“IL GIORNO CHE LO VIDI SBIANCARE PER FALCONE” – PAOLINO BIONDO
è stato per oltre venti anni il barbiere del magistrato ucciso a Palermo in Via D’Amelio 26 anni fa: qui ne ricorda l’umanità e l’amicizia. “Lui preferiva aspettare il suo turno. Gli piaceva perché da me si rilassava e faceva la sua anticamera leggendo qualche rivista. Non chiedeva mai quanto c’era da attendere. Quando ci fu il maxi-processo, si iniziò a capire che fosse una persona in pericolo e allora un giorno gli dissi: ”Dottore Borsellino, se vuole posso venire io a farle i capelli a casa.” Lui per tutta risposta: ”Paolì, mi vuoi togliere il piacere di venirti a trovare?” A Palermo, a qualche centinaio di metri da via Cilea, vi è un negozio da barbiere gestito da oltre quarant’anni da Paolino Biondo. Lo specchio del suo salone ha visto molti volti, noti e meno noti. Gli occhi di Paolino hanno incrociato lo sguardo di migliaia di persone e le sue mani hanno “accarezzato” molti visi. Tra questi, sicuramente, quello che ha lasciato di più una traccia nel cuore di Paolino è un magistrato che in comune con il barbiere aveva anche il nome: Paolo Borsellino. E allora abbiamo pensato di chiedere a Paolino quali sono i ricordi di questo cliente speciale che conserva gelosamente. E’ stata una conversazione molto emozionante, a volte interrotta dalla voce rotta e commossa di Paolino che faceva fatica a raccontare, e ci siamo emozionati anche noi..
Come hai conosciuto il dottore Borsellino? “Ho il negozio vicino a dove abitava lui, in via Cilea. Lo conoscevo fin dal ’71. Ho avuto il piacere di servirlo dal 71 fino al 1992″.
Sapevi chi fosse quando ha iniziato ad essere un tuo cliente? Sapevi del suo lavoro? “No. Solo dopo qualche tempo, parlando, ho saputo che era un Magistrato. Siamo entrati in confidenza in qualche modo”. Ma davi del tu al Giudice? “No. Assolutamente, io nel mio lavoro, con i miei clienti, ho sempre mantenuto un rapporto di cordialità e rispetto”.
Abbiamo letto che portava anche i bambini a tagliare i capelli quando erano piccoli. “Si, Manfredi lo ricordo ancora con i pantaloncini corti. Una volta mi portò tutti e tre i bambini per il taglio dei capelli, anche le femminucce. Era una giornata di 40° a Palermo, d’estate, e bambini soffrivano il caldo coi capelli lunghi. Allora il Giudice mi chiese di tagliare i capelli anche alle bambine. “Perchè non le porta dal parrucchiere?” , gli dissi. Rispose “No, glieli devi tagliare tu, perchè come tagli tu i capelli corti non li taglia nessuno”.
E i bambini non si lamentarono di questa specie di costrizione? Di solito le bambine sono un po’ più difficili da accontentare, un po’ più civettuole. “No, anche perché lui col carattere che aveva non era facile potersi lamentare. Aveva un carattere forte coi figli, ma molto dolce e legato alla famiglia. Quando Manfredi divenne più grandicello iniziò a venire anche lui da me per farsi tagliarsi i capelli. E adesso ho sia lui che suo figlio come clienti. Ho un altro Paolo Borsellino che è mio cliente, e a volte se penso a questo ed a suo nonno, mi si stringe il cuore”.
Quindi Manfredi ha continuato questa amicizia? “Si, con Manfredi siamo più amici che con suo papà, perché è diversa come cosa, me lo sono visto crescere. Oggi, nonostante sia un Dirigente di Polizia, nonostante il ruolo che ricopre, è un ragazzo giocherellone che quando viene da me ama molto scherzare. E in questo somiglia molto a suo padre”.
Di cosa parlavate quando il Giudice veniva da te? “Mi raccontava delle marachelle di Manfredi a casa, era quello più discolo, o parlava di cosa facessero i figli, in generale cose della sua vita familiare. Eravamo entrati in confidenza”.
La gente lo riconosceva quando entrava nel tuo negozio? “Si. Però lui preferiva aspettare il suo turno. Gli piaceva perché da me si rilassava e faceva la sua anticamera leggendo qualche rivista. Non chiedeva mai quanto c’era da attendere. Quando ci fu il maxi-processo, si iniziò a capire che fosse una persona in pericolo e allora un giorno gli dissi:” Dottore Borsellino, se vuole posso venire io a farle i capelli a casa.” Lui per tutta risposta:” Paolì, mi vuoi togliere il piacere di venirti a trovare?”
Veniva da solo o con la scorta? “Sempre senza scorta. Ha cominciato ad essere accompagnato dalla scorta dopo che uccisero il dottore Falcone”.
Abbiamo letto che amava molto usare la Vespa. “Si, certe volte, d’estate, si presentava in pantaloncini, con la vespa e con gli zoccoli. Agli inizi però, negli ultimi anni non lo faceva più”.
Al Giudice assegnarono la scorta nel 1980, nonostante questo lui continuò a venire al negozio da solo? “Si. Magari lo lasciavano a casa e lui riferiva che non sarebbe uscito, che magari aveva da studiare delle carte e poi invece scendeva a comprare le sigarette o qualche rivista, o veniva da me. Era un momento di libertà che si concedeva. Si svagava, e poi con me si rilassava. Quando stava per essere approvata la legge che vietava di fumare nei locali pubblici, gli dissi: “Dottore Borsellino, lei lo sa che tra un po’ non potrà più fumare qui?” E lui mi fa: “Paolì che problemi ti poni, chiama gli sbirri e mi fai arrestare..”. C’era una certa amicizia e gli piaceva scherzare così”.
Quando il giudice veniva da te, e faceva tutto il giro passando davanti ad altri negozi, era un momento quasi di libertà che si ritagliava. Momenti in cui in cui aveva una parvenza di vita normale. “Lui scendeva da casa e percorreva tutto il tratto passando davanti a vari esercizi commerciali, magari comprava qualche rivista. Ti racconto un episodio simpatico che mi è rimasto impresso. C’era un negoziante, e quando il giudice passava lì davanti questo signore gli diceva sempre: “Dottore Borsellino, mu volissi trovari un posto?” e il giudice di rimando: “Ma che posto ti devo trovare? E dove lo dovrei trovare sto posto?”. E la cosa si ripeteva ogni volta che passava da là. E il giorno dopo, e quello appresso, di nuovo sempre la stessa tiritera. Fino a quando il Giudice gli rispose diversamente “Attrovai nu posto pe tia!”. “Ma veramente, mi trovo una sistemazione??” gli rispose il negoziante. “Sì vero, all’Ucciardone, ci voi iri?”
Questo dimostra ancora una volta il pensiero di Paolo Borsellino e la sua integrità morale. “Lui, le combatteva queste cose”.
Tutti ti conoscono perché sei la persona che era presente quando fu comunicato al Giudice che c’era stato un attentato a Giovanni Falcone. Presumo che tu quel giorno non te lo scorderai mai nella vita. “E come potrei scordarlo? E’ rimasto indelebile nei miei ricordi. Era sabato pomeriggio, Borsellino aveva fatto due ore di attesa per il suo turno. Si sedette e gli feci lo shampoo. Mentre stavo asciugandogli i capelli, gli arrivò una telefonata al cellulare che era poggiato sullo sterilizzatore. Prese il telefono, rispose, e lo vidi sbiancare in volto tanto che mi preoccupai e gli chiesi cosa stesse succedendo perché sentivo, dall’altra parte del telefono, parlare a voce alta e disperatamente. Capivo che era successo qualcosa di grave e allora, agitato, gli dissi: ”Dottore Borsellino ma che c’è, che cosa è successo?” Lui mi fa: ”Levami sta cosa” E io sempre più preoccupato insistetti: ”Ma vuole dirmi cosa è successo, mi fa sta facendo preoccupare” E lui: ”Hanno fatto un attentato a Giovanni” Ed è scappato, bianco come la carta. Subito dopo venne un Carabiniere in borghese, che io conoscevo, a chiedere del Giudice e anche a lui chiesi cosa fosse accaduto e mi disse: ”Hanno fatto un attentato a Giovanni Falcone”. Poi seppi che il Giudice andò prima a casa e da lì in ospedale dove il Giudice Falcone gli morì tra le braccia”. Palermo, 19 luglio, 1992: Via d’Amelio
PAOLINO BIONDO – Barbiere di Paolo Borsellino “Il giorno che lo vidi sbiancare per Falcone” – Paolino Biondo è stato per oltre venti anni il barbiere del magistrato ucciso a Palermo in Via D’Amelio 26 anni fa: qui ne ricorda l’umanità e l’amicizia. “Lui preferiva aspettare il suo turno. Gli piaceva perché da me si rilassava e faceva la sua anticamera leggendo qualche rivista. Non chiedeva mai quanto c’era da attendere. Quando ci fu il maxi-processo, si iniziò a capire che fosse una persona in pericolo e allora un giorno gli dissi: ”Dottore Borsellino, se vuole posso venire io a farle i capelli a casa.” Lui per tutta risposta: ”Paolì, mi vuoi togliere il piacere di venirti a trovare?” A Palermo, a qualche centinaio di metri da via Cilea, vi è un negozio da barbiere gestito da oltre quarant’anni da Paolino Biondo. Lo specchio del suo salone ha visto molti volti, noti e meno noti. Gli occhi di Paolino hanno incrociato lo sguardo di migliaia di persone e le sue mani hanno “accarezzato” molti visi. Tra questi, sicuramente, quello che ha lasciato di più una traccia nel cuore di Paolino è un magistrato che in comune con il barbiere aveva anche il nome: Paolo Borsellino. E allora abbiamo pensato di chiedere a Paolino quali sono i ricordi di questo cliente speciale che conserva gelosamente. E’ stata una conversazione molto emozionante, a volte interrotta dalla voce rotta e commossa di Paolino che faceva fatica a raccontare, e ci siamo emozionati anche noi..
PAOLINO BIONDO – il Barbiere di Paolo Borsellino Nei giorni immediatamente successivi all’omicido di Cassarà e Antiochia, ebbe inizio quella che qualcuno chiamò “la deportazione di Falcone e Borsellino”. I due Giudici, in poco tempo, furono prelevati da Palermo e trasferiti in Sardegna con un volo riservato dei servizi segreti.
In quell’agosto del 1985 la notizia doveva restare segreta, o per lo meno si cercò di farla rimanere segreta. Quando trapelò si disse ai giornalisti che erano stati inviati lì per lavorare tranquilli, per preparare l’ordinanza del maxi.. invece non avevano nulla di nulla. La storia completa la racconterà Caponnetto dopo la morte del Dott.Falcone in un’intervista al settimanale Suddovest riportata da La Repubblica il 17 Giugno del 1992.
Antonino Caponetto,in quegli anni era consigliere istruttore a Palermo, considerava Falcone e Borsellino come dei figli, dirà in seguito, e lo dimostrò proteggendoli come dei figli.. Fu sua la decisione di inviare i due giudici al “soggiorno obbligato” all’ Asinara per sottrarli ad un “grave ed incombente pericolo segnalato da una persona di assoluta fiducia e credibilità”. Quella persona era un alto ufficiale dei carabinieri che, nell’ estate dell’ 85, si precipitò nell’ ufficio del consigliere istruttore: “Abbiamo intercettato una cartolina in partenza dall’ Ucciardone – gli disse -. C’ è un piano della mafia per uccidere prima il giudice Borsellino, poi Giovanni Falcone”. Caponnetto non ci pensò due volte e ordinò che i due magistrati e le loro famiglie fossero immediatamente trasferiti al sicuro, all’ isola dell’Asinara. “Per lungo tempo quest’ episodio rimase sconosciuto ai più e quando la notizia trapelò riuscimmo a mantenere il segreto sulla drammatica motivazione di quell’ improvviso trasferimento che la stampa ha sempre attribuito alla decisione dei due colleghi di appartarsi in un luogo sicuro ed isolato per meglio dedicarsi alla stesura della sentenza-ordinanza. In realtà avendo lasciato Palermo con la massima urgenza a poche ore dalla segnalazione ricevuta, Falcone e Borsellino non avevano alcuna possibilità di portare con sé alcuna parte dell’ immenso materiale raccolto con la conseguenza che, per quindici giorni, dovettero sospendere il loro lavoro. Ogni giorno insistevano per poter tornare al lavoro, ma glielo consentimmo solo quando fummo tranquilli sul cessate pericolo”. Per quel “soggiorno obbligato” sull’ isola dell’ Asinara, Falcone e Borsellino dovettero persino pagare le spese di soggiorno per loro e le loro famiglie allo Stato. Questo raccontò il Giudice Caponnetto.
Appena arrivati furono ricevuti dall’allora Direttore del carcere Franco Massida, fatto rientrare dalle ferie precipitosamente, poi alloggiati nella foresteria del carcere, alla Cala Oliva.
Una prigionia che si ripercuoterà notevolmente sulle famiglie, specie per una delle figlie del Dott Borsellino, ragazzi dell’età di 15/13 / 14 anni venivano catapultati in un posto desolato con solo mare e natura, straordinari sì ma solo mare e natura..
Lucia, la maggiore, ne risentì così tanto che si ammalò.. E per Lucia il Dott Borsellino rientrò in gran segreto a Palermo, con lei per salvarla da ciò che le stava accadendo. La storia la racconterà la signora Agnese Borsellino nel suo libro,. Quella delicatissima, e allo stesso tempo difficile, storia, di amore tra padre e figlia..
https://ricerca.repubblica.it/…/nel-1985-falcone-borsellino-…https://ricerca.repubblica.it/…/la-prigionedei-giudici26.html “Ti racconterò tutte le storie che potrò” A.Borsellino, S.Palazzolo.
I CAPELLI DI BORSELLINO E L’ATTENTATO A FALCONE – Signor Paolino, che tipo di cliente era il giudice Borsellino?“Bravo”. Ci sono quelli che dal barbiere stanno in silenzio e osservano cupi lo specchio, al passaggio delle forbici, persi nei loro pensieri. E altri che chiacchierano di calcio o di qualunque cosa per non sentirsi soli.“Ah, il dottore era un miscuglio. Di solito stava zitto. Altre volte voleva parlare. E prendeva bonariamente in giro suo figlio Manfredi quando era un ragazzo, per via della prima barba”. E’ Manfredi che ci ha svelato dove trovarla. Sa, ha avuto il terzo figlio. Una bimba.“Che bellezza (Paolino Biondo zompa di felicità e quasi picchia la testa sul soffitto). Me lo deve salutare tanto”. Se ci legge, lo consideri salutato. Dove sedeva il giudice?“Qui (nel divanetto accanto alla porta, ndr). Aspettava il suo turno buono buono”. Significa che non saltava l’attesa? Che non le spaventava i clienti con la scorta?“Stava qui, paziente. E arrivava da solo, senza scorta, a piedi. Infatti, una volta gliel’ho detto”.Che cosa gli ha detto? “Dottore, vengo a tagliarle i capelli a casa. Lo faccio per lei…”. E lui?“Paolì – mi ha risposto – non ti arrisicare. Mi vuoi togliere l’unico momento di normalità che mi è rimasto?”. Era il 23 maggio del 1992…“Finisco quasi di tagliare i capelli al dottore Borsellino, lui era qui da me di pomeriggio. L’ultima passata di lacca, mi pare”. E che succede?“Gli squilla il telefonino. Lo porta all’orecchio. Diventa pallido, il dottore, si alza di scatto. Ha il viso bianchissimo. Prende i soldi dalla tasca e li posa sul tavolo”. E lei?“Dottore, che c’è?”. E lui?“All’inizio non risponde. Poi, con gli occhi persi nel vuoto, come se non mi vedesse, sussurra: mio Dio, un attentato a Giovanni. Esce fuori correndo. Purtroppo, non l’ho incontrato mai più”.Paolino, non faccia finta di non commuoversi. Chi era il giudice Paolo Borsellino? “Una brava persona”. Da casa dei Borsellino fino al barbiere di via Zandonai ci sono più di cento passi di normalità. Proviamo a percorrerli, immaginandoci nei vestiti di un giudice che sognava di tagliarsi i capelli come gli altri. Uno, due, tre… L’odore del verde, dei gerani al balcone, del caffè, stringe il cuore con una tenerezza primitiva, da bambini. E adesso lo sappiamo. Il 23 maggio del 1992, nella passeggiata fino alla bottega di Paolino Biondo, prima dell’attentato a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino era ancora un uomo vivo e felice. Un colpo di forbici. E tutto cambiò. LIVE SICILIA 18 Luglio 2010
DON CESARE ROTTOBALLI: «BORSELLINO MI DISSE: CONFESSAMI, MI STO PREPARANDO»–
padre Cesare parroco in un quartiere della periferia di Palermo e amico del giudice: Paolo è stato un martire per la giustizia. – Il 19 luglio 1992 un’autobomba uccise in via D’Amelio a Palermo il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta, Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina e Agostino Catalano. Una strage annunciata, avvenuta in un’afosa domenica, 57 giorni dopo quella di Capaci, in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta. È questa l’unica cosa certa, perché vent’anni, undici processi, una sfilza di ergastoli, sette dei quali annullati l’anno scorso, non sono ancora bastati per fare luce su una strage di Stato. Del massacro di via D’Amelio è stata ritenuta responsabile tutta la Cupola di Cosa Nostra. Secondo il procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari, e i suoi sostituti – che negli ultimi tre anni hanno provato a togliere il velo della mistificazione su una delle pagine più oscure della storia d’Italia – «Borsellino fu ucciso perché si oppose alla trattativa tra Stato e mafia». A dare lo spunto per le nuove indagini, sono state le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza. Secondo la Procura di Caltanissetta, che ha chiesto e ottenuto la sospensione della pena per sette ergastolani ritenuti estranei al delitto e l’arresto di altri quattro affiliati a Cosa nostra, Borsellino fu ucciso perché Riina lo riteneva un ostacolo alla trattativa con esponenti delle istituzioni. «Paolo Borsellino aveva piena consapevolezza di stare per morire, ma continuò a fare il suo dovere fino alla fine. Per questo mi piace dire che rientra tra i beati a causa della giustizia». Don Cesare Rattoballi, 54 anni, parroco dell’Annunciazione del Signore a Medaglie d’Oro, un quartiere della periferia di Palermo, è un testimone privilegiato del travaglio degli ultimi mesi di vita del magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio con cinque agenti di scorta. Il 19 luglio saranno vent’anni da quella esplosione che, assieme a quella del 23 maggio 1992, cambiò la storia della Sicilia e dell’Italia intera, ma le lacrime gli sgorgano ancora al pensiero delle lunghe chiacchierate col giudice Borsellino, delle confidenze raccolte e di ciò che vide in quella strada sventrata. Accetta di parlare dopo vent’anni di silenzio don Cesare, che il mondo ricorda al fianco della vedova Rosaria Schifani durante i funerali delle vittime della strage di Capaci, mentre dall’ambone invoca la conversione dei mafiosi. Perché don Cesare era cugino di Vito Schifani, uno degli agenti di scorta morti assieme al giudice Giovanni Falcone, e – per casi della vita che nessuno conosce – si è trovato a incrociare il suo destino con quello di altre vittime di mafia, da Calogero Zucchetto, un giovane poliziotto ucciso nel 1982 al centro di Palermo proprio mentre don Cesare passava da quella strada, a don Pino Puglisi, il sacerdote ucciso dalla mafia nel 1993.
Don Cesare, come nasce il suo rapporto con Borsellino? Facevamo parte della stessa parrocchia, Santa Luisa di Marillac, perché anche io abitavo in quella zona, quindi ci salutavamo cordialmente. Ma fu la notte della camera ardente allestita al Palazzo di giustizia dopo la strage di Capaci ad avvicinarci. Io mi trovavo lì, perché mio cugino era tra le vittime. Quella notte io e la moglie di Vito Schifani scrivemmo la lettera che fu letta durante i funerali. Quella sera feci una lunga chiacchierata con Paolo Borsellino, lui volle conoscere la vedova di Vito, e al mattino, prima dei funerali, le mise il braccio sulla spalla per accompagnarla. Era un padre.
Il giudice rimase colpito dalle parole che Rosaria Schifani disse piangendo: «Rivolgendomi agli uomini della mafia e non, ma certamente non cristiani: sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono. Io vi perdono, però voi vi dovete mettere in ginocchio…». Cosa le disse? A Borsellino piacque moltissimo quell’invito alla conversione. Mi disse di andarlo a trovare a casa con mia cugina. Ci disse che quello che avevamo fatto quel giorno stava già dando i suoi frutti, che alcuni mafiosi in carcere, quando avevano visto in tv lo strazio di quella donna, avevano vomitato, avevano chiesto di parlare coi magistrati. Paolo ci disse di andare avanti. In meno di due mesi ci incontrammo almeno una quindicina di volte. Lo invitai a partecipare alla marcia organizzata dagli scout a fine giugno, perché ero assistente regionale dell’Agesci. Affidò il testimone ai ragazzi e in quel rotolo di carta c’erano scritte le Beatitudini.
Con che stato d’animo viveva Borsellino quelle settimane? Un giorno nel suo studio a casa mi confidò che il Ros aveva scoperto che era arrivato il tritolo anche per lui. Gli chiesi: «Perché non te ne vai?». Mi rispose: «Prega per la mia famiglia». E mi disse anche che da un po’ di tempo guardava i suoi figli da lontano, li contemplava, non gli dava più carezze, «così li farò abituare alla mia assenza. Amava profondamente i suoi figli, era un vero padre.
Quale fu il vostro ultimo incontro? Andai a trovarlo in Procura alla vigilia della sua morte e, dopo un lungo colloquio, mi disse: «Fermati, voglio confessarmi. Vedi, io mi preparo». Aveva un senso profondo di ciò che doveva accadere. Giovanni Paolo II lo definì martire della giustizia e davvero penso che Paolo e tutti i magistrati e gli agenti uccisi dalla mafia sono beati a causa della giustizia.
Ha mai pensato quello che disse il giudice Caponnetto: «È finito tutto»? No, ho sempre sperato. Quello di Caponnetto fu uno sfogo dettato dall’amarezza del momento. Lì non finì nulla, anzi tutto ebbe inizio. Palermo oggi è libera. Se nessuno avesse dato la vita, saremmo ancora schiavi.
Si riuscirà a capire chi ordinò davvero la strage? Paolo direbbe ancora oggi: convertitevi. Chi sa, chi conosce la verità, deve parlare, perché la verità vuole la sua giustizia. Avvenire Alessandra Turrisi – 16 luglio 2012
Don CESARE ROTTOBALLI: «Borsellino mi disse: confessami, mi sto preparando»– Un giorno nel suo studio a casa mi confidò che il Ros aveva scoperto che era arrivato il tritolo anche per lui. Gli chiesi: «Perché non te ne vai?». Mi rispose: «Prega per la mia famiglia». E mi disse anche che da un po’ di tempo guardava i suoi figli da lontano, li contemplava, non gli dava più carezze, «così li farò abituare alla mia assenza. Amava profondamente i suoi figli, era un vero padre. Andai a trovarlo in Procura alla vigilia della sua morte e, dopo un lungo colloquio, mi disse: «Fermati, voglio confessarmi. Vedi, io mi preparo». Aveva un senso profondo di ciò che doveva accadere. Giovanni Paolo II lo definì martire della giustizia e davvero penso che Paolo e tutti i magistrati e gli agenti uccisi dalla mafia sono beati a causa della giustizia.
Facevamo parte della stessa parrocchia, Santa Luisa di Marillac, perché anche io abitavo in quella zona, quindi ci salutavamo cordialmente. Ma fu la notte della camera ardente allestita al Palazzo di giustizia dopo la strage di Capaci ad avvicinarci. Io mi trovavo lì, perché mio cugino era tra le vittime. Quella notte io e la moglie di Vito Schifani scrivemmo la lettera che fu letta durante i funerali. Quella sera feci una lunga chiacchierata con Paolo Borsellino, lui volle conoscere la vedova di Vito, e al mattino, prima dei funerali, le mise il braccio sulla spalla per accompagnarla. Era un padre. Il giudice rimase colpito dalle parole che Rosaria Schifani disse piangendo: «Rivolgendomi agli uomini della mafia e non, ma certamente non cristiani: sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono. Io vi perdono, però voi vi dovete mettere in ginocchio…». A Borsellino piacque moltissimo quell’invito alla conversione. Mi disse di andarlo a trovare a casa con mia cugina. Ci disse che quello che avevamo fatto quel giorno stava già dando i suoi frutti, che alcuni mafiosi in carcere, quando avevano visto in tv lo strazio di quella donna, avevano vomitato, avevano chiesto di parlare coi magistrati. Paolo ci disse di andare avanti. In meno di due mesi ci incontrammo almeno una quindicina di volte. Lo invitai a partecipare alla marcia organizzata dagli scout a fine giugno, perché ero assistente regionale dell’Agesci. Affidò il testimone ai ragazzi e in quel rotolo di carta c’erano scritte le Beatitudini.
GIOVANNI PAPARCURI – Collaboratore tecnico di Borsellino e Falcone all’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo
Pur lavorando all’Ufficio Istruzione non ebbi mai l’occasione di scortare il dottore Borsellino. Lo conobbi proprio oggi di 37 anni fa, purtroppo fu un incontro un po’ doloroso, perché mi trovavo disteso su una lettiga ed ero in attesa di entrare in sala operatoria della Neurochirurgia. Mi ricordo che ero completamente nudo e un lenzuolo di carta mi copriva dalla vita in giù, un secondo prima di entrare, appunto, in sala operatoria, sentii, anzi percepii una voce che pregava l’infermiere di aspettare un attimo. Quella voce era del dr. Borsellino, cominciò a parlare, ma vi giuro che non sentivo nulla, vedevo solo delle labbra che si muovevano, comunque il giudice per farmi coraggio batté la sua mano sul mio petto, non l’avesse mai fatto, perché ebbi la sensazione che mille spilli mi trafiggevano il torace, tanto fu il dolore che non riuscii a trattenere un grido.
Vidi il povero dr. Borsellino diventare piccolo piccolo, mi chiese scusa (credo) e se ne andò senza dire più nulla, non ebbi la forza di fermarlo per rincuorarlo.
Quel suo tocco è stato per me come un patto di sangue tra uomini d’onore, forse per questo eravamo tanto legati. Lo rividi dopo quasi 8 mesi.
Sarei disposto a riprovare quel dolore mille e mille volte ancora se ciò servisse a riportarlo in vita. Comunque è stato uno dei pochi a starmi vicino, per me ha lottato e si è scontrato anche con le Istituzioni. Purtroppo non ha ottenuto nessun esito, e sinceramente a me dispiaceva più per lui che per me.
Sono fiero di averlo conosciuto e di avere trascorso 10 anni della mia vita al suo fianco, orgoglioso di averlo ripagato della fiducia che aveva risposto in me. E devo a lui in particolare se sono rinato. Comunque è stato uno dei pochi a starmi vicino, per me ha lottato e si è scontrato anche con alcuni apparati dello Stato. Purtroppo non ha ottenuto nessun esito, e sinceramente a me dispiaceva più per lui che per meSono fiero di averlo conosciuto e di avere trascorso 10 anni della mia vita al suo fianco. Sono orgoglioso di averlo ripagato della fiducia che aveva risposto in me, affidandomi l’incarico di informatizzare i Maxi processi. Nel corso degli anni diventammo veramente amici, conobbi anche la sua splendida famiglia.
“Visti da Vicino. Falcone e Borsellino gli Uomini e gli Eroi”, di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti Palermo, 25 giugno 1992, Casa Professa (n.d.r.). Ricorda Alcamo (Vittorio, magistrato): «Una serata da fare accapponare la pelle. Io ero lì e rimasi veramente sconvolto. L’indomani mattina andai nel suo ufficio per stargli un po’ vicino. Ero rimasto così colpito dalle sue parole, dalla sua sofferenza espressa in modo così chiaro che sentii il bisogno di andarlo a trovare e cercai di confortarlo dicendogli: “Paolo, ma hai visto quanta gente c’era, quanto affetto attorno a te…».E lui mi rispose: “Gli applausi erano per Giovanni”».Con Pippo Tricoli e la sua famiglia Borsellino trascorse quella domenica in cui nella mente gli si affollavano rabbia, angoscia, paura. All’amico fraterno Pippo, dopo un bagno al largo e un pranzetto a base di panelle, crocchè, pesce e dolci, Paolo confidò scuro in volto: «È arrivato il tritolo anche per me».
Alfio Lo Presti, amico di Paolo Borsellino (n.d.r.):
«Aveva premura, era evidentissimo che aveva premura di sistemare alcune cose. In quelle settimane si chiuse in un silenzio totale e non si confidava più. Aveva chiarissima l’ostilità del palazzo. Di quei giorni, e fu una delle ultime volte che lo vidi, ricordo uno scontro quasi violento. Eravamo a casa sua, una sera, come spesso accadeva. Io lo invitai a fermarsi un poco, a riflettere, a essere particolarmente prudente e lui mi rispose malamente. Io e la mia famiglia avevamo già fatto i biglietti per un viaggio in Indonesia. Con noi sarebbe venuta anche Fiammetta. Fu quella sera, a conclusione di quel diverbio, che Paolo mi disse: “Tu mi devi fare solo un gran favore: ti devi portare via Fiammetta, lontano da qui”. A quel punto io capii tante cose e decisi di non insistere più di tanto. Paolo era assolutamente cosciente del gran pericolo che correva e la sua grande angoscia era la famiglia, i figli. Da sempre Lucia, Manfredi e Fiammetta erano il cruccio di Paolo Borsellino. Sembrava non avere altra paura se non quella di mettere a rischio l’incolumità dei ragazzi. Lui andava in bicicletta senza scorta, ma appena uno dei ragazzi ritardava perdeva la testa. Soprattutto Manfredi, quando erano al mare, spesso non tornava all’orario previsto e Paolo diventava pazzo. Quante volte è uscito di casa per cercare i suoi figli nei bar, nei locali, a casa degli amici. Sarebbe andato da solo anche nei covi dei peggiori mafiosi se pensava che i ragazzi fossero in pericolo. Era un padre molto affettuoso e non particolarmente severo, autoritario».MDopo pranzo fece finta di andarsi a riposare un’oretta e prima di riavviarsi verso Palermo, Borsellino bussò alla porta di Pippo per un abbraccio indimenticabile, ben più lungo e stretto del solito, come quelli che negli ultimi due giorni si era scambiato con alcuni colleghi. «Ciao Pippo, vado da mia madre…».MPochi amici, ma veri e fidati come in un’unica grande famiglia. Era così che Paolo Borsellino concepiva l’amicizia.
Alfio Lo Presti (amico di Paolo Borsellino, e il Ministro Scotti lo ha appena proposto come successore di Falcone alla Superprocura, n.d.r.): «“Fece volare il piatto che aveva davanti , batté con violenza il pugno sul tavolo e si mise ad urlare: Questa è la mia condanna a morte. Io che c’entro con Roma?”».
Antonio Tricoli:
«[…] a un certo punto, improvvisamente, lui interruppe la discussione che si stava facendo tesa e pesante e ci raccontò questo aneddoto. “Ero a casa mia a Villagrazia, a un certo punto ho deciso di uscire e ho aperto il cancello. I ragazzi della scorta erano in macchina e dormivano profondamente” e dicendo questo mimò in maniera estremamente divertente le facce addormentare degli agenti, chi dormiva con la bocca aperta, chi raggomitolato. “E a quel punto sapete cosa ho fatto io… me ne sono andato da solo a piedi in paese a comprare il pane. E vi pare che se ne sono accorti quelli?”. E insistette nell’imitare i poliziotti che dormivano. Ci fece ridere veramente smussando la tensione. Questo era Paolo.
Il Paolo Borsellino che è vivo nella mente di Alfio Lo Presti è il trentacinquenne giovane e brillante magistrato degli anni Settanta ancora senza troppi problemi sulle spalle.
«Paolo è sempre rimasto tale e quale agli anni della gioventù, un uomo semplice. Gli piaceva stare con gli amici, a casa sua si mangiava in cucina il sabato sera, mai nella sala da pranzo, almeno tra di noi. Si parlava di politica, di calcio, gli piaceva stuzzicare suo figlio Manfredi che era interista e gli diceva che lui era milanista. Gli piaceva mangiare e bere, mangiava di tutto, ma anche questo con una certa sobrietà.
Cucinare no, mai, anzi a casa era sbadato e pasticcione. E le rare volte che andavamo a cena fuori preferiva sempre le trattorie alla buona. La sua preferita si trovava in via Discesa dei Giudici, dove mangiava sempre bollito e involtini. Ogni tanto aveva dei battibecchi con Agnese. Magari lei, da donna, avrebbe preferito qualche volta prendere parte a ricevimenti, manifestazioni ufficiali dove erano invitati, ma lui non ci voleva andare assolutamente. Non amava queste mondanità e diceva che quello era un ambiente ipocrita e falso. Tantomeno andava a casa delle persone che lo invitavano, tranne gli amici veri naturalmente. Sfido qualcuno a dire di avere avuto Paolo ospite».
Antonio Tricoli: «[…] Paolo era un grande organizzatore, in tutti i sensi, e anche nelle vicende più tragiche riusciva sempre a mantenere la calma. Ricordo quel maledetto giorno che uccisero il mio collega Rosario Livatino, uno dei giudici ragazzini come li definì l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Con Livatino e con la collega Maria Agnello avevamo istruito un grande processo alla mafia di Agrigento. I provvedimenti di sequestro dei beni dei mafiosi portavano la firma di Livatino, la mia e quella della collega Agnello. E fu proprio quel provvedimento, si apprese poi, che costò la vita a Rosario. Quel giorno, il 21 settembre, io ero ad Agrigento con Paolo Borsellino quando in Procura giunse la notizia che Livatino era stato trucidato. Si scatenò un putiferio, il Palazzo di Giustizia si svuotò immediatamente, sembravano scomparsi tutti. Gli avvocati abbandonarono il palazzo e in quelle stanze restammo solo noi magistrati. Davanti al dolore, allo sgomento, al dramma che si consumava dentro la stanza del procuratore di Agrigento, Borsellino conservò una calma glaciale. C’erano da prendere delle decisioni immediate, delle cose da fare subito. E così, anche se non spettava a lui, cominciò a dare delle direttive: “Tu fai questo, tu quest’altro, tu vai lì, tu vai a fare il sopralluogo…».Insomma, Paolo Borsellino risolse molte cose in quelle tragiche ore dove tutti piangevano per l’uccisione di Livatino. Io andai sul posto dell’agguato, in una scarpata lungo la strada statale tra Canicattì dove Rosario abitava ad Agrigento. Ero lì quando un poliziotto alzò il lenzuolo che copriva il corpo del mio collega martoriato di proiettili. E sbiancai in volto. E Paolo era accanto a me, mi rincuorava, mi faceva coraggio in un momento in cui mi rendevo conto che anch’io, che avevo firmato con Rosario quei provvedimenti di sequestro dei beni di quei mafiosi, potevo essere nel mirino. Ma Borsellino non mi lasciò un attimo e il suo conforto mi fece superare quei tragici momenti».
Visto con gli occhi dell’avvocato difensore (Roberto Tricoli, n.d.r.), Paolo Borsellino era un uomo che riusciva a guadagnarsi rispetto anche da parte degli imputati. «Non ho mai sentito nessuno rivolgersi nei suoi confronti con parole di disprezzo o di odio, Paolo sapeva farsi rispettare dagli imputati. Era un uomo che comunicava in maniera molto diretta ed efficace. Ricordo una volta l’interrogatorio di un ragazzo arrestato per droga, accusato di aver fatto da “spallone” per un carico di stupefacenti. Stava lì e non parlava, fino a quando Borsellino lo apostrofò così: “Ma insomma cosa sei tu, sei uomo o pecora?”, e riuscì a farlo parlare. Quando poteva li aiutava pure gli imputati. Una volta mi capitò di assistere un indagato per mafia che viveva un terribile dramma familiare: gli morirono diversi figli a quattro-cinque mesi per una rara sindrome. La speranza era un preparato che c’era a Genova e Borsellino lo mandò personalmente a prendere. E poi, così come faceva Falcone, agli imputati spiegava chiaramente perché erano colpevoli e, per quanto strano possa sembrare, così facendo si guadagnava il loro rispetto»
Erano gli anni Ottanta quando Paolo Procaccianti, allora giovane allievo di Paolo Giaccone, direttore dell’istituto di medicina legale del Policlinico, cominciò a lavorare su incarico di Falcone e Borsellino. E proprio a Paolo Borsellino ritiene, forse, di dovere persino la sua vita. «Era maggio del 1980 e Borsellino mi aveva dato l’incarico di effettuare il guanto di paraffina sui presunti killer del capitano Emanuele Basile, ucciso a Monreale mentre tornava a casa insieme alla moglie e la figlioletta di quattro anni in braccio. Io ero giovane, avevo ventotto anni e abitavo ancora con mia madre. Ricevetti a casa una telefonata in cui mi si minacciava di morte se non avessi indicato come negativo l’esito del guanto di paraffina e rimasi sconvolto. L’indomani mattina arrivai in istituto con le gambe che mi tremavano e raccontai tutto a Giaccone. Io avevo una gran paura, mi misero sotto controllo il telefono, andammo a raccontare tutto a Borsellino che mi disse: “Io ti tolgo l’incarico, lo do fuori, se no ti ammazzano, questa è gente che non scherza”. E mi levò l’incarico…».
Ricordo ancora che Paolo, appena varcata la porta, si guardò attorno, diede un’occhiata a quei mobili scuri, massicci e disse: «Pare una casa protestante». E poi le classiche giornate di Pasquetta passate sempre a Villagrazia. Paolo a fumare sempre Super senza filtro. «Si fuma solo senza filtro» diceva con quella voce roca. E un grandissimo senso della famiglia. Negli anni in cui fu Procuratore di Marsala si vantava di non aver mai dormito una sola notte a Marsala, faceva avanti e indietro da Palermo per non trascurare la moglie e i figli. Paolo Borsellino conosciuto da ragazzo si trasformò agli occhi dell’amico Roberto Tricoli in: «[…] Un uomo di destra, un eroe solitario che credeva nell’onore e nella patria. Ci definivamo fascisti immaginari, avevamo una concezione della vita eroica, contraria a certe strutturazioni della società. E come un eroe solitario Paolo andò incontro alla morte. “Io amo Palermo e per questo la odio”, ripeteva spesso».
Paolo Procaccianti (medico legale di Palermo, n.d.r.):
«Un giorno, era sabato mattina, rimasi molto stupito di incontrarlo così, tutto solo nell’atrio dei Palazzo di Giustizia praticamente deserto. Lui uscì dall’ascensore e io gli dissi: “Paolo, ma che fai qui da solo?”. Mi rispose: “Sono stato all’ufficio postale a pagare le bollette, in ufficio a vedere delle carte che mi servono che devo andare in Germania a interrogare un collaboratore, ora me ne vado”. Insistei: “Ma così da solo, ti pare il caso?”. E lui: “Ma tanto è finito tutto, ormai non c’è più niente da fare. Che vuoi che serva la scorta? Spesso cammino solo, così muoiono meno figli di mamma. Ma lo sai che a casa mia non mi affaccio neanche più dal balcone. Quelli hanno anche il bazooka, possono ammazzare anche la mia famiglia”».
“Maledetta Mafia”, di Piera Aiello e Umberto Lucentini
Una mattina, mentre sono in caserma, scoppio a piangere. Sarà il destino, ma pochi minuti dopo arriva Borsellino, quel giorno non è prevista una sua visita. Mi trova in lacrime, mi chiede: «Cosa c’è Piera, hai paura? Temi che qualcuno possa avere capito cosa stai facendo? Dimmelo, troviamo subito un rimedio, ma dimmi cosa ti passa per la testa».
Io smetto di piangere, mi asciugo le lacrime, gli racconto tutto: non ce la faccio a stare nel villaggio turistico con i ragazzi che mi vengono dietro mentre mia figlia è lontana da me. Basta, voglio finirla qui, smetto tutto. Gli annuncio che voglio stracciare tutti i verbali che ho compilato e tornarmene a casa. Basta. Sono sconsolata, non ho più speranze, penso che per me la vita sia finita. Ho subito troppi traumi in poco tempo. Vedo tutto nero. La morte di mio marito ha fatto finire tutto. Ho solo mia figlia, e per giunta adesso non è accanto a me. Borsellino a questo punto mi prende per le braccia, mi spinge con dolcezza e mi mette davanti allo specchio che ho già visto accanto alla porta d’ingresso della caserma.
Mi tiene stretta, vedo la mia immagine riflessa e dietro di me l’immagine di Borsellino. Il giudice mi fa questa domanda: «Piera, tu cosa vedi allo specchio?».
E io: «Vedo una ragazza con un passato turbolento, un presente inesistente e un futuro con un punto interrogativo grande quanto il mondo. Che futuro posso avere io, zio Paolo?».
Lui mi guarda fissando i miei occhi che si riflettono sullo specchio. E dice: «Io vedo una ragazza che ha avuto un passato turbolento, che però si è ribellata a questo passato che non ha mai accettato. Vedo una ragazza che ha un presente e avrà un futuro pieno di felicità. Non per altro: hai diritto ad avere felicità per tutto questo che stai facendo». No, io in quel momento non immagino che la mia vita possa avere una strada diversa dal mio passato. In questo momento non ho ancora capito nulla. Non so di avere diritto a un contributo economico che mi permetterà di tirare avanti e del quale non devo vergognarmi. E che quando mi presentano un foglio su cui c’è scritto la formula “testimone di giustizia” non dovrò vergognarmi. Non ho capito neppure, mentre anch’io guardo riflessa sullo specchio l’immagine di Borsellino, che dietro questa formula giuridica ci sono io. Io con la mia storia passata e con quella ancora da scrivere. Borsellino lo ripete due volte: «Io vedo felicità nel tuo futuro, vedo felicità nel tuo futuro…». A questo punto lo interrompo, e gli dico: «Zio Paolo, tu mi devi fare una promessa…». «Dimmi, Piera, a cosa ti riferisci» fa lui. Ora tocca a me parlare. Gli ricordo che in questi anni ho vissuto sentendo la morte addosso, percependo il puzzo della morte violenta. Proprio così: sento addosso a me il puzzo della morte: «Se mi succede qualcosa ti affido mia figlia. Sappi che è il bene più prezioso che ho nella mia vita. Non ho altro che lei. Se mi succede qualcosa, se io muoio, prendila con te, portala a casa tua. Vita Maria a Partanna non ci deve tornare, non voglio che possa essere costretta a tornare in quel contesto mafioso da cui sono scappata». Borsellino mi risponde con un sorriso: «Non ti preoccupare Piera, perché tanto ammazzano prima me» .A pensarci bene, è una risposta terribile. Ma lui continua, quasi non mi dà il tempo di riflettere su cosa ha appena detto: «Piera, dovresti essere orgogliosa e contenta che i ragazzi si interessano a te. Sei una bella ragazza, cosa c’è di strano? Hai visto? È la prova che puoi avere un futuro». Sono parole cariche di un’umanità così grande che non ho mai sentito prima in vita mia. Torno a sentirmi un essere umano, una donna, non solo un “testimone di giustizia”. Le frasi di Borsellino mi riconciliano con la vita. Fino a pochi secondi fa, se mi avessero detto di scommettere 5 lire sul futuro della mia vita, sono sicura che le avrei perse. Non posso passare tutta la mia esistenza con il desiderio di tornare a Partanna e anche con la paura che mi uccideranno, con la certezza che la mafia mi farà pagare il mio gesto di ribellione. Mi guardo ancora allo specchio: non mangio né dormo da mesi, sono diventata anoressica. Ho perso trenta chili. Ma capisco che Borsellino ha ragione: ho ancora un futuro.
TRIBUTO A PAOLO BORSELLINO Per poter inquadrare la persona Borsellino è necessario distinguere e conoscere non soltanto il Borsellino giudice, ma anche lo studente e l’uomo.
La personalità di Borsellino, la caparbietà, la passione, l’allegria e l’amore per tutto ciò avesse intorno, sono le principali caratteristiche che si vogliono far emergere da queste poche righe. Molte di più ne sarebbero necessarie, ma piccoli cenni, brevi episodi trasmetteranno la forza d’animo, l’originalità e il grande attaccamento alla famiglia di questo personaggio.
L’uomo Borsellino nasce a Palermo il 19/1/1940. La famiglia vive e vivrà in un quartiere borghese di Palermo: la Magione. Borsellino è molto attaccato a questo quartiere dove ha trascorso tutta la giovinezza.
Egli ha un carattere forte, un po’ ribelle e molto aperto verso tutti . E’ interessato alle vicende che segnano la vita della Sicilia, terra che ama profondamente, e alle sue tradizioni; il desiderio di ricerca e di conservazione è molto forte in lui sin da ragazzo, tant’è che fugge di nascosto da casa per andare nel paese natale del suo nonno paterno e ricostruire l’albero Genealogico della famiglia. Anno dopo anno Borsellino costruisce e conserva un archivio personale molto dettagliato in cui vengono custoditi, gelosamente, documenti relativi alla vita della famiglia e del paese.
Anche il rapporto con i figli è molto forte. Sebbene il tempo da dedicargli non sia molto, egli vuole conoscere tutto della loro vita e a cena, conservando la tradizione della sua famiglia natale, fa’ lunghe chiacchierate con ognuno di loro. Cerca di proteggerli dalla realtà che è intorno a lui e, nello stesso tempo, di trasmettergli il proprio modo di essere e di agire. Un episodio per comprendere la fatica e la difficoltà di questo rapporto lo si può trovare nel momento in cui, in piena attività antimafia, Borsellino viene trasferito con Falcone sull’isola dell’Asinara per motivi di sicurezza.
Fiammetta, figlia di Borsellino, sta male, viene allontanata dall’isola è malata di anoressia.
La veglia la notte e cerca di aiutarla in tutti i modi. Per tutta la sua esistenza quel senso di protezione, quel senso di colpa per aver provocato problemi così grandi alla sua famiglia e, soprattutto, la volontà di stare vicino a sua figlia non lo abbandoneranno mai.
Movimentismo Al liceo Borsellino dirige il giornale “Agorà” dell’istituto Meli, il liceo classico che frequenta. E’ un periodo difficile per la Sicilia, molti lavoratori cominciano ad emigrare per trovare lavoro e questo lo fa soffrire profondamente. Sente molto forte la necessità di unire gli studenti ed i lavoratori di Palermo per raggiungere una soluzione dei problemi della Sicilia. Borsellino lavora molto caparbiamente al progetto di costruire un giornale scolastico cittadino, di tutti gli istituti, dove gli studenti possano confrontarsi e, insieme, costruire il loro futuro. Organizza un convegno cittadino per esporre il progetto. Unico scopo: salvare la propria terra.
“Se gli sforzi dei vari giovani che affrontano ogni anno sacrifici, talvolta anche rilevanti, per dar vita a giornali di istituto resteranno disuniti, i risultati saranno sterili, dice Borsellino.
E questo nostro ottimismo è giustificato dal fatto che si trova in cantiere un giornale unico per tutte le scuole di Palermo…e un convegno della stampa cittadina studentesca che getti le basi per una lunga e proficua discussione sui nostri problemi.”
Cominciano una serie di incontri serali a casa Borsellino. Il dibattito e questa forte attività intellettuale sono stimolati dai genitori che, spesso, la sera dopo cena, ascoltano “cenacoli” di studenti in cui si dibatte sui problemi più vari.
Borsellino si diploma nel 1958 e si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza. Sapeva che sarebbe stato meglio per la sua famiglia che si iscrivesse alla facoltà di farmacia, per continuare la professione di suo padre, ma caparbio e determinato è già diretto verso la professione di magistrato.
Università All’Università (1959) Borsellino si iscrive all’organizzazione FUAN Fanalino. membro dell’esecutivo provinciale, delegato al congresso provinciale, viene eletto come rappresentante studentesco nella lista del Fuan Fanalino. In questi anni l’attività politica lo prende molto e riesce a conciliare politica e studio senza grossi problemi. Borsellino è anche un goliarda, e si diverte a fare scherzi alle matricole. Sua sorella racconta che si divertiva a rivolgere domande su argomenti inesistenti alle matricole che stavano aspettando di sostenere gli esami. Solo quando il “terrore” era quasi totale e il loro turno era prossimo, Borsellino gli rivelava lo scherzo.
Vive la vita universitaria a tempo pieno, con forte passione. Egli sente il rapporto con gli studenti e lo coltiva in mille modi ; è impegnato, allegro, gioca e scherza.
Queste caratteristiche resteranno invariate per tutta la vita.
Se esaminiamo la personalità di Borsellino come studente, come membro della società civile e come magistrato possiamo notare come il rapporto con la gente è e rimane fondamentale.
Nel 1960 scoppia una rissa tra studenti di sinistra e di destra all’Università di Palermo.
Borsellino viene fermato e interrogato dal magistrato Terranova (poi ucciso dalla mafia), noto come magistrato di sinistra. Conferma l’appartenenza al Fuan Fanalino ma nega ogni responsabilità sulla rissa. Il magistrato lo rilascia. Questo episodio lascia un forte segno nella formazione della personalità e della vita di Borsellino insieme ad un altro un po’ più lontano che gli viene raccontato fin da piccolo ma che riemerge e prende consistenza proprio in questi anni.
Il nonno, nella piazza del paese dove tutti si affrettavano a baciare la mano del boss mafioso locale, si rifiuta di farlo e per tutta risposta il boss lo colpisce con uno schiaffo in faccia. Il nonno, senza abbassare lo sguardo, si gira e se ne va.
Questi due episodi rappresentano per Borsellino due fatti importanti che lo formano nella professione di magistrato e lasciano il segno. Nel primo caso si rende conto di come sia difficile ed indispensabile, per chi giudica vicende umane, salvaguardare l’imparzialità e la serenità nei giudizi. Nel secondo episodio comprende la necessità di sconfiggere la cultura mafiosa prima nelle coscienze dei siciliani e poi nelle aule giudiziarie.
Nel 1962 Borsellino si laurea con 110 e lode e, pochi giorni dopo, subisce la perdita del Padre. Ora è affidato a lui il compito di provvedere alla famiglia. Si impegna con l’ordine dei farmacisti a tenere la farmacia del padre fino al conseguimento della laurea in farmacia di sua sorella. Tra piccoli lavoretti e le ripetizioni Borsellino studia per superare il concorso in magistratura. Ci riesce nel 1963. Tenace e responsabile va dritto alla meta. Fare il magistrato a Palermo ha un senso profondo, non è una professione qualunque. L’amore per la sua terra, per la giustizia gli danno quella spinta interiore che lo porta a diventare magistrato senza trascurare i doveri verso la sua famiglia.
Il Magistrato Svolge una parte dell’uditorato, periodo di pratica per i magistrati, a fianco del giudice Terranova. La sorpresa è tanta, di entrambe.
Nel 1965 Borsellino viene mandato al tribunale civile di Enna come uditore giudiziario.
Anche lì lascia il segno per l’entusiasmo e la vitalità che trasmette a chi gli è intorno. Così ne parla Nello Sciacca nel discorso di congedo prima di approdare al palazzo di giustizia di Catania: “…Un discorso a parte merita Paolo Borsellino… tremo per lui e lo raccomando a tutti voi…. Cercate di spiegargli pure quante sigarette si possono impunemente fumare in un giorno, quanto pepe vada sparso sulle pietanze, e infine come non sia del tutto indispensabile, uscendo di casa, lasciare la luce accesa, la porta spalancata e tutti i rubinetti aperti….Lo ricorderò sempre come un caro ragazzo, che poteva essere mio figlio, e dietro il quale correvo giù per le scale del tribunale gridando: “Paolo, accidenti a te, torna indietro, fuori piove e fa freddo…Paolo, torna indietro …almeno l’ombrello…”. E’ un uomo normale, un ragazzo “scapestrato”, un po’ confusionario, ma con una forte spinta interiore che non lo fa mai passare inosservato.
Nel 1967 ha il primo incarico direttivo Pretore a Mazara del Vallo nel periodo del dopo terremoto.
Il 23 dicembre del 1968 Borsellino si sposa, continua a lavorare a Mazara facendo avanti e indietro da Palermo, anche più volte al giorno.
Nel 1969 viene trasferito alla pretura di Monreale dove lavora fianco a fianco con il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile.
Nel 1975 Borsellino viene trasferito al tribunale di Palermo e a luglio entra all’Ufficio istruzione processi penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Con il Capitano Basile lavora alla prima indagine sulla mafia e da questo momento comincia il suo impegno senza sosta per sconfiggere l’organizzazione mafiosa. Nel 1980 arriva l’arresto de primi sei mafiosi. Nello stesso anno il capitano viene ucciso in un agguato.
Per la famiglia Borsellino arriva la prima scorta con le difficoltà che ne conseguono.
Da questo momento il clima in casa Borsellino cambia e il giudice stesso deve relazionarsi con “quei ragazzi” che gli sono sempre a fianco e che cambieranno per sempre le abitudini sue e della sua famiglia. La moglie racconta così il rapporto che il giudice ha con la scorta “La sopporta, cerca di sfuggirla per quanto possibile, pur sapendo a quali rischi va incontro. Iniziamo a disertare i locali pubblici, gli dispiace costringere la gente che li frequenta a convivere con uomini con le pistole in pugno….”.
Il suo modo di fare, la sua decisione influenzano il “sentire” dei suoi familiari. Dalle parole della moglie, ancora, si può comprendere il rispetto e la sofferenza che si alternano nei loro cuori: “…Il suo modo di esercitare la funzione di giudice lo condivido perchè anch’io credo nei valori che lo ispirano….Non penso mai, per egoismo, per desiderio di una vita facile di ostacolarlo….Non è stato un sacrificio immolare la sua vita al mestiere di giudice: ama tantissimo cercare la verità, qualunque essa sia.”
La scorta costringe il giudice e la sua famiglia a convivere con un nuovo sentimento: la paura. E’ così che Borsellino ne parla e la affronta: “La paura è normale che ci sia, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, sennò diventa un ostacolo che ti impedisce di andare avanti.”
Borsellino, però, non è soltanto il magistrato del Pool antimafia. Opera accanto alla gente comune, si prende carico di dimostrare che la giustizia è dalla parte del popolo.
Il crollo di una casa fatiscente nel centro storico di Palermo provoca la morte di un muratore e sul banco degli imputati finiscono due assessori comunali. La sentenza di Borsellino è di proscioglimento poiché venne dimostrato che i due non erano a conoscenza delle condizioni in cui versava lo stabile, tuttavia usa parole durissime nei confronti della giunta democristiana “moralmente responsabile della tragedia”. “ …Un’amministrazione che di questo scempio dovrebbe almeno portare il rimorso, attivandosi per evitare l’altissimo costo sociale di scelte errate e di selvagge speculazioni con la perdita di vite innocenti che appartengono alla parte più emarginata della infelice popolazione di questa città”.
Il Pool Antimafia Il Pool, quattro magistrati Falcone, Borsellino e Barrile che lavorano uno a fianco all’altro, donando tutti se stessi al lavoro e alla loro professionalità, sotto la guida esperta e coraggiosa di Rocco Chinnici. Si intravede e, lentamente, si instaura un legame comunitario tra i giudici che appartengono al pool. Hanno la consapevolezza che ognuno è indispensabile nel suo ruolo, che lavorare insieme, con forza e professionalità, può far raggiungere risultati inaspettati. Per questo il pool si muove come un blocco granitico e, a testa bassa, continua nella sua opera. “Lavorando insieme, la mano destra deve sapere cosa fa la mano sinistra. Da noi questo succede”.
E’ nei giovani la forza su cui contare per cambiare la mentalità della gente e i magistrati lo sanno. Vogliono scuotere le coscienze e sentire intorno a sé la stima della gente. Sia Falcone sia Borsellino hanno sempre cercato la gente. Borsellino comincia a promuovere e a partecipare ai dibattiti nelle scuole, parla ai giovani nelle feste giovanili di piazza, alle tavole rotonde per spiegare e per sconfiggere una volta per sempre la cultura mafiosa.
Parallelamente continua il lavoro nel pool. Questa squadra funziona bene, ma si comprende che per sconfiggere la mafia il pool, da solo, non è sufficiente. Si chiede la promozione di pool di giudici inquirenti, coordinati tra loro ed in continuo contatto, il potenziamento della polizia giudiziaria, l’istituzione di nuove regole per la scelta dei giudici popolari e di controlli bancari per rintracciare i capitali mafiosi. I magistrati del pool pretendono l’intervento dello stato perché si rendono conto che il loro lavoro, da solo, non basta.
Borsellino lavora senza sosta, firma provvedimenti, indaga, ascolta con dedizione e responsabilità. Per questo Chinnici scrive una lettera al presidente del tribunale di Palermo per sollecitare un encomio nei confronti suoi e di Giovanni Falcone, importante per eventuali incarichi direttivi futuri. A proposito di Borsellino così scrive Chinnici: “ Magistrato degno di ammirazione, dotato di raro intuito, di eccezionale coraggio, di non comune senso di responsabilità, oggetto di gravi minacce, ha condotto a termine l’istruzione di procedimenti a carico di pericolose associazioni a delinquere di stampo mafioso”. L’encomio richiesto, non è mai arrivato.
Poi il dramma, il 4 agosto 1983 viene ucciso il giudice Rocco Chinnici con un’autobomba. Borsellino è distrutto dopo Basile anche Chinnici viene strappato alla vita e il vuoto si fa sentire molto. Ancora la moglie di Borsellino racconta il legame di Borsellino con Chinnici; “Con Rocco, mio marito ha un rapporto di amicizia e di fiducia intensa e reciproca. Una collaborazione durata tanti anni, fondata sulla massima intesa…per Paolo la sua uccisione è un altro dolore atroce…”
Il “capo” del pool, il punto di riferimento, viene a mancare e si ha l’impressione che la mafia, questa entità che tutto vede e tutto osserva, abbia ben compreso lo spirito ed il nuovo modo di lavorare dei giudici siciliani. Borsellino con molta preoccupazione commenta: “La mafia ha capito tutto: è Chinnici la testa che dirige il Pool”.
A sostituire Chinnici arriva a Palermo il giudice Caponnetto e il pool, sempre più affiatato continua nell’incessante lavoro raggiungendo i primi risultati. “Sentiamo la gente fare il tifo per noi”. Il Pool non vuole sentirsi solo, cerca lo Stato e i cittadini, vuole una mobilitazione generale contro la mafia.
Nel 1984 viene arrestato Vito Ciancimino e si pente Buscetta, Borsellino sottolinea in ogni momento il ruolo fondamentale dei pentiti nelle indagini e nella preparazione dei processi.
Comincia la preparazione del Maxiprocesso e viene ucciso il commissario Beppe Montana. Ancora sangue, per fermare le persone più importanti nelle indagini sulla mafia e l’elenco dei morti è destinato ad aumentare. Il clima è terribile Falcone e Borsellino vengono immediatamente trasferiti all’Asinara per concludere le memorie, predisporre gli atti senza correre ulteriori rischi.
All’inizio del maxiprocesso l’opinione pubblica inizia a criticare i magistrati, le scorte e il ruolo che si sono costruiti. Un giorno la scorta di Borsellino ha un incidente e la macchina finisce contro un gruppo di ragazzi che aspettavano l’autobus. Uno di loro muore altri vengono ricoverati in ospedale. Borsellino si sente responsabile e quasi ogni giorno si reca in ospedale per avere notizie. Muore uno dei ragazzi più gravi e la mamma, osservando il volto contratto del magistrato gli dice: “Giudice, anche se mio figlio morirà, sappia che io non la riterrò mai responsabile di quanto è successo. Ho visto che ha seguito tutti i ragazzi come se fossero figli suoi, ora la smetta di sentirsi in colpa.”
Nel 1986 Borsellino diventa Procuratore di Marsala per meriti, scavalcando un magistrato che doveva precederlo per anzianità. Vuole continuare le indagini sulla Mafia in quella provincia. Al centro (Palermo) Falcone e a Marsala Borsellino in modo da scoprire tutti i collegamenti esistenti tra la mafia di Palermo e quella della provincia.
Vive in un appartamento nella caserma dei carabinieri per risparmiare gli uomini della scorta. In suo aiuto arriva Diego Cavaliero Magistrato di prima nomina. lavorano tanto e con passione. Sempre fianco a fianco, Borsellino è un esempio per il giovane, non si risparmia mai. Teme che la conclusione del maxiprocesso attenui l’attenzione sulla lotta alla mafia, che il clima scemi e si torni alla normalità.
Per questo Borsellino cerca la presenza dello Stato, incita la società civile a continuare le mobilitazioni per tenere desta l’attenzione sulla mafia e frenare chi pensa di poter piano piano ritornare alla normalità.
Invece, il clima comincia a cambiare. Il fronte unico che aveva portato a grandi vittorie della magistratura siciliana e che aveva visto l’opinione pubblica avvicinarsi agli uomini in prima linea e stringersi intorno a loro, comincia a cedere.
Nel 1987 Caponnetto è costretto a lasciare la guida del Pool a causa di motivi di salute.
Tutti a Palermo aspettavano la nomina di Falcone al suo posto, anche Borsellino è ottimista. Presto, però, si rende conto che il CSM non è dello stesso parere e si diffonde il terrore di veder distruggere il Pool. Borsellino scende in campo e comincia una vera e propria guerra, parla ovunque e racconta cosa stia accadendo alla procura di Palermo; sui giornali, in televisione nei convegni, continua a lanciare
l’allarme. A causa delle sue dichiarazioni Borsellino rischia il provvedimento disciplinare.
Solo Cossiga, Presidente della Repubblica, interviene in suo appoggio chiedendo di indagare sulle dichiarazioni del magistrato per accertare cosa stesse accadendo nel palazzo di giustizia di Palermo.
Il 31 luglio il CSM convoca Borsellino che rinnova le accuse e le sue perplessità.
Il 14 settembre si pronuncia il CSM Falcone perde e Antonino Meli, per anzianità, prende il posto che doveva essere suo. Paolo Borsellino viene riabilitato, torna a Marsala e riprende a capofitto a lavorare. Nuovi magistrati arrivano a dargli una mano, giovani e, a volte di prima nomina. Il suo modo di fare, il suo carisma ed il suo impegno in prima linea li contagiano; lo affiancano con lo stesso fervore e con
lo stesso coraggio nelle indagini su fatti di mafia. Cominciano a parlare i pentiti e le indagini su connessioni tra mafia e politica a prendere forma. Borsellino è convinto che per sconfiggere la mafia i pentiti abbiano un ruolo fondamentale. Anche i giudici, però, dovranno essere attenti, controllare e ricontrollare ogni dichiarazione, ricercare i riscontri ed intervenire solo quando ogni fatto possa essere provato. E’ un’opera lunga ma i risultati non tarderanno ad arrivare. Da questo momento gli attacchi a Borsellino diventano forti ed incessanti. Le indiscrezioni su Falcone e Borsellino sono ormai quotidiane; si parla di candidature alla Camera o alla carica di Sindaco. I due magistrati smentiscono ogni cosa. Comincia, intanto, il dibattito sull’istituzione della Superprocura e su chi porre a capo del nuovo organismo. Falcone, intanto, va a Roma come direttore degli affari penali e preme per l’istituzione della Superprocura. A Palermo era stato isolato, i magistrati del vecchio Pool vengono ormai assediati all’interno e all’esterno del Palazzo di giustizia. Per questo si sente la necessità di coinvolgere le più alte cariche dello stato nella lotta alla mafia.
La magistratura da sola non può farcela, con Falcone a Roma si sente di avere un appoggio in più, Borsellino decide di tornare a Palermo, lo seguono il sostituto Ingroia e il maresciallo Canale. E’ in prima fila e tenta di ricostruire quel clima che, ai tempi del Pool, aveva permesso di raggiungere grossi risultati.
I Magistrati, con l’arrivo di Borsellino trovano nuova fiducia. A Borsellino vengono tolte le indagini sulla mafia di Palermo dal procuratore Giammanco, e gli vengono assegnate quelle di Agrigento e Trapani. Ricomincia a lavorare con l’impegno e la dedizione di sempre. Nuovi pentiti, nuove rivelazioni confermano il legame tra la mafia e la politica, riprendono gli attacchi al magistrato e lo sconforto ogni tanto si manifesta. In una dichiarazione si può riassumere lo stato d’animo di Borsellino in quel momento: “Un pentito è credibile solo se si trovano i riscontri alle sue dichiarazioni.
Se non ci sono gli elementi di prova, la sua confessione non vale nulla. E’ la legge che lo dice…e io sono un giudice che questa legge deve applicarla. I rapporti tra mafia e politica? Sono convinto che ci siano. E ne sono convinto non per gli esempi processuali, che sono pochissimi, ma per un assunto logico: è l’essenza stessa della mafia che costringe l’organizzazione a cercare il contatto con il mondo politico.
…e’ maturata nello stato e nei politici la volontà di recidere questi legami con la mafia? A questa volontà del mondo politico non ho mai creduto”. Con questa consapevolezza il giudice, invece di scoraggiarsi, si immerge nel lavoro con ancora più convinzione, come se la sconfitta della mafia dipendesse solo dal suo operato e quello dei magistrati che lo circondano.
Intanto a Roma viene finalmente istituita la superprocura e vengono aperte le candidature;
Falcone è il numero uno ma, anche questa volta, sa che non sarà facile.
Borsellino lo sostiene a spada tratta sebbene non fosse d’accordo sulla sua partenza da Palermo. Il suo impegno aumenta quando viene resa nota la candidatura di Cordova. Borsellino esce allo scoperto, parla, dichiara, si muove: è di nuovo in prima linea. I due magistrati lottano uno a fianco all’altro, temono che la superprocura possa divenire un arma pericolosa se in possesso di magistrati che non conoscono la mafia siciliana.
Nel Maggio 1992 finalmente Falcone raggiunge i numeri necessari per vincere l’elezione a superprocuratore. Borsellino e Falcone esultano, ma il giorno dopo Falcone viene ucciso insieme alla moglie, a Capaci; la mafia sa che in quel posto il giudice Falcone era troppo pericoloso.
Borsellino soffre molto, il legame che ha con Falcone è speciale e lui è morto tra le sue braccia. Tutti i momenti trascorsi insieme, da quelli più belli a quelli più brutti, gli tornano alla mente.
Dalle prime indagini nel pool, alle serate insieme, alle battute per sdrammatizzare, ai momenti di lotta più dura quando insieme sembravano “intoccabili”, al periodo forzato all’Asinara fino al distacco per Roma. Una vita speciale, quella dei due amici magistrati, densa di passione e di amore per la propria terra. Due caratteri diversi, complementari tra loro, uno un po’ più razionale l’altro più passionale, entrambi con un carisma, una forza d’animo ed uno spirito di abnegazione esemplari.
Ancora un attacco al vecchio pool, e a quello nuovo che tanto faticosamente sta nascendo.
Ora Borsellino sa che è rimasto solo e che il prossimo sarà lui. Questa consapevolezza lo accompagnerà fino alla fine, lo farà agire in maniera spasmodica, senza tregua, nella sua nuova lotta: quella contro il tempo. L’amore per la giustizia è diventato più forte nel momento in cui ha potuto condividerlo con i suoi colleghi; quando, uno a fianco all’altro, quei magistrati hanno sentito di lottare insieme per
raggiungere ad ogni costo la verità. Ora sa che non può mollare per Falcone e la sua scorta, per Chinnici, Cassarà e tutti gli altri.
Gli viene offerto di prendere il posto di Falcone nella candidatura alla superprocura, ma Borsellino rifiuta, sebbene sia consapevole che quella sia l’unica maniera che ha per condurre in prima persona le indagini sulla strage di Capaci. Così risponde al Ministro : “…La scomparsa di Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento….”. Resta a Palermo, nella procura dei veleni per continuare la lotta alla mafia, diventando sempre più consapevole che qualcosa si è rotto, che il suo momento è vicino.
Ad un mese dalla morte dell’Amico Falcone, tra le fiaccole e con molta emozione parla di lui, cerca di raccontarlo: “Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione….per amore. La sua vita è stata un atto d’amore verso questa città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene. ..Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo, continuando la loro opera…dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo”.
Vuole collaborare alle indagini sull’attentato di Capaci di competenza della procura di Caltanissetta. E’ consapevole che è giunto il suo turno e per questo è spesso pensieroso, è preoccupato per la sua famiglia e per i ragazzi della scorta ; non li vuole sempre a fianco teme che a causa sua possa accadere loro qualcosa. Le indagini proseguono, i pentiti aumentano e il giudice cerca di sentirne il più possibile. Arriva la volta dei pentiti Messina e Mutolo, ormai Cosa Nostra comincia ad avere sembianze conosciute. Spesso i pentiti hanno chiesto di palare con Falcone o con Borsellino perchè sapevano di potersi fidare, perchè ne conoscevano le qualità morali e l’intuito investigativo. Anche il pentito Mutolo chiede di parlare con Borsellino ma Giammanco lo affida ad un altro magistrato. Mutolo fa’ i nomi di Contrada e del
giudice Signorino come complici della mafia e questa volta il contraccolpo per Borsellino è molto forte. Non riesce a farsene una ragione, non riesce a comprendere come un giudice possa essere asservito a uomini malvagi come i mafiosi. “E’ il crollo di una fede quella stessa fede che lo ha costretto ad assistere impotente alla morte di tanti amici”. In questi momenti ripensa alla sua vita, a quella della sua famiglia e dei suoi amici. Cerca di comportarsi in maniera diversa, di tranquillizzarli, ma spesso la morte entra nei suoi discorsi. Continua a lottare per poter avere la delega per ascoltare il pentito Mutolo. Insiste e alla fine il 19 luglio 1992 alle 7 di mattina Giammanco gli comunica telefonicamente che finalmente avrà quella delega e potrà ascoltare Mutolo.
Lo stesso giorno Borsellino va nella casa del mare, a Villagrazia, con la scorta. Si distende, va in barca con uno dei pochi amici rimasti. Dopo pranzo torna a Palermo per accompagnare la mamma dal medico e con l’esplosione dell’autobomba sotto la casa, in via D’Amelio, muore con tutta la scorta. E’ il 19 luglio del 1992.
La morte Borsellino ha un forte rapporto con la morte ; è presente in ogni parte della sua vita. Teme per gli altri, per la sua famiglia, per I ragazzi della scorta. Tutti i giorni, in vacanza, esce da solo in bicicletta e alla stessa ora per comprare il giornale. Si ferma davanti alla casa del Boss del paese per fargli capire che c’è la possibilità di ucciderlo da solo senza fare vittime innocenti. E’ molto protettivo con i suoi collaboratori e con la sua famiglia. Parla spesso della morte un po’ per scherzarci sopra un po’ per ricordarsi sempre che non è poi così lontana. “Se muoio adesso, il mio compito l’ho svolto. Ho dato alla luce e fatto crescere tre figli come voi, l’educazione e gli insegnamenti che potevo darvi li ho trasmessi. Ho la fortuna di non essere una persona sconosciuta, se pronunci il mio nome la gente sa chi sono e cosa ho fatto. Ho svolto il mio lavoro onestamente, ho saputo dare tanto amore alla mia famiglia, sono contento perché credo di essere stato un buon figlio, un buon marito, un buon padre”.
Ha visto morire molte persone, uomini di valore morale ed intellettuale e sa benissimo di non essere esente da una fine simile. Eppure a volte scherza con la morte, se ne prende gioco, ci ride sopra con un unico cruccio : quello di aver preparato i propri figli ad affrontare la vita.
Borsellino non si sente un eroe, come non hanno pensato di esserlo Falcone, Chinnici, Cassarà e tutti i ragazzi delle scorte.
Morti strane quelle di Falcone e di Borsellino. Falcone ucciso il giorno dopo aver saputo di essere il Superprocuratore dopo mesi di lotte e di pressioni. Borsellino, ancora, poche ore dopo aver ottenuto la tanto attesa delega ad ascoltare il pentito Mutolo.
A distanza di anni è facile dire che le collusioni tra mafia e politica sono più di un sospetto; ora possiamo comprendere come quei giudici fossero davvero soli nella lotta ad una mafia potente e ben inserita nel palazzo del potere. Eppure, non è ancora finita e gli avvertimenti del pool sembrano dimenticati. Non abbassare la guardia, agire sui giovani, sulla società civile come hanno fatto loro: uomini impegnati
nella loro missione, nella lotta per la verità e per il riscatto di un popolo.
“Non sono né un eroe né un Kamikaze, ma una persona come tante altre.
Temo la fine perché la vedo come una cosa misteriosa, non so quello che succederà nell’aldilà. Ma l’importante è che sia il coraggio a prendere il sopravvento…
Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire sereno”. A cura dell’Associazione Culturale “Azione 19.7.2018