VIA D’AMELIO  I dubbi sulle indagini effettuate e sulla loro modalità, i contatti telefonici fra esponenti mafiosi e uomini dei servizi segreti,

23 maggio 2001 

l’ipotesi che uomini di Cosa nostra sarebbero stati utilizzati come manovalanza da apparati statali per mettere a segno l’attentato sono al centro della deposizione del vice questore Gioacchino Genchi. Il funzionario di polizia, interrogato dai giudici della corte d’Appello di Caltanissetta del processo “Borsellino bis” che riguarda gli esecutori materiali della strage, parla di “anomalie” nelle indagini. Ex componente del gruppo investigativo Falcone-Borsellino, Genchi, afferma che la procura di Caltanissetta si sarebbe “chiusa a riccio” dopo che “erano emersi contatti fra i boss coinvolti nella strage ed apparati istituzionali”. Per Genchi la procura non avrebbe dato il via libera ad indagare su questi fatti. Genchi esprime inoltre perplessità sulla gestione dell’ormai ex “pentito” Vincenzo Scarantino. Il funzionario avanza un’altra ipotesi investigativa, già illustrata a suo tempo ai magistrati di Caltanissetta. Secondo il teste, le persone che hanno premuto il pulsante che ha provocato l’esplosione non si potevano trovare nelle vicinanze di via D’Amelio perché sarebbero state raggiunte dall’onda d’urto. Gli investigatori avevano individuato come possibile base il Castello Utveggio, che sovrasta la città, dove ha sede la scuola di formazione del Cerisdi e dal quale con un binocolo si poteva controllare la strada in cui avvenne la strage. In questo punto di osservazione, secondo Genchi, si sarebbe insediato per un periodo, un gruppo del Sisde. Il funzionario fa notare alla Corte che nei tabulati di Scotto, l’esperto di telefonia poi assolto, risulta la chiamata a un numero telefonico intestato al Cerisdi.