Sparare mi piace, mi eccita far esplodere una bomba. Ce l’ho nel sangue. Sono nato killer

 

MAURIZIO FAVA, autore di 80 omicidi:

“Sparare mi piace, mi eccita far esplodere una bomba. Ce l’ho nel sangue. Sono nato killer, non ci sono diventatoAvevo un solo pensiero nella testa: fare bene, sparare con precisione, eseguire il piano in ogni dettaglio. Se c’è una cosa che non si può sbagliare è l’omicidio.

(…) io per piacere avrei fatto solo rapine, e mi sarei comprato tutte le macchine veloci del mondo. Uccidevo per fare il bene della famiglia, per tenerla al sicuro e renderla più forte. 

(…) ammazzavo senza pensarci.

(…) l’ho capito col tempo che sono nato per uccidere.

Sentivo l’anima del morto che se ne andava, l’attimo preciso che si separava dal corpo. E’ come un soffio. Un rumore impercettibile che solo io avvertivo chiaramente. E, in quel momento, mi sembrava quasi di vederla l’anima che volava via”.

Da NIENT’ALTRO CHE LA VERITA’ DI Michele Santoro

 

MAURIZIO AVOLA: «COSÌ DIEDI IL SEGNALE PER UCCIDERE PAOLO BORSELLINO

 

” … prima di un omicidio o di una rapina, mi sentivo un rigorista ad una finale dei mondiali. Affrontare una giornata da killer è un’eccitazione che pochi sperimentano. In tutta onestà, io amavo quella sensazione. Le persone che mi passavano di fianco per strada mi sembravano così piccole, e non lo sapevano, mentre io ero il padrone delle loro vite…”



Qualcosa non torna… MAURIZIO AVOLA, killer catanese “pentito” di Cosa nostra é il protagonista delle nuove rivelazioni sulla STRAGE di VIA D’AMELIO, al centro dello SPECIALE MAFIA La ricerca della verità, in onda su LA7 mercoledì 28 aprile. Al processo “Borsellino Ter” negò di sapere di un eventuale coinvolgimento delle famiglie catanesi nell’assassinio del dottor Borsellino. Oggi, invece, fa sapere di essere stato lui a dare il segnale per il via alla strage… 


26.4.2021 Il pentito di mafia catanese Maurizio Avola: «Così diedi il segnale per uccidere Paolo Borsellino» Il sicario del clan Santapaola che si è accusato di decine di omicidi per conto di Cosa nostra, si chiama per la prima volta in causa tra gli autori della strage di Via d’Amelio  «Sono l’ultima persona che ha visto lo sguardo di Paolo Borsellino, prima di dare il segnale per fare quella maledetta esplosione. Mi accendo la sigaretta, lo guardo, mi soffermo, mi rigiro e faccio il segnale». Così il sicario del clan Santapaola, Maurizio Avola, che si è accusato di decine di omicidi per conto di Cosa nostra, si chiama per la prima volta in causa tra gli autori della strage di Via d’Amelio in un video pubblicato dal l giornale online Tpi.it. Le sue dichiarazioni, rese alla Procura di Caltanissetta, fanno parte del libro del giornalista Michele Santoro, “Nient’altro che la verità”, in uscita il 29 aprile per Marsilio. La presenza di Avola, condannato anche per l’omicidio del giornalista Giuseppe Fava a Catania, a Palermo per l’uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta non era ancora emersa in sede di processi per la strage di Via D’Amelio e le sue dichiarazioni sono al vaglio della Dda Nissena. Il pentito Gaspare Spatuzza, teste chiave del nuovo processo dopo la revisione di quello nato dalle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino, non ha mai parlato della presenza di Avola sul luogo dell’attentato. LA SICILIA



MAURIZIO AVOLA da killer dagli ‘occhi di ghiaccio a pentito  L’ex uomo d’onore di Cosa nostra, uomo di Benedetto Santapaola, diventato collaboratore di giustizia nel 1994.   Una vita tra gli agi e la fama della malavita, ma con le mani sporche di sangue. Primo omicidio, degli ottanta commessi,  a vent’anni. . Scaltro e privo di scrupoli. Maurizio Avola è riuscito a infiltrarsi anche nella super villa protetta dei fratelli Salvatore e Giuseppe Marchese, i parenti del super pentito Antonino Calderone, ed ucciderli nella cucina della loro lussuosa depandance. Era il 1992. Ha ucciso anche il suo migliore amico, Pinuccio Di Leo. Qualcosa faceva pensare che avrebbe “tradito” la famiglia, scegliendo la strada della collaborazione della giustizia. E questo dubbio Di Leo lo ha pagato con la vita. Un appuntamento con la morte direttamente all’indirizzo di Maurizio Avola. Ad attenderlo, appena ha varcato l’uscio, le pallottole. “Su ordine della ‘famiglia’, lo convocai a casa mia. Lo eliminò un amico poliziotto sparandogli due colpi alla nuca”.  Avola ha raccontato di aver schiaffeggiato il cadavere dell’amico. Di aver urlato: “È colpa tua!”. Non c’è spazio per la pietà nella mafia.  Nitto Santapaola lo aveva condannato a morte. II killer per salvare la sua pelle e quella dei suoi familiari ha deciso, nel 1994, di vuotare il sacco ai magistrati. Ha fatto nomi e cognomi di boss, gregari, soldati di Cosa nostra. Le sue confessioni hanno rappresentato uno dei pilastri del maxi processo Orsa Maggiore. Il processo più importante della storia della mafia catanese. Avola ha anche raccontato dei rapporti di Santapaola con esponenti della politica, dell’imprenditoria, delle istituzioni. Ha rivelato anche i legami con Marcello Dell’Utri, numero 1 di Pubblitalia e fidato di Silvio Berlusconi. Ma nei verbali di Avola si trovano anche riferimenti ai servizi segreti deviati e alla massoneria. Il killer ha confidato ai pm del progetto di attentato nei confronti del magistrato Antonio Di Pietro, che nei primi anni Novanta faceva parte del pool di “mani pulite” alla Procura di Milano. Poi il piano è sfumato. Nel 1997 Maurizio Avola è stato arrestato a Roma per una serie di rapine in banca. “Rapinatori-pentiti” hanno titolato i giornali dell’epoca. Con lui, infatti, sono finiti in manette altri due pentiti siciliani. Fu buttato fuori dal programma di protezione. Non sono mancate le polemiche sul trattamento che lo Stato riservava ai collaboratori di giustizia. Avola, forse spinto dalla moglie che gli diceva di tenere duro, ha chiesto un’altra chance allo Stato.



Io, killer della mafia, uccidevo per piacere”La prima volta, anche per un mafioso, è dura. Col tempo diventerà un killer senz’anima, ma il battesimo di sangue, quello non se lo scorderà più. Maurizio Avola, cresciuto nel perimetro violento di una Catania in balia di Cosa nostra, ricorda come un incubo la prima volta in cui la famiglia di Nitto Santapaola, il suo mito, gli chiese di uccidere un uomo: «Si chiamava Andrea Finocchiaro; la sua unica colpa era di essere vicino all’onorevole Salvo Andò, uno dei politici più in vista della Sicilia». Un uomo indifeso che non sospettava minimamente quel che gli sarebbe accaduto: sembrava facile, fu terribile. «Iniziai a sparare, il silenziatore già inserito, ma ero teso. Con i primi due colpi lo ferii ad un fianco e ad un braccio». Lui, con un piede già nella fossa, provò a salvarsi: «Lasciami vivere: ho moglie, bambini, non faccio del male». Passarono pochi secondi. «Tre, quattro, cinque, cento, impossibile dirlo. Lui che continuava ad implorarmi, a guardarmi. Lo finii con tre colpi alla testa. E poi rimasi a fissarlo stupefatto». Qualche minuto dopo, Maurizio Avola, vomitò l’anima: «Ah, la coscienza. Che problema, eh Maurizio?», gli sussurrò Aldo, un altro picciotto. Sì, la coscienza poteva essere un problema, ma solo all’inizio: «Guarda che anche i migliori la prima volta vomitano», gli spiegò l’amico, più esperto. È proprio così, ci racconta il killer, arrestato nel ’93, oggi pentito e detenuto in un carcere del Sud (almeno fino all’anno prossimo, quando potrebbe ottenere gli arresti domiciliari). Col tempo uccidere diventò una professione, la sua, la sua specialità: Avola ha ammazzato 80 persone, una più una meno, e alla lunga ha smarrito la contabilità esatta di questo cimitero, arrivando a confondere nomi e numeri. Una storia che affiora in tutta la sua crudezza nel libro appena pubblicato da Fazi: Mi chiamo Maurizio sono un bravo ragazzo ho ucciso ottanta persone, firmato a quattro mani da Roberta Gugliotta e Gianfranco Pensavalli. Avola ci riporta a ritroso nel tempo, a cavallo fra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta. E ci descrive la vita paranoica di un killer: a Catania in quel periodo si moriva per un nonnulla e spesso la famiglia Santapaola affidava l’incarico a lui. «Come sempre, prima di un omicidio o di una rapina, mi sentivo un rigorista ad una finale dei mondiali. Affrontare una giornata da killer è un’eccitazione che pochi sperimentano. In tutta onestà, io amavo quella sensazione. Le persone che mi passavano di fianco per strada mi sembravano così piccole, e non lo sapevano, mentre io ero il padrone delle loro vite». Avola uccide piccoli mafiosi, che hanno compiuto qualche sgarro, e personaggi famosi come il giornalista Pippo Fava. Un giorno gli affidano il compito di far cadere in trappola Saro, un traditore. Per tre settimane Avola si guadagna la fiducia della futura vittima: gli prospetta la possibilità di compiere una rapina insieme. Saro abbassa la guardia e finisce nella rete: «Mi sentivo una spia… Ti fai amico un tizio e dopo un po’ lo uccidi. Era lavoro». Lavoro che passava attraverso la tortura: «Prendemmo sotto le ascelle Saro e lo portammo in un’altra stanza, dove c’erano le armi, lo legammo alla sedia, cominciammo a interrogarlo per farci dire se era un confidente della polizia. «Tradire l’organizzazione… che minchia ti sei messo in testa?… Estrassi dalla pistola tutti i proiettili tranne uno, girai il tamburo e iniziai a premere il grilletto con la canna puntata alla sua testa. C’era un silenzio glaciale. Mentre ero piazzato davanti a lui e continuavo con la mia bella roulette russa, la prima a cedere fu la sua vescica. Prima gli colorò i pantaloni, poi il pavimento». Saro implora Maurizio: «Darei qualsiasi cosa per farmi perdonare. Non uccidermi, ti prego…». Il killer che la prima volta aveva esitato e vomitato l’anima, si commuove. Ma alla maniera di Cosa nostra: «Strano a dirsi, mi impietosì, e lasciai gli altri a strangolarlo. Quando lo ammazzarono mi trovavo nella stanza accanto. Il cadavere venne avvolto in una coperta e bruciato in campagna. L’auto di Saro venne poi guidata fino a Catania e consegnata ad un rottamaio per essere “tagliata”». Questa era la Catania dei Santapaola. Con una media, all’inizio degli anni Novanta, di tre omicidi al giorno. E una ferocia cinematografica che non ammette confronti, non solo con i classici come Il padrino, ma nemmeno con le pellicole più truci: «Turi e Melo furono uccisi perché Santapaola non si fidava più di loro. Dopo essere stati strangolati furono gettati dentro un porcile. Per stimolare i maiali, i cadaveri furono tagliati all’altezza del ventre, e sul sangue i suini si avventarono, sotto lo sguardo compiaciuto dei presenti». Così si moriva e si muore nel «regno» di Cosa nostra.Il giornale Stefano Zurlo –  25/09/2008 

AVOLA Maurizio Inserito con la qualifica di uomo donore” nella famiglia” catanese di COSA NOSTRA che ha il suo capo indiscusso in SANTAPAOLA Benedetto, era persona assai vicina a DAGATA Marcello, consigliere della predetta famiglia” e, quindi, uno dei personaggi più autorevoli della medesima, di cui aveva contribuito a deliberare le più importanti strategie criminose. Peraltro, limportanza dello AVOLA allinterno di questa struttura criminale era anche legata alla sua diretta partecipazione con il ruolo di killer a numerosi omicidi, tra cui è sufficiente ricordare in questa sede, per lelevato spessore criminale delle persone che vi erano coinvolte nella fase deliberativa ed esecutiva, quello verificatosi nel 1982 ai danni del giornalista Giuseppe FAVA, a quel tempo una delle voci più nobili ed anche più isolate levatasi a denunciare con grande fermezza e lucidità lampiezza e la pericolosità del fenomeno mafioso ed il devastante effetto inquinante che esso stava esercitando su tutti i settori della società, da quello politico a quelli istituzionali ed economici. La scelta collaborativa dello AVOLA, intrapresa dopo circa un anno dal suo arresto, operato nel marzo del 1993, costituisce uno dei primi casi verificatisi tra gli uomini donore” di Catania, dopo quello storico di CALDERONE Antonino e quello di SAMPERI Severino Claudio, che iniziò a collaborare con lA.G. nel gennaio del 1993, al momento stesso del suo arresto. Da qui la notevole importanza delle dichiarazioni dello AVOLA, che hanno consentito di ricostruire numerose delle più importanti vicende criminali di cui si era resa protagonista la famiglia” catanese di COSA NOSTRA nellarco di circa un decennio. E se è vero che la sua collaborazione ebbe inizio quando già vi erano nei suoi confronti gravi indizi di reità per lomicidio del consociato DI LEO Giuseppe, deve anche evidenziarsi che lo AVOLA non ha manifestato alcuna remora a confessare le proprie responsabilità in circa una cinquantina di omicidi per i quali nessun elemento probatorio vi era a suo carico, mostrando la medesima determinazione, priva di calcoli e di qualsiasi esitazione, con la quale aveva intrapreso ancor giovane la via del crimine. La vicenda collaborativa dello AVOLA mostra con solare evidenza la necessità di scindere la questione dellattendibilità intrinseca delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia da quella della ricerca delle eventuali motivazioni etiche di tale scelta, come già si è detto nel secondo paragrafo del primo capitolo della Parte prima di questa sentenza. Da una parte costituiscono indubbiamente fattori di affidabilità delle sue dichiarazioni la mancanza da parte dello AVOLA del tentativo di cercare alibi o giustificazioni al proprio operato, di attenuarne la cruda realtà criminale e la gravità, di centellinare con mentalità ragionieristica le proprie dichiarazioni per ritrarne il massimo vantaggio con il minor danno personale, come pure hanno fatto altri soggetti esaminati in questo processo, dallaltra parte sembra di avvertire nella stessa fredda lucidità, priva di qualsiasi partecipazione emotiva, con cui egli ha riferito i più impressionanti episodi di violenza che lo videro protagonista, langosciante sensazione di affacciarsi su di un abisso profondo ed oscuro, quello di un animo deprivato di gran parte della sua sensibilità umana e della capacità di orientare il suo comportamento secondo un sistema di valori etici. In tale situazione si associa ad una generale affidabilità del dichiarante, da verificare comunque sempre episodio per episodio secondo i già evidenziati criteri di valutazione, una sua pericolosità sociale, che può indurlo, al verificarsi di determinate condizioni, a commettere ulteriori reati anche dopo la scelta collaborativa, come è successo nel caso dello AVOLA, resosi autore con laltro collaboratore SAMPERI Severino Claudio di una serie di rapine, come ammesso dallo stesso imputato in procedimento connesso. Ma tali circostanze, per le ragioni testé menzionate, non possono automaticamente screditare le sue dichiarazioni, così come più in generale ogni valutazione sulla portata probatoria delle propalazioni di un collaboratore di giustizia e sulla possibilità di applicare la diminuente di cui allart. 8 del D.L. n. 152/1991 non dovrebbe meccanicamente refluire, senza la considerazione di altri elementi, sulle decisioni in materia di libertà personale dello stesso. Nellambito del presente processo sono state anche acquisite ex art. 238 c.p.p. le dichiarazioni rese dallo AVOLA nelludienza del 14.3.1996 del giudizio di primo grado per la strage di Capaci. Le indicazioni complessivamente fornite dal collaborante sono apparse adeguate al suo livello di adesione alla vita dellassociazione mafiosa, che lo vedeva escluso dalla partecipazione alle deliberazioni strategiche ma che lo trovava coinvolto a vario titolo e più o meno direttamente nellesecuzione di molti crimini. In particolare di notevole rilievo per la qualificazione della fonte e la diretta conoscenza dei fatti riferiti hanno assunto le propalazioni del collaborante sullorganigramma di COSA NOSTRA nella provincia catanese e sui rapporti intercorsi tra questa provincia e quella di Palermo anche nel periodo in cui venivano deliberate prime e poi poste in essere le stragi del 1992 e del 1993.



Maurizio Avola: il pentito che riscrive la storia dell’AntimafiaIn altri tempi, la fine del secolo scorso, sarebbe caduta Sagunto. C’è un pentito della vecchia generazione che dopo un quarto di secolo si sveglia dal letargo e decide di riscrivere la storia dell’Antimafia.  Ne ha tutto il diritto, in tempi in cui si processa una certa Antimafia, come l’ex presidente degli industriali siciliani, Montante, che ha trascinato nel fango funzionari della Dia, poliziotti e agenti segreti al suo servizio. E persino i paladini dell’Antimafia dura e pura, come il pm Nino Di Matteo con i colleghi Anna Palma e Lello Petralia rischiano l’incriminazione a Messina, se già non è stata formalizzata, per calunnia con l’aggravante di aver favorito Cosa nostra, per la gestione, ai tempi in cui erano alla Procura di Caltanissetta, del pentito Vincenzo Scarantino e delle sue dichiarazioni sulla strage di via D’Amelio (Paolo Borsellino e la sua scorta). E allora chi ha voglia di farsi ipnotizzare dalla riscrittura della stagione stragista di Cosa nostra, sia pronto a rimettere in discussione il dogma dei dogmi dell’Antimafia: la presenza di mandanti esterni a Cosa nostra nelle stragi di Capaci, via D’Amelio, Firenze, Roma e Milano, che per molti si identificano in entità pubbliche e istituzionali. E che invece nella ricostruzione di Maurizio Avola non esistono. Cosa ha detto di così scandaloso il pentito del secolo scorso, catanese, autore di una ottantina di omicidi, il giornalista Pippo Fava in testa? Che i mandanti e anche esecutori delle stragi palermitane del 1992 sono stranieri, è la famiglia Gambino della Cosa nostra americana. Che mandò a Palermo un suo uomo d’onore esperto in esplosivi e telecomandi, per insegnare a lui (e a Giovanni Brusca) come maneggiare i congegni nuovi, l’esplosivo e i telecomandi che dovevano coprire una distanza di sei, settecento metri dal detonatore. E che gli americani indicarono modalità e obiettivi dell’offensiva stragista dei Corleonesi per mandare un messaggio preciso agli “amici” di Falcone e dello “sbirro” Gianni De Gennaro che stavano processando la famiglia Gambino nella loro New York. Avola sembra rilanciare la palla nel campo di Giovanni Brusca che nulla ha mai detto sull’artificiere americano. E ha rivelato che i siciliani avrebbero dovuto assassinare il governatore di New York Mario Cuomo, del Partito Democratico, che nel novembre del 1992 avrebbe dovuto visitare Messina. E che la sua visita siciliana fu bloccata pochi giorni prima, lasciando intuire, Avola, che i Servizi segreti furono allertati da una “soffiata” dell’ala moderata di Cosa nostra catanese, Santapaola in testa, che non voleva stragi o omicidi eccellenti a casa sua. Eppure Nitto Santapaola ha “sacrificato” suo figlio per l’omicidio del giudice reggino Antonino Scopelliti, che doveva sostenere l’accusa in Cassazione al maxi processo contro Cosa nostra. Un omicidio eccellente, il primo atto della dichiarazione di guerra allo Stato, dell’offensiva eversiva e stragista. Furono i catanesi con Matteo Messina Denaro a eseguire l’omicidio del magistrato reggino. Avola si è autoaccusato e ha accusato i mandanti e gli autori dell’omicidio. Ha fatto trovare il fucile sepolto in provincia di Catania. Ora sono in corso le perizie balistiche e dovranno passare un paio di mesi per avere la conferma che il fucile “è compatibile” con l’arma dell’omicidio. Di verità scomode, scandalose, al limite indimostrabili e dunque non vere anche se verosimili, ieri Maurizio Avola ne ha raccontate tante nell’aula bunker di Firenze, dove si celebrava davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta il processo contro il boss trapanese Matteo Messina Denaro per la strage di via D’Amelio. Aula bunker deserta, solo una decina di avvocati. Per tutto il pomeriggio fino a tarda sera il procuratore aggiunto di Caltanissetta, Gabriele Paci, ha tentato di non danneggiare le indagini “delicatissime” in corso a Reggio Calabria e Caltanissetta sulle dichiarazioni inedite che da un anno sta centellinando il pentito catanese. Per tutto il giorno il tarlo non ha smesso di tormentare con dubbi e sospetti le certezze sedimentate in tanti anni di indagini e processi. Questa, proposta da Avola, è una nuova trama noir. Ecco riaffiorare la Falange Armata, una sigla che da un certo momento in poi Cosa nostra avrebbe dovuto utilizzare per rivendicare gli attentati. In tutti i processi che lo hanno visto imputato, Avola ha avuto riconosciuti i benefici premiali per la collaborazione. Trent’anni da scontare in carcere. È lui li ha vissuti senza protestare. Ha avuto uno sconto di cinque anni di pena per la buona condotta in carcere ma ancora oggi è detenuto, in carcere per le ultime briciole di detenzione carceraria. Ritenuto sempre attendibile dai giudici anche se negli anni i magistrati di diverse procure non gli hanno creduto su alcune vicende che ha raccontato. Anche ieri ha chiamato in causa per esempio l’avvocato forzista ed ex ministro Cesare Previti. Anche ieri, a proposito di un attentato all’allora pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro, se ne è uscito con un omicidio che dovevano eseguire per fare un favore ai socialisti. Ma poi ha raccontato appunto dei misteri degli omicidi Scopelliti e del giudice trapanese Ciaccio Montalto: «A me che esternai delle perplessità sul coinvolgimento di Matteo Messina Denaro nell’omicidio Scopelliti, il consigliere della famiglia catanese, Marcello D’Agata, mi rispose che Messina Denaro aveva già partecipato a un omicidio eccellente, quello del giudice trapanese Ciaccio Montalto, insieme a Marcello D’Agata, Aldo Ercolano (famiglia catanese, ndr) e a Mariano Agate». In oltre cinque ore di interrogatorio, Maurizio Avola ha ripercorso un quarto di secolo di storia di Cosa nostra. Dal ruolo di Salvo Lima, che svela all’organizzazione che Falcone si stava adoperando per il buon esito del maxi processo, in Cassazione, discutendone con il giudice Scopelliti. Accenna, di passaggio, anche allo scenario del nuovo mondo che si prepara con l’avvento di una nuova forza politica. Ma non c’è tempo per parlarne. L’interrogatorio si concentra sul ruolo di Matteo Messina Denaro, il figlioccio di Totò Riina, nelle stragi e non solo. E si sofferma, il pentito catanese, anche sul tentativo fallito di eliminare Falcone all’Addaura con un modellino di elicottero imbottito di tritolo che avrebbe dovuto alzarsi in volo e, come se fosse un drone antelitteram, telecomandato fino ad esplodere in presenza di Falcone. Un progetto fallito per l’impossibilità dell’elicottero di alzarsi in volo per il suo peso. Per chi ha raccontato questi anni di inchieste e tormenti, processi e assoluzioni, Maurizio Avola sembra riproporre gli stessi titoli. Ma in realtà stravolge il senso di marcia della storia raccontata fino a ieri. Non è solo un vecchio killer che si avventura in un labirinto da cui si esce con difficoltà. È stato un killer che nei suoi dieci anni di appartenenza alla famiglia catanese (il vero boss, dice il fedelissimo, era Aldo Ercolano e non Nitto Santapaola) è riuscito a diventare anche capodecina reggenteQuelle di ieri sono state le prime dichiarazioni pubbliche delle nuove rivelazioni di Avola. L’udienza finisce a tarda sera.uscendo dall’aula bunker viene spontanea una domanda: ma perché Avola che ha (quasi) finito di scontare i suoi anni di carcere ha deciso solo oggi di riscrivere la storia? Di autoaccusarsi di omicidi eccellenti e di stragi? Di chiamare in causa protagonisti, comprimari e comparse che hanno affollato quel tragico palcoscenico del secolo scorso? MICHELESANTORO.IT di Guido Rotolo 6.4.2019

L’ex killer sentito al processo che vede imputato il super latitante per le stragi ’92  A Firenze ascoltati anche Tranchina, Ferro e Patti  La strategia stragista parte dopo la sentenza d’appello del maxi processo e si doveva fare la Cassazione. Mi rintraccia Aldo Ercolano e mi dice che si doveva compiere un omicidio di urgenza ad un magistrato, Antonino ScopellitiSi doveva fare subito perché se ne stava andando da Reggio e a Roma non si poteva fare“. Per la prima volta, da quando è stata resa nota la riapertura delle indagini sull’omicidio del giudice ucciso in Calabria il 9 agosto 1991, il pentito Maurizio Avola, che ha permesso di ritrovare un fucile calibro 12 su cui sono in corso accertamenti, ha deposto in un’aula di giustizia. Il processo è quello a carico del superlatitante di Castelvestrano, Matteo Messina Denaro, accusato di essere stato il mandante delle stragi del ’92. Davanti alla corte d’Assise di Caltanissetta, presieduta da Roberta Serio, l’ex killer catanese ha confermato il ruolo di Messina Denaro nell’organizzazione del delitto: “L’omicidio Scopelliti era il primo omicidio eccellente ma si sa anche che un gruppo palermitano, assieme a Messina Denaro, era partito per uccidere Falcone a Roma. Marcello D’Agata mi raccontò di una riunione a Castelvetrano, in presenza di Francesco e Matteo Messina Denaro, dove per Catania erano presenti Eugenio Galea ed Aldo Ercolano. C’erano anche altri ma non mi furono fatti i nomi e si decise di colpire Scopelliti. Così poi ci siamo adoperati. La presenza di Messina Denaro per organizzare l’omicidio era indispensabile”. Il motivo per cui si doveva colpire il giudice era chiaro: Aldo Ercolano mi diceva che Falcone lo stava ‘consumanno’, istigandolo sul maxi processo. Falcone faceva sempre più di quello che doveva fare. Così andammo avanti. Chi girò la notizia? Sempre Ercolano mi disse che a portare le informazioni sugli spostamenti di Scopelliti fu l’onorevole Lima, che era amico nostro prima che fosse assassinato. L’informazione arrivò a Messina Denaro o a chi per lui”.

Il coinvolgimento nella morte di Giangiacomo Ciaccio Montalto  Ma non era certo quello il primo omicidio eccellente a cui il capomafia trapanese avrebbe partecipato. Infatti Avola ha anche raccontato che D’Agate gli parlò del coinvolgimento del superlatitante nell’omicidio del giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto“A me, che esternai delle perplessità sul coinvolgimento di Matteo Messina Denaro nell’omicidio Scopelliti, Marcello D’Agata, consigliere della famiglia catanese, mi rispose che Messina Denaro aveva già partecipato ad un omicidio eccellente nel 1983, quello del giudice trapanese Ciaccio Montalto, insieme a Marcello D’AgataAldo Ercolano e Mariano Agate. E’ proprio in questa occasione che D’Agata divenne uomo d’onore”.

Gli incontri con Messina Denaro. Avola ha poi aggiunto di essersi incontrato personalmente con la primula rossa che a Catania si era recato più volte. “Una prima volta era venuto per ‘aggiustare’ il processo sull’omicidio di Vito Lipari. Il D’Agata mi disse che i Messina Denaro avevano una certa influenza sulla massoneria del luogo e conoscevano magistrati. Si diceva che Francesco Messina Denaro fosse un massone. Poi ci incontrammo a febbraio-marzo del 1992. I palermitani dovevano andare ad uccidere Martelli e Falcone a Roma e avevano bisogno di armi. Proprio Messina Denaro venne a Catania a ritirare una macchina dove avevo messo due kalashinkov, un bazooka usa e getta, due bombe a mano due calibro novex21. Erano armi che venivano dall’ex Jugoslavia”. Avola ha anche detto che in quel giorno Messina Denaro si presentò con un uomo che non gli fu presentato come Cosa nostra (“Era sfrontato, vestito elegante, con occhiali da sole ed un’altezza di un metro e settanta”).
Il teste ha anche riferito che nel 1989 vi era stata una possibilità di uccidere Falcone a Catania, prima dell’attentato all’Addaura: “I corleonesi dicevano che Falcone aveva favorito la discesa dall’America di Contorno che si era messo ad uccidere uomini d’onore. Era tutto pronto, sapevamo dove doveva andare a mangiare ma poi non si fece nulla. Per l’Addaura invece ci eravamo mossi tramite Marcello D’Agata per mettere a disposizione un elicottero telecomandato caricandolo di esplosivo. Avevamo un allarmista all’avanguardia, Alberto Torre. Fu lui che modificò i telecomandi presumibilmente usati per la strage a Capaci. Poi non si fece più niente perché dissero che ci avrebbero pensato i palermitani”.

Il ruolo nella strage di Capaci  Se negli anni Novanta Avola aveva parlato delle stragi, solo ammettendo di aver portato dell’esplosivo T4 a Termini Imerese senza sapere quale sarebbe stato il suo utilizzo, nell’ultimo anno il pentito catanese, che si trova in carcere da 22 anni, ha riferito ulteriori dettagli indicando anche le proprie responsabilità. “Per aggiustare l’esplosivo per l’attentato dovevamo essere o io o Pietro Rampulla – ha detto venerdì in aula – Arrivò pure una persona che era di fuori di Catania che ci ha imparato una tecnica moderna di come maneggiare questo tipo di esplosivo”. Immediatamente sul punto è stato stoppato dal pm Paci che ha evidenziato come “vi sono delle indagini in corso”. Ma rispondendo ad un’altra domanda è emerso che questo soggetto “era un appartenente alla famiglia Gambino di Cosa nostra americana”. “D’Agata mi disse che l’interesse degli americani c’era perché anche loro avevano avuto un processo con Falcone in mezzo. Un’indagine patrimoniale” ha aggiunto il teste.
Avola ha poi continuato il racconto del trasporto dell’esplosivo nell’aprile ’92: “Caricai i panetti in dei contenitori per le olive. Poi con D’Agata abbiamo fatto una steffetta. Nel caso vi fosse stata qualche pattuglia di stradale si faceva fermare lui con una brusca manovra. Abbiamo consegnato la roba nel primo rifornimento a Termini Imerese dove c’erano due che conosceva D’Agata. Io sono sceso e sono andato nella Fiat uno di D’Agata”. Per quanto riguarda i telecomandi utilizzati per la strage di Capaci il teste ha confermato che furono portati in un secondo momento da Vincenzo Galea ma ha anche spiegato che furono fatti dei test: “Per sicurezza io, Aldo Ercolano D’Agata ce ne siamo fatti fare un altro e l’abbiamo testato nella strada della scogliera fra Lido Acquarium e l’entrata di Aci Castello. La distanza era più o meno 700 metri. Del resto ai palermitani serviva coprire una distanza di un chilometro. Abbiamo messo in una macchina il detonatore senza dinamite. Funzionò e poi consegnammo gli altri telecomandi”.

Paura della massoneria. Alla luce dei molteplici episodi riferiti per la prima volta da Avola, come ad esempio anche un altro omicidio di un soggetto vicino a Giuseppe Ferrara (uomo d’onore cugino di Santapaola) che nel 1989 aveva avuto un problema con Messina Denaro e che al contempo parlava male di Nitto Santapaola, il pm Paci non ha potuto fare a meno di chiedere il motivo per cui solo oggi, dopo tanti anni, si è deciso a riferire certi episodi. “Quando collaboravo nel ’94 non mi sentivo pronto. Avevo i bambini piccoli e mi ero autoaccusato di omicidi di secondo piano” ha detto in un primo momento il teste, anche se già si era autoaccusato del delitto del giornalista Pippo Fava. Quando il pm gli ha fatto notare che tra le sue dichiarazioni vi erano anche quelle su figure importanti come Cesare Previti e Marcello Dell’Utri, Avola ha proseguito: “Ma anche se parlavo di Dell’Utri io non lo paragono a Messina Denaro. I ventidue anni di carcere mi hanno fatto riflettere e non ho mai avuto benefici. Ho deciso di parlare di tutto quello che so con i magistrati”. Paci ha poi letto un passaggio del verbale del 17 dicembre 2018 in cui ai pm di Reggio Calabria aveva riferito: “Io non ho mai parlato della riunione di Trapani perché temevo, e temo molto i circuiti massonici in cui i Messina Denaro sono collocati. Sono molto potenti ed hanno a loro servizio numerosi soggetti delle istituzioni”. Avola ha così confermato ed aggiunto che “sono queste persone che fanno paura perché portano le notizie su dove si trova chi è sotto protezione. Hanno amicizie nei servizi centrali. Ci sono personaggi dello Stato che fanno il doppio gioco. E l’operazione di un mese fa, che ha visto coinvolti soggetti della massoneria di Trapani non mi ha smentito”.

Una Falange Armata per le stragi. Come aveva fatto anche in altri processi Avola ha anche parlato degli attentati in Continente, spiegando di essere stato a sua volta inviato nel 1992 a Firenze per visionare qualche monumento da colpire (“individuai il Donatello finto, che sta nella piazza. Ma doveva essere un attentato dimostrativo, di notte. Anche le stragi di Firenze, Milano e Roma non dovevano colpire civili ma poi non è stato così”) ed ha anche spiegato che gli attentati negli anni delle stragi dovevano essere tutti rivendicati con la misteriosa sigla della Falange Armata (“C’era un mezzo parente dei Santapaola che era centralinista e telefonava i giornali per rivendicare anche cosa che non aveva fatto Cosa nostra come la strage dei fratelli Savi, quella del Pilastro a Bologna. Ma Marcello D’Agata mi diceva che si doveva rivendicare tutto”). Inoltre ha anche raccontato dei progetti di morte contro Salvo Andò ed Antonio Di Pietro, anche se quest’ultimo non rientrava nella strategia delle stragi ma doveva essere un favore a un imprenditore del nord che aveva problemi con Mani Pulite. Attentati che poi non furono fatti “perché ci fu anche l’avviso di qualcuno dei Servizi segreti o della polizia. O almeno noi credevamo così”. Tra gli attentati da compiere vi erano anche quelli a Costanzo, di cui si occuparono i palermitani, e quello a Pippo Baudo, reo di aver parlato contro la mafia. “Facemmo saltare la villa perché fece delle trasmissioni al ‘Costanzo show’. Lo volevamo uccidere ma Santapaola disse di far saltare solo la villa. Così mi organizzai con i ragazzi di Acireale”.

Le testimonianze di Tranchina-Ferro e Patti. A salire sul pretorio, oltre ad Avola, sono stati anche sentiti i collaboratori di giustizia Fabio Tranchina, Giuseppe Ferro ed Antonio Patti. In particolare Tranchina, ex membro della famiglia di Brancaccio, ha riferito di un episodio accaduto durante un pranzo al ristorante “U pescaturi” a Mazara al quale partecipò insieme a Giuseppe Graviano (di cui era autista), Vincenzo Sinacori, e Matteo Messina Denaro. Quest’ultimo in particolare, una volta sedutosi a tavola insieme agli altri boss, “sbiancò in faccia improvvisamente quando vide entrare una persona. Successivamente ci fece uscire tutti di fretta e furia dal ristorante e ce ne andammo senza nemmeno mangiare”. Una volta fuori, Giuseppe Graviano “mi disse che la persona che era entrata nel ristorante era il dottor Rino Germanà spiegandomi che Messina Denaro non lo poteva vedere perché lo convocava sempre in Questura”. Sempre su Germanà, Tranchina ha riferito di un altro episodio accaduto verso la fine dell’estate del 1992, dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio, quando accompagnò Graviano in una villetta per incontrare Matteo Messina Denaro. I due capi mafia si “isolarono per un’oretta”“Al loro ritorno Graviano era stravolto – ha rammentato il teste -, era come se avesse visto il diavolo e ripeteva ‘è andata male, è andata male, è rimasto vivo’. A quel punto capii che avevamo sparato a qualcuno e che non era morto”. Tempo dopo Tranchina dedusse che la persona “sopravvissuta” era proprio il questore Rino Germanà, miracolosamente scampato ad un agguato del commando mafioso formato da Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella e da Matteo Messina Denaro. Anche Tranchina ha raccontato che il gruppo di Brancaccio, tra la fine del 1991 e gli inizi del 1992, preparò un’auto caricandola di armi. “Era la macchina di Fifetto Cannella e la caricammo con pistole, mitragliatrici, fucili a pompa e giubbotti antiproiettile”, preparate di tutto punto da un gruppo numeroso di boss di alto livello. Tra questi “Matteo Messina Denaro, i fratelli GravianoFifetto Cannella (Cristoforo), Vincenzo Sinacori, Pietro Lo Bianco, un certo Pilo che custodiva le armi e forse Franco Geraci. Quel vasto arsenale, secondo la memoria di Tranchina, “serviva per un’azione molto pericolosa ed eclatante che dovevano fare a Roma, sentì parlare di un ristorante”. Il teste, così come aveva fatto anche in altri processi ha anche ricostruito alcune fasi di preparazione dell’attentato in via d’Amelio quando, in più occasioni, si era trovato a passare proprio per quella strada con Giuseppe Graviano“Mi aveva anche chiesto di affittare un appartamento proprio sulla via. Voleva che pagassi in contanti senza passare dalle agenzie. Non lo feci e lui disse ‘mi arrangio con il giardino’”.
Per concludere nella trasferta fiorentina è stato sentito anche Giuseppe Ferro, ex capo mandamento di Alcamo succeduto al boss Vincenzo Milazzo, ucciso da Ferro stesso insieme a Matteo Messina Denaro e Leoluca Bagarella nel luglio 1992. E proprio sull’omicidio Milazzo si sono concentrate le domande del pm Gabriele Paci, alle quali, in sostanza, Ferro ha risposto che è stato assassinato in quanto era considerato “una carogna” e una mina vagante fuori dal controllo di Cosa Nostra, Totò Riina in primis. Circostanza in parte smentita da un altro collaboratore di giustizia, Armando Palmeri che, ascoltato nei giorni scorsi, ha ricondotto l’omicidio di Vincenzo Milazzo alla sua non volontà di “sposare la strategia stragista”.ANTIMAFIA DUEMILA 07 Aprile 2019  di Aaron Pettinari, Davide de Bari e Karim El Sadi

Caso Scopelliti, chi è Maurizio Avola, il pentito che ha fatto riaprire l’indagine  – Un killer seriale con decine di assassini in curriculum ha portato i magistrati sulle tracce dell’arma che, secondo lui, ha ucciso il giudice calabrese  Un sicario spietato. Un viveur. Un pentito importante, ma capace di far saltare il programma di protezione per tornare alle rapine. Nel corso della sua vita, Maurizio Avola, il collaboratore che ha dato nuove gambe alle indagini sull’omicidio Scopelliti, è stato molte cose. Tante sono state ricostruite, altrettante le ha raccontate lui stesso, dentro e fuori dalle aule di giustizia. Autore reoconfesso di più di 80 omicidi, in grado di freddare senza esitazione, né rimpianti, giornalisti, boss, e persino il suo migliore amico, negli anni di piombo catanesi, a lui il boss Nitto Santapaola affidava le più delicate missioni di morte con la certezza che non avrebbe né sbagliato, né parlato. Perché uccidere gli piaceva. «Le persone che mi passavano di fianco per strada mi sembravano così piccole. Non lo sapevano, mentre io ero il padrone delle loro vite» ha detto più volte in udienza.

È irrisolto l’omicidio che nel 1991 in Calabria diede inizio alla stagione delle stragi. Ora un’inchiesta indaga sui lati oscuri del magistrato. E dello Stato Collaboratore dal ‘94, non ha mai esitato a toccare argomenti sensibili. Ha fatto il nome di Cesare Previti e Marcello Dell’Utri come uomini al servizio delle mafie ed è stato il primo a mettere in relazione la stagione degli attentati continentali con Silvio Berlusconi e Forza Italia. Si è autoaccusato di omicidi eccellenti, ha indicato mandanti ed esecutori di attentati che hanno fatto rumore e di altri solo progettati, ha rivelato la riunione di Enna servita per progettare quelle leghe regionali che avrebbero dovuto regalare ai clan una nazione.  Per gli altri pentiti è uno che sa, perché aveva il ruolo e il rango per essere informato. Ne parlano in tanti e ne ricordano la ferocia. Nessuno si è mai azzardato a definirlo un uomo dominato dalla paura. Eppure, per l’ex sicario dagli occhi di ghiaccio diventato collaboratore di giustizia, la vita numero tre, è iniziata con un’implicita richiesta di aiuto. 
«Temevo e temo molto i circuiti massonici a cui Matteo Messina Denaro e la sua famiglia sono legati. Sono molto potenti e hanno al servizio numerosi esponenti delle istituzioni» dice ai magistrati per spiegare come mai sulla primula nera di Castelvetrano non abbia mai proferito verbo. «Sono queste le persone che mi fanno paura, non il mafioso o il delinquente. Persone che portano le notizie, che hanno rapporti con i servizi centrali, che possono individuare un soggetto anche sotto protezione perché ci sono uomini dello Stato che fanno il doppio gioco». Per questo, ammette, lui ha scelto il silenzio su Messina Denaro e la sua rete come assicurazione sulla vita. Poi, dice, «ho deciso di non nascondere più nulla perché lo dovevo ai miei figli».
In realtà, ragiona chi sta vagliando le sue dichiarazioni, probabilmente ha capito che gli investigatori si stavano avvicinando e le indagini avrebbero finito per coinvolgerlo, perchè la confidenza affidata ad un compagno di cella era arrivata all’orecchio dei magistrati. Lo ha realizzato quando il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, gli si è seduto davanti e gli ha rivolto una sola domanda: «cosa mi sa dire dell’omicidio del giudice Scopelliti?». Avola ha capito che sulla primula rossa di Cosa Nostra non avrebbe potuto più tacere. E ha iniziato a parlare.  
In oltre un quarto di secolo, dal 1992 fino alle udienze dei processi in corso, i collaboratori di giustizia hanno dato varie versioni sulla morte del pm della Cassazione. Brani scelti da un labirinto dove la giustizia si è smarrita 
Ha raccontato di quell’estate catanese del ’91, iniziata fra spiagge, locali e discoteche e interrotta da una richiesta arrivata direttamente da Aldo Ercolano, nipote del boss Nitto e numero 2 della famiglia Santapaola. «Mi dice che bisognava fare un omicidio d’urgenza e che dovevo esserci io». La vittima designata era il giudice Scopelliti. Un bersaglio eccellente per il quale è stato messo insieme un commando eccellente. «Io dovevo portare la motocicletta a Vincenzo Salvatore Santapaola» rivela Avola, che poi aggiunge che in Calabria «c’era anche Messina Denaro, che ha commesso con me materialmente l’omicidio».  Dalla Sicilia, partono il killer più affidabile dei catanesi, il figlio del boss che nell’89 aveva detto no ai corleonesi che progettavano di uccidere Falcone a Catania e il capo di uno dei due gruppi di riservati alle dirette dipendenze di Totò Riina. Il tempo era poco, toccava organizzarsi in fretta. La morte del giudice era stata decisa da tempo, «ad aprile, maggio» durante una riunione a Castelvetrano «a cui avevano partecipato – racconta Avola -Aldo Ercolano, Matteo Messina Denaro, suo padre e altre persone di cui non mi hanno fatto il nome». Ma condizioni e occasione per l’omicidio sono maturate solo ad agosto «perché Scopelliti se ne stava andando da Reggio per tornare a Roma e era necessario ucciderlo nella località in cui si trovava in Calabria». Perché? «Nella capitale non si poteva fare perché non volevano un omicidio eccellente là, anche quello di Falcone – racconta il collaboratore –  è saltato per lo stesso motivo».  Indicazioni di Salvo Lima, capo della corrente andreottiana in Sicilia, intimo del “Divo” Giulio e referente di Cosa Nostra. «Lui era un uomo nostro. D’Agata mi ha detto che è stato lui a dare notizie sulle mosse di Scopelliti. Al giudice, lo ha rovinato Falcone. Ercolano mi disse che Falcone aveva continuato a interessarsi al maxi, per i mafiosi faceva di più di quello che avrebbe dovuto fare. Si era incontrato con il dottore Scopelliti, gli aveva parlato, lo aveva indicato per la Cassazione».  La successione degli eventi nazionali e internazionali che portano dal bipolarismo Usa-Urss a Tangentopoli e alla Seconda Repubblica Altro ad Avola non hanno detto. Ma a lui forse è bastato per capire che quello non era un omicidio come gli altri, che il fucile utilizzato non andava distrutto, ma conservato in un luogo sicuro. Per sicurezza. Lo ha fatto ritrovare agli investigatori della Mobile di Reggio Calabria nell’agosto scorso, sepolto in un fondo agricolo del catanese, accuratamente avvolto in una felpa e conservato in una borsa insieme ai proiettili.  Dopo anni sotto terra, il calcio era in pezzi e la stoffa quasi fusa alla canna, ma i periti sono fiduciosi. Qualcosa si può recuperare. Gli accertamenti sono in corso e pesano come una spada di Damocle sui 18 indagati del terzo fascicolo sull’omicidio Scopelliti. Quello che potrebbe finalmente restituire verità ad un omicidio che da 30 anni non ha colpevoli, né spiegazione. 06 maggio 2019 L’ESPRESSO

4.1.2015 – LE PAROLE DI MAURIZIO AVOLA: LA MORTE DI PIPPO FAVA? “VOLUTA DA IMPRENDITORI AMICI DEI BOSS”“ Con la stampa si andava d’amore e d’accordo e qualche ‘incomprensione’ giornalistica da allora si risolse senza bisogno di minacce. Fava invece non era più controllabile. Uccidendolo, Cosa nostra ha tutelato anche i propri interessi economici”. Lo dice – in un’intervista a Repubblica attraverso il suo avvocato – Maurizio Avola, collaboratore di giustizia, che il 5 gennaio dell’84 uccise il giornalista Pippo Fava. Avola, dopo 31 anni, spiega che “l’omicidio Fava è servito allo scopo della mafia e dei Cavalieri” di cui “Fava ne aveva scritto molto, parlando, in particolare, della mafia dai colletti bianchi”. “Il giornalista – prosegue – aveva messo in crisi un equilibrio che si è subito ristabilito. Andava bene così a tutti, anche ai giornalisti. Poi nel 1992, quando i corleonesi hanno imboccato la linea stragista anche la stella di Santapaola è tramontata. Lui diceva che con lo Stato non ci si doveva scontrare, ma camminare insieme. Così a maggio del 1993 i suoi uomini più fidati lo hanno di fatto consegnato alle forze dell’ordine, forse per salvargli la vita”. (ANSA)

 a cura di Claudio Ramaccini  Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco