VIDEO – LA RICOSTRUZIONE DELL’ESPLOSIONE Il video ricostruisce il momento in cui 400 kg di esplosivo, piazzati da Cosa Nostra in un tunnel di scolo per l’acqua sotto il tratto di autostrada che va dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo, esplodono uccidendo il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e tre uomini della scorta. Sono le 17.58: un boato terribile, un intero lembo di autostrada che si solleva, una nube nera altissima, il muro di asfalto e cemento. L’istituto nazionale di geofisica registra l’esplosione.
VIDEO la ricostruzione dell’attentato
LA COLLOCAZIONE DELL’ESPLOSIVO AVVENNE A FINE APRILE, QUESTA VOLTA DI NOTTE. Il buco era già stato scelto: era perfetto, stretto, piccolino, come mi aveva detto il mio parente. Poteva avere un’efficacia come quella che poi in realtà ebbe. Avevamo le idee abbastanza chiare. Sapevamo anche che l’auto di Falcone correva sempre nella corsia dei sorpassi. Misurammo l’autostrada, da un punto all’altro, con una corda.
Dovevamo riempirne di esplosivo solo metà.
Ci siamo riportati questa misura all’interno del cunicolo. Per arrivare a metà dell’autostrada bastava contare i tubi del cunicolo che misuravano un metro ciascuno e avevano un diametro di 50 centimetri. Nell’altra corsia non collocammo l’esplosivo: si solleverà solo per effetto dell’esplosione…
Mettevamo nel conto anche il passaggio di qualche auto di <<civili>>. Ma era una possibilità su mille e ci augurammo che non si affiancasse nessuno alla macchina di Falcone.
La consideravamo un’ipotesi molto remota perché, di solito, le macchine di scorta fanno allontanare le altre auto. Avevamo previsto anche questo. Quindi, fatti tutti questi conteggi, tutte le prove, sistemato il frigorifero, arriviamo ai primi di maggio.
La notte in cui completammo l’operazione eravamo io, Gioè, Bagarella, Biondino, Salvatore Biondo il <<corto>>, Ferrante, Giovanni Battaglia, Pietro Rampulla e la Barbera. Abbiamo cominciato al tramonto. Avevamo i telefonini. Biondino e Ferrante, quando li avremmo chiamati, avrebbero dovuto portarci l’esplosivo che avevamo depositato nella villa di Troia.(Saverio Lodato – HO UCCISO GIOVANNI FALCONE- La confessione di Giovanni Brusca)
IL PRIMO LAVORO ERA QUELLO DI RIUSCIRE A ENTRARE NEL CUNICOLO E VEDERE COM’ERA FATTO. Io ero un po stanco per tutto ciò che avevo fatto poco prima. Nel momento in cui provai a infilarmi nel cunicolo sentii un po d’affanno, mi mancò l’aria. E pensai: <<Se entro qua dentro muoio>>. La stessa cosa accadde a La Barbera. Nel frattempo arrivò Gioè, più riposato, più fresco. E disse: <<Voglio provare io>>. Entrò al buio, tranquillo. Si infilò nel cunicolo e gridò: <<Ma io qui ci posso fare il viaggio con la fidanzata. Non ci sono problemi>>. Ci eravamo procurati uno skateboard, quello che usano i ragazzini per giocare. Pensavamo di metterci i fustini sopra e di trasportarli in posizione orizzontale.
All’inizio, abbiamo fatto una vita da cani. Prima entravamo con le mani davanti e i piedi che restavano fuori, spingendo i fustini uno a uno.
Dentro il cunicolo c’era un tubo da un pollice che usavamo come guida e che ci consentì di individuare il punto esatto dove collocare l’ultimo fustino a metà dell’autostrada. Entravamo a turno, io, Gioè, La Barbera.
Bagarella e Battaglia, in quella fase, ci coprivano le spalle. Mentre noi lavoravamo, loro, armati, si guardavano intorno. Tant’è vero che arrivò una pattuglia dei carabinieri, ma erano due poveretti che forse erano andati a fare pipì. Scesero, si fermarono, fecero quello che dovevano fare e se ne andarono senza vederci perché in quella zona ci sono alberi e cespugli e noi ci eravamo nascosti in tempo.
Hanno rischiato di essere uccisi, e l’attentato sarebbe saltato. Continuammo il nostro lavoro. Avevamo piazzato solo tre fustini e con difficoltà enormi.
Con le mani in avanti e la faccia a terra. Per non lasciare impronte, calzavamo guanti da muratore, quelli di cuoio. Fu a questo punto che mi venne un’idea. Dissi a Gioè:<<Perché non ci mettiamo con la pancia sopra lo skateboard? Mettiamoci al contrario: con i piedi all’interno e spingiamo i fustini con i piedi, con la testa verso l’uscita. Tanto il primo fustino che ci fa da segnale c’è già.
Ci leghiamo una corda al torace. Basta strattonarla e tu capisci che è il momento di tirarmi fuori>>. E così abbiamo fatto. Appena arrivavamo in fondo, ci fermavamo e quello che era fuori tirava senza fare fatica e ci faceva uscire.
Con i primi tre fustini avevamo impiegato un tempo infinito e con sforzi non indifferenti. Con gli altri, in un’oretta e mezzo, ci eravamo sbrigati. Infatti avevamo già posizionato il fustino più grosso con il detonatore dentro. Per evitare di rompere il filo del detonatore lo passammo sotto il tubo, in modo che non venisse danneggiato. Il filo attraversava i fusti, dal detonatore all’uscita. Infine sistemammo altri fusti. Il cunicolo non lo chiudemmo. Mettemmo solo un po di erbacce.
Non l’abbiamo murato perché avremmo suscitato sospetti.
Poi c’era Troia che, abitando a Capaci, poteva controllarlo giornalmente. Fra l’altro, l’ultimo tratto del cunicolo era libero e quindi dall’esterno non si vedeva niente. Lì vicino c’erano dei materassi che servivano da punto di riferimento. (Dal libro di Saverio Lodato -HO UCCISO GIOVANNI FALCONE- La confessione di Giovanni Brusca)
GLI ATTENTATORI SI COSTRUIRONO UN RICEVITORE ANCORA PIÙ RUDIMENTALEVerso la fine di aprile 1992, Pietro Rampulla l’Artificiere si recò a incontrare Brusca in una casa nei pressi della cittadina di Altofonte. La casa apparteneva a Baldassarre Di Maggio, un picciotto del clan di Brusca.
Rampulla aveva acquistato due telecomandi in un negozio di giocattoli. Oltre ai congegni, che aveva nascosto sotto delle balle di fieno nel caso fosse stato fermato dalla polizia, Rampulla recò anche in dono a Brusca una giumenta. Rampulla portò in casa due scatole di polistirolo e le appoggiò sul tavolo. Le aprì per mostrarne il contenuto a Brusca e agli altri complici intervenuti.
I congegni, dipinti con una vernice metallica color grigio scuro, presentavano alla parte superiore due levette, che si muovevano lungo dei solchi a forma di croce e un’antenna estraibile.
Uno dei due telecomandi non funzionava bene e venne scartato.
Nell’altro fu tolta la leva sinistra e con il nastro adesivo fu bloccata quella di destra, in modo che potesse muoversi in un’unica direzione. Serviva solo per inviare un impulso al ricevitore, e i mafiosi volevano eliminare il rischio di qualsiasi errore.
Gli attentatori si costruirono un ricevitore ancora più rudimentale.
Una sottile scatoletta di compensato conteneva un piccolo motore a batteria fissato a una sottile lamina in rame lunga cinque centimetri, presa da una pila da 1.5V.
Quando l’impulso dal telecomando raggiungeva l’antenna del ricevitore, il motore faceva girare la lamina di 180 gradi e colpiva la capocchia di un chiodo di ferro, su cui era stato avvolto un filo di rame.
Dalla scatola fuoriuscivano due fili: uno nero, che serviva da antenna, e uno rosso e bianco collegato al detonatore. I mafiosi collaudarono il telecomando e il ricevitore dentro casa. Collegarono il ricevitore flash a cubo di vecchio tipo -comprati in un negozio di fotografia- per simulare l’esplosione.
Lo spostamento della leva sul telecomando li faceva scoppiare. I congegni funzionavano perfettamente. Gli attentatori uscirono all’esterno.
Uno di essi si sistemò con il telecomando sotto la veranda, mentre il ricevitore venne collocato vicino a un abbeveratoio a una cinquantina di metri. Ancora una volta, i congegni Funzionarono. Brusca era soddisfatto: ora si poteva partire con i preparativi. (I 57 giorni che hanno sconvolto l’Italia di JOHN FOLLAIN)
“MAI PRIMA DI CAPACI USAMMO COSÌ TANTO ESPLOSIVO” Il pentito racconta ai giudici della Corte d’assise di Caltanissetta le varie fasi di preparazione dell’attento che portò alla morte Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta: “Caricammo dodici, tredici bidoncini, da 20-25 kg ognuno. Ancora non sapevo per chi era tutto quell’esplosivo ma mai prima d’ora ne avevamo utilizzato così tanto”. “Utilizzammo due tipi di esplosivo. Uno era granuloso, l’altro era di tipo farinoso – ha detto l’ex boss di Altofonte – Le operazioni di travaso vennero eseguite in un villino a Capaci. Fu Rampulla a suggerire il da farsi. Ci spiegò che per avere una maggiore deflagrazione era importante mescolare i due tipi di esplosivo. E di fatti nel cunicolo dovevamo inserirli in maniera alternata”.
Giovanni Brusca: “Tritolo procurato dai Graviano” “Una parte dell’esplosivo utilizzata per la strage di Capaci l’ho procurata io e si trattava di esplosivo di cava, il resto era tritolo e venne procurato dai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano di Brancaccio. Che fossero stati i Graviano a procurarlo me lo disse Totò Riina”. Lo ha detto il pentito Giovanni Brusca, deponendo questa mattina nel processo d’appello in abbreviato per la strage di Capaci, che vede imputati davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta Giuseppe Barranca, Cristofaro “Fifetto” Cannella e il neo collaboratore di giustizia Cosimo D’Amato. “Questo esplosivo procurato dai Graviano – ha aggiunto Brusca – era di consistenza farinosa e di colore giallino e Pietro Rampulla, che si intendeva di esplosivo, mi disse che secondo lui si trattava di materiale proveniente da residuati bellici. Confezionammo l’esplosivo per l’attentato in dodici bidoncini da 25 chili l’uno e ne usammo anche uno da 30-35 chili”. A conclusione della deposizione di Brusca, il legale di Cannella, l’avvocato Giuseppe Dacquì, ha chiesto alla Corte di ascoltare il boss Totò Riina a conferma della dichiarazione di Brusca. Il processo è stato rinviato al 24 febbraio per la decisione della Corte; in quell’occasione verrà anche fissato il calendario delle prossime udienze. ANSA GENNAIO 2016
UN RADIOCOMANDO A DISTANZA PER FARE ESPLODERE 500 CHILI DI TRITOLO Sulla base delle analisi svolte è stato possibile appurare una serie di elementi: l’esistenza del cunicolo sotto il punto di scoppio, la composizione in frazioni della carica, la sua attivazione tramite un sistema a distanza basato sull’uso di radio trasmittenti, l’uso del tritolo come uno dei componenti della stessa, sono infatti dati che per il rilievo delle considerazioni esposte a loro fondamento, devono ritenersi allo stato incontestabili
Era stato privilegiato, sopra tutti, l’uso delle due radio [una trasmittente e una ricevente, la quale, lanciando un segnale radio alla trasmittente, consentiva attraverso la chiusura di un interruttore di dare il via all’esplosione., ndr] perché si trattava di un equipaggiamento di semplice impiego, efficace e di sicuro funzionamento. E queste caratteristiche rispondevano, secondo i consulenti, all’assunto che per la realizzazione di un attentato di questo genere, si doveva impiegare materiale semplice e di facile reperibilità sul mercato.
[…] Pertanto in conclusione, i consulenti ritenevano verosimile che per la realizzazione dell’attentato a Capaci, in relazione alle dinamiche di attivazione della carica, fossero state impiegate due radio, una messa in corrispondenza dell’ordigno, l’altra collocata nel punto di appostamento.
Questo sistema era a loro giudizio efficace, sia per quel che riguardava l’attivazione della carica sia per la scelta del punto di appostamento dal quale sarebbe stato lanciato il segnale, essendo chiaro che la posizione di preminenza di coloro che con la trasmittente dovevano mandare l’impulso, rispetto al punto di scoppio, ne rendeva la recezione ottimale a valle, non essendoci, fra l’altro, fra i due punti, ostacoli che potessero intralciarne la propagazione.
I tecnici pertanto sono risultati concordi nell’escludere che siano state utilizzate altre metodologie e tanto hanno affermato sulla base di ragioni di ordine logico, perché, una volta dimostrato teoricamente ed empiricamente che il sistema più semplice per dare luogo all’attentato si rilevava anche quello più sicuro, non era più spiegabile, ipotizzando negli attentatori persone di media intelligenza, il ricorso ad altri meccanismi che non assicurassero la certezza del risultato.
E’ altresì vero che si deve riconoscere che, malgrado lo sforzo profuso dai consulenti nella ricerca delle possibili tecniche alternative, è sempre possibile che residuino ancora altri meccanismi attraverso i quali gli attentatori avrebbero potuto raggiungere l’effetto desiderato. Va però evidenziato che gli stessi tecnici non hanno trascurato o escluso l’ipotizzabilità di altre dinamiche, come ad esempio il ricorso all’utilizzo del satellite. Essi però, affrontando tale ipotesi, hanno ribadito che non c’era ragionevolmente la necessita’ di arrivare a tanto, perche’, a loro giudizio, per realizzare un attentato di tale portata non era logico ricorrere a mezzi più sofisticati di quelli che risultavano necessari, una volta realizzato che meccanismi molto semplici avrebbero comunque garantito l’effetto desiderato. D’altro canto è di tutta evidenza che il ricorso a tecniche particolarmente raffinate avrebbe, ove accertato, facilitato il lavoro degli investigatori, essendo da un lato ben individuabili i canali di rifornimento di determinati materiali, e dall’altro, rilevabile obiettivamente l’uso di strumentazioni come i satelliti, il cui funzionamento è verosimile sia costantemente rilevato dalle strutture che si occupano della sicurezza dello Stato.
Va sottolineato in definitiva che la conclusione indicata dai tecnici si appalesa come la più idonea a raggiungere lo scopo, e ciò non solo in via di principio, ma anche sotto il profilo del rispetto dell’esigenza di osservare doverose regole di cautela, che ogni persona che progetta un’imboscata o, più in generale un attività illecita di grosso spessore, deve tener presente per garantire l’impunità a sè stessa e ai complici. Muovendo cioè dall’assunto che non era possibile ipotizzare, da parte degli autori della strage, l’ accettazione del rischio di lasciare tracce che consentissero di risalire anche ai soli meri esecutori materiali, devono essere scartate tutte quelle tecniche di attivazione della carica basate su sistemi che prevedevano l’uso di apparecchiature fabbricate e distribuite non su vasta scala, o che potevano lasciare sui luoghi evidenze non marginali (ciò evidentemente per la possibilità di risalire agli acquirenti), o che richiedevano, per l’installazione e l’uso, l’impiego di uomini particolarmente qualificati.
D’altro canto andavano scartate anche quelle metodologie che non garantivano di colpire con certezza il bersaglio individuato, o si prestavano ad essere vanificate dall’uso di tecniche di prevenzione di attentati, come il variare la posizione della persona tutelata nel corso della trasferimento in auto o l’accurato controllo delle autovetture blindate prima del loro utilizzo, o ancora, le precauzioni contro l’avvicinamento delle stesse da parte di estranei. […].
LA STRAGE RIPRODOTTA IN UN’AREA MILITARE La comparazione fra i dati acquisiti dall’effettuazione dell’esperimento [a Sassetta, ndr.] e quelli rilevati sui luoghi teatro della strage aveva indotto i tecnici a concludere, in ordine alla questione del peso della carica, che quella fatta brillare a Sassetta avesse una forza superiore rispetto alla prima, avendo determinato rispetto ad essa un incremento di efficacia valutabile intorno al 20%.
Tale indicazione aveva portato i tecnici a concludere che il peso della stessa dovesse assestarsi fra i 500 e i 550 kg.
Sempre sulla base del criterio della comparazione è possibile derivare che, contrariamente a quanto verificatosi nella realtà, il fatto che non sia stato riscontrato alcun fenomeno di aratura sul terreno è da considerare indice univoco della circostanza che a Capaci la carica esplosiva non era stata intasata secondo le condizioni ottimali, cioè a regola d’arte.
Ed ancora, il mancato ritrovamento dei reofori, dimostra che l’innescamento dell’ordigno esplosivo era stato costruito in maniera più rudimentale rispetto a quanto era stato fatto a Sassetta, quindi con un sistema che doveva prevedere un numero di detonatori di gran lunga più limitato; in ultimo, la constatazione dell’analoga dinamica di traslazione riguardo al comportamento del materasso in esito alla sollecitazione dell’esplosione induce a concludere per la fondatezza dell’ipotesi già formulata in astratto, e cioè che l’oggetto era stato collocato all’imboccatura del condotto per nascondere quanto in esso era stato riposto.
Sulla base delle analisi svolte dai ct è stato possibile appurare una serie di elementi, alcuni dei quali, come si è già sottolineato, caratterizzati da rilievo oggettivo e pertanto idonei a dimostrare i fatti o le circostanze ad essi sottesi. L’esistenza del cunicolo sotto il punto di scoppio, la composizione in frazioni della carica, la sua attivazione tramite un sistema a distanza basato sull’uso di radio trasmittenti, l’uso del tritolo come uno dei componenti della stessa, sono infatti dati che per il rilievo delle considerazioni esposte a loro fondamento, devono ritenersi allo stato incontestabili. Testi tratti dalla sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta (Presidente Carmelo Zuccaro)
a cura di Claudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco