunno, Giacoma Filippello, che per anni ne era stata la convivente, ricercò un contatto con gli inquirenti marsalesi, cui si propose di riferire fatti e circostanze riguardanti l’appartenenza mafiosa del L’Ala, le sue attività delittuose ed i suoi vincoli di appartenenza mafiosa. La saldatura tra le dichiarazioni di Rosario Spatola e quelle di Giacoma Filippello, unitamente alle risultanze dei già citati rapporti giudiziari di Germanà del 1987, del Commissariato di Polizia e della Compagnia dei Carabinieri di Castelvetrano del 1989, diedero linfa a due distinti filoni processuali: uno celebrato col vecchio codice di procedura penale, ed uno di “nuovo rito”, ovvero il suddetto “ALFANO Nicolò +15”. A processo Alfano già iniziato, si acquisirono nuovi spunti investigativi provenienti da Vincenzo Calcara che, all’epoca detenuto nel carcere di Favignana, chiese un permesso per ottenere un colloquio con l’ Autorità Giudiziaria di Marsala, cui avrebbe raccontato fatti e circostanze di interesse per il processo in corso (era il novembre del 1991).
A quel punto, l’accusa contava sui contributi dichiarativi di Spatola, della Filippello e di Calcara, cui si aggiungevano significativi elementi di conoscenza della realtà mafiosa del Circondario, attraverso il recupero “postumo” di verbali di s.i.t. – sommarie informazioni testimoniali – di due vecchi uomini d’onore, Melchiorre Allegra, del luglio 1937, e Giuseppe Luppino, del marzo 1958.
Il mancato arresto di Francesco Messina Denaro, resosi latitante al tempo dei primi arresti, rimase il vero buco nell’acqua di quella vicenda, frutto – evidentemente – di una accorta e mirata fuga di notizie.
Nel corso del processo vennero esaminati importanti collaboratori di giustizia appartenuti a Cosa Nostra – Francesco Marino Mannoia, il chimico della droga della “famiglia” mafiosa palermitana di Santa Maria del Gesù, ed Antonino Calderone, fratello di Giuseppe “Pippo” Calderone, già capo della commissione interprovinciale (la Regione) di Cosa Nostra – ed entrambi fornirono dichiarazioni in tutto collimanti, quanto alla operatività di cosche mafiose nel territori de Circondario di Marsala ed alla identità degli appartenenti alle stesse, con quelle già rese disponibili da Spatola, Filippello e Calcara. In definitiva, partendo da materiale investigativo che si potrebbe anche definire spurio, se non “di risulta”, in corso d’opera avevamo creato un impianto accusatorio che si sarebbe tradotto in esiti di condanna che sarebbero stati poi confermati definitivamente nel giudizio di Cassazione”.
Quindi il contributo di Calcara è stato il minore tra le varie dichiarazioni?Calcara era uno che, come Spatola, era stato molto addentro nel traffico degli stupefacenti, in Italia ed all’estero. Spatola trafficava con la Spagna, mentre Calcara gravitava sulla Germania: pur essendo stati impiegati per lo più in attività di narcotraffico, entrambi condividevano il background delle famiglie mafiose preposte alla gestione dei traffici, e ne avevano rivelato agli inquirenti l’interessante spaccato operativo, indicando coloro che ne facevano parte in modo organico”.
Invece Calcara a un certo momento racconta di essere affiliato..“Non solo Calcara, anche Spatola. A parte la Filippello, ad un certo punto viene introdotto il racconto del rito di affiliazione, circostanza di cui si è tenuto conto relativamente, e fino a un certo punto, considerato che i contributi significativi in quel processo, dal punto di vista della rilevanza probatoria, erano altri”.
Le dichiarazioni di Calcara e Spatola vengono ridimensionate già nell’appello della sentenza Alagna+30, relativa al processo nato dalle dichiarazioni dello stesso Calcara. Successivamente, nel 1998, nella sentenza Ciaccio Montalto, e poi nella sentenza d’appello del processo Aspromonte, Calcara fu dichiarato inattendibile. Addirittura nella sentenza Aspromonte i giudici scrissero “Si è pervenuti alla conclusione che le propalazioni accusatorie provenienti da tal personaggio, oltre ad essere palesemente sospette e troppo puntuali per rispondere al vero non hanno trovato in atti sufficienti riscontri estrinseci..[…] Pur avendo riferito un episodio che lo vedeva penalmente coinvolto in prima persona ( e per il quale, stranamente, non risulta imputato nel presente processo), mancano in atti riscontri esterni univoci e certi delle propalazioni rese del Calcara.” E poi ancora nel 2014 con la sentenza del processo Rostagno fu ritenuto completamente inattendibile.
“Certo perché poi quando si pentono Andrea Mangiaracina, Vincenzo Sinacori, Antonino Patti ci dicono:”Ma questi due (Spatola e Calcara) chi sono? Chi li ha mai conosciuti?”
Calcara si autoaccusò anche di un progetto di omicidio del dottore Borsellino. In pratica raccontò che le cosche di Castelvetrano avevano pensato a lui come soggetto da segnalare qualora si fosse deciso di uccidere Borsellino, sparandogli contro con un fucile di precisione. Dopo anni, con i nuovi collaboratori, si sarebbe scoperto che per l’omicidio di Borsellino a Marsala era stata coinvolta da Totò Riina la “famiglia” di Mazara del Vallo, facente capo a Mariano Agate ed a Francesco Messina – quest’ultimo prima sottocapo e, poi, reggente di quella “famiglia”, detto “mastro Ciccio”- e che al progetto si era opposta la “famiglia” di Marsala, appartenenti di spicco della quale – Vincenzo D’Amico e Francesco Caprarotta – erano stati per questo motivo uccisi nel gennaio del 1992.
“Io a questa cosa del progetto di attentato di cui Calcara si autoaccusava non ho mai creduto, ed è dichiarazione che, per quanto mi consta, non ho mai processualmente utilizzato. Personalmente l’ho sempre considerata una vanteria, che ad un certo punto forse gli prese la mano, visto che Calcara cominciò a parlare addirittura di fucili di precisione. Quale credito potevano avere queste dichiarazioni? Per me zero. Possibile che l’esecuzione di un progetto omicida di mafia di assoluto livello, come l’uccisione del Procuratore Borsellino, potesse essere affidata da Riina ad un oscuro personaggio del sottobosco malavitoso come Calcara? Vi era parte dei contributi dichiarativi del Calcara che doveva essere “filtrata” dal setaccio investigativo, e quel che non passava dentro al setaccio veniva scartato. Ho interrogato varie volte Calcara e la mia impressione era che fosse una persona caratterialmente debole, dai tratti istrionici, ma quando parlava di stupefacenti sapeva perfettamente quello di cui parlava.
Quando sarebbero state acquisite le collaborazioni dei componenti organici delle “famiglie” di mafia di Cosa Nostra del Circondario marsalese (i citati Mangiaracina, Sinacori, Patti), che sconfessavano l’appartenenza mafiosa di Spatola e di Calcara io ero già andato via da Marsala, ma non è che, anche prima di quel disvelamento, l’appartenenza mafiosa di Spatola o di Calcara fosse stata considerata verità scolpita sulle tavole della legge, si faceva una attenta selezione delle fonti di prova disponibili, la parte che risultava verificata veniva valorizzata in chiave di accusa, il resto veniva scartato”.
“L’Afano” è stato probabilmente l’unico processo in cui si erano utilizzate anche propalazioni di Calcara e Spatola che ha retto fino in Cassazione. “Ha retto fino in Cassazione perché alle dichiarazioni di Spatola e Calcara si sono aggiunte quelle del tutto collimanti di Francesco Marino Mannoia e di Antonino Calderone”.
Ma Spatola fu condannato per associazione mafiosa nel processo Alfano. Ci può spiegare questa apparente incongruenza con quelle che sono state le sue considerazioni sull’appartenenza di Spatola alla mafia? “Fu condannato per mafia e per traffico di stupefacenti, in tutto a 2 anni e 10 mesi. Dunque, come detto, nutrivamo delle riserve sulla veridicità dell’affiliazione rituale dello Spatola a Cosa Nostra, non tornava il luogo della celebrazione del rito, addirittura in Svizzera e con l’assistenza di un appartenente già morto all’epoca delle sue dichiarazioni e, per di più, non convinceva il fatto che lo Spatola, come accertato, fosse figlio di un poliziotto. Però è processuale che Spatola commerciasse in droga per conto di esponenti di Cosa Nostra locale, e da questa circostanza egli traeva significativi elementi di conoscenza sull’articolazione della realtà mafiosa locale e sull’identità di quei protagonisti. Il dato processuale di partenza, a dispetto di talune nostre perplessità, alla fine si tradusse in un esito processuale di conferma dell’ipotesi di accusa, cosa che spesso succede nel corso di un processo e che non deve destare meraviglia”.
Si parla molto del dossier mafia-appalti e dell’interesse professionale che Borsellino aveva per quell’informativa del Ros. Sappiamo, anche dai racconti dei suoi colleghi, che il dossier arrivò a Marsala anche perché c’era un filone che riguardava l’isola di Pantelleria. Era arrivato solo il pezzo che riguardava Pantelleria? “Formalmente credo di ricordare sia arrivato dalla Procura della Repubblica di Palermo uno stralcio di atti. Come usualmente avveniva se c’è un’attività investigativa che riguarda un Circondario, una zona, un territorio diverso, il Procuratore che riceve il rapporto – nella fattispecie quello di Palermo – trasmette gli atti all’ Ufficio Giudiziario omologo per quei fatti competente per territorio, nel nostro caso Marsala. E credo questo sia avvenuto. Poi che Borsellino nutrisse spiccato personale interesse di natura professionale per i contenuti di quel rapporto è cosa che posso affermare senza timore di smentita”.
Che Borsellino conoscesse il dossier nell’interezza è una idea sua o ha elementi per pensarlo? “Non è una idea mia, nel senso che Borsellino ne parlava coi Sostituti, faceva considerazioni, riflessioni, quindi come avrebbe potuto parlare con noi di =qualcosa che non conosceva?”
Quindi parlava di tutto il dossier mafia-appalti o solo di Pantelleria? “Questo non glielo so dire, entriamo nello specifico di un fascicolo di cui erano titolari altri colleghi. E’ certo che quel rapporto venne trasmesso alla Procura di Marsala, che Borsellino lo conoscesse e che coltivasse un interesse diretto per un’attività investigativa che riguardava l’intreccio imprenditoria, mafia e politica“.
Lei ci ha detto che ogni tanto con Borsellino vi scontravate caratterialmente. Avete mai litigato? “Solo una volta e accade, per via di una testimonianza proprio al processo “Alfano”. Era metà dicembre del 1991. Uno dei primi testimoni introdotti dalla Procura era l’appartenente alla Polizia Giudiziaria che aveva eseguito i riscontri sulle dichiarazioni di Spatola e che doveva riferirne l’esito in dibattimento. E purtroppo questi si presentò in dibattimento facendo scena muta. Certo, era uno bravo nel suo lavoro, ma anziché venire là con il suo voluminoso dossier di accertamenti per illustrare contenuti di riscontri e verifiche si presentò a mani vuote, e alle mie domande rispondeva ”Credo…forse.. non so, non ricordo”. Questo creò non trascurabile difficoltà e notevole imbarazzo, palesato sia dallo stupore dei componenti del Collegio, sia da reazioni di fastidio degli avvocati. Fui costretto a sollecitare al Tribunale un aggiornamento dell’udienza per poter risentire il teste, trattandosi della più importante deposizione tra quelle degli appartenenti alla polizia giudiziaria. Me ne lamentai col diretto interessato e ne parlai anche coi colleghi. Un paio di giorni dopo mi chiamò al telefono Borsellino e mi fece una strigliata telefonica da rimanere non solo senza parole, ma pure senza fiato: ” Ancora non me ne sono andato da Marsala e già ti stai organizzando per distruggermi l’ufficio!!!” Evidentemente il nostro testimone si era lamentato col Procuratore raccontandogli “la mezza messa”, come si dice in Sicilia, ovvero una versione di parte a suo uso e consumo. Si trattò di uno sgarbo e di una grave scorrettezza nei miei confronti che, per di più, aveva innescato la reazione furiosa dell’inconsapevole Procuratore verso il suo Sostituto”.
Ma lei poi non riuscì a chiarire con Borsellino? “Ci fu il saluto ufficiale del Procuratore della Repubblica a Marsala il 4 luglio del 1992, più volte rinviato, (anche per il tragico evento della strage di Capaci). Purtroppo non sentivo Borsellino da qualche mese. Ebbe parole di elogio per me durante il suo discorso, poi ci siamo parlati e riabbracciati; ed ancora dopo, più riservatamente nel suo vecchio ufficio, per una quindicina di minuti, c’era anche sua moglie Agnese, e ad un certo punto, rivolto a mia moglie, che per lui nutriva sconfinata ammirazione ed affetto, disse: ”Gisella, con Peppe è capitato che ci siamo scontrati, anche duramente, come a volte capita tra uomini, ma io ho sempre avuto la consapevolezza di avere davanti una persona leale e che mi voleva bene, non come adesso a Palermo che non so più da chi mi devo guardare prima”.
L’ho sentito al telefono ultima volta il 17 luglio del 1992 , non mi ricordo perché l’avessi chiamato, forse anche solo per un saluto, il 17 luglio è il giorno divenuto noto per via del suo ultimo interrogatorio a Gaspare Mutolo. E poi ci fu il 19 luglio… Stavo giocando a tennis, mi chiamò mio padre e mi disse che un amico aveva sentito in televisione che c’era stato un attentato a un giudice a Palermo, e così ho saputo. Sono arrivato in via D’Amelio circa un’ora dopo quella telefonata, il tempo di chiamare quelli della scorta e fare la strada a tutta velocità. Ricordo solo macerie fumanti… non c’era più niente. Non mi ricordo se ho incontrato qualcuno, delle persone, nulla… ricordo solo un autentico scenario di guerra con macerie dappertutto e colonne fumo denso che si alzavano al cielo… non ho altri ricordi”.
Borsellino era uno che si arrabbiava? A parte l’episodio che ci ha raccontato prima. “Non ricordo fosse irascibile. Sanguigno si, ma non impulsivo, mentre io impulsivo lo ero. Forse, non so, lui mi vedeva poco allineato, un po’ esuberante, non condivideva – a ragion veduta, secondo lui – certe mie valutazioni dissonanti, ma mai nessun dissidio per ragioni di politica o di una propria personale visione del mondo. La dimensione del lavoro dentro al nostro ufficio era veramente coinvolgente, trovavi conforto, confronto autorevole, la presenza assidua e sempre partecipe di un Capo”.
Facevate delle riunioni mattutine? “No. Era tutto molto estemporaneo, si entrava e si usciva dal suo ufficio, non c’erano turni e attese, in modo assai “libero” ed informale. C’era condivisione, circolazione continua e completa delle informazioni investigative tra i colleghi, nessuna gelosia o invidia professionale, un sentimento condiviso di affetto che andava ben oltre il mero spirito di colleganza, siamo cresciuti con questo insegnamento. E Borsellino parlava, parlava e poi ancora parlava… dei fascicoli, delle sue indagini, della famiglia, parlava sempre, di tutto, senza riserve e senza remore”.
Ma lei è stato trasferito per le minacce che arrivarono nell’estate del 92? “La storia del mio trasferimento è particolare. Nell’estate del 1992, dopo la strage di via D’Amelio, il C.S.M. aveva sollecitato la mia disponibilità ad un trasferimento d’ufficio ad altra sede fuori dalla Sicilia per motivi di sicurezza. Eravamo nel pieno dello svolgimento del processo Alfano, non accettai di lasciare l’Ufficio ed il processo a metà strada. Preferii prendere tempo e completare il processo Alfano, valutando la possibilità di trasferirmi con domanda ordinaria. Presentai la domanda di trasferimento ad ottobre del 1992, anche perché dopo l’attentato a Rino Germanà, era il 14 settembre del 1992, ero a pezzi dal punto di vista della tenuta nervosa. Avevo subito il dolore immenso e la devastazione psicologica di quelle due stragi, nel giro di nemmeno due mesi, ed un altro prezioso collaboratore, cui ero legato da amicizia, era sfuggito per miracolo ad un attentato di mafia (altissima mafia, visto che i tre mancati killer del commando erano Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano), in quel momento non avevo più le risorse mentali per continuare a lavorare là, non era produttivo per me e non era produttivo per il mio ambiente di lavoro”.
Quando ci siamo sentiti qualche giorno fa ci ha raccontato di aver ascoltato di recente una deposizione del dr Germanà al processo contro Mario Bo ed altri che si sta svolgendo a Caltanissetta. E non ho provato una bella sensazione. Conoscevo perfettamente la vicenda. All’età di soli 33 anni, andato via Borsellino, mi ritrovavo a essere il Procuratore reggente di quell’ Ufficio, e i colleghi Alessandra Camassa e Massimo Russo erano titolari dell’indagine sulla identificazione del famoso “Enzo, politico trombato di area manniniana”, il misterioso personaggio che aveva dato mandato al notaio Ferraro per un tentativo di aggiustamento del processo in Corte di Assise di Appello di Palermo per l’omicidio del capitano dei Carabinieri Emanuele Basile. Ho cercato di rimuovere parte di quei ricordi, ho sofferto troppo per tutto quello che è successo in quel periodo. Poi sentire il racconto di Germanà … ha mostrato senso dello Stato che gli fa onore rievocando i fatti senza toni di vittimismo, perché davvero credo sia stato vittima dell’ istituzione cui apparteneva, ancor prima che dei mafiosi che gli hanno sparato”.
E quindi a Marzo del 1993 va a Treviso. “C’erano tre sedi di Procura lontane dalla Sicilia. Una era Verona, ed era quella a cui io avrei ambito ma non avevo chance perché c’erano colleghi con maggiore anzianità che avevano fatto domanda; poi c’era Reggio Emilia, ma dopo aver conosciuto il Procuratore della Repubblica capii che non ci sarei andato molto d’accordo. A quel punto rimaneva Treviso, dove il Procuratore della Repubblica era Giancarlo Stiz, un magistrato che aveva fatto un pezzo della storia giudiziaria del Paese ai tempi delle indagini sulla strage della Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano. Alla fine andai a Treviso, mantenendo le funzioni di Procura. Il passaggio dalla Sicilia a Treviso non fu esattamente come bere un bicchier d’acqua, ne è seguita una serie di complicate e difficili vicende personali e, soprattutto, mi è rimasto in bocca il sapore amaro di avere come battuto in ritirata, abbandonato il “fronte” nel momento del bisogno. Poi però ne è seguita anche un’altra bella storia familiare, completata da una splendida bambina che si chiama con quello stesso strano mio secondo nome, Costanza, che adesso ha nove anni, ama le sorelle maggiori e ne viene ri-amata”.
Ma poi nel 1997 torna a Palermo, applicato alla Procura della Repubblica. “Nel maggio del 1997 diedi disponibilità per essere applicato dalla Procura della Repubblica di Treviso a quella di Palermo. Trascorsi quasi un paio di mesi in cui in Procura quasi non avevano lavoro da darmi, anzi, nemmeno avevo la scrivania e sempre lo stesso refrain: “Niente dottore torni domani, intanto si vada a fare una passeggiata”. A un certo punto mi convoca il Procuratore Giancarlo Caselli, e nel suo ufficio trovo il collega Alfonso Sabella, uno dei Sostituti di punta dell’Ufficio. Caselli mi chiede se me la sentivo di dare una mano a Sabella nel dibattimento che iniziava davanti alla Corte di Assise di Palermo per il sequestro e l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo. La mia risposta era scontata. A quel processo ne venne riunito un altro riguardante 25 omicidi di mafia commessi tra il 1994 ed il 1995 per conto della “famiglia” mafiosa di Bancaccio dei Graviano e di Leoluca Bagarella. Seguii l’intero dibattimento fino al novembre del 1998, il processo sarebbe terminato nel febbraio del 1999, divenni amico fraterno di Sabella e lo sono tuttora”.
A proposito di quel processo, l’escussione di Vincenzo Chiodo in aula che descrisse il rapimento e l’agonia del piccolo fino allo strangolamento fu qualcosa di atroce, come l’ha vissuta? “Eravamo a Venezia, all’aula bunker di Mestre. Vincenzo Chiodo è stato, insieme ad Enzo Brusca e a Giuseppe Monticciolo, uno dei killer che strangolarono Giuseppe Di Matteo. Era un passaggio dibattimentale assai complicato da affrontare dal punto di vista emotivo ed interiore, e allora prendi i verbali del collaboratore, prepari una “scaletta” di domande e vai avanti, non c’è un altro modo… Che poi è la metodologia a cui normalmente ci si affida in udienza nei dibattimenti di maggiore complessità, anche se non c’è di mezzo lo strangolamento di un bambino di nemmeno 12 anni, poi sciolto nell’acido. Ma dal punto di vista emotivo è stato credo il momento più impegnativo della mia storia lavorativa”.
Pregi e difetti del giudice Borsellino. “A mio modo di vedere il difetto capitale di Borsellino era quello di non “tenere la guardia alta”, forse sembrerà paradossale quello che dico, ma tendeva a fidarsi delle persone, anche troppo, quando invece determinate situazioni, determinati contesti e determinate persone avrebbero dovuto renderlo più guardingo, pensava di essere in grado comunque di tenere le dinamiche delle situazioni sotto controllo e di poterle gestire.
I pregi, tanti, ovviamente. Cosa potrei aggiungere ancora riguardo alle qualità professionali di Borsellino? Era straordinario. Un senso di appartenenza alle istituzioni unico. Un capacità di tenere ritmi di lavoro intensi, di non darsi tregua. Una umanità davvero straordinaria, il sentimento paterno che nutriva verso di noi e i legami affettuosi che tendeva ad intrattenere. Borsellino riusciva “a fare famiglia con tutti”, Diego Cavaliero era come se l’avesse adottato, perché era fuori sede e viveva da solo. Ci invitava al villino di Villagrazia di Carini, da cui partì quel pomeriggio del 19 luglio 1992, diretto sul luogo della strage, veniva spesso a casa mia, a casa dei miei genitori, si andava a cena insieme, ci teneva a battezzare tuo figlio o a fare il testimone di nozze di uno dei suoi Sostituti, e se non glielo chiedevi magari si offendeva pure. Un rapporto umano ed un Procuratore del Repubblica che non ho mai più ritrovato in oltre 37 anni di vita lavorativa”. LA VOCE DI NEW YORK 10.8.2020
DAI SUOI SOSTITUTI Carissimo Paolo, al di là dei saluti ufficiali, anche se sentiti, un momento privato, un colloquio tra noi. Noi tutti siamo qui a Marsala con te fino dal tuo arrivo, ma ognuno di noi porta nel suo cuore un pezzetto di storia da raccontare sul lavoro a Marsala, nella procura che tu hai diretto. Ci piacerebbe ricordare tante situazioni impegnative o tristi o buffe che ci sono capitate in questa esperienza comune, ma l’elenco sarebbe lungo e, allo stesso tempo, insufficiente. Possiamo comunque dirti di aver appreso appieno il significato di questo periodo di lavoro accanto a te e le possibilità che ci sono state offerte: l’esperienza con i pentiti, i rapporti di un certo livello con la polizia giudiziaria, sono situazioni rare in una procura di provincia, e la tua presenza ci ha consentito di giovarci di queste opportunità. Abbiamo goduto, in questi anni, di un’autorevole protezione, i problemi che si presentavano non apparivano insormontabili perché ci sentivamo tutelati. Qualcuno ci ha riferito in questi giorni che tu avresti detto, ironizzando, che ogni tuo sostituto, grazie al tuo insegnamento, superiore ma non riconoscenti. Sai bene che non è vero, ma è vero invece che la tua persona, inevitabilmente, ci ha portati a riconoscere superiore solo chi lo è veramente. Ci sono state anche delle incomprensioni, e non abbiamo dimenticate nemmeno quelle: molte sono dipese da noi, dalle diversità dei caratteri e dalla natura di ognuno; altre volte, però, è stata proprio la tua natura onnipotente a vedere ogni cosa dalla tua personale angolazione, non suscettibile di diverse interpretazioni. Tuttavia, anche in questo sei stato per noi un “personaggio”, ti sei arrabbiato, magari troppo, ma con l’autorità che ti legittimava e che mai abbiamo disconosciuto. Anche nel rapporto con il personale abbiamo apprezzato l’autorevolezza e la bontà, mai assurdamente capo, ma sempre “il nostro capo”. E poi te ne sei andato, troppo in fretta, troppo sbrigativamente, come se questo forte rapporto che ci legava potesse essere reciso soltanto con un brusco taglio, per non soffrirne troppo. Il dopo Borsellino non te lo vogliamo raccontare: pur se uniti tra noi, in tantissime occasioni abbiamo sentito che non c’eri più, e in molti abbiamo avvertito il peso, talvolta eccessivo per le nostre sole spalle, di alcune scelte, di importanti decisioni. E adesso il futuro, il tuo, ma anche il nostro. Noi ti assicuriamo, già lo facciamo, siamo all’erta, sappiamo che cosa vuol dire “giustizia” in Sicilia ed abbiamo tutti valori forti e sani, non siamo stati contaminati, e se è vero che “chi ben comincia…”, con ciò che segue, siamo stati molto fortunati. Per te un monito: è un periodo troppo triste ed è difficile intravederne l’uscita. La morte di Giovanni e Francesca è stata per tutti noi un po’ la morte dello stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e che, immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo spesso che non ce la faremo, che lo stato in Sicilia è contro lo stato, e che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello stato.
I ”tuoi sostituti” – 4 luglio 1992, ovvero quindici giorni prima di essere assassinato da Cosa nostra, Paolo Borsellino si reca per l’ultima volta al Tribunale di Marsala per la cerimonia di saluto che era già stata rinviata altre volte dopo il trasferimento a Palermo. Borsellino parla a braccio, ricorda i sacrifici che i magistrati devono affrontare per assicurare alla nazione il servizio della giustizia e riceve una bellissima lettera di saluto dai “suoi” sostituti, i giovani pm cresciuti sotto la sua guida negli anni delle inchieste marsalesi: Giuseppe Salvo, Francesco Parrinello, Luciano Costantini, Lina Tosi, Massimo Russo, Alessandra Camassa.
18 Luglio 2015 – Commemorazione di Paolo Borsellino e degli agenti di scorta – Audio
A cura di Claudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro le mafie – Progetto San Francesco