Il mistero di una telefonata a Borsellino poche ore prima della strage

Commissione Antimafia ARS

Questo il ricordo di Agnese Piraino, moglie di Paolo Borsellino

  • TESTE PIRAINO: Mio marito si è alzato molto presto la mattina, lui era molto mattiniero, e ha ricevuto una strana telefonata alle 7.00 del mattino. Il Procuratore Giammanco l’aveva chiamato perché la notte non aveva potuto dormire pensando che la mattina doveva dare la delega per interessarsi lui dei processi di mafia riguardanti Palermo. La telefonata ha turbato (Paolo Borsellino, ndr) moltissimo, non ne era proprio entusiasta. Il Procuratore Giammanco ha detto: «Così la partita è chiusa»; lui ha ripetuto: «La partita è aperta». E ha cominciato a passeggiare su e giù per il corridoio.
  • P.M. dott.ssa PALMA: Per chiarire alla Corte il significato di questa telefonata, ci vuole spiegare che significa mafia di Palermo?
  • TESTE PIRAINO: Ecco, mio marito da febbraio si trovava a Palermo, era stato trasferito a Palermo… era venuto in città ma era convinto di non essere bene accetto e il Procuratore Giammanco non era entusiasta della sua presenza presso la Procura… e quando si è istituita la PNA il Procuratore ha dato la delega a lui per i processi di mafia di Trapani e di Agrigento, però assolutamente non voleva che si occupasse della mafia di Palermo.
  • P.M. dott.ssa PALMA: Quindi suo marito lavorava sulla mafia di Agrigento e di Trapani.
  • TESTE PIRAINO: Sì, però mi diceva: “Ho la situazione esatta di quello che accade a Palermo tramite i processi che io faccio, che istruisco su Trapani e Agrigento. Però sono delegittimato”, perché il Procuratore non aveva dato questa delega a lui per trattare i processi di Palermo. Poi, quella domenica mattina, alle sette… Giammanco non era mai solito telefonare a quell’ora, non c’erano rapporti…
  • P.M. dott.ssa PALMA: Era capitato altre volte?
  • TESTE PIRAINO: No, no, mai.

Solo ipotesi

 

Su quella telefonata (l’orario, l’improvvisa urgenza, il significato delle parole) si possono fare molte ipotesi. Abbiamo raccolto alcune voci particolarmente autorevoli: il dottor Dolcino Favi, sostituto procuratore generale nel processo d’appello del “Borsellino ter”[Cfr. Corte di Assise di Appello di Caltanissetta, Borsellino ter]; il dottor Ingroia, tra i magistrati più vicini a Borsellino fin dai tempi di Marsala; il dottor Di Pisa, il collega palermitano che Paolo Borsellino cercò, invano, poche ore prima di rimanere ucciso in via D’Amelio.

  • FAVI. Perché la mattina del 19 luglio il Procuratore Giammanco telefona a Borsellino per dirgli che gli ha dato la delega per le indagini antimafia a Palermo? Io non so se su questo punto siano state fatte indagini o meno, se Giammanco sia mai stato interrogato su questo, però, me lo consenta la Corte, di tanto in tanto il Pubblico Ministero qualche forzatura la deve anche fare… Sia detto chiaro, io non credo che Giammanco sia tra i mandanti o tra i complici della strage, non lo credo, non lo affermo, però certo è possibile che Giammanco abbia ricevuto un ok, abbia ricevuto un “via libera”: Borsellino il 19 luglio non può più nuocere a nessuno. Ma chi, alle spalle di Giammanco, quale forza politica, quale uomo politico, quale uomo di potere, quale articolazione dalla politica ha dato il 19 luglio il via libera perché Borsellino potesse occuparsi delle indagini antimafia su Palermo?
  • INGROIA, già magistrato. Riguardo allo specifico episodio di quella telefonata del 19 luglio, è stato un po’ l’epilogo di un lungo braccio di ferro… Su Mutolo, si ritarda il momento in cui Borsellino se ne occupa, perché Giammanco ostacola questa cosa, fino a quando Mutolo non si rifiuta di parlare davanti ad altri magistrati che non siano Borsellino… Così come Borsellino, dopo l’omicidio Lima, voleva occuparsene e Giammanco lo aveva tenuto a distanza da quell’indagine. Voleva andare ad interrogare Buscetta, negli Stati Uniti, e Giammanco glielo negò, e così via. Rimane il mistero di quella telefonata del 19 luglio, che ha sempre angosciato molto Agnese Borsellino, perché lei sentì quella telefonata e la risposta veemente di Paolo al telefono… Cosa era scattato il 19 luglio perché, dopo tante resistenze, alla fine Giammanco avesse ceduto? Sì, credo anch’io – ma è una deduzione – che gli sia stato dato il via libera da qualcuno.

Quale significato ha quella telefonata?

 

  • FAVA, presidente della Commissione. La mattina del 19 luglio 1992 lei ha avuto modo di dichiarare che Paolo Borsellino la cercò con insistenza, ma non la trovò.
  • DI PISA, già magistrato. Ricordo perfettamente che io mi recai quel giorno a Marinalonga, nel pomeriggio, dove mio cognato aveva una villetta e poi anche Borsellino aveva un bungalow in un residence. Mi disse che Borsellino quel giorno mi aveva cercato insistentemente, ma non c’eravamo incrociati…
  • FAVA, presidente della Commissione. Non ha mai saputo né potuto immaginare di cosa le volesse parlare Borsellino quella domenica?
  • DI PISA, già magistrato. No, francamente no.
  • FAVA, presidente della Commissione. È la stessa mattina in cui Giammanco alle 7,30 chiama Borsellino…
  • DI PISA, già magistrato. Io so che Giammanco in quella telefonata, per la verità inusuale alle 7,30 del mattino, disse a Borsellino che intendeva delegargli le indagini sulla mafia del palermitano, cosa che fino ad allora gli aveva negato. Certo è una telefonata anomala, quasi come se sapesse quello che sarebbe successo poi nel pomeriggio. Ma questa è una mia illazione, una mia considerazione…

Dice opportunamente il dottor Di Pisa che quelle sono “considerazioni sue”: vero. C’era un solo modo per capire quale fosse il significato di quell’ultima telefonata di Giammanco a Borsellino: chiederglielo. Ma nessuno lo fece. Di più: Giammanco non è mai stato interrogato dal procuratore di Caltanissetta Tinebra, che aveva la titolarità dell’inchiesta su via D’Amelio (oltre a quella su Capaci).

Scegliere di non sentire il capo della procura di Palermo voleva dire scegliere di non ricostruire quei 57 giorni, le indagini sottotraccia di Borsellino, le ragioni dei contrasti manifesti tra lui e Giammanco, l’esclusione dalle più importanti indagini palermitane, la gestione “sorvegliata” del pentito Mutolo, le minacce su possibili attentati che non furono mai comunicate a Borsellino. Nulla di tutto questo: incredibilmente, e senza alcuna comprensibile motivazione, Giammanco non verrà convocato a testimoniare a Caltanissetta. Nessuno gli chiederà di ricostruire i suoi ultimi contatti con Borsellino. E la sua telefonata all’alba del 19 luglio salterà fuori solo quando verrà ascoltata, tre anni dopo, la vedova Agnese.

Quei tre anni di silenzio e la scelta di non chieder conto a Giammanco di ciò che era accaduto attorno a Borsellino dopo la strage di Capaci è il primo determinate tassello su cui si fabbricherà il malandato impianto del depistaggio. Come fa capire Antonio Ingroia, sollecitato in Commissione su questo aspetto:

  • INGROIA, già magistrato. È ovvio che la conduzione delle indagini del dottor Tinebra era tutta finalizzata a sottodimensionare tutti i vari aspetti della vicenda, evitare di mettere in mezzo il profilo istituzionale, fare un’indagine di pura mafia, era la mafia che si vendicava di Paolo Borsellino, dopo essersi vendicata di Giovanni Falcone per l’esito del maxiprocesso. Questa era la lettura che doveva passare e sulla quale la Procura di Caltanissetta ha proseguito a lungo. Scarantino, poi, è stato il cacio sui maccheroni. DOMANI 25 ottobre 2021 •

Il procuratore capo Giammanco e l’isolamento di Paolo Borsellino

 

C’è un filo oscuro ma netto che unisce la vicenda umana e il lavoro giudiziario di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, un filo che anticipa via D’Amelio e in qualche modo annuncia i primi segni del depistaggio destinato ad occultare per diciassette anni ogni verità sulla strage. Quel filo è rappresentato dall’allora procuratore della Repubblica Pietro Giammanco, alla direzione della procura di Palermo dal giugno 1990 all’agosto 1992 quando chiede (e subito ottiene) dal CSM il nullaosta per lasciare Palermo e trasferirsi in Cassazione.

A Giammanco si attribuisce, in quei due anni palermitani, il lento ma determinato e costante esercizio di isolamento professionale, prima nei confronti di Falcone (che a quella condizione di solitudine si sottrarrà accettando nel 1991 la proposta del ministro Martelli di lavorare alla guida dell’ufficio Affari Penali a Roma), poi verso Paolo Borsellino, tenuto per mesi ai margini delle inchieste giudiziarie più importanti sulla Cosa nostra palermitana. Almeno fino a poche ore prima della morte, quando ricevette un’inaspettata ed ancora non decifrabile telefonata da parte di Giammanco (ne parleremo più avanti) che gli comunicava di volergli finalmente affidare le principali inchieste sulla mafia palermitane. Un atto tardivo di resipiscenza: sono le 7.00 del mattino di domenica 19 luglio e a Paolo Borsellino restano solo dieci ore di vita.

Il nuovo capo della Procura

 

La scelta di indicare Giammanco alla guida della Procura, due anni prima, s’era portata dietro critiche e preoccupazioni, emerse anche nel voto non unanime del plenum del CSM.

Esplicita la preoccupazione manifestata, in occasione di quel voto, da alcuni consiglieri di Palazzo dei Marescialli. Come ebbe modo di dichiarare l’area vicina a Massimo Brutti, componente laico del consiglio, Giammanco appariva “un giudice troppo chiacchierato, un magistrato troppo schierato, troppo legato ai salotti dei potenti”. Si temeva, in particolare, la manifesta amicizia tra il dottor Giammanco e l’onorevole D’Acquisto, che era punto di forza politico ed elettorale di Salvo Lima a Palermo. Eppure, nonostante ci fosse questo elemento oggettivo di preoccupazione, nella votazione prevalse il dottor Giammanco. Perché? Lo abbiamo chiesto all’onorevole Brutti.

  • BRUTTI, già presidente del Comitato parlamentare di controllo sui Servizi segreti. Vi era un atteggiamento complessivo come ad assecondare una routine… All’interno della Procura di Palermo vi era un’accettazione più o meno convinta, pur considerando i limiti di questo magistrato… Noi fin dall’inizio ci opponemmo a Giammanco. Vi erano anche nel suo fascicolo personale tracce di queste molteplici attività che lo avevano portato ad avere contatti anche sul piano professionale con il mondo politico siciliano, con i gruppi dirigenti della Democrazia Cristiana, in un momento nel quale le correnti prevalenti della DC siciliana non erano particolarmente sensibili alle necessità di una lotta senza quartiere contro la minaccia mafiosa… Però ci rendemmo conto che sarebbe passato comunque Giammanco.

Giammanco, infatti, passa. Si insedia alla guida della Procura e vi trova Giovanni Falcone come suo aggiunto. Ma le riserve sulle sue frequentazioni si rivelano subito fondate. Il 12 marzo 1992 viene ucciso Salvo Lima: è l’inizio della resa dei conti fra i Corleonesi di Totò Riina e i vecchi protettori politici che non proteggono più. Eppure, per il procuratore Giammanco, Lima è solo un notabile e un amico da frequentare (in vita) e da onorare (in morte). Vorrebbe partecipare ai funerali, glielo impediscono quasi fisicamente, i suoi sostituti, come ha ricordato a questa Commissione il maresciallo Canale, audito in occasione della prima indagine sul depistaggio Borsellino:

  • CANALE, collaboratore di Borsellino. Quando fu della morte di Lima, Giammanco si stava preparando ad andare ai funerali di Lima, e lui (il dottor Borsellino) lo disse una collega: «sai, Giammanco sta andando da Lima!». Borsellino fece come un pazzo: da Lima? Ma di che stiamo parlando! Lui sta andando ai funerali di Lima!?

Le indagini sul delitto Lima

 

E ricorda Roberto Scarpinato, a proposito dell’omicidio Lima e delle indagini in Procura:

  • SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Quando c’è l’omicidio Lima… io ho uno scontro personale con Giammanco perché voleva iscrivere l’omicidio nel registro degli omicidi normali non in quello degli omicidi di mafia. Ho detto: «ma stai scherzando che iscriviamo così l’omicidio Lima?».

Le indagini sul delitto Lima e l’organizzazione del lavoro all’interno della Procura di Palermo sanciscono una frattura definitiva tra il capo dell’ufficio e molti dei suoi PM. La profondità di quella frattura emergerà plasticamente il 24 giugno 1992, un mese dopo la strage di Capaci, quando la giornalista del Il Sole 24 Ore, Liana Milella, pubblica alcuni estratti dei cosiddetti “diari” di Giovanni Falcone: una serie di annotazioni del magistrato che vanno dal dicembre 1990 fino al 6 febbraio 1991, ossia poco prima che Falcone accettasse l’incarico romano offertogli dal ministro Martelli.

«È per questo che sono andato via da Palermo. Tienili questi fogli. Non si sa mai». Siamo nella seconda settimana di luglio dell’anno scorso e, dal 15 marzo, il giudice Giovanni Falcone si è trasferito a Roma per dirigere l’ufficio degli Affari penali del ministero della Giustizia. Come in tante altre occasioni si discute della sua decisione di lasciare il posto di Procuratore aggiunto a Palermo. «Che ci rimanevo a fare laggiù? Per fare polemiche ogni giorno? Per subire umiliazioni? Per non lavorare? O soltanto per fornire un alibi? No, meglio Roma. Qui al Ministero c’è tantissimo da fare. E alla mafia, anche da qui, si può dare molto fastidio». DOMANI 19 ottobre 2021


La rivolta dei pm di Palermo contro il procuratore capo Giammanco

 

Ostacolato, isolato, professionalmente emarginato, Falcone sceglie di andare a Roma. Borsellino invece resta a Palermo: dopo la morte dell’amico, sente su di sé la responsabilità di dover far tutto ciò che è nelle sue possibilità per ottenere la verità sulla strage di Capaci. È proprio in quei 57 giorni che il rapporto con il procuratore Giammanco s’incrina sempre di più. Fino all’ultima telefonata, la mattina del 19 luglio, su cui torneremo più avanti.

Ci interessa qui ricostruire il clima in cui Borsellino trascorre quei due mesi scarsi di vita che gli restano, la fatica di quei giorni, incisa nel ricordo e nelle parole di molti suoi colleghi, raccolte nel ciclo di audizioni che si svolgono dinanzi al CSM dopo la strage di via D’Amelio, tra il 28 e il 31 luglio 1992.

La lettera della DDA di Palermo

 

Tutto nasce da un documento molto critico che il 23 luglio otto componenti della DDA di Palermo (Ignazio De Francisci, Giovanni Ilarda, Antonio Ingroia, Alfredo Morvillo, Antonio Napoli, Teresa Principato, Roberto Scarpinato e Vittorio Teresi) redigono per mettere nero su bianco le criticità che affliggono la procura retta da Giammanco e le condizioni di assoluta insicurezza in cui si svolge il loro lavoro. Lo fanno mettendo sul banco le proprie dimissioni dall’ufficio, affinchè sia chiara a tutti la gravità delle loro rimostranze e l’urgenza delle preoccupazioni.

  • SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello Palermo. Dopo la strage di via D’Amelio io prendo l’iniziativa di scrivere un documento, che sono stato costretto a riscrivere quattro volte, perché mi sono fatto il giro di quaranta stanze di sostituti e non riuscivo a raccogliere una firma, e allora l’ho scritto, l’ho riscritto… e non ho avuto adesioni neppure da persone di cui mi sarei aspettato la firma… Alla fine sono riuscito, con l’ultima versione, ad avere otto firme. Quel documento nella sostanza, dopo un cappello che riguardava la sicurezza, diceva che Giammanco non poteva restare alla procura della Repubblica. Non è che fu una cosa facile perché Giammanco era un potente. Il Consiglio Superiore della Magistratura ci convocò e non si sapeva se avrebbero trasferito lui o noi: questa era la partita in gioco.

Un atto di sfiducia senza condizioni. Così lo racconta Andrea Purgatori in un suo articolo del 24 luglio 1992.

E adesso sulla scrivania del procuratore capo Pietro Giammanco, anzi sul tavolo di casa, visto che da 24 ore è “malato”, ci sono le richieste di dimissioni di otto collaboratori. Otto magistrati che con un gesto clamoroso abbandonano la Direzione distrettuale antimafia. Non è una “resa”… ma una «forte denuncia» della necessità che venga riaffermato il «principio di responsabilità» e della gravissima «mancanza di volontà politica, inefficienza amministrativo-organizzativa e impreparazione tecnica che hanno impedito al Viminale e agli organi di polizia di svolgere sul campo un’efficace prevenzione del terrorismo mafioso», di «proteggere i bersagli più esposti e sventare stragi annunciate». Un atto d’accusa che colpisce il sistema giudiziario al più alto livello nella persona di Giammanco (una guida “non” autorevole evidentemente) come le strutture dello Stato (con il ministero dell’Interno in testa).

(…) «Siamo ancora disposti anche a sacrificare le nostre vite, ma a condizione di sentirci partecipi di uno sforzo collettivo» dicono gli otto. Ma nulla potrà cambiare se la Procura non recupererà «quella unità di intenti, quello spirito di collaborazione, che oggi appaiono compromessi». Una situazione insostenibile «com’è dimostrato dall’esistenza di divergenze se non da spaccature divenute financo di pubblico dominio dopo la strage di Capaci, ulteriormente acuitesi dopo la strage di via D’Amelio, divergenze e spaccature che solo una guida autorevole e indiscussa potrebbero ricomporre e sanare». (…) L’invito al Procuratore capo perché si faccia da parte è secco. Corroborato dalla «piena solidarietà ai colleghi dimissionari» da parte di altri nove giovani magistrati della Procura.

L’istruttoria è affidata al “Comitato Antimafia” del CSM. Quattro giorni di sedute a porte chiuse in cui emergono tutte le tensioni e le contraddizioni che animano il distretto giudiziario palermitano. Alla fine il procuratore Giammanco, uno dei primi ad essere sentito, negherà tutte le accuse mossegli rifugiandosi dietro una domanda di trasferimento che verrà accolta nel giro di poche ore [nell’agosto dello stesso anno].

Di quei verbali si perderà ogni traccia per ventotto anni. Verranno secretati e messi da parte: perché?

Il CSM e Giovanni Falcone

 

Una risposta prova ad offrircela, nel corso della sua audizione, il giornalista Salvo Palazzolo.

  • PALAZZOLO, giornalista de La Repubblica. Io ho cercato di approfondire con i componenti dell’epoca del CSM, ma ho incontrato una certa ritrosia e, sostanzialmente, nessuna spiegazione plausibile… Forse all’epoca c’era la preoccupazione di mettere nel circolo le attenzioni di Borsellino. Ricordo quando ebbi la possibilità di fare una conversazione lunga con la signora Agnese Borsellino, la signora Agnese mi raccontava che nei primi tempi lei era invitata a incontri importanti, ma il motivo era sempre uno: autorevoli rappresentanti dello Stato, rappresentanti delle forze dell’ordine, esponenti della magistratura le facevano sempre la stessa domanda: «Paolo cosa aveva scoperto? Cosa stava facendo Paolo?».

Ancora più netta è la valutazione di uno degli otto firmatari di quel documento, l’avvocato Antonio Ingroia. Non era un caso, ci dice durante l’audizione, che quei verbali fossero finiti “nel dimenticatoio nazionale”:

  • INGROIA, già magistrato. È lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura che aveva bocciato più volte Giovanni Falcone… Così come qualche anno prima Paolo Borsellino aveva rischiato di essere sottoposto a procedimento disciplinare perché aveva rilasciato un’intervista dove aveva denunciato il calo di tensione sulla lotta alla mafia… la vicenda Meli, Falcone, eccetera…

E ancora, aggiunge Ingroia, c’era il timore fondato che potesse passare un messaggio sbagliato, quello della protesta come strumento dialettico “vincente” in seno all’organo di autogoverno della magistratura.

  • INGROIA, già magistrato. Alcuni componenti, quelli più ‘vicini’ – tra virgolette – alla nostra posizione, ci comunicarono, come indiscrezione, che stavamo rischiando di essere sottoposti a procedimento disciplinare perché avevamo osato ribellarci al capo.
  • FAVA, presidente della Commissione. Per la lettera che avevate scritto.
  • INGROIA, già magistrato. Per la lettera degli otto, perché altrimenti passava il principio che basta una ribellione di alcuni Pm per rimettere in discussione l’autorità del capo dell’ufficio.
  • FAVA, presidente della Commissione. Ovvero, basta una strage di mafia per esprimere qualche perplessità sulla sicurezza.
  • INGROIA, già magistrato. Esatto. Nel contempo, però, qualcuno consigliò a Giammanco, in modo – con tutto il rispetto del termine che userò – molto democristiano, di fare domanda per andare via, andare in Cassazione. Così lui fece e il CSM ha chiuso: non era accaduto nulla, nessuno era stato sottoposto a procedimento disciplinare, Giammanco aveva tolto il disturbo. Poi venne Caselli e tutto passò in cavalleria.

L’ex Pm non si risparmia, in conclusione, un’ulteriore riflessione su quella secretazione durata decenni.

  • INGROIA, già magistrato. In occasione di un anniversario, non ricordo quale, il CSM si vantò di avere proceduto alla desecretazione di tutte le audizioni che riguardavano Falcone e Borsellino: vero, furono desecretate quelle in cui avevano parlato loro, Falcone e Borsellino, da vivi. Ma rimasero segrete le audizioni successive, quando loro erano morti.23 ottobre 2021 • DOMANI