I misteri di una strage – di A. BOLZONI e F. TROTTA
Quello che una sentenza di Corte di Assise definisce «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana» non è ancora un caso chiuso e destinato agli archivi. A ventisette anni dall’esplosivo che ha fatto saltare in aria il procuratore Paolo Borsellino e i cinque poliziotti che erano intorno a lui (i loro nomi: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina) c’è qualcosa di sempre più oscuro che affiora dal passato e che fa molta paura.
Per esempio: “Soggetti inseriti negli apparati dello Stato” indussero il falso pentito Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni sulla strage. E poi: a quelle indaginii – (“Richiesta di collaborazione decisamente irrituale”) – parteciparono su invito del procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra agenti dei servizi segreti guidati da quel Bruno Contrada che, qualche mese dopo, sarebbe stato arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa. E ancora: il bersaglio del massacro, Paolo Borsellino, non fu mai ascoltato dalla magistratura che investigava su Capaci durante quei 57 giorni che separarono la sua uccisione da quella del giudice Giovanni Falcone.
Ma leggendo le 1856 pagine della sentenza del cosiddetto Borsellino quater (presidente della Corte Antonio Balsano, giudice a latere Janos Barlotti, pubblici ministeri dell’inchiesta i procuratori Amedeo Bertone, Gabriele Paci e Stefano Luciani) ci sono tracce che orientano verso altri misteri e ci sono piste che dirigono al cuore dello Stato.
In questa serie del Blog abbiamo selezionato (e sintetizzato per ovvie ragioni di spazio) brani della sentenza e alcune testimonianze – scegliendo le più significative dal processo – per ricostruire l’intero affaire.
Si intravedono “suggeritori” e “talpe”, mandanti ed esecutori di un’inchiesta pilotata per trasportare lontano. A giudizio ci sono già tre poliziotti come Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di depistaggio e con il Ministero dell’Interno che ha deciso di non costiturisi parte civile contro di loro.
Sotto indagine per concorso in calunnia aggravato dall’avere favorito Cosa Nostra sono finiti anche gli ex pm di Caltanissetta Annamaria Palma (che è avvocato generale a Palermo) e Carmelo Petralia (che è procuratore aggiunto a Catania), tutti e due nel 1992 in quel pool di magistrati che stava indagando sulla strage di via D’Amelio. Fra le motivazioni della sentenza del Borsellino quater c’è più di un passaggio che punta il dito contro la magistratura del tempo: «Un insieme di fattori avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni di Scarantino, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata».
Indagini molto complesse. Indagini sulle precedenti indagini. Con un pezzo di Stato alla ricerca della verità e un pezzo di Stato che la verità ha cercato di coprirla. E in mezzo il dolore e le grida dei familiari. Come quelle di Fiammetta Borsellino: «Il silenzio degli uomini delle istituzioni è peggio dell’omertà dei mafiosi».
Paolo Borsellino non voleva “trattare”
A quanto sopra osservato deve aggiungersi che le anomalie nell’attività di indagine continuarono anche nel corso della “collaborazione” dello Scarantino, caratterizzata da una serie impressionante di incongruenze, oscillazioni e ritrattazioni (seguite persino dalla “ritrattazione della ritrattazione”, e da una nuova ritrattazione successiva alle dichiarazioni dello Spatuzza), che sono state puntualmente descritte nella memoria conclusiva del Pubblico Ministero.
Questo insieme di fattori avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni dello Scarantino, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata, incentrate su quello che veniva, giustamente, definito il “metodo Falcone”.
Non a caso, già gli «appunti di lavoro per la riunione della D.D.A. del 13.10.94», predisposti dalla Dott.ssa Ilda Boccassini e dal Dott. Roberto Saieva», segnalavano che «l’inattendibilità delle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo in ordine alla partecipazione alla strage di Via D’Amelio (…) di Cancemi, La Barbera e Di Matteo (ma anche di Ganci Raffaele) suggerisce di riconsiderare il tema della attendibilità generale di tale collaboratore».
L’adozione di un metodo di valutazione della prova capace di unire i criteri di razionalità con la comprensione profonda dei fenomeni sociali ha condotto la Corte di Assise di Caltanissetta, nella sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo n. 29/97 R.G.C.Ass. (c.d. “Borsellino ter”), a ritenere che allo Scarantino facesse difetto «non tanto la qualifica formale di “uomo d’onore” e una combinazione rituale con santina e pungiuta, quanto un effettivo inserimento in “Cosa Nostra”»; a considerare «scarsamente attendibili le dichiarazioni rese da Vincenzo SCARANTINO in ordine alla preparazione della strage di via D’Amelio» sulla base del rilievo che «fin dal primo interrogatorio egli ha riferito almeno due circostanze assolutamente non credibili: la ricerca di una “bombola” da far esplodere per realizzare l’attentato e la riunione nella villa del CALASCIBETTA»; a riconoscere che «nel loro complesso le dichiarazioni rilasciate dallo SCARANTINO in tutto l’arco della sua tormentata “collaborazione” con l’Autorità Giudiziaria vanno incontro a una valutazione sostanzialmente negativa sotto vari profili, alla luce dei criteri di giudizio dettati dalla Corte di Cassazione tanto per l’apprezzamento sull’attendibilità delle dichiarazioni costituenti chiamata in correità, quanto per la valutazione dell’attendibilità soggettiva del chiamante»; a segnalare che «il contenuto delle dichiarazioni appare spesso poco verosimile, alla luce delle regole di comune esperienza, oltre che assolutamente incostante; le giustificazioni addotte volta per volta appaiono poco credibili ed alcune volte molto ingenue; infine, il contenuto delle dichiarazioni ha conosciuto una significativa evoluzione nel tempo, venendo accresciuta la loro compatibilità con quanto emerso per altra via dalle indagini»; a esplicitare che «inoltre, le dichiarazioni dello SCARANTINO che non appaiono ictu oculi incredibili, per altro aspetto non appaiono genuine, perché gravemente sospette di essere state attinte addirittura dalla stampa o dalle ordinanze di custodia cautelare, o comunque apprese durante le indagini, perché acquisite dagli inquirenti per altra via e poi condite con un limitato bagaglio di conoscenza diretta maturato nell’ambiente delinquenziale e mafioso della Guadagna»; e, conclusivamente, a ritenere «che delle dichiarazioni rese da Vincenzo SCARANTINO non si debba tenere alcun conto per la ricostruzione dei fatti e la valutazione delle responsabilità in ordine alla strage di via D’Amelio».
La tendenza che invece prevalse, nell’attività giudiziaria e in quella investigativa, fu ben diversa. Si è già visto come le dichiarazioni dello Scarantino abbiamo costituito il fondamento per la condanna all’ergastolo, pronunciata con sentenze passate in giudicato, nei confronti di Profeta Salvatore, Scotto Gaetano, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano ed Urso Giuseppe. A ciò deve aggiungersi che le indagini successive alla “collaborazione” dello Scarantino furono contrassegnate da numerosi profili del tutto singolari ed anomali.
Assolutamente anomala appare, ad esempio, la circostanza che il Dott. Arnaldo La Barbera abbia richiesto dal 4 al 13 luglio 1994 altrettanti colloqui investigativi con lo Scarantino, detenuto presso il carcere di Pianosa, nonostante il fatto che egli già collaborasse con la giustizia.
Una evidente anomalia è riscontrabile pure nelle condotte poste in essere da alcuni degli appartenenti al “Gruppo Falcone-Borsellino” della Polizia di Stato, i quali, mentre erano addetti alla protezione dello Scarantino nel periodo in cui egli dimorava a San Bartolomeo a Mare con la sua famiglia, dall’ottobre 1994 al maggio 1995, si prestarono ad aiutarlo nello studio dei verbali di interrogatorio, redigendo una serie di appunti che erano chiaramente finalizzati a rimuovere le contraddizioni presenti nelle dichiarazioni del collaborante, il quale sarebbe stato sottoposto ad esame dibattimentale nei giorni 24 e 25 maggio 1995 nel processo c.d. “Borsellino uno”. Tali appunti sono stati riconosciuti come propri dall’Ispettore Fabrizio Mattei, escusso all’udienza del 27 settembre 2013, il quale ha sostenuto di essersi basato sulle indicazioni dello Scarantino. Risulta però del tutto inverosimile che lo Scarantino, da un lato, avesse un tasso di scolarizzazione così basso da necessitare di un aiuto per la scrittura, e, dall’altro, potesse rendersi conto da solo delle contraddizioni suscettibili di inficiare la credibilità delle sue dichiarazioni in sede processuale. A ciò si aggiungono ulteriori aspetti decisamente singolari segnalati da alcune parti civili.
Va quindi sottolineata la particolare pervicacia e continuità dell’attività di determinazione dello Scarantino a rendere false dichiarazioni accusatorie, con la elaborazione di una trama complessa che riuscì a trarre in inganno anche i giudici dei primi due processi sulla strage di Via D’Amelio, così producendo drammatiche conseguenze sulla libertà e sulla vita delle persone incolpate.
Poiché l’attività di determinazione così accertata ha consentito di realizzare uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana, è lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento:
– alla copertura della presenza di fonti rimaste occulte, che viene evidenziata dalla trasmissione ai finti collaboratori di giustizia di informazioni estranee al loro patrimonio conoscitivo ed in seguito rivelatesi oggettivamente rispondenti alla realtà;
– ai collegamenti con la sottrazione dell’agenda rossa che Paolo Borsellino aveva con sé al momento dell’attentato e che conteneva una serie di appunti di fondamentale rilevanza per la ricostruzione dell’attività da lui svolta nell’ultimo periodo della sua vita, dedicato ad una serie di indagini di estrema delicatezza e alla ricerca della verità sulla strage di Capaci;
– alla eventuale finalità di occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra “Cosa Nostra” e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del Magistrato.
In proposito, va osservato che un collegamento tra il depistaggio e l’occultamento dell’agenda rossa di Paolo Borsellino è sicuramente desumibile dalla identità di taluno dei protagonisti di entrambe le vicende: si è già sottolineato il ruolo fondamentale assunto, nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia, dal Dott. Arnaldo La Barbera, il quale è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa, come è evidenziato dalla sua reazione – connotata da una inaudita aggressività – nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre.
L’indagine sulle reali finalità del depistaggio non può, poi, prescindere dalla considerazione sia delle dichiarazioni di Antonino Giuffrè (il quale ha riferito che, prima di passare all’attuazione della strategia stragista, erano stati effettuati “sondaggi” con “persone importanti” appartenenti al mondo economico e politico, ha precisato che questi “sondaggi” si fondavano sulla “pericolosità” di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa ma anche per i suoi legami con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a “fare affari” con essa, ha ricondotto a tale contesto l’isolamento – anche nell’ambito giudiziario – che portò all’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e ha chiarito che la stessa strategia terroristica di Salvatore Riina traeva la sua forza dalla previsione – rivelatasi poi infondata – che passato il periodo delle stragi si sarebbe ritornati alla “normalità”), sia delle circostanze confidate da Paolo Borsellino alle persone e lui più vicine nel periodo che precedette la strage di Via D’Amelio. Vanno richiamati, al riguardo, gli elementi probatori già analizzati nel capitolo VI. Un particolare rilievo assumono, in questo contesto, la convinzione, espressa da Paolo Borsellino alla moglie Agnese Piraino proprio il giorno prima della strage di Via D’Amelio, «che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, (…) ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere», e la drammatica percezione, da parte del Magistrato, dell’esistenza di un «colloquio tra la mafia e parti infedeli dello stato».
Occorre, altresì, tenere conto degli approfonditi rilievi formulati nella sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo n. 29/97 R.G.C.Ass. (c.d. “Borsellino ter”) secondo cui «risulta quanto meno provato che la morte di Paolo BORSELLINO non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare – cumulando i suoi effetti con quelli degli altri delitti eccellenti – una forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica. (…) E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come BORSELLINO avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con COSA NOSTRA e di arretramento nell’attività di contrasto alla mafia, levandosi a denunciare anche pubblicamente, dall’alto del suo prestigio professionale e della nobiltà del suo impegno civico, ogni cedimento dello Stato o di sue componenti politiche».
Questa Corte ritiene quindi doveroso, in considerazione di quanto è stato accertato sull’attività di determinazione realizzata nei confronti dello Scarantino, del complesso contesto in cui essa viene a collocarsi, e delle ulteriori condotte delittuose emerse nel corso dell’istruttoria dibattimentale (tra cui proprio quella della sottrazione dell’agenda rossa), di disporre la trasmissione al Pubblico ministero, per le eventuali determinazioni di sua competenza, dei verbali di tutte le udienze dibattimentali, le quali possono contenere elementi rilevanti per la difficile ma fondamentale opera di ricerca della verità nella quale la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta è impegnata
Il misterioso “Rutilius”
Nel periodo immediatamente anteriore alla trasmissione alla Squadra Mobile di Caltanissetta della suddetta nota del SISDE relativa allo Scarantino, quest’ultimo era stato destinatario di una intensa attività investigativa condotta dal Dott. Arnaldo La Barbera (il quale, peraltro, a sua volta, aveva intrattenuto un rapporto di collaborazione “esterna” con il SISDE dal 1986 al marzo 1988, con il nome in codice “Rutilius”, mentre dirigeva la Squadra Mobile di Venezia).
Sulla base di tale attività investigativa, lo Scarantino era stato raggiunto da una ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa in data 26 settembre 1992 dal GIP presso il Tribunale di Caltanissetta per concorso nella strage di via D’Amelio e nei reati connessi. Gli elementi indiziari a suo carico erano costituiti dalle dichiarazioni rese da due soggetti che avevano indicato in lui la persona che aveva commissionato e ricevuto la Fiat 126 utilizzata per la strage. Si trattava, precisamente, delle dichiarazioni di Luciano Valenti e Salvatore Candura, nelle quali il Pubblico Ministero, nella sua memoria conclusiva, ha individuato «la scaturigine del depistaggio».
Luciano Valenti e Salvatore Candura, insieme al fratello del primo, Roberto Valenti, erano stati sottoposti alla misura della custodia cautelare in carcere in esecuzione di un’ordinanza emessa il 2 settembre 1992 dal GIP presso il Tribunale di Palermo per i reati di violenza carnale e di rapina, commessi il 29/8/1992. I loro nominativi erano stati precedentemente posti all’attenzione degli inquirenti dalle conversazioni intercettate sull’utenza telefonica in uso a Valenti Pietrina, alla quale, come si è detto, era stata sottratta l’autovettura Fiat 126 utilizzata per la strage. Tra l’altro, la Valenti, nel corso della conversazione delle ore 23,14 del 30 luglio 1992, commentando le immagini televisive del luogo della strage di via D’Amelio con Sbigottiti Paola, moglie di Valenti Luciano, aveva pronunciato la frase: “ed in quel posto la mia macchina c’è….”. In una successiva telefonata delle ore 00,05 dell’1 agosto 1992, le due donne avevano esternato sospetti nei confronti di Salvatore, amico di Valenti Luciano, quale possibile autore del furto della Fiat 126. Tale soggetto venne identificato in Salvatore Candura.
Quest’ultimo, quando era stato tratto in arresto in esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare emessa il 2 settembre 1992 dal GIP presso il Tribunale di Palermo per i reati di violenza carnale e di rapina, ed era stato quindi condotto presso gli uffici della Squadra Mobile, aveva lamentato di aver ricevuto minacce e di essere preoccupato perché aveva avuto modo di notare persone sospette nei pressi della propria abitazione. Tale comportamento era apparso strano agli inquirenti, che lo avevano ricollegato all’atteggiamento tenuto dallo stesso Candura alcuni giorni prima, allorché, accompagnato presso una Caserma dei Carabinieri per essere denunciato per tentata rapina ai danni di un autotrasportatore, piangendo, aveva profferito la frase “…non li ho uccisi io…” (cfr. la informativa di reato del 19 ottobre 1992 della Squadra Mobile della Questura di Palermo). Il 12 settembre 1992 il Dott. Arnaldo La Barbera, nella qualità di Dirigente della Squadra Mobile di Palermo, venne autorizzato dal Pubblico Ministero presso il Tribunale di Palermo ad effettuare un colloquio investigativo con i detenuti Candura Salvatore e Valenti Luciano.
Il giorno successivo, 13 settembre 1992, Salvatore Candura fu interrogato dal Pubblico Ministero di Caltanissetta, al quale riferì che nei primi giorni del mese di luglio 1992 Luciano Valenti gli aveva comunicato che il loro comune amico Vincenzo Scarantino aveva commissionato allo stesso Valenti il furto di un’autovettura di piccola cilindrata, il quale avrebbe dovuto essere eseguito quella sera stessa, e per compensarlo gli aveva dato la somma di 150.000 lire; il Valenti aveva aggiunto che si sarebbe impossessato della Fiat 126 della propria sorella, Pietrina Valenti. Il Candura affermò di essere a conoscenza che l’autovettura, quella stessa sera, era stata trafugata e quindi parcheggiata in una strada nei pressi di Via Cavour, per essere poi consegnata alle persone che ne avevano bisogno. Il Candura riferì inoltre che cinque o sei giorni dopo la data del furto era stato contattato da Pietrina Valenti, la quale gli aveva detto che nella notte precedente le avevano rubato la sua autovettura Fiat 126. Alla discussione aveva assistito Luciano Valenti, che aveva invitato il Candura a uscire insieme a lui per cercare l’autovettura, ed aveva quindi finto di attivarsi in tal senso. Il Candura segnalò di avere avuto dei sospetti sulla possibilità che la suddetta Fiat 126 fosse stata utilizzata per la strage di Via D’Amelio, e di averne quindi parlato con Luciano Valenti, il quale però lo aveva rassicurato incitandolo a tenere un comportamento indifferente rispetto a questa circostanza. Egli inoltre sostenne di aver visto, qualche giorno prima del furto della Fiat 126, lo Scarantino parlare con uno dei fratelli Tagliavia, titolare di una rivendita di pesce in via Messina Marine. A sua volta, Luciano Valenti, dopo avere negato ogni propria responsabilità in data 17 settembre 1992 sia in sede di interrogatorio di garanzia, sia in sede di confronto con il Candura, in data 20 settembre 1992 finì per cedere alle pressioni di quest’ultimo e rese al Pubblico Ministero presso il Tribunale di Caltanissetta un interrogatorio in cui affermava di avere sottratto l’autovettura su incarico di Vincenzo Scarantino, di avere ricevuto la somma di 150.000 lire come compenso, e di avere consegnato il veicolo nei pressi di Via Cavour.
In data 26 settembre 1992 venne quindi emessa la suddetta ordinanza di custodia cautelare in carcere a carico dello Scarantino, che nell’interrogatorio di garanzia del 30 settembre 1992 sostenne la propria innocenza, negando di conoscere Luciano Valenti e precisando di conoscere solo di vista Salvatore Candura, suo vicino di casa.
Lo Scarantino venne quindi trasferito, in data 2 ottobre 1992, presso il carcere di Venezia, dove venne collocato nella stessa cella di Vincenzo Pipino, un trafficante di opere d’arte che il Dott. Arnaldo La Barbera aveva conosciuto nel periodo in cui aveva prestato servizio presso la Squadra Mobile di Venezia, e che aveva quindi pensato di utilizzare come una sorta di “agente provocatore” allo scopo di sollecitare e raccogliere le confidenze dello Scarantino. All’interno della cella dove si trovavano lo Scarantino e il Pipino venne anche attivato un servizio di intercettazione, che però non diede risultati significativi. A proposito delle conversazioni intercorse fra lo Scarantino e il Pipino, la sentenza n. 1/1996 emessa in data 27 gennaio 1996 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo c.d. “Borsellino uno” ha rilevato che «trattasi in prevalenza di lunghi soliloqui in quanto è soltanto il Pipino a parlare, mentre il suo interlocutore non profferisce parola o accenna solamente qualche frase, il più delle volte incomprensibile», e ha evidenziato che il tenore dei colloqui «tradisce all’evidenza che il Pipino è un confidente della Polizia che era stato collocato nella stessa cella dello Scarantino allo scopo di provocarne e raccoglierne le confidenze in merito ai fatti di strage per cui è processo. All’uopo, infatti, il Pipino si adopera, spiegando allo Scarantino le accuse elevate nei suoi confronti, le incongruenze delle discolpe da lui addotte, i rischi connessi alla sua attuale posizione processuale, cercando nel contempo di sollecitarne le confidenze, prospettandogli possibili e più valide strategie difensive».
Nel frattempo, invece, il Candura modificava la propria versione dei fatti. Egli, nell’interrogatorio reso il 3 ottobre 1992 davanti al Pubblico Ministero presso il Tribunale di Caltanissetta, sostenne di essersi reso autore, nei primi giorni del precedente mese di luglio, del furto della Fiat 126 di Pietrina Valenti, commissionatogli dello Scarantino, e aggiunse di aver tentato di far ricadere su Luciano Valenti la responsabilità del furto per paura delle gravi rappresaglie che lo Scarantino avrebbe potuto mettere in atto nei suoi confronti. Lo Scarantino, nell’incaricarlo di reperire un’autovettura di piccola cilindrata, non importava in quali condizioni, purché marciante, gli aveva consegnato uno “spadino” (chiave artificiosa per aprire la portiera) e la somma di lire 150.000 in acconto sul maggiore compenso promesso di lire 500.000. In effetti il Candura, profittando dei rapporti di buona conoscenza intercorrenti con Pietrina Valenti (sorella dell’amico Luciano Valenti), che sapeva essere in possesso di una autovettura del tipo richiesto dallo Scarantino, aveva sottratto la Fiat 126 della donna, consegnandola nella stessa serata allo Scarantino nelle vicinanze di Via Cavour, all’angolo tra via Roma e un’altra traversa.
Il Candura inoltre affermò che, dopo avuto notizia dai giornali e dalla televisione dell’avvenuta utilizzazione di una Fiat 126 quale autobomba per la strage di Via D’Amelio, si era recato in più occasioni dallo Scarantino per essere rassicurato circa il fatto che l’autovettura da lui rubata non fosse servita per commettere il delitto, ma a tali richieste lo Scarantino si era visibilmente alterato, intimandogli di dimenticare tutto e di non parlarne con nessuno. Dopo tali incontri aveva ricevuto delle telefonate minatorie che avevano rafforzato il sospetto iniziale, tanto che si era nuovamente rivolto allo Scarantino, che riteneva essere l’autore delle telefonate, suscitandone però altre reazioni negative. trattava del primo interrogatorio reso dal Candura dopo che, in data 19 settembre 1992 il Dott. Vincenzo Ricciardi, della Squadra Mobile di Palermo, era stato autorizzato dal Pubblico Ministero presso il Tribunale di Palermo ad effettuare colloqui investigativi con lui.
Anche a fronte di queste nuove dichiarazioni del Candura lo Scarantino continuò a protestare la propria innocenza, negando, negli interrogatori resi tra il 1992 e il 1993 davanti al Pubblico Ministero presso il Tribunale di Caltanissetta, la veridicità delle accuse mossegli.
Lo Scarantino in data 13/11/1992 venne trasferito dal carcere di Venezia alla Casa Circondariale di Busto Arsizio, dove rimase ristretto prima nella Sezione dove si trovavano i detenuti sottoposti al regime dell’art. 41 bis O.P., e poi in una cella singola, con regime di completo isolamento e di stretta sorveglianza; non gli era consentito neppure di vedere la televisione, e poteva effettuare un solo colloquio al mese con i propri familiari. Egli cadde quindi in uno stato di depressione, rendendosi protagonista di reiterati gesti di autolesionismo (cfr. la sentenza n. 1/1996 emessa in data 27 gennaio 1996 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo c.d. “Borsellino uno”). Nell’interrogatorio reso il 6 maggio 1993 al Pubblico Ministero di Caltanissetta, lo Scarantino, oltre a contestare le accuse mossegli, segnalava il proprio stato di prostrazione morale che lo aveva indotto a un tentativo di suicidio, esplicitava di non sopportare più lo stato di isolamento, e sottolineava che altri detenuti in particolare, un ex agente di custodia e il pentito Caravelli Roberto lo sollecitavano a confessare delitti da lui non commessi.
Dal 3 giugno 1993, la cella contigua a quella dello Scarantino venne occupata da Francesco Andriotta, il quale rimase nel medesimo reparto del carcere di Busto Arsizio fino al 23 agosto successivo. In data 14 settembre 1993, Francesco Andriotta iniziò la propria “collaborazione” con l’Autorità Giudiziaria, che forma oggetto di specifica trattazione in altro capitolo. In questa sede, è sufficiente rammentare che già nell’interrogatorio reso nella suddetta data al Pubblico Ministero, dott.ssa Ilda Boccassini, l’Andriotta iniziò a riferire su una serie di confidenze che lo Scarantino gli avrebbe fatto durante il periodo di comune detenzione.
Secondo il racconto dell’Andriotta, lo Scarantino gli aveva confidato di avere effettivamente commissionato al Candura, su richiesta di un proprio parente (un cognato o fratello), il furto della Fiat 126 poi utilizzata nella strage di Via D’Amelio. L’autovettura da sottrarre doveva essere di colore bordeaux, perché anche sua sorella, Ignazia Scarantino, ne possedeva una dello stesso colore, e quindi, se qualcuno lo avesse visto durante gli spostamenti della vettura, non avrebbe nutrito alcun sospetto. Il Candura aveva sottratto la Fiat 126 di proprietà della sorella di Luciano Valenti, il quale la aveva portata nel posto stabilito, dove lo Scarantino la aveva presa in consegna, provvedendo a ricoverarla in un garage, diverso da quello dove la stessa era stata, successivamente, imbottita d’esplosivo. Infine, lo Scarantino aveva portato il veicolo dal garage alla via D’Amelio.
A dire dell’Andriotta, lo Scarantino gli aveva altresì riferito «che l’auto non funzionava e che venne trainata fino al garage», che «l’auto venne quindi riparata così da renderla funzionante», che «furono cambiate le targhe con quelle di un altro 126», e che «avevano tardato a denunciare il furto dell’auto o delle targhe al lunedì successivo all’esplosione giustificando tale ritardo con il fatto che il garage era rimasto chiuso».
Diversamente da tutto il resto del racconto dell’Andriotta, queste ultime circostanze corrispondono perfettamente alla realtà: come si è visto nel capitolo relativo alla ricostruzione della fase esecutiva della strage, è rimasto inequivocabilmente accertato, nel presente procedimento, che la Fiat 126 presentava problemi meccanici, che vi fu la necessità di trainarla subito dopo il furto, che si provvide alla sua riparazione e alla sostituzione delle targhe, che la denuncia del furto delle targhe venne effettuata nel lunedì successivo alla strage.
Trattandosi di circostanze che mai lo Scarantino avrebbe potuto riferirgli, per la semplice ragione che non aveva avuto alcun ruolo nell’esecuzione della strage, deve necessariamente ammettersi una ricezione, da parte dell’Andriotta, di suggerimenti provenienti dagli inquirenti o da altri funzionari infedeli, i quali, a loro volta, avevano tratto le relative informazioni, almeno in parte, da altre fonti rimaste occulte. Tale inquinamento si era già realizzato al momento in cui ebbe inizio la “collaborazione” dell’Andriotta con la giustizia.
Nei successivi interrogatori, l’Andriotta aggiunse ulteriori particolari, arricchendo progressivamente il contenuto delle confidenze che sosteneva di avere ricevuto dallo Scarantino.
Ad esempio, nell’interrogatorio reso il 4 ottobre 1993 nel carcere di Milano Opera al Pubblico Ministero, dott.ssa Ilda Boccassini, l’Andriotta sostenne di avere appreso dallo Scarantino che colui che gli aveva commissionato il furto dell’automobile da utilizzare per la strage era Salvatore Profeta, motivò l’iniziale reticenza, a tale riguardo, con la paura di menzionare un personaggio d’elevato spessore criminale, e specificò che il ritardo nella denuncia di furto al lunedì successivo la strage riguardava le targhe apposte alla Fiat 126.
In occasione dell’interrogatorio del 25 novembre 1993, inoltre, l’Andriotta affermò che nel momento in cui arrivava l’esplosivo o quando lo stesso veniva trasferito sulla Fiat 126 era presente anche Salvatore Profeta. In occasione dell’interrogatorio del 17 gennaio 1994, l’Andriotta aggiunse che, dopo la strage di via D’Amelio, il Candura aveva cercato, più volte, lo Scarantino, per sapere se l’autovettura utilizzata per l’attentato era proprio quella rubata da lui; ma lo Scarantino lo aveva trattato in malo modo, intimandogli di non fargli più domande sul punto, e facendogli fare anche una telefonata minatoria, vista l’insistenza del Candura.
E’ dunque evidente, nelle dichiarazioni dell’Andriotta, un significativo adeguamento al racconto – parimenti falso – esposto dal Candura. Si noti, peraltro, che nella stessa data del suddetto interrogatorio, avvenuto il 17 gennaio 1994, l’Andriotta ebbe un colloquio investigativo con il Dott. Arnaldo La Barbera.
Frattanto, anche lo Scarantino, trasferito presso la Casa Circondariale di Pianosa, ebbe in tale luogo una serie di colloqui investigativi: rispettivamente, il 20 dicembre 1993 con il Dott. Mario Bo’ (funzionario di polizia inserito nel gruppo “Falcone-Borsellino”), il 22 dicembre 1993 con il Dott. Arnaldo La Barbera, il 2 febbraio 1994 con il Dott. Mario Bo’ e il 24 giugno 1994 con il Dott. Arnaldo La Barbera. In quest’ultima data lo Scarantino (il quale fino all’interrogatorio reso il 28 febbraio 1994 alla Dott.ssa Boccassini aveva protestato la propria innocenza) iniziò la propria “collaborazione” con l’autorità giudiziaria, con le modalità già indicate, confermando largamente il falso contenuto delle dichiarazioni precedentemente rese dal Candura e dall’Andriotta, ed aggiungendo ulteriori tasselli al mosaico.
A sua volta, l’Andriotta, negli interrogatori resi il 16 settembre ed il 28 ottobre 1994 nel carcere di Paliano (dove risultano documentati, nelle medesime date, altrettanti accessi del Dott. Mario Bo’), adeguandosi in gran parte alle dichiarazioni rese dallo Scarantino dopo la scelta “collaborativa”, riferì, per la prima volta, sulle confidenze fattegli da quest’ultimo sulla riunione di Villa Calascibetta, asseritamente taciute per timore sino ad allora.
L’analisi che si è condotta sulla genesi della “collaborazione” con la giustizia del Candura, dell’Andriotta e dello Scarantino, lascia emergere una costante: in tutti e tre i casi, le dichiarazioni da essi rese, radicalmente false nel loro insieme, ricomprendevano alcune circostanze oggettivamente vere, che dovevano essere state suggerite loro dagli inquirenti o da altri funzionari infedeli, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte.
Altrettanto significativa è la circolarità venutasi a creare tra il contributo dichiarativo dei tre “collaboranti”, ciascuno dei quali confermava il falso racconto dell’altro, conformandovi progressivamente anche la propria versione dei fatti.
Per lo Scarantino e per il Candura, è rimasto documentalmente confermato che la falsa collaborazione con la giustizia fu preceduta da colloqui investigativi di entrambi con il Dott. La Barbera, e del primo anche con il Dott. Bo’. Un colloquio investigativo del Dott. La Barbera precedette anche un successivo interrogatorio dell’Andriotta contenente un significativo adeguamento al racconto – parimenti falso – esposto dal Candura. A sua volta, il Dott. Ricciardi effettuò un ulteriore colloquio investigativo che precedette un consistente mutamento del contributo dichiarativo offerto dal Candura. Dunque, anche a prescindere dalle affermazioni compiute dallo Scarantino nel corso del suo esame dibattimentale (la cui valenza probatoria può effettivamente reputarsi controversa, considerando le continue oscillazioni da cui è stato contrassegnato il suo contributo processuale nel corso del tempo), e dalle indicazioni (decisamente generiche, oltre che de relato) offerte da alcuni collaboratori di giustizia (come Gaspare Spatuzza e Giovanni Brusca) sulle torture subite a Pianosa dallo Scarantino, deve riconoscersi che gli elementi di prova raccolti valgono certamente a che il proposito di rendere dichiarazioni calunniose venne ingenerato in lui da una serie di attività compiute da soggetti, come i suddetti investigatori, che si trovavano in una situazione di supremazia idonea a creare una forte soggezione psicologica. Era questa senza alcun dubbio la posizione dello Scarantino, un soggetto psicologicamente debole che era rimasto per un lungo periodo di tempo (quasi un anno e nove mesi) in stato di custodia cautelare proprio a seguito delle false dichiarazioni rese dal Candura sul suo conto, ed era stato, frattanto, oggetto di ulteriori propalazioni, parimenti false, da parte dell’Andriotta, il quale millantava di avere ricevuto le sue confidenze durante la co-detenzione. Egli quindi, come ha evidenziato il Pubblico Ministero, aveva «maturato la convinzione che gli inquirenti lo avessero ormai “incastrato” sulla scorta di false prove». Dopo un lungo periodo nel quale lo Scarantino aveva professato inutilmente la propria innocenza, le sue residue capacità di reazione vennero infine meno a fronte dell’insorgenza di un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, i quali esercitarono in modo distorto i loro poteri con il compimento di una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni e nell’agevolazione di una impropria circolarità tra i diversi contributi dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà se non per la esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la vera fonte. Si tratta, pertanto, di una situazione nella quale è indubbiamente configurabile la circostanza attenuante dell’art. 114 comma terzo c.p., che, come chiarito dalla giurisprudenza, prevede una diminuzione di pena per il soggetto “determinato” a commettere il reato, proprio in forza dell’opera di condizionamento psicologico da lui subita
Le indagini affidate agli 007
Alla luce degli elementi di prova raccolti nel corso dell’istruttoria dibattimentale, questa Corte ritiene che allo Scarantino debba essere concessa la circostanza attenuante di cui all’art. 114 comma terzo c.p., che si riferisce «all’ipotesi di colui che sia stato determinato a commettere il reato ed a cooperarvi sempre che ricorra o la fattispecie contemplata dall’art 112 n. 3 di chi nell’esercizio della sua autorità, direzione o vigilanza ha determinato a commettere il reato persone ad esso soggette, o quella prevista dal numero 4 dello stesso articolo: cioè di determinazione al reato di persona in stato di infermità o di deficienza psichica» (Cass., Sez. II, n. 1696/1976 del 31/10/1975, Rv. 132226).
Deve, infatti, ritenersi che lo Scarantino sia stato determinato a rendere le false dichiarazioni sopra descritte da altri soggetti, i quali hanno fatto sorgere tale proposito criminoso abusando della propria posizione di potere e sfruttando il suo correlativo stato di soggezione.
Al riguardo, va segnalato un primo dato di rilevante significato probatorio: come si è anticipato, le dichiarazioni dello Scarantino, pur essendo sicuramente inattendibili, contengono alcuni elementi di verità.
Sin dal primo interrogatorio reso dopo la manifestazione della sua volontà di “collaborare” con la giustizia, in data 24 giugno 1994, lo Scarantino ha affermato che l’autovettura era stata rubata mediante la rottura del bloccasterzo, e ha menzionato l’avvenuta sostituzione delle targhe del veicolo. Nel successivo interrogatorio del 29 giugno 1994 egli ha specificato che, essendo stato rotto il bloccasterzo dell’autovettura, il contatto veniva stabilito collegando tra loro i fili dell’accensione. Nelle sue successive deposizioni, lo Scarantino ha sostenuto che la Fiat 126 era stata spinta al fine di entrare nella carrozzeria (circostanza, questa, che presuppone logicamente la presenza di problemi meccanici tali da determinare la necessità di trainare il veicolo). Egli, inoltre, ha aggiunto di avere appreso che sull’autovettura erano state applicate le targhe di un’altra Fiat 126, prelevate dall’autocarrozzeria dello stesso Orofino, e che quest’ultimo aveva presentato nel lunedì successivo alla strage la relativa denuncia di furto.
Si tratta di un insieme di circostanze del tutto corrispondenti al vero ed estranee al personale patrimonio conoscitivo dello Scarantino, il quale non è stato mai coinvolto nelle attività relative al furto, al trasporto, alla custodia e alla preparazione dell’autovettura utilizzata per la strage. E’ quindi del tutto logico ritenere che tali circostanze siano state a lui suggerite da altri soggetti, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte.
Questa conclusione è rafforzata da una ulteriore elemento, cui ha fatto riferimento il Pubblico Ministero nella sua requisitoria e nell’esame del Dott. Contrada, svolto all’udienza del 23 ottobre 2014: si tratta, precisamente, dell’appunto con cui in data 13 agosto 1992 il Centro SISDE di Palermo comunicò alla Direzione di Roma del SISDE che «in sede di contatti informali con inquirenti impegnati nelle indagini inerenti alle recenti note stragi perpetrate in questo territorio, si è appreso in via ufficiosa che la locale Polizia di Stato avrebbe acquisito significativi elementi informativi in merito all’autobomba parcheggiata in via D’Amelio, nei pressi dell’ingresso dello stabile in cui abita la madre del Giudice Paolo Borsellino. (…) In particolare, dall’attuale quadro investigativo emergerebbero valide indicazioni per l’identificazione degli autori del furto dell’auto in questione, nonché del luogo in cui la stessa sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato».
In proposito, il Pubblico Ministero ha persuasivamente osservato che «non è dato comprendere come, a quella data (13.8.1992), pur successiva alle conversazioni telefoniche intercettate sull’utenza in uso alla VALENTI Petrina, gli investigatori avessero potuto acquisire – se non in via meramente confidenziale – notizie “sul luogo” in cui l’autovettura rubata era stata custodita. Vi era dunque una traccia in tale direzione che gli inquirenti palermitani si apprestavano a seguire ben prima del comparire sulla scena del CANDURA, prima fonte di accusa nella direzione della Guadagna. Quale fosse tale fonte nessuno ha saputo o voluto rivelarla. Residua allora il dubbio che gli inquirenti tanto abbiano creduto a quella fonte, mai resa ostensibile, da avere poi operato una serie di forzature per darle dignità di prova facendo leva sulla permeabilità di un soggetto facilmente “suggestionabile”, incapace di resistere alle sollecitazioni, alle pressioni, ricattabile anche solo accentuando il valore degli elementi indiziari emersi a suo carico in ordine alla vicenda di Via D’Amelio o ad altre precedenti vicende delittuose (in particolare alcuni omicidi) con riguardo alle quali egli era al tempo destinatario di meri sospetti».
La particolare attenzione rivolta allo Scarantino dai servizi di informazione, nei mesi immediatamente successivi alla strage, è ulteriormente dimostrata da alcuni elementi probatori raccolti nel processo c.d. “Borsellino uno”. In particolare, la sentenza n. 1/1996 emessa in data 27 gennaio 1996 dalla Corte di Assise di Caltanissetta all’esito del primo grado di giudizio ha sottolineato quanto segue:
«La piena operatività dello Scarantino Vincenzo in ambito delinquenziale, la sua appartenenza ad un nucleo familiare notoriamente inserito nel contesto criminale della Guadagna erano peraltro dati già acquisiti al patrimonio conoscitivo dei Servizi di informazione e degli Organi Inquirenti anteriormente al coinvolgimento dell’imputato nei fatti per cui è processo.
Il teste dr. Finocchiaro Mario, che all’epoca delle stragi rivestiva le funzioni di Dirigente della Squadra Mobile di Caltanissetta, ha riferito in dibattimento di aver trasmesso alla Procura Distrettuale in sede una informativa riservata del SISDE pervenuta al suo ufficio, nella quale si segnalavano i rapporti di parentela e affinità di taluni componenti della famiglia Scarantino con esponenti delle famiglie mafiose palermitane, i precedenti penali e giudiziari rilevati a carico dello Scarantino Vincenzo e dei suoi più stretti congiunti.
Si evidenziava in particolare nella nota in questione, sul cui contenuto ha dettagliatamente riferito in dibattimento il dr. Finocchiaro Mario, che una sorella di Vincenzo Scarantino, di nome Ignazia, è coniugata con Profeta Salvatore, esponente della cosca di S. Maria di Gesù, una zia paterna, che porta parimenti il nome Ignazia, è sposata con Profeta Domenico, fratello del predetto Salvatore, una cugina paterna, anch’essa di nome Ignazia, è coniugata con Lauricella Maurizio. Il predetto è figlio di Madonia Rosaria, a sua volta figlia di Madonia Francesco, cugino omonimo del noto boss mafioso di Resuttana. Il medesimo Lauricella Maurizio è imparentato, tramite suoi stretti congiunti, con altri esponenti mafiosi della cosca di Corso dei Mille e più specificamente la di lui sorella Giuseppa è sposata con Sinagra Giuseppe, fratello del noto collaboratore di giustizia, un’altra sorella di nome Angela è coniugata con Senapa Pietro, elemento di spicco della suddetta famiglia mafiosa, condannato all’ergastolo nel maxiprocesso di Palermo.
Nella stessa informativa del SISDE venivano ancora richiamati i precedenti penali e giudiziari rilevati a carico dei componenti la famiglia Scarantino. In essa si sottolineava in particolare che i fratelli di Scarantino Vincenzo, Rosario, Domenico, Umberto ed Emanuele, avevano riportato diverse denunce, anche per reati di una certa gravità, quali associazione per delinquere, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, tentato omicidio, detenzione di armi, rapina, furto, ricettazione ed altro; la cognata Gregori Maria Pia, moglie di Scarantino Rosario aveva precedenti per sfruttamento della prostituzione, un’altra cognata Prester Vincenza, coniugata con Scarantino Umberto, aveva precedenti per associazione per delinquere, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti; gli zii paterni Scarantino Alberto e Lorenzo avevano precedenti rispettivamente per lesioni, violazione alla normativa sulle armi, furto e ricettazione; i cugini Gravante Giovanni e Chiazzese Natale avevano precedenti per associazione per delinquere e furto. Si evidenziava infine nella nota in questione che la persona più in vista, sotto il profilo delle capacità criminali e della pericolosità sociale, dell’entourage familiare dello Scarantino Vincenzo era sicuramente il di lui cognato Profeta Salvatore, già denunciato per associazione per delinquere semplice e mafiosa, per estorsione, armi, traffico di stupefacenti ed altri reati minori, implicato nel cd. blitz di Villagrazia e da ultimo nel maxi processo di Palermo».
Come ha rilevato il Pubblico Ministero nella sua requisitoria, tale nota fu trasmessa il 10 ottobre 1992 alla Squadra Mobile di Caltanissetta. Ad essa ha fatto riferimento, nella deposizione resa all’udienza del 23 ottobre 2014, il Dott. Bruno Contrada, che ha spiegato che la stessa fu redatta dal capo del centro SISDE di Palermo su diretta richiesta del Dott. Tinebra, benché non fosse possibile instaurare un rapporto diretto tra i servizi di informazione e la Procura della Repubblica («poi mi fu fatto leggere l’appunto dal direttore del centro, che il dottor Tinebra chiese personalmente al capocentro, al colonnello Ruggeri, un appunto sulla personalità di Vincenzo Scarantino e sui suoi eventuali legami con ambienti della criminalità organizzata, cioè della mafia, e di riferire direttamente a lui tutto questo. Al che il direttore del centro, sapendo bene che non poteva avere questo rapporto diretto con la Procura della Repubblica, chiese l’autorizzazione alla direzione di poter svolgere questa indagine sua, autonoma, su Scarantino»). Dalla deposizione del Dott. Contrada emerge, altresì, una ulteriore iniziativa, decisamente irrituale, del Dott. Tinebra, il quale, già nella serata del 20 luglio 1992, gli chiese di collaborare alle indagini sulle stragi, sebbene egli non rivestisse la qualità di ufficiale di polizia giudiziaria, e nonostante la normativa vigente precludesse al personale dei servizi di informazione e sicurezza di intrattenere rapporti diretti con la magistratura («Io ero a Palermo, dove (…) risiedeva ancora la mia famiglia, nonostante fossi in servizio a Roma, (…) e io spesso venivo giù a Palermo, non dico tutte le settimane, ma perlomeno un paio di volte al mese. Ero in ferie dal 12 luglio e sarei rimasto in ferie fino al primo agosto a Palermo. La sera del 19 luglio… no, forse no la sera, la mattina dopo, il 20 luglio, la mattina, ebbi una telefonata dal dottor Sergio Costa, funzionario di Polizia, commissario di Pubblica Sicurezza, aggregato… nei ruoli del SISDE, quindi faceva servizio al Servizio, al SISDE, ed era il genero del Capo della Polizia Vincenzo Parisi, aveva sposato una delle figlie del Prefetto Parisi, il quale mi dice che per incarico di suo suocero, il Capo della Polizia Parisi, ero pregato di andare dal Procuratore della Repubblica di Caltanissetta, dottor Giovanni Tinebra, che era da pochi giorni immesso nel possesso della carica di Procuratore di Caltanissetta, da pochi giorni, da poco tempo, pochi giorni, che desiderava parlarmi. Nel contempo il dottor Costa mi disse che potevo andare la sera, perché ne aveva già parlato con il Procuratore Tinebra, al Palazzo di Giustizia a Palermo, in un ufficio che gli era stato dato provvisoriamente al dottor Tinebra, alla Procura Generale presso la Corte di Appello di Palermo, un ufficio dove lui aveva questi primi contatti, perché doveva occuparsi di questa strage, come già si occupava Caltanissetta della strage di Capaci, Falcone. Ed io andai quella sera dal dottor Tinebra, che non conoscevo, con cui non avevo avuto mai rapporti; e il dottor Tinebra mi disse se io ero disposto a dare una mano, sempre in virtù della mia pregressa esperienza professionale, etc., etc., per le indagini sulle stragi. Io feci presente varie cose al dottor Tinebra: innanzitutto che ero un funzionario dei Servizi e quindi non rivestivo più la veste di ufficiale di Polizia Giudiziaria, quindi non potevo svolgere indagini in senso proprio, la mia poteva essere soltanto un’attività informativa, non operativa; che per Legge noi non potevamo avere rapporti diretti con la magistratura; che, in ogni caso, io avrei dovuto chiedere l’autorizzazione ai miei superiori diretti, e parlo del mio direttore, che era allora il Prefetto Alessandro Voci, e che anche una collaborazione sul piano informativo poteva avvenire soltanto previ accordi con gli organi di Polizia Giudiziaria che erano interessati alle indagini.
Nell’occasione il dottor Tinebra mi disse anche, così, per inciso, dice: “Sa, io mi rivolgo a lei perché a Caltanissetta è stato costituito un ufficio della DIA, Direzione Investigativa Antimafia, ma da poco tempo e mi sono reso conto che c’è personale che di fatti di mafia ne comprende ben poco”, detto dal dottor Tinebra. Io non sapevo neppure chi erano i componenti della DIA di Caltanissetta, che lavoravano con la Procura della Repubblica di Caltanissetta. Comunque, dissi: “Io sono per mia… per il mio spirito di servizio, per la mia volontà di… di rendermi utile per quello che posso fare, che è nelle mie possibilità, a questo, però devo chiedere prima di tutto l’autorizzazione al mio direttore”. Non mi è sufficiente che questa richiesta mi venga dal Capo della Polizia, perché io non dipendo più dal Capo della Polizia, e che comunque sarei stato disposto a dare il mio contributo qualora si fossero osservate queste norme: autorizzazione dei miei superiori e intese con gli organi di Polizia, Polizia di Stato e Arma dei Carabinieri, interessate alle indagini sulle stragi».
E’ appena il caso di osservare che la rapidità con la quale venne richiesta la irrituale collaborazione del Dott. Contrada, già nel giorno immediatamente successivo alla strage di Via D’Amelio, faceva seguito alla mancata audizione del Dott. Borsellino nel periodo di 57 giorni intercorso tra la strage di Capaci e la sua uccisione, benché lo stesso magistrato avesse manifestato pubblicamente la propria intenzione di fornire il proprio contributo conoscitivo, nelle forme rituali, alle indagini in corso sull’assassinio di Giovanni Falcone, cui egli era legato da una fraterna amicizia.
Va in scena il grande depistaggio
Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana, che ha condotto alla condanna alla pena detentiva perpetua di Profeta Salvatore, Scotto Gaetano, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano ed Urso Giuseppe, per il loro ritenuto concorso nella strage di Via D’Amelio. L’affermazione della responsabilità penale dei predetti soggetti per il delitto di strage è stata compiuta:
– per Profeta Salvatore nel processo c.d. “Borsellino uno”, con la sentenza n. 1/1996 emessa in data 27 gennaio 1996 dalla Corte di Assise di Caltanissetta, confermata dalla sentenza n. 2/1999 emessa in data 23 gennaio 1999 dalla Corte di Assise di Appello di Caltanissetta, divenuta irrevocabile il 18 dicembre 2000;
– per Scotto Gaetano nel processo c.d. “Borsellino bis”, con la sentenza n. 2/1999 emessa in data 13 febbraio 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta, confermata dalla sentenza n. 5/2002 emessa in data 18 marzo 2002 dalla Corte di Assise di Appello di Caltanissetta, divenuta irrevocabile il 3 luglio 2003;
– per Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano ed Urso Giuseppe, nel processo c.d. “Borsellino bis”, con la sentenza n. 5/2002 emessa in data 18 marzo 2002 dalla Corte di Assise di Appello di Caltanissetta, divenuta irrevocabile il 3 luglio 2003, la quale ha riformato in parte qua la sentenza n. 2/1999 emessa in data 13 febbraio 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta, che aveva invece assolto i predetti imputati dal medesimo delitto.
Le dichiarazioni di Scarantino hanno assunto un valore determinante per tutte le predette condanne.
In particolare, per quanto attiene a Salvatore Profeta, possono richiamarsi le conclusioni raggiunte dalla sentenza n. 468/2011 del 16 dicembre 2000 della I Sezione della Corte di Cassazione, che, nel definire il processo c.d. “Borsellino uno”, ha così riassunto il contenuto della pronuncia di appello, confermativa di quella di primo grado: «Salvatore Profeta è stato chiamato in correità dal cognato Vincenzo Scarantino per avere partecipato alla fase esecutiva della strage di via D’Amelio, con particolare riferimento ai distinti episodi a) della riunione organizzativa nella villa di Calascibetta, b) dell’incarico di procurare l’autovettura destinata ad essere utilizzata come autobomba, e) della presenza nell’autocarrozzeria di Orofino al momento dell’arrivo dell’esplosivo da caricare a bordo della Fiat 126 rubata.
Particolare attenzione ha dedicato la Corte distrettuale alle vicende della complessiva chiamata in correità dell’imputato da parte di Scarantino, reo confesso e condannato con la sentenza di primo grado non impugnata dall’interessato, il quale però nel settembre 1998, nel corso di questo giudizio d’appello e del giudizio di primo grado nel processo c.d. D’Amelio-bis, ha ritrattato tutte le dichiarazioni auto- ed etero-accusatorie rese nella fase delle indagini preliminari e confermate nel dibattimento di primo grado di questo processo e in quello del D’Amelio-bis.
La Corte, dopo averne tratteggiato il profilo criminale e i rapporti con elementi di spicco della famiglia di Santa Maria di Gesù, quali il capo-mandamento Pietro Aglieri e il cognato Salvatore Profeta, la genesi e i motivi delle confidenze fatte a Francesco Andriotta nel carcere di Busto Arsizio e della tormentata e incostante collaborazione con la giustizia, ha descritto il contenuto delle originarie e contrastanti dichiarazioni accusatorie di Scarantino, riguardanti le diverse fasi della vicenda cui asseriva di avere partecipato: dalla riunione organizzativa di fine giugno o dei primi giorni di luglio 1992 nella villa di Calascibetta, cui avrebbe accompagnato il cognato Profeta, al furto, alla consegna, al trasferimento e al caricamento nell’officina di Orofino dell’autovettura Fiat 126, all’incontro con Gaetano e Pietro Scotto in cui avrebbe avuto conferma dell’intercettazione in corso sulle telefonate del dott. Borsellino, alle notizie ricevute circa l’avvenuta esecuzione della strage.
La Corte ha ritenuto inconsistente e del tutto inattendibile la ritrattazione generale di Scarantino perché essa era il risultato di pressioni esterne esercitate sul collaboratore attraverso il suo nucleo familiare da elementi inseriti nel contesto mafioso palermitano e perché era caduta anche su circostanze che avevano trovato positiva conferma in altre acquisizioni probatorie, quali: le dichiarazioni di Candura, Augello e Francesco Marino Mannoia circa la frequentazione di Pietro Aglieri. capo-mandamento di Santa Maria di Gesù, e il coinvolgimento nel traffico di stupefacenti nel quartiere della Guadagna; le concordi dichiarazioni di Candura e Valente e i rilievi tecnici circa l’incarico di rubare la Fiat 126, la consegna e l’effettivo utilizzo della medesima in via D’Amelio come autobomba; la deposizione di padre Giovanni Neri, parroco di Marzaglia, circa le forti pressioni esercitate su Scarantino a partire dal giugno 1998 perché ritrattasse le originarie accuse.
Ma – ha osservato la Corte – come “l’accertata inattendibilità della ritrattazione non implica per sè sola l’attendibilità delle dichiarazioni rese in precedenza da Scarantino a prescindere dalle regole di valutazione della prova stabilite dall’art. 192.3 c.p.p.”, così “neppure la falsità di talune dichiarazioni implica l’inattendibilità di tutte le altre dichiarazioni accusatorie che possano reggere alla verifica giudiziale del riscontro, dovendo trovare applicazione il principio della valutazione frazionata delle propalazioni accusatorie provenienti dal chiamante in correità che siano dotate del requisito dell’autonomia fattuale e logica rispetto alle dichiarazioni di cui è stata accertata l’inattendibilità”, tanto più se si considera che il contesto simulatorio e stato determinato dalla “interferenza nel percorso collaborativo” di esponenti del sodalizio mafioso” mirata al deliberato inquinamento delle prove e resa agevole dall’originaria tendenza del collaboratore ad operare la commistione di elementi reali e di altre circostanze non vere”.
E tale requisito di autonomia fattuale e logica e di intrinseca consistenza è stato rinvenuto, rispetto alle successive false propalazioni (l’attendibilità di Scarantino si affievoliva quanto più egli nel suo racconto si allontanava dalla porzione di vicenda cui aveva direttamente partecipato, ad esempio per la presunta riunione organizzativa di fine giugno o primi di luglio nella villa di Calascibetta alla quale avrebbe accompagnato il cognato Profeta), nell’originaria e spontanea narrazione del collaboratore, la quale però, per la rilevata mancanza di costanza e precisione e per le contraddizioni frutto della mai risolta conflittualità della genesi della scelta collaborativa particolarmente tormentata e perennemente avversata dai familiari, imponeva, quanto alla valutazione della chiamata in correità degli altri imputati, “una particolare cautela” e “la ricerca di adeguati riscontri esterni individualizzanti”. Il maggior rigore nella valutazione delle dichiarazioni di Scarantino, laddove venivano di volta in volta sanate le contraddizioni emergenti dai precedenti interrogatori, era imposto altresì dall’inusuale attività di studio e di annotazione delle medesime contraddizioni, esercitata dal collaboratore con l’aiuto di agenti addetti alla sua tutela, com’era emerso dal promemoria prodotto dal difensore e riconosciuto dal teste agente Mattei.
L’attendibilità estrinseca di Scarantino è stata così apprezzata, all’esito di un’analisi particolarmente penetrante e scrupolosa, solo ed esclusivamente in relazione al nucleo fondamentale del discorso narrativo riguardante la porzione della fase esecutiva della strage cui egli aveva certamente partecipato e che rispondeva alle caratteristiche del suo profilo criminale, e cioè: la richiesta di procurare un’autovettura di piccola cilindrata rivoltagli da Pietro Aglieri e da Salvatore Profeta, l’incarico dato a Candura di rubare l’autovettura Fiat 126 e la consegna della medesima, da lui messa poi a disposizione degli esecutori materiali dell’attentato. Il profilo criminale di Scarantino (secondo i collaboratori Augello, Marino Mannoia e Candura e gli accertamenti degli apparati di sicurezza), indipendentemente dall’effettivo possesso della qualità di “uomo d’onore”, era compatibile con il suo racconto e con il confessato coinvolgimento nell’episodio delittuoso, almeno limitatamente a questa parte della fase esecutiva della strage di via D’Amelio, in forza degli stretti rapporti esistenti con Aglieri e Profeta, il primo capo-mandamento e il secondo esponente di spicco della famiglia di Santa Maria di Gesù, del suo inserimento nel contesto criminale della Guadagna (quartiere ricadente nel mandamento di Santa Maria di Gesù) e della sperimentata propensione a commettere reati di specie diversa. La sua confessata partecipazione al furto della Fiat 126 messa a disposizione degli autori della strage e utilizzata come autobomba, compiutamente dimostrata dalle dichiarazioni accusatorie di Candura e Valenti, era stata d’altra definitivamente accertata dalla sentenza di condanna di primo grado divenuta sul punto irrevocabile, valutabile ai fini della prova del fatto in essa accertato ex art. 238-bis c.p.p. nei confronti degli odierni imputati. La chiamata in correità nei confronti di Profeta e di Aglieri come mandanti del furto risultava fornita di un riscontro anche di carattere logico perché la certa partecipazione di Scarantino, in qualità di committente, al furto della Fiat 126 implicava la necessità (posto che egli, anche ad ammetterne l’appartenenza, non rivestiva sicuramente un ruolo significativo nell’organizzazione di Cosa nostra) del conferimento dell’incarico di procurare l’autovettura da parte di esponenti di rilievo del sodalizio mafioso, in particolare del mandamento di Santa Maria di Gesù cui appartiene la famiglia della Guadagna, la cui partecipazione alla strage, insieme con gli altri mandamenti palermitani, era dimostrata dalle dichiarazioni di tutti i collaboratori di giustizia.
(…) Le dichiarazioni accusatorie di Scarantino, limitatamente a quella porzione della fase esecutiva riguardante la vicenda dell’incarico datogli da Profeta, insieme con Pietro Aglieri, di procurare un’autovettura di piccola cilindrata da utilizzare nella strage, hanno trovato altresì, secondo la Corte territoriale, i seguenti, idonei e positivi, riscontri individualizzanti di natura dichiarativa e logica.
A) Premesso che le dichiarazioni accusatorie di Scarantino erano da considerarsi attendibili quanto più esse trovavano una precisa corrispondenza in quelle rese de relato molto tempo prima della sua collaborazione da Francesco Andriotta (sentito nel giudizio d’appello e nel processo D’Amelio-bis in qualità di testimone dopo la declaratoria di nullità dell’esame irregolarmente assunto in primo grado secondo le regole proprie dell’imputato di reato connesso), la reiterata indicazione di Profeta come mandante del furto dell’autovettura di piccola cilindrata da usare come autobomba è stata fatta innanzi tutto, anche con ricchezza di dettagli, fin dal 1993 dal teste Andriotta, per averla ricevuta da Scarantino durante la comune detenzione carceraria a Busto Arsizio, in epoca antecedente quindi alla scelta collaborativa di questo e in assenza di altre fonti di conoscenza. E la Corte, dimostrata l’opportunità e l’effettività della comunicazione e la verosimiglianza dei colloqui fra i due nella struttura carceraria (giusta le deposizioni del direttore e di agenti del carcere di Busto Arsizio, i rilievi fotoplanimetrici, il sequestro di bigliettini, le intercettazioni telefoniche, le ammissioni di Scarantino), pur dando atto dell’affannosa ricerca di benefici premiali da parte dell’Andriotta, ha ritenuto intrinsecamente attendibili solo le parti della narrazione affatto originali e non altrimenti conoscibili da fonti diverse da quella costituita dal racconto di Scarantino, coerenti, costanti e antecedenti la collaborazione di quest’ultimo e reciprocamente convergenti con la successiva chiamata in correità di questi; mentre ha ritenuto inattendibili le parti della narrazione in cui erano contenuti elementi nuovi o aggiuntivi del racconto inseriti successivamente per adeguarsi alla fonte primaria o alle risultanze processuali (sulla riunione nella villa di Calascibetta; sul luogo in cui la Fiat 126 fu imbottita di esplosivo e sulla presenza di Profeta all’operazione) o in cui il teste era incorso in contraddizioni non plausibilmente spiegate. In particolare, un alto grado di attendibilità intrinseca è stato riconosciuto alle parti della narrazione riguardanti il furto dell’autovettura, commissionato da Scarantino a Candura, e il mandato ricevuto in proposito da parte di Profeta, non altrimenti conoscibili se non attraverso il racconto fatto dallo stesso Scarantino prima della sua collaborazione e sostanzialmente convergenti con la successiva chiamata in correità di questo; mentre una assolutamente modesta attendibilità poteva riconoscersi alle dichiarazioni coinvolgenti le posizioni di Orofino e Scotto, dei quali erano note le imputazioni da organi di stampa prima della collaborazione di Andriotta e sulle cui posizioni era palese il contrasto tra la versione della fonte primaria e quella del teste indiretto sulle circostanze fondamentali dell’arrivo e del luogo di caricamento dell’esplosivo e dell’avvenuta conoscenza da parte di Scarantino dell’intercettazione abusiva delle telefonate del dott. Borsellino.
B) Sotto il profilo logico, l’incarico dato da Scarantino a Candura di eseguire il furto della Fiat 126 poteva spiegarsi, dato l’uso cui l’autovettura era destinata, solo con la circostanza che egli aveva a sua volta ricevuto il mandato da esponenti di vertice di Cosa nostra.
Le soggettivamente credibili, intrinsecamente attendibili, reciproche, incrociate e positivamente riscontrate propalazioni dei collaboratori di giustizia, aderenti all’organizzazione criminale di Cosa nostra (Ferrante Giovan Battista, Anzelmo Francesco Paolo, Ganci Calogero, La Marca Francesco, Grigoli Salvatore, La Barbera Gioacchino, Camarda Michelangelo, Di Carlo Francesco, Cancemi Salvatore, Drago Giovanni, Onorato Francesco, Lo Forte Vito, Di Filippo Emanuele, Di Filippo Pasquale, Calvaruso Antonio, Galliano Antonino, Brusca Giovanni, Di Matteo Mario Santo, Cannella Tullio) hanno confermato l’esistenza e la permanenza del progetto omicidiario ai danni del dott. Borsellino fin da quando egli era nel 1988 Procuratore della Repubblica di Marsala ed hanno identificato il relativo movente nella vendetta mafiosa contro un acerrimo nemico dell’organizzazione mafiosa, responsabile insieme con il dott. Giovanni Falcone del c.d. maxiprocesso palermitano (Cancemi, Ganci C., Di Carlo, Camarda, Onorato, Di Filippo P., Brusca G., Cannella); hanno delineato la fase deliberativa della strage con riferimento alle plurime riunioni della Commissione provinciale, organismo di vertice di Cosa nostra, tenutesi tra il marzo e il giugno 1992 (Brusca, La Marca, Cancemi); ne hanno descritto la fase esecutiva, consistita nella prova del telecomando, nei sopralluoghi, nella fissazione fin dai primi giorni della settimana del giorno di domenica 19 luglio per l’attentato e nel pattugliamento del percorso delle autovetture che conducevano quel giorno il magistrato in via D’Amelio (Ferrante, Anzelmo, Cancemi, Ganci, La Marca e Galliano). Di talché, il primo e incontroverso risultato probatorio è costituito dalla certa riferibilità dell’uccisione del magistrato ai mandamenti palermitani di Cosa nostra, che considerava il dott. Borsellino un nemico irriducibile, nell’ambito di un progetto strategico generale teso all’eliminazione di diversi rappresentanti “eccellenti” delle istituzioni dopo la negativa decisione della Corte di cassazione riguardo al c.d. maxiprocesso palermitano. E, dal coinvolgimento dei mandamenti di San Lorenzo, Porta Nuova, Brancaccio, Resuttana, della Noce e di Santa Maria di Gesù (cui appartiene il territorio della Guadagna), sembra lecito inferire la compatibilità della partecipazione all’attentato stragista di Salvatore Profeta (uomo d’onore di assoluto rilievo nel quartiere della Guadagna ricadente sotto il controllo della famiglia di Santa Maria di Gesù, di cui era capo Pietro Aglieri e altro elemento di spicco Giovanni Pullarà) e di Vincenzo Scarantino (il quale, se non addirittura uomo d’onore della Guadagna, presentava un profilo criminale caratterizzato da stretti rapporti di parentela e di effettiva frequentazione con Profeta, suo cognato, e con Aglieri, capo-mandamento della famiglia di Santa Maria di Gesù, secondo la concorde indicazione dei collaboratori Candura, Salvatore Augello e Francesco Marino Mannoia e la scheda informativa dei servizi investigativi).
La confessione e la chiamata in correità del Candura (egli si è confessato autore materiale del furto commissionatogli da Scarantino), rilevanti ai fini dell’individuazione dell’esecutore materiale e dei mandanti del furto dell’autovettura Fiat 126 di Pietrina Valenti utilizzata come autobomba, sono state giudicate serie, intrinsecamente attendibili e obiettivamente riscontrate, oltre che dalla confessione dello stesso Scarantino, dalle deposizioni di Luciano Valenti, fratello della derubata, e di Luigi Meola, amico del Candura, i quali hanno confermato i particolari dell’episodio ad essi narrati dal Candura, e da una numerosa serie di circostanze esterne elencate in motivazione. Anch’esse postulano la necessità di un mandato da parte di esponenti di vertice di Cosa nostra del mandamento di Santa Maria di Gesù a Scarantino perché procurasse un’autovettura da utilizzare come autobomba, sì che anche per questa via è risultata logicamente compatibile la partecipazione all’attentato stragista di Salvatore Profeta, cognato di Scarantino e importante uomo d’onore di quella famiglia, chiamato in correità dal primo come mandante del furto.
L’organico inserimento di Profeta e il ruolo di indubbio rilievo da lui rivestito, insieme con Pietro Aglieri e Giovanni Pullarà, nel mandamento di Santa Maria di Gesù era dimostrato dalle dichiarazioni di numerosi collaboranti (Candura, Augello, Marino Mannoia, P. Di Filippo, Mutolo, Marchese, Favaloro, C. Ganci, La Barbera, Cancemi, Drago, G. Brusca e Di Matteo), mentre la posizione di supremazia gerarchica di Profeta rispetto a Scarantino è stata descritta dai collaboratori Candura, Augello e Marino Mannoia. E tale mandamento (in cui ricadeva il quartiere della Guadagna) aveva partecipato alla strage insieme agli altri mandamenti palermitani di Cosa nostra.
C) La natura dei legami di parentela tra Scarantino e Profeta (cognati) e la forte stima ripetutamente espressa dal chiamante nei confronti del secondo, causa entrambe della descritta crisi collaborativa, escludevano ogni intento calunniatorio nelle dichiarazioni accusatorie del primo.
D) Gaetano Costa, esponente di spicco della ‘ndrangheta e collaboratore di giustizia, ha riferito di essere stato interessato da Giovanni Pullara’ della famiglia di Santa Maria di Gesù, mentre erano insieme detenuti nel carcere di Livorno nel giugno o luglio del 1992 dopo la strage di Capaci, per far fronte all’esigenza di Cosa nostra di reperire sul mercato un potentissimo e poco voluminoso esplosivo, dal dichiarante denominato “Sintax”, presso tale Buccarella, esponente della S.C.U., e di essergli stato indicato a tal fine dal Pullarà come referente affidabile e serio, per conto di Cosa nostra, il suo “figlioccio” Totuccio Profeta (circa i comprovati rapporti tra Pullarà e Profeta hanno riferito i collaboranti Ganci, Mutolo e Marchese). Il Costa fornì al Pullarà le indicazioni per la ricerca delle persone idonee al contatto con Buccarella ricevendone poi assicurazione che “era tutto a posto”. Il Pullarà non spiegò a cosa servisse l’esplosivo, ma nel commentare la strage di Capaci aveva detto al Costa che quello che era successo era nulla in confronto a quel che sarebbe accaduto quando fosse saltata la “burza”, non quella di Milano ma “quella di Palermo”, sì che il Costa dopo la strage di via D’Amelio capì che il Pullarà col termine “burza” aveva fatto una chiara allusione al dott. Borsellino. Il Costa conosceva Profeta come importante uomo d’onore e abile killer della famiglia di Santa Maria di Gesù perché di lui gli aveva parlato Giovanni Pullarà non soltanto nella circostanza della richiesta di esplosivo ma anche in precedenza, definendolo come persona affidabilissima di cui i vertici della famiglia si fidavano ciecamente; e di ciò ebbe conferma quando, in occasione del trasferimento di Profeta all’Asinara, Pietro Pipitone avvertì Ignazio Pullarà dell’arrivo di questi perché gli fossero predisposte condizioni di vita carceraria adeguate al rango. Le rivelazioni del Costa erano state spontanee, disinteressate, indifferenti, coerenti, costanti, non contestate dalle difese, e riscontrate quanto alla comune detenzione con il Pullarà nel carcere di Livorno fra il maggio e il luglio 1992, al profilo criminale del Buccarella, all’astratta coincidenza dell’esplosivo da lui denominato “Sintax” con il Semtex identificato dai periti; mentre non vi era necessaria contraddizione tra le propalazioni del Costa con quanto dichiarato dal collaboratore Ferrante circa la disponibilità da parte della famiglia di San Lorenzo di una rilevante quantità di esplosivo plastico in contrada Malatacca, e con quanto accertato dal perito nel processo D’Amelio-bis circa il rinvenimento di 10 Kg. di Semtex confezionato in 4 pani in contrada Malatacca, non avendo il Ferrante potuto precisare la destinazione data alla residua partita di plastico, sotterrata in fusti di plastica fin dal 1986 e sparita dopo l’arresto di Raffaele Ganci, ne’ identificare la provenienza dell’esplosivo usato per la strage di via D’Amelio con quello che si trovava nella disponibilità della famiglia di San Lorenzo.
(…) Tutti questi elementi di prova, significativamente convergenti, dimostrano la responsabilità di Salvatore Profeta in ordine al furto dell’autovettura Fiat 126 utilizzata come autobomba nella strage di via D’Amelio: furto che, pure in assenza di obiettivi riscontri alla tardiva, contraddittoria e inattendibile dichiarazione accusatoria di Scarantino in ordine alla partecipazione dell’imputato anche all’ulteriore segmento della fase esecutiva, costituito dal prelievo dell’esplosivo dal magazzino-porcilaia del Tomaselli e dal suo caricamento a bordo dell’autovettura rubata nell’autocarrozzeria di Orofino, implica un contributo essenziale e determinante alla consumazione della strage di via D’Amelio, essendo Profeta perfettamente consapevole dell’uso cui era destinata l’autovettura reperita e messa a disposizione dei complici, tanto da metterne a conoscenza il cognato Scarantino».
Con la citata sentenza n. 468/2011 del 16 dicembre 2000, la Corte di Cassazione ha ritenuto che «a fronte dell’illustrata – invero pregevole e sapiente architettura argomentativa della ratio decidendi», non cogliessero nel segno le critiche difensive sollevate per i profili di asserita violazione delle regole probatorie stabilite dagli artt. 192 commi 2 e 3 c.p.p. e per la denunziata illogicità manifesta della motivazione.
[…]
Inoltre, per quanto attiene a Scotto Gaetano, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano ed Urso Giuseppe, possono richiamarsi le conclusioni raggiunte dalla sentenza n. 11914/2004 del 3 luglio 2003 della V Sezione della Corte di Cassazione, che, nel definire il processo c.d. “Borsellino bis”, ha così riassunto il contenuto della pronuncia di appello nella parte relativa alle dichiarazioni di Scarantino:
«Le dichiarazioni di Scarantino, il cui spessore criminale nel traffico di droga è descritto nel cap.8 ,& 2, che ricorda la condanna definitiva a 9 anni di reclusione e l’inserimento nella famiglia della Guadagna (vedi anche coll. T. Cannella, l’episodio della lite con N.Gambino, p.1284), grazie al rapporto di affinità con Salvatore Profeta del quale era uomo di fiducia e braccio esecutivo (coli. Augello, ritenuto attendibile già nella sentenza definitiva B. 1, p. 1269 ss) ed alla protezione da parte di Pietro Aglieri (p. 1281). In grado di affrontare il difficile cammino della collaborazione e sostenere i lunghi e logoranti esami dibattimentali, nonostante il modesto livello intellettuale.
Parte dal presupposto della centralità delle dichiarazioni dibattimentali precise e puntuali (tanto nel processo B. 1 definitivo -p. 1297 ss- quanto nel dibattimento di 1° grado del presente giudizio -p.1335 ss.- sottolineando il serrato controllo in sede di controesame -p. 1372-con le relative contestazioni mediante l’utilizzazione di verbali del P.M. che risentivano i contraccolpi psicologici della scelta di collaborare, p.1434). In relazione a tali esami non regge la tesi dell’indottrinamento/ manipolazione da parte degli investigatori ed in particolare dagli uomini del gruppo Falcone- Borsellino che si occupavano del servizio di protezione. Dall’esame del dr. La Barbera emerge la linearità del percorso collaborativo di Scarantino; tutte le iniziative di inquinamento provengono dall’organizzazione mafiosa (dr.Bo) tramite moglie e parenti del collaboratore. Escluso che tra Andriotta e Scarantino ci potesse essere un incontro, dopo l’inizio della collaborazione. Spiegata l’origine delle annotazioni sui verbali di interrogatorio come mero sussidio strumentale alla richiesta di colloquio con il difensore senza alcuna influenza sull’autodeterminazione di Scarantino. I promemoria, assieme ad album fotografici ed i rilievi tecnici allegati, erano stati prodotti al momento della ritrattazione dal nuovo difensore di fiducia (pag.447). Le accuse della moglie Basile sull’indottrinamento avevano fatto seguito all’abbandono del coniuge che aveva scelto la collaborazione. Analizza le varie annotazioni per rilevarne la assoluta inidoneità a sostenere la tesi difensiva dell’indottrinamento e la piena paternità di Scarantino.
Dall’intercettazione ambientale di conversazione tra S. e Basile in carcere trae ulteriore argomento in ordine al ruolo inquinante della Basile ed alla genuinità delle propalazioni.
La stessa ritrattazione della ritrattazione in appello segna il ritorno, per la sentenza impugnata, alle originarie propalazioni che, del resto, erano state anche rapportate al giudizio di assoluta inattendibilità della ritrattazione negoziata (già ritenuta nella sentenza definitiva 23.01.99, p. 1278 e ss.). In definitiva ritiene Scarantino attendibile nella completezza delle dichiarazioni dibattimentali (in cui erano state anche chiarite le contraddizioni con Caldura p.1440), pur rendendosi conto del punto nodale costituito dalla chiamata in correità dei collaboranti Di Matteo, La Barbera, Cancemi, Ganci R. e Brusca (quest’ultimo aggiunto nell’interrogatorio 15.11.94 e poi sempre confermato, p.1480), mantenuta risolutamente ancora in sede di confronto e dopo la ritrattazione della ritrattazione.
Perviene a ritenere la inattendibilità relativa sul punto, inidonea a fare dubitare delle altre dichiarazioni (compresa quella in ordine alla provenienza dell’esplosivo, ritenuta in sentenza coerente in sé e riscontrata dalle propalazioni di Costa, p. 1473) perché Scarantino spiega le ragioni di quelle precedenti omissioni e delle mancate individuazioni fotografiche.
La sentenza dà all’inserimento dei nomi dei collaboranti una spiegazione diversa da quella data in primo grado (rendersi volutamente inattendibile, p. 1490), per giungere alla conclusione che non può affermarsi la falsità di Scarantino neppure in punto di presenza dei collaboratori alla riunione nella villa di Calascibetta (p. 1528). Ritiene poi che l’episodio dell’incendio ai danni di Orazio Abate non dimostri il consapevole mendacio di Scarantino».
La stessa sentenza n. 11914/2004 del 3 luglio 2003 della V Sezione della Corte di Cassazione ha riassunto nei seguenti termini l’ultima parte della struttura motivazionale della pronuncia emessa nel giudizio di appello del processo c.d. “Borsellino bis”, relativa alle posizioni dei singoli imputati che, nel presente procedimento, sono stati individuati come persone offese della calunnia continuata contestata allo Scarantino:
«7)Scotto Gaetano. La sentenza contesta la contraddittorietà del narrato di Scarantino circa gli incontri al Bar Badalamenti, evidenziando il comportamento rispettoso delle regole.
Scarantino non è ritenuta l’unica fonte, stante la valenza indiziaria di cointeressenza dei fratelli Scotto in affari illeciti, spessore di Scotto Gaetano nella zona Resuttana-Arenella, territorio includente via D’Amelio, riconducibilità dell’attentato al gruppo di appartenenza, siccome esclusa l’ipotesi alternativa estranea a cosa nostra. Sottolinea come l’impegno di Scotto Pietro assume legittimazione solo a ragione del fratello uomo d’onore. Considera non riuscito l’alibi, a causa di zone d’ombra nelle comunicazioni a mezzo cellulare in corrispondenza dei giorni degli incontri al bar Badalamenti. Inoltre l’impegno professionale a Sala Bolognese non necessitava continuità di presenza ed i testi erano inaffidabili o generici ed altri contrari all’alibi. Erano sterili le richieste di prova con monitoraggio dei biglietti aerei. Il pensiero di Ferrante su mancanza di intercettazioni la domenica 19.07.92 è conforme alla tesi accusatoria, che imposta l’intervento abusivo nel periodo precedente.
Afferma la responsabilità anche per il reato associativo, sulla base di numerosi collaboranti, specificamente nell’attività di spaccio.
8)Gambino Natale.
9)La Mattina Giuseppe.
10)Urso Giuseppe detto Franco.
La sentenza rigetta gli appelli per 416 bis c.p. rilevando la partecipazione di Gambino a vari omicidi assieme a Scarantino, Profeta, Greco ed Aglieri. Ritiene riscontrate da Drago le accuse di Scarantino che lo addita quale tramite per gli incontri trai capi di Brancaccio e S. Maria di Gesù. Rivaluta le dichiarazioni di Tullio Cannella. La Mattina, addetto alla persona di Aglieri ed al suo fianco in vari delitti efferati, ne condivide e protegge la latitanza. Urso, accusato da Scarantino con riscontro in Cannella, é indicato come uomo d’onore da Biondino e da vari collaboranti, cognato di Vernengo Cosimo.
La sentenza di primo grado li aveva assolti da strage e reati connessi, per carenza di individualizzanti riscontri alla chiamata di Scarantino, siccome essi attenevano solo al fatto oggettivo (descrizione villa, parcheggio auto, l’officina di Orofino, il caricamento ecc. non consentono.. il collegamento con il chiamato in c., restando immutati anche nell’ipotesi di sostituzione del chiamato con altro soggetto…) mentre non erano riscontri l’appartenenza al mandamento, il possesso dell’auto usata per l’accompagnamento. Il collaborante Cannella (de relato Bagarella), astrattamente valutabile a conferma, è ritenuto inattendibile per interesse all’accusa.
L’impugnata sentenza giudica incoerente quella di 1° grado e sostiene, quanto all’appartenenza al gruppo, che la fungibilità del ruolo non tiene conto degli specifici rapporti con i capi. Rivaluta, poi, l’attendibilità di Cannella siccome ospita il latitante Bagarella, sua fonte collaudata, e ne gode la fiducia. Bagarella gli aveva confidato che i Graviano, con gruppo della Guadagna, avevano realizzato la strage via D’Amelio, indicato il ruolo di Aglieri, Gambino Natale, La Mattina ed Urso. Definisce risibile il contrasto con Gambino (ed Urso) rimasto senza conseguenze. Una conferma all’accusa proverebbe da indagini di polizia e da altri collaboranti.
Richiama la regola dell’utilizzazione di uomini sperimentati e di fiducia dei capi, quali erano appunto La Mattina, Gambino ed Urso. Quest’ultimo era stato scelto come esperto elettricista, vicino ai Vernengo, in stretti rapporti con Agliuzza contitolari dell’officina Orofino.
I testi d’alibi di Urso (circa l’impegno nel suo supermercato, il pomeriggio del 18.07.92 in cui era avvenuto il caricamento) di dubbia attendibilità, per i legami con il ricorrente, e generici; facile lo spostamento, frequente l’assenza.
Accoglie in definitiva l’appello del P.M. e condanna anche per la strage.
11)Vernengo Cosimo.
La sentenza rigetta l’appello avverso condanna per 416 bis c.p. siccome ritiene il ricorrente inserito nella famiglia della Guadagna, per specifichi riferimenti ad episodi sintomatici di mafiosità, non solo nel narco-traffico, e stretti rapporti con i maggiori sodali del territorio per essere figlio del boss Pietro Vernengo.
Quanto alla strage, era stato assolto in primo grado, siccome mancanti riscontri specifici alle dichiarazioni di Scarantino e non ritenuti tali l’appartenenza al gruppo, né l’accertata disponibilità dell’auto con cui era entrato da Orofino.
La sentenza impugnata accoglie l’appello del P.M.
Sottolinea che Vernengo é l’unico indicato sin dall’inizio dal teste Andriotta, come partecipante alla strage, a conferma della fonte diretta Scarantino. Altro riscontro verrebbe dal collaborante Costa Gaetano (confidenza, in carcere, di un cugino omonimo del Vernengo sulla sua partecipazione alla strage), sottoposto a positivo scrutinio di attendibilità per disinteresse, conoscenza autonoma ed anteriorità rispetto alla collaborazione di Scarantino.
Tale elemento è saldato con la richiesta di esplosivo Semtex fatta da Pullarà a Costa, su istanza del figlioccio Profeta con i saluti di Luchino (Bagarella), sempre in carcere dopo la strage di Capaci, e comunicata a Buccarella legato con i Modeo pugliesi.
Questi già nel passato avevano avuto rapporti con i Vernengo per il contrabbando di sigarette. Il tutto viene rapportato all’impiego della Suzuki bianca, diversa dal fuoristrada di proprietà del ricorrente (Nissan grigia).
(…)
13)Murana Gaetano.
Ancora una volta viene rigettato l’appello avverso condanna per 416 bis c.p. per una serie di indici sintomatici di partecipazione alla famiglia Guadagna. Fedele autista di Aglieri, suo padrino (intercettazione a Pianosa), gestisce il totonero.
Accolto invece quello del P.M. avverso l’assoluzione dalla strage.
Scarantino lo dà presente alla riunione fuori tra gli accompagnatori, lo indica come partecipante a trasferimento della 126 nei pressi di via Messina- Marine, perlustrazione durante il caricamento, scorta sino a p.zza Leoni.
La sentenza ritiene riscontro individualizzante le dichiarazioni di Pulci, ritenuto attendibile (Incontro in carcere con Murana, che, per difendere Aglieri da una provocazione del collaborante, difende, dopo la ritrattazione di Scarantino, la versione di cosa nostra su indottrinamento di Scarantino e si lascia andare all’ammissione della propria partecipazione, con la famiglia di Guadagna, alla strage. Puntualizza che il Murana rifiuta il confronto con Pulci».
Un falso dopo l’altro che diventa verità
In ordine alle dichiarazioni sulla strage di Via D’Amelio rese nel corso del suddetto interrogatorio del 24 giugno 1994, una precisa disamina e una accurata valutazione critica sono state operate dalla sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo n. 29/97 R.G.C.Ass. (c.d. “Borsellino ter”), di cui si riportano alcuni passaggi particolarmente significativi: «Vincenzo SCARANTINO ha detto di essere “uomo d’onore” e di essere stato “combinato” circa due anni prima di venire arrestato; la sua affiliazione venne tenuta riservata, per ragioni di cautela.
P.M.: Precisi quando è stato combinato chi era presente e che cosa è avvenuto.
SCARANTINO: Due anni prima del mio arresto c’era Pietro AGLIERI, Carlo GRECO, Pino LA MATTINA, Natale GAMBINO, mio cognato Salvatore PROFETA, Pinuzzo GAMBINO, eh… Tanino… MORANA… c’era pure, poi chi c’era? E altri che non mi ricordo, in questo momento non mi ricordo… eh… siamo andati nella sala di Pasquale TRANCHINA, in via Villagrazia, in una sala, ed abbiamo fatto una cerimonia, abbiamo mangiato, ‘Enzino è uomo d’onore, Enzino è uomo d’onore’… tutte queste cose… dopo abbiamo finito di mangiare, ci siamo baciati tutti, auguri, auguri, auguri e ce ne siamo andati dalla sala ed io, diciamo, ero uomo d’onore.
SCARANTINO: Poi abbiamo finito di mangiare siamo andati via, ognuno per i fatti suoi, e a me m’hanno messo ‘riservato’ per non essere a occhio della polizia e degli altri uomini d’onore al di fuori della famiglia, non mi presentavano a nessuno, ero uno riservato che andavo negli appuntamenti che faceva Pietro AGLIERI con mio cognato, per decidere sugli omicidi e di altre cose…
Intorno al 24 giugno 1992 – non ha ricordato il giorno esatto, ma comunque la strage di Capaci era già avvenuta – Salvatore PROFETA gli chiese di accompagnarlo alla villa di Giuseppe CALASCIBETTA, ove trovarono il padrone di casa, Pietro AGLIERI, Pinuzzo LA MATTINA, Natale GAMBINO, Carlo GRECO, Giuseppe SALEMI; poi gli venne chiesto di andare a prendere Renzo TINNIRELLO e così fece, accompagnandolo alla villa; erano presenti anche Ciccio TAGLIAVIA,
Salvatore RIINA e Giuseppe GRAVIANO.
Fu quella la prima volta in cui vide Salvatore RIINA, del quale in precedenza aveva solo sentito parlare: non vi fu una presentazione, ma ugualmente egli comprese che si trattasse del RIINA; questi poi era accompagnato da BIONDINO – o forse da “Ciccio GANCI” -, a bordo di una Fiat “126” bianca.
P.M.: Ma… chi le ha detto che quella persona che è arrivata era Salvatore RIINA?
SCARANTINO: Ma si sapeva che era Salvatore RIINA ‘u’ zu’ Totò’.
P.M.: Quando poi… è stato arrestato RIINA e lì vedendo le sue fotografie…
SCARANTINO: Sì… l’ho conosciuto, per questo ho fatto casino a Busto Arsizio… perché l’ho conosciuto che era lui e non volevo che mi chiedessero se lo conoscevo o non lo conoscevo… però io lo conoscevo che era lui, Totò RIINA… l’ho visto là, alla villa.
P.M.: Senta, RIINA Salvatore com’è arrivato alla villa di CALASCIBETTA?
SCARANTINO: Con una “126” bianca, che era… però non mi ricordo, ma penso che è BIONDINO, o BIONDINO o Ciccio GANCI, ma sicuramente è BIONDINO, non ricordo bene.
P.M.: Cioè vuol dire che RIINA era accompagnato da BIONDINO Salvatore?
SCARANTINO: Sì, sì.
Lo SCARANTINO ha poi descritto il giardino e l’interno della villa del CALASCIBETTA. Quando la riunione era in corso ha potuto sentire che i presenti dicevano che occorreva ammazzare BORSELLINO e che occorreva fare attenzione che non rimanesse vivo, come stava per accadere per FALCONE, che per poco non era riuscito a scampare alla morte; fu lo stesso Salvatore RIINA a ribadire che BORSELLINO doveva venire ucciso. Ha detto poi SCARANTINO che, per educazione, lui e Pino LA MATTINA uscirono ed aspettarono fuori dal salone dove era in corso la riunione.
Terminata la riunione, il cognato Salvatore PROFETA gli affidò un incarico di fiducia.
SCARANTINO: … siamo rimasti quelli della borgata, io, Pietro AGLIERI, Pino LA MATTINA, Natale GAMBINO, mio cognato, Peppuccio CALASCIBETTA che lo chiamano ‘kalashnikov’, Carlo GRECO e… mio cognato… ‘insomma, si deve capitare una bombola d’ossigeno’, dice, ‘così neanche facciamo trovare le bucce, non si deve trovare completamente niente’, dice, ‘Enzino, vai con Peppuccio, là sotto da Peppuccio il fabbro’, in corso dei Mille, siccome lo conosco, ci siamo più amici io e Peppuccio CALASCIBETTA con questo ‘Peppuccio il Romano’ e siamo andati in questa fabbrica dove c’è, vendono acido, tutti questi prodotti tossici…
P.M.: E scusi, tutti questi prodotti tossici tra cui l’acido, la fabbrica è di Peppuccio FERRARA?
Va rilevato per inciso che, fino a quel momento, lo SCARANTINO non aveva ancora citato il cognome del venditore di “bombole”, che viene così involontariamente suggerito dall’interrogante.
SCARANTINO: No, è dell’amante… (…) siamo andati da questo Peppuccio, gli ho detto…, con un bigliettino, mi hanno dato un bigliettino, non lo so, non mi ricordo la bombola come si chiamava, però ‘C’ tipo che c’è la ‘C’… è un nome un po’ dimenticato, però dice che una bombola potente, potentissima, è un prodotto potentissimo, non ci vuole né… né niente, non ci vuole… questa è una bombola potentissima…
Ha proseguito assicurando che il venditore di bombole aveva promesso loro di informarsi se avrebbe potuto acquistare a sua volta la bombola dal fabbricante senza registrazione e senza rilascio di fattura; in seguito, il “Peppuccio” fece sapere che la risposta era stata negativa perché, non disponendo di un’analoga bombola vuota da consegnare in cambio, per vendergliene una il fabbricante avrebbe dovuto registrare il suo nome.
SCARANTINO: E poi è ritornato Peppuccio e ha detto ‘Enzino, digli a Peppuccio che sono andato là e là ci vuole il mio nome, gli devo portare il vuoto, il vuoto dove ce l’ho! E poi come glielo metto il mio nome in una bombola di questo genere, come posso rischiare di mettere il mio nome!?’ Gli ho detto ‘Va be’, Peppuccio’, ora ah, dice, ‘diglielo a Peppuccio, queste bombole si possono andare a rubare, dove c’è la villa di Pietro AGLIERI, di fronte stanno facendo una metropolitana, non ricordo bene, se è una stazione, non ricordo bene, dice che con questo ossigeno vi tagliano i binari, si può andare a rubare là, se vuoi la possiamo andare a rubare…
Va notato qui per inciso che, da come SCARANTINO ha riferito la risposta, pare che il fabbro venditore di bombole fosse consapevole dello scopo per il quale gli era stata chiesta la fornitura della bombola e, dunque, del rischio al quale egli sarebbe andato incontro qualora glie l’avesse venduta; invero, è lo stesso SCARANTINO ad ammettere che la sua “famiglia” si riforniva abitualmente dallo stesso Peppuccio dell’acido necessario per sciogliere i cadaveri e che questi ne era consapevole; significa, perciò, che la vendita della bombola avrebbe comportato un rischio ben maggiore di quello che poteva comportare il coinvolgimento in un fatto illecito quale la distruzione di un cadavere.
Anche a ritenere veritiero il racconto di SCARANTINO, è del tutto inverosimile che il venditore di bombole fosse stato messo realmente al corrente della destinazione finale della bombola.
SCARANTINO ha proseguito dicendo che Salvatore PROFETA gli disse di lasciar perdere la questione della bombola, cioè che non se ne faceva nulla; però ha aggiunto che – vista la potenza dell’esplosione che si era verificata in via D’Amelio – a suo giudizio sicuramente era stata usata una bombola di quel tipo e, poiché a lui non era stato chiesto di andare a rubarla, sicuramente ci erano andati Natale GAMBINO, Nino GAMBINO, Tanino MORANA e “Peppuccio il fabbro”.
Furono il cognato Salvatore PROFETA e Giuseppe CALASCIBETTA a commissionargli il furto di un’auto di piccola cilindrata.
SCARANTINO: … mio cognato e Peppuccio CALASCIBETTA mi hanno detto ‘Si deve andare a fare una macchina piccola, di cilindrata piccola’, gli ho detto ‘Va be’, la macchina la vado a fare io, una 126’ gli ho detto, ‘porto una 126’ però io già la 126 ce l’avevo, me l’ha portata CANDURA e VALENTI che gli ho dato 150.000 più gli davo la droga, gli davo buste di droga e questa macchina non è che io l’ho presa per andare a fare la strage, l’ho presa così, per farla aggiustare, per fare cambiare i pezzi e l’ho messa là sotto al fiume, accanto al magazzino di Ciccio TOMASELLO… (…) L’indomani gli ho detto ‘La 126 l’ho fatto, la 126 l’ho fatto’ e due giorni, tre giorni prima è venuto Cosimo VERNENGO e Tanino, gliel’ha detto mio cognato e Peppuccio ‘prendiamo questa 126 e la portiamo in via Messina Marine’, non subito nel garage di Giuseppe OROFINO, l’abbiamo messo in via Messina Marine posteggiata normale.
In seguito, nel pomeriggio del sabato precedente la strage la “126” venne portata da Giuseppe OROFINO nel proprio garage; c’erano anche Natale GAMBINO, Renzo TINNIRELLO, Pietro AGLIERI, Francesco TAGLIAVIA, Cosimo VERNENGO e Franco URSO (genero di Pietro VERNENGO, di professione elettricista). Mentre costoro allestivano l’autobomba, allo SCARANTINO e ad altri venne affidato l’incarico di vigilare all’esterno. SCARANTINO: … e io, Tanino e Natale giravamo con il peugeottino là, sempre in via Messina Marine se vedevamo sbirri, li dovevamo avvisare o gli si sparava o… avevamo le pistole addosso…
Ha proseguito SCARANTINO riferendo che la mattina del sabato precedente la strage egli ebbe occasione di apprendere che era stata fatta una intercettazione telefonica al magistrato.
P.M.: Perché si è deciso di fare sabato, di imbottire la macchina e domenica portarla in via D’Amelio? Si era saputo che era quello…?
SCARANTINO: C’è stato… che è venuto, c’era, eravamo nel bar, bar BADALAMENTI alla Guadagna… ed è venuto un ragazzo, una persona, lo chiamano ‘Tanuzzo’, non mi ricordo bene, e c’ero io, Natale GAMBINO, Cosimo ed è arrivata questa persona, giovane, per parlare con Natale o con Cosimo… dice… ‘Mio fratello il lavoro lo ha fatto bello sistemato’ ed io per educazione sono entrato nel bar a prendere il caffè ed ho lasciato loro che parlavano e dopo dice ‘Min… stavolta ce lo inculiamo’ ha detto Natale… dice ‘Stavolta lo fottiamo, c’è cascato con l’intercettazione del telefono, stavolta ce lo inculiamo’, dopo io me ne sono andato, è venuto lui il sabato mattina, io me ne sono andato per i fatti miei…
La mattina della domenica egli partecipò alla “scorta” della “126”, che venne portata sul luogo dell’attentato; SCARANTINO era a bordo della propria Ranault “19”, c’erano anche Pino LA MATTINA con la sua Fiat “127” bianca, Natale GAMBINO con la sua “126”, Tanino MORANA con la “127” azzurra; la “126” che doveva esplodere era guidata da Renzo TINNIRELLO.
SCARANTINO: Pietro AGLIERI aspettava ai ‘Leoni’, siamo arrivati ai ‘Leoni’ e ci hanno fatto segnale che noi potevamo andarcene, questa macchina non l’avevano portata subito in via D’Amelio, o l’hanno messa in un garage o in qualche box da quelle parti, non sono sicuro se questo Peppuccio CONTORNO ha il box, perché abita in quelle vie, di viale Lazio, abita in queste vie, noi ce ne siamo andati, io me ne sono andato per i fatti miei…
Sul posto, con la “autobomba”, rimasero Renzo TINNIRELLO, Pietro AGLIERI e Francesco TAGLIAVIA. Erano circa le 7.30 quando egli li lasciò e se ne andò; più tardi al bar incontrò il cognato, al quale disse che era tutto a posto; più tardi, verso le 10.30-11 ebbe occasione di assistere ad una rissa in chiesa.
Apprese in strada, poco dopo le 17, che BORSELLINO era stato ucciso; salì allora a casa del cognato, che era intento a guardare la televisione.
SCARANTINO ha proseguito dicendo che a premere il telecomando in via D’Amelio erano stati Renzo TINNIRELLO, Pietro AGLIERI e Francesco TAGLIAVIA: non ha chiarito però come lo apprese, limitandosi a riferire che Natale GAMBINO gli disse che in via D’Amelio “ci sono andati tre con le corna d’acciaio”.
Dunque, lo SCARANTINO non ha riferito fatti percepiti direttamente, giacché prima aveva detto di essersi allontanato dalla “126”, lasciando quelle tre persone con l’auto: è dunque probabile che si tratti di una semplice deduzione dello SCARANTINO, visto che le persone indicate sono proprio quelle che vide rimanere vicino all’autobomba quando egli se ne allontanò.
Poi SCARANTINO ha ribadito di avere commissionato il furto della “126” al CANDURA prima della riunione in cui si sarebbe decisa l’uccisione di Paolo BORSELLINO e che, quando suo cognato gli chiese di rubare un’auto piccola, egli già disponeva di quella “126” ma non lo disse, invece promise che ne avrebbe procurata una quanto prima, per fare bella figura.
Il CANDURA un giorno di pomeriggio gli consegnò alla Guadagna la “126” rubata; egli la parcheggiò per la strada, ma poiché gli pareva che fosse troppo in vista poi la spostò vicino al fiume Oreto, vicino al garage di Ciccio TOMASELLO.
Lo SCARANTINO ha poi ribadito che, dai discorsi fatti con Natale GAMBINO e Giuseppe CALASCIBETTA e anche dall’entità dello scoppio verificatosi in via D’Amelio egli comprese che era stata adoperata una bombola.
P.M.: … lei sa per certo che poi la bombola è stata recuperata e quindi è stata messa sulla autovettura che è servita come autobomba, è sicuro di questo?
SCARANTINO: Questa bombola si cercava, si cercava di averla perché con l’esplosivo non è che poteva fare questo danno, l’unico modo di non lasciare tracce… della 126… l’unico modo era questa bombola…
P.M.: Ma lei sa se poi l’hanno, lei ha la certezza… qualcuno le ha detto che poi la bombola è stata trovata, oppure…?
SCARANTINO: No… non è che ho la certezza che poi la bombola l’hanno trovata… ma come ne parlavano… Natale, Peppuccio, ne parlavano come se ce l’avessero messa, Peppuccio… andava e veniva…
P.M.: Peppuccio chi intende?
SCARANTINO: Calascibetta… (…)
P.M.: Senta… lei sa… che tipo di esplosivo… è stato usato?
SCARANTINO: No, no.
P.M.: Sa dove è stato procurato?
SCARANTINO: Ma io penso… che l’ha portato Cosimo VERNENGO, perché ho visto arrivare Cosimo VERNENGO con una Jeep, però ho visto che è entrato a marcia indietro nel garage di OROFINO.
P.M.: Quindi il sabato pomeriggio?
SCARANTINO: Sì.
Il passo appena riportato appare estremamente eloquente. Lo SCARANTINO palesa una incompetenza assoluta in materia di esplosivi, mostrando di ritenere che l’esplosione di una “bombola” faccia un danno molto maggiore di quello che si potrebbe provocare con un comune esplosivo. Ma è evidente anche che lo SCARANTINO non sa nulla circa le modalità di confezione della carica esplosiva utilizzata in via D’Amelio.
Pertanto il tenore delle risposte fornite fino a quel momento non giustificava affatto la domanda posta dal Pubblico Ministero sul tipo di “esplosivo” impiegato in via D’Amelio; ancor meno giustificate appaiono le ulteriori domande poste sull’argomento, a loro volta non giustificate dalla prima risposta – negativa – fornita al riguardo dallo SCARANTINO, l’unica genuina e coerente con le precedenti. Le successive risposte appaiono indubbiamente influenzate dall’interrogante, anche perché non è affatto chiaro come possa lo SCARANTINO ricollegare razionalmente la venuta del VERNENGO nell’officina dell’OROFINO con l’impiego dell’esplosivo.
In ogni caso, lo SCARANTINO, anziché persistere nella propria convinzione riguardo all’uso esclusivo di una bombola per l’attentato di via D’Amelio, ha colto al volo il pensiero dell’interrogante e ha iniziato a rispondere sulla quella falsariga.
Lo SCARANTINO ha poi aggiunto che alla “126” vennero sostituite le targhe, ma non ha saputo precisare dove vennero prese quelle che vi vennero montate; la domenica mattina fu Pietro AGLIERI a prelevare l’auto dall’officina di OROFINO e a condurla ai “Leoni”; inoltre, la domenica mattina Renzo TINNIRELLO suggerì all’OROFINO di rompere il lucchetto che chiudeva il portone.
Va rilevato però che poco prima lo SCARANTINO aveva detto che Pietro AGLIERI la mattina di domenica 19 luglio attese il corteo delle auto ai “Leoni” e che la “126” era stata condotta fin lì dal TINNIRELLO. In conclusione, va detto che le dichiarazioni dello SCARANTINO in ordine al furto della “126” usata per la strage sono in netto contrasto con l’epoca del furto risultante dalla denuncia sporta da Pietrina VALENTI, secondo la quale l’auto le fu rubata nella notte tra il 9 e il 10 luglio: dunque, lo SCARANTINO non poteva averla già ricevuta dal CANDURA prima della riunione alla villa di CALASCIBETTA, collocata intorno al 26 giugno».
Ciò posto, deve osservarsi che le suesposte dichiarazioni dello Scarantino, pur essendo sicuramente inattendibili (come è stato successivamente ammesso dall’imputato ed è comprovato dai numerosi elementi di prova già analizzati nel capitolo relativo alla ricostruzione della fase esecutiva della strage di Via D’Amelio), contengono alcuni elementi di verità, che, secondo una ragionevole valutazione logica, devono necessariamente essere stati suggeriti da altri soggetti, i quali, a loro volta, li avevano appresi da ulteriori fonti rimaste occulte.
In particolare, le risultanze istruttorie emerse nel presente procedimento confermano in modo inequivocabile sia la circostanza che l’autovettura fosse stata rubata mediante la rottura del bloccasterzo, sia l’avvenuta sostituzione delle targhe del veicolo: due dati di fatto che lo Scarantino ha riferito sin dal primo interrogatorio reso dopo la manifestazione della sua volontà di “collaborare” con la giustizia, e che erano sicuramente estranei al suo personale patrimonio conoscitivo. Lo Scarantino è ritornato sulla propria versione dei fatti nell’interrogatorio del 29 giugno 1994, confermandola ampiamente ma con l’aggiunta di alcune precisazioni e modifiche.
[…]
In questo ulteriore interrogatorio, reso a cinque giorni di distanza dal precedente, dunque, lo Scarantino ha continuato ad accompagnare numerose circostanze false con taluna oggettivamente veridica (come la affermazione che, essendo stato rotto il bloccasterzo dell’autovettura, il contatto veniva stabilito collegando tra loro i fili dell’accensione), e ha inserito nel suo racconto alcune modifiche che potevano indurre in errore sulla sua credibilità: in particolare, l’epoca della riunione nella villa del Calascibetta in cui era stata decisa l’eliminazione del magistrato è stata spostata in avanti, collocandola tra la fine di giugno e i primi di luglio, mentre l’epoca del furto dell’autovettura è stata avvicinata a quella dichiarata nella denuncia, in quanto lo Scarantino ha riferito di avere avuto il veicolo a propria disposizione già sette giorni prima di venerdì 17 luglio.
Il tentativo della Scarantino di superare alcune precedenti contraddizioni con altre fonti di prova traspare con assoluta chiarezza dall’interrogatorio reso il 25 novembre 1994 davanti al Pubblico Ministero rappresentato dal dott. Carmelo Petralia, dalla dott.ssa Anna Maria Palma e dal dott. Antonino Di Matteo. […] Nelle ultime risposte fornite dallo Scarantino è percepibile con chiarezza il tentativo, malriuscito, di superare i contrasti riscontrabili tra la sua versione dei fatti e quella esposta da altri collaboratori di giustizia, nonché le molteplici contraddizioni presenti nel suo percorso dichiarativo.
[…] Nella successiva sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo n. 29/97 R.G.C.Ass. (c.d. “Borsellino ter”) si è osservato che, nell’esame reso all’udienza dell’8 marzo 1997, lo Scarantino ha inserito anche Salvatore Profeta e Giuseppe Graviano tra le persone che andarono nella carrozzeria di Giuseppe Orofino mentre si stava preparando la “autobomba”, precisando di non avere rivelato prima i loro nomi perché aveva paura. Quest’ultima pronuncia ha rilevato che «tali dichiarazioni appaiono emblematiche, tanto della personalità dello SCARANTINO, quanto del suo rapporto di “collaborazione” con l’Autorità Giudiziaria. La dichiarazione riguardante gli SCOTTO, che mostra un insanabile contrasto con quelle rese in precedenza, evidentemente è frutto dell’ennesimo “aggiustamento” fatto per adeguare la propria versione dei fatti agli sviluppi delle indagini e del processo. Inoltre, si assiste all’ennesimo tentativo maldestro da parte dello SCARANTINO di giustificare le persistenti incertezze e contraddizioni adducendo il timore di coinvolgere determinati soggetti: in precedenza aveva detto di avere avuto paura ad accusare Giovanni BRUSCA, timore che invece non sentiva nei riguardi dei GRAVIANO, mentre appare assurdo che egli non abbia fatto il nome del cognato per paura, avendolo già accusato di avergli commissionato il furto della “126”».
L’esame condotto sulle predette dichiarazioni evidenzia, dunque, come attraverso una pluralità di deposizioni lo Scarantino avesse incolpato Profeta Salvatore, Scotto Gaetano, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano ed Urso Giuseppe di aver partecipato alle fasi esecutive dell’attentato, attribuendo loro le condotte sopra descritte.
La completa falsità di tali dichiarazioni emerge con assoluta certezza non solo dall’esplicita ammissione operata dallo stesso Scarantino, ma anche, e soprattutto, dalla loro inconciliabilità con le circostanze univocamente accertate nel presente processo, che hanno condotto alla ricostruzione della fase esecutiva dell’attentato in senso pienamente coerente con le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, come si è visto nel capitolo attinente alla posizione dell’imputato Vittorio Tutino.
Da tale ricostruzione emerge in modo inequivocabile, oltre alla inesistenza della più volte menzionata riunione presso la villa del Calascibetta, la mancanza di qualsiasi ruolo dello Scarantino nel furto della Fiat 126, la quale, per giunta, non venne mai custodita nei luoghi da lui indicati, né ricoverata all’interno della carrozzeria dell’Orofino per essere ivi imbottita di esplosivo. A fortiori, devono ritenersi del tutto false le condotte di altri soggetti, delineate dallo Scarantino in rapporto alle suddette fasi dell’iter criminis da lui descritto.
Le calunnie del “pupo”
All’imputato Vincenzo Scarantino viene contestato il delitto di calunnia continuata e aggravata (artt. 61 n. 2, 81 cpv. e 368, commi 1 e 3 c.p.), consistente nell’avere, nel corso degli interrogatori e degli esami dibattimentali resi nell’ambito dei procedimenti per la strage di via D’Amelio, incolpato falsamente, pur sapendoli innocenti, Profeta Salvatore, Scotto Gaetano, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano ed Urso Giuseppe di aver partecipato alle fasi esecutive dell’attentato, e, quindi, della commissione del delitto di strage, per il quale i medesimo soggetti furono condannati alla pena dell’ergastolo.
In particolare, le condotte costitutive del delitto di calunnia, attribuito allo Scarantino, si sostanziano nell’avere accusato:
Profeta Salvatore, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe e Murana Gaetano di essere stati presenti alla riunione organizzativa della strage tenutasi presso la villa di Calascibetta Giuseppe, nel corso della quale i predetti sarebbero erano rimasti fuori dal salone in compagnia del medesimo Scarantino;
Profeta Salvatore, di avere incaricato lo Scarantino, al termine della predetta riunione, di reperire un’autovettura di piccola cilindrata ed una sostanza contenuta in bombole comunemente utilizzata per tagliare i binari dei treni;
Gambino Natale, di avere avvisato lo Scarantino – il venerdì precedente alla strage – di rendersi disponibile per il trasporto della macchina all’officina di Orofino Giuseppe;
Vernengo Cosimo e Murana Gaetano, di aver trasportato, unitamente allo Scarantino, la Fiat 126 nel garage di Orofino Giuseppe il venerdì prima della strage;
Scotto Gaetano, di aver reso possibile, attraverso l’opera del fratello Pietro, l’intercettazione del telefono in uso alla madre del dott. Borsellino al fine di avere contezza degli spostamenti del magistrato alla via Mariano D’Amelio, in particolare riferendo di un incontro avvenuto, il sabato mattina precedente la strage, presso il bar Badalamenti nel quartiere della Guadagna, ove lo Scotto era giunto a bordo di una autovettura guidata dal fratello Pietro (che era rimasto in auto ad attenderlo) e dove aveva avuto un colloquio, alla presenza dello Scarantino, con Gambino Natale e Vernengo Cosimo nel quale aveva esplicitamente fatto riferimento all’avvenuta intercettazione dell’utenza telefonica attestata in via D’Amelio, e specificando altresì di averlo visto – la settimana precedente – a colloquio con le stesse persone e nello stesso bar, ove era giunto pur sempre a bordo di una vettura in compagnia del fratello Pietro;
Gambino Natale di avere avvisato lo Scarantino il pomeriggio del sabato antecedente alla strage di portarsi presso l’officina di Orofino Giuseppe;
Gambino Natale e Murana Gaetano di essere stati impegnati, unitamente allo Scarantino, nell’attività di pattugliamento nei pressi della predetta officina durante il caricamento dell’autobomba;
Profeta Salvatore, Vernengo Cosimo, Urso Giuseppe, nella sua qualità di elettricista, e La Mattina Giuseppe, di essere stati presenti, il pomeriggio del sabato antecedente alla strage, al caricamento dell’autobomba all’interno dell’officina di Orofino Giuseppe, dove il Vernengo, unico tra i presenti, avrebbe fatto ingresso a bordo di un’autovettura Suzuki Vitara di colore bianco;
La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano e Gambino Natale di aver infine partecipato, ciascuno a bordo della propria autovettura, la domenica del 19 luglio 1992 al trasferimento dell’autobomba dall’officina di Orofino Giuseppe a piazza Leoni.
Il tempus commissi delicti del reato continuato di calunnia è stato individuato dal Pubblico Ministero nelle seguenti date:
– il 24.6.1994 ed il 25.11.1994 (con particolare riguardo alla riferita condotta di partecipazione alla riunione tenutasi presso la villa di Calascibetta) per le dichiarazioni rese sul conto di Murana Gaetano;
– il 24.6.1994, il 29.6.1994 (in relazione alla riferita condotta di avere avvisato lo Scarantino, il venerdì precedente alla strage, di rendersi disponibile per il trasporto della macchina all’officina di Orofino) e l’8.3.1997 (con particolare riguardo alla riferita condotta di avere avvisato lo Scarantino il sabato di portarsi presso l’officina dell’Orofino per svolgere l’attività di pattugliamento durante il caricamento della Fiat 126) per le dichiarazioni rese sul conto di Gambino Natale;
– il 24.6.1994 per le dichiarazioni rese sul conto di Urso Giuseppe;
– il 24.6.1994 e l’8.3.1997 (con particolare riguardo alla riferita condotta di essere stato presente al caricamento dell’autobomba all’interno dell’officina di Orofino Giuseppe il sabato pomeriggio precedente alla strage) per le dichiarazioni rese sul conto di La Mattina Giuseppe;
– il 24.6.1994 per le dichiarazioni rese sul conto di Vernengo Cosimo;
– il 24.6.1994 ed il 29.6.1994 (con particolare riguardo alle dichiarazioni relative all’incontro avuto con il Vernengo e con Gambino Natale la settimana precedente alla strage nel bar Badalamenti) per le dichiarazioni rese sul conto di Scotto Gaetano;
– il 24.6.1994 ed il 24.5.1995 (con particolare riguardo alle dichiarazioni relative alla presenza, il sabato antecedente alla strage, al caricamento dell’autobomba all’interno dell’officina di Orofino Giuseppe) per le dichiarazioni rese sul conto di Profeta Salvatore.
In particolare, l’interrogatorio del 24 giugno 1994 è stato reso dallo Scarantino al Pubblico Ministero, in persona della dott.ssa Ilda Boccassini e del dott. Carmelo Petralia, e in presenza altresì del dirigente della Polizia di Stato dott. Arnaldo La Barbera. In tale occasione lo Scarantino, anzitutto, ha dichiarato “spontaneamente” quanto segue: «Effettivamente ho fatto pervenire alle SS.VV. una mia richiesta di conferire immediatamente con L’A.G. di Caltanissetta perché in questi mesi di detenzione ho maturato finalmente la decisione di collaborare con la Giustizia e di riferire con lealtà e sincerità tutto quello che è di mia conoscenza sulla strage di Via D’Amelio e su tutti gli altri reati che io ho commesso nel corso della mia vita. Premetto che sono responsabile insieme ad altri della morte del Giudice Paolo BORSELLINO. Intendo cominciare sin da oggi la mia collaborazione e prendo atto che l’odierno interrogatorio avviene alla presenza dell’Avvocato Luigi LI GOTTI del Foro di Roma; intendo quindi revocare i miei legali di fiducia». Come riportato nel verbale, lo Scarantino, quindi, ha dichiarato «l’intenzione di collaborare con la Giustizia ammettendo anzitutto di essere uomo d’onore e spiegando tempi e modalità della sua affiliazione, riferendo che era stato combinato circa due anni prima della strage di cui è processo». Egli ha riferito «della riunione in cui si decise la consumazione della strage in danno del Dott. Borsellino, indicandone tempi luoghi e partecipanti, precisando che la stessa si era tenuta nella villa di “Peppuccio” CALASCIBEITA verso il 23 giugno del 92. Ad essa, tra gli altri, partecipò Salvatore RIINA e Pietro AGLIERI che la presiedettero. La stessa ebbe termine circa 3 ore dopo». Lo Scarantino ha riferito «inoltre dell’incarico ricevuto subito dopo da PROFETA e Pietro AGLIERI in ordine all’acquisto di una “bombola” di ossigeno da utilizzarsi come mezzo deflagrante in grado di distruggere completamente l’ “autobomba”». Nel verbale si precisa che lo Scarantino «continua poi riferendo dell’incarico, ricevuto dal cognato PROFETA Salvatore, di procurare una autovettura di piccola cilindrata che doveva servire da autobomba, Dichiara di essere stato già in possesso di una FIAT 126 in quanto ricevuta da CANDURA Salvatore e VALENTI Luciano, cui egli aveva commissionato il furto in cambio di 150.000 e droga. Descrive poi che la stessa auto fu portata in via Messina Marine e parcheggiata sulla strada. Successivamente la stessa fu custodita nell’autofficina di OROFINO Giuseppe, coindagato. SCARANTINO riferisce inoltre che il sabato mattina, giorno prima della strage tale “Tanuccio” o Gaetano si presentò nel bar di BATALAMENTI dove riferì a lui stesso e a gli altri complici che, il proprio fratello aveva effettuato l’intercettazione del telefono del Giudice BORSELLINO e che “tutto era a posto”. Conferma che l’autovettura è stata “preparata” il sabato pomeriggio precedente la strage nell’autofficina di OROFINO e che la stessa la domenica mattina, giorno della strage, verso le 6,00-6,30, fu portata, scortata dallo stesso, nei pressi di piazza dei Leoni. Riferisce poi di aver appreso da Natale GAMBINO che materialmente il telecomando fu premuto da “Ciccio” TAGLIAVIA, Pitero AGLIERI e Renzino TINNIRELLO in un appartamento nella loro disponibilità nei pressi del luogo della strage». Sollecitato dal Pubblico Ministero, «SCARANTINO riferisce di non avere ricordi precisi su chi ha fornito i telecomandi usati dal commando, ma dichiara che un personaggio molto importante vicino a Pietro AGLIERI, di nome Salvatore e proprietario di un’AUDI 80, potrebbe essere colui il quale fornii il materiale tecnico, persona che lo stesso SCARANTINO conobbe, indicatogli da AGLIERI, quando l’indagato doveva acquistare una cameretta per la casa. Infatti giorni dopo si recò presso il negozio di detto Salvatore che potrebbe identificarsi per SBEGLIA Salvatore arrestato per la strage di Capaci e che lo stesso SCARANTINO avrebbe rivisto sui giornali quando si trovava nel carcere di Termini Imerese». Lo Scarantino quindi ha raccontato «numerosi episodi da lui conosciuti relativi sia a fatti di sangue sia a traffico di stupefacenti». Il Pubblico Ministero ha chiesto al dichiarante come mai, visto che solamente da circa 4 anni era stato affiliato, egli poteva conoscere tutti questi fatti delittuosi, anche di notevole rilevanza. Egli ha risposto «che fin dall’età di 11 anni era il pupillo di capi famiglia e uomini d’onore ed era nelle grazie sia di Ignazio e Giovanni PULLARA’ che di Pietro AGLIERI. Grazie a ciò poteva apprendere i fatti di sangue descritti». Dopo essersi soffermato sugli omicidi di Santino Amato e Salvatore Lombardo, lo Scarantino ha risposto ad una serie di ulteriori domande del Pubblico Ministero. Alla domanda «se il furto della macchina era stato commissionato in funzione della strage o per altri motivi», lo Scarantino ha risposto «che commissionò il furto al CANDURA e VALENTI per rivenderla a pezzi oppure per sostituire i pezzi ad una delle 126 di cui disponevo. Al CANDURA lo SCARANTINO consegnò in cambio della vettura rubata 150.000 lire e un quantitativo di eroina. La macchina fu portata al fiume presso un suo deposito. La macchina procurata dal CANDURA era color ruggine». Essendogli stato chiesto nuovamente se realmente la bombola era stata procurata ed adoperata per l’esecuzione della strage, «SCARANTINO riferisce di non avere la certezza dell’uso della bombola ma di aver capito che sia Natale GAMBINO che Peppuccío CALASCIBETTA si erano adoperati attivamente per ricercarla. SCARANTINO riferisce di non conoscere ne il tipo dell’esplosivo usato, ne il nome di colui che l’aveva procurato, ma ricorda che Cosimo VERNENGO il giorno prima della strage arrivo con una IEEP presso il garage di OROFINO entrando verso le cinque del pomeriggio ed uscendo verso le 21,30 e che il VERNENGO aveva disponibilità di esplosivi. Dichiara che OROFINO era presente poichè aveva aperto il cancello». Al Pubblico Ministero che gli ha domandato come mai era stato scelto proprio il garage dell’Orofino, lo Scarantino ha risposto che l’Orofino era un uomo di fiducia e che di lui rispondeva personalmente Tinnirello Renzino, ed ha aggiunto che «fu proprio OROFINO ad aggiustare il bloccasterzo rotto della FIAT 126», specificando altresì che «alla stessa furono cambiate le targhe», senza però indicare precise circostanze al riguardo. Ha inoltre affermato che «fu Natale GAMBINO a comunicare allo SCARANTINO l’ora in cui si dovevano ritrovare l’indomani per scortare l’autovettura. Il trasporto dell’auto terminò alle ore 7,20». Lo Scarantino a questo punto ha descritto «il modo in cui trascorse le ore successive della domenica sino alle 17,30 circa quando cominciò a circolare la notizia dell’esplosione in via D’Amelio». Al Pubblico Ministero che gli chiedeva di chiarire le sue precedenti dichiarazioni sull’elettricista che era intervenuto il sabato nell’autofficina dell’Orofino, lo Scarantino ha risposto «dicendo che si chiamava Pietro URSO, genero di VERNENGO, uomo d’onore, titolare tra l’altro di un deposito di bibite e proprietario di un motoscafo dove lo stesso SCARANTINO aveva viaggiato», e ha ribadito «che questi è specializzato in elettricità precisando che se era entrato nel garage quel pomeriggio doveva aver qualche compito specifico da fare». Parlando nuovamente della riunione precedente la strage, lo Scarantino ha ribadito «che fu proprio RIINA a decidere con autorità della morte del Giudice Borsellino venendo sostenuto da AGLIERI», e che tutti gli altri partecipanti non espressero nessuna opinione contrastante, né avrebbero potuto farlo, stante l’autorità indiscussa del Riina. Egli ha inoltre sostenuto di essere sicuramente in grado di riconoscere fotograficamente i partecipanti alla riunione, ha elencato i componenti della sua “famiglia” mafiosa, capeggiata da Pietro Aglieri, ed ha precisato «che per la strage di cui è processo non sa se c’è stato l’aiuto di qualcuno di altre famiglie aggiungendo che in occasione di questi fatti si mantiene il più stretto riserbo». Ha, infine, raccontato dell’omicidio Lucera ed escluso di conoscere Bagarella e Provenzano. (pagg 1665 -1671)
l testimone “imbeccato” a dovere
Si devono ora analizzare le dichiarazioni rese da Francesco Andriotta nell’ambito dell’odierno dibattimento, anche rispetto a quelle rese negli interrogatori espletati in fase d’indagine preliminare (come detto, acquisite al fascicolo per il dibattimento col consenso delle parti). In primo luogo, Andriotta spiegava che veniva collocato nel carcere di Busto Arsizio, nell’estate del 1993, su sua richiesta. Dopo l’allocazione nella cella accanto a quella di Vincenzo Scarantino, che si era sempre protestato estraneo ai fatti di via D’Amelio (“Io devo ribadire che Scarantino ha sempre ribadito che era innocente”), riceveva una visita da parte del dottor Arnaldo La Barbera e dal dottor Vincenzo Ricciardi. Tale visita “importante” gli veniva anche preannunciata dal comandante della polizia penitenziaria di quel carcere. La richiesta degli inquirenti era quella di collaborare con la giustizia, sui fatti di via D’Amelio. Andriotta faceva subito presente che non sapeva alcunché della strage e gli inquirenti gli spiegavano che volevano “incastrare” e mettere con le “spalle al muro” Vincenzo Scarantino, inducendolo a collaborare, poiché erano assolutamente certi del suo coinvolgimento nell’eccidio del 19 luglio 1992. In cambio, venivano prospettati ad Andriotta, all’epoca condannato all’ergastolo con sentenza di primo grado (non ancora definitiva), benefici come il programma di protezione, per lui e la famiglia (negli Stati Uniti d’America) e la riduzione della pena perpetua con una temporanea (di diciassette o diciotto anni di reclusione). Contestualmente, gli veniva accennato, da parte di Arnaldo La Barbera, il contenuto delle dichiarazioni che doveva rendere in merito al furto della Fiat 126 utilizzata come autobomba in via D’Amelio ed i nomi dei soggetti che doveva chiamare in causa per quella strage. Di fronte alle resistenze di Andriotta, il dottor Arnaldo La Barbera lo invitava a prender tempo ed a rifletterci meglio, anche se non per troppo tempo, perché in carcere “si può sempre scivolare e rimanere per terra”, mentre il dottor Vincenzo Ricciardi dava un buffetto sulla guancia di Andriotta, invitandolo ad ascoltare il collega e dicendogli che lo avrebbero aiutato e sostenuto. Sulla persona che accompagnava, in detta occasione, Arnaldo La Barbera, Andriotta spiegava (senza alcuna esitazione od incertezza) che si trattava proprio di Vincenzo Ricciardi e che detto ricordo gli affiorava gradualmente(effettivamente, l’imputato ne riferiva già in fase d’indagine preliminare). L’imputato non ricordava se, prima di fargli la suddetta proposta di rendere le false dichiarazioni sulle confidenze carcerarie di Vincenzo Scarantino, i due funzionari di polizia gli prospettavano anche la possibilità di divenire un loro informatore. A tal proposito, Andriotta (dietro precisa indicazione di Arnaldo La Barbera) rifiutava, anche dopo l’avvio della sua falsa collaborazione, quanto prospettatogli dal Pubblico Ministero con cui rendeva i primi interrogatori (la dott.ssa Ilda Boccassini), vale a dire di ritornare in carcere a Busto Arsizio, per registrare le sue conversazioni con Scarantino, accampando, timori per la propria incolumità personale, in caso di ritorno in quell’istituto da ‘collaboratore’. In epoca successiva rispetto alla visita carceraria di Arnaldo La Barbera e Vincenzo Ricciardi, quando ancora non aveva accettato la loro proposta, Andriotta veniva prelevato dalla cella, di notte, e portato nel cortile del passeggio (analogamente a Vincenzo Scarantino), dove veniva minacciato da un giovane agente di polizia penitenziaria, con accento palermitano, che lo sollecitava “a dire le cose come ti hanno riferito”, perché Scarantino era colpevole. L’agente della penitenziaria, inoltre, gli metteva un foulard, a mo’ di cappio, attorno al collo (quest’ultimo particolare, comunque, già dichiarato dall’imputato anche nell’interrogatorio del 17.7.2009, veniva confermato al dibattimento dopo la contestazione del Pubblico Ministero). Analogo trattamento veniva riservato a Scarantino, come Andriotta poteva udire in carcere (quella stessa notte, oppure in un’altra occasione).Anche in altre circostanze, Andriotta, sentiva che Scarantino urlava, perché sottoposto a maltrattamenti, nel carcere di Busto Arsizio; il compagno di detenzione gli confidava poi che i maltrattamenti erano da parte di Arnaldo La Barbera (anche su tale circostanza, non secondaria e non confermata da Scarantino, l’imputato confermava le sue precedenti dichiarazioni soltanto dopo la contestazione del Pubblico Ministero). Scarantino raccontava ad Andriotta che gli facevano mangiare cibo contenente urina e che non lo curavano adeguatamente, quando stava male. Andriotta, su indicazione di Arnaldo La Barbera, parlava a Scarantino della morte in carcere di Nino Gioè, per fargli pressione psicologica, cercando d’incutergli tensione e paura (detta circostanza, peraltro, veniva negata da Andriotta, nel confronto pre-dibattimentale con Vincenzo Scarantino). Andriotta decideva, poi (non è affatto chiaro in quale momento e, soprattutto, in che modo), d’accettare le proposte ricevute dai predetti funzionari, dopo aver riflettuto sul colloquio con Arnaldo La Barbera e Vincenzo Ricciardi, e chiedeva d’essere interrogato dalla dott.ssa Zanetti della Procura di Milano (vale a dire il Pubblico Ministero del processo per omicidio, a suo carico) sulle vicende che lo riguardavano direttamente, per far presente, in un secondo momento, come suggeritogli da Arnaldo La Barbera, che era in condizione di riferire anche circostanze utili alle indagini sulla strage di via Mariano D’Amelio. Ancora, Andriotta parlava di un successivo incontro avvenuto alla Procura di Milano, dopo aver sostenuto un primo interrogatorio (con la dott.ssa Zanetti) sull’omicidio del quale era accusato e prima d’essere ascoltato dalla dott.ssa Boccassini, proprio in relazione alle conoscenze millantate sulla strage di via D’Amelio. In quell’occasione, Andriotta conosceva anche Salvatore La Barbera, che entrava, seguito da Vincenzo Ricciardi, nella stanza dove l’imputato attendeva d’essere condotto davanti al magistrato. L’imputato inoltre confermava (dopo la contestazione di quanto dichiarato nella fase delle indagini) la presenza di Arnaldo La Barbera (detta presenza, comunque, è documentata, in occasione dell’interrogatorio del 14 settembre 1993, che segnava l’avvio della ‘collaborazione’ di Francesco Andriotta). In tale occasione, Salvatore La Barbera raccomandava ad Andriotta di seguire quello che gli suggeriva Arnaldo La Barbera, che era “il numero uno”, una vera e propria “potenza” ed avrebbe mantenuto le promesse. Quando Andriotta rispondeva che lui non sapeva alcunché della strage di via D’Amelio, il funzionario gli strizzava l’occhiolino, dicendo che Scarantino, nel carcere di Busto Arsizio, gli parlava della strage. Inoltre, prima che Andriotta venisse condotto davanti alla dott.ssa Boccassini, Arnaldo La Barbera entrava nella stanza dove l’imputato attendeva e gli spiegava che doveva fare i nomi di Scarantino, Profeta, Orofino e Scotto, come persone coinvolte nella strage di via D’Amelio, in base alle confidenze carcerarie ricevute dal primo, nel carcere di Busto Arsizio. Il predetto dialogo con i funzionari di polizia, prima dell’atto istruttorio del 14 settembre 1993, che segnava l’avvio della falsa collaborazione di Francesco Andriotta, non durava a lungo (appena cinque o dieci minuti circa, secondo l’imputato), a fronte di un interrogatorio di ben otto ore (il relativo verbale è composto da oltre diciassette pagine). Sul punto, Andriotta spiegava, in modo assai poco convincente e lineare, poiché molto generico e con dichiarazioni assolutamente inedite prima del dibattimento, che, in precedenza, gli giungevano (neppure è dato sapere se al carcere di Busto Arsizio, oppure in quello di Saluzzo) degli appunti, da parte del dottor Arnaldo La Barbera, con scritto quello che doveva imparare e dichiarare all’autorità giudiziaria. L’imputato dichiarava anche d’aver ricevuto, nel corso del tempo, in due o tre occasioni, delle somme di danaro per un totale di circa dieci o dodici milioni di Lire, ulteriori rispetto alle somme accreditategli dal Servizio Centrale di Protezione. Dette somme, a dire di Andriotta, venivano consegnate, in un’occasione, direttamente alla sua ex moglie (Bossi Arianna), da Arnaldo La Barbera e, un’altra volta, invece, nelle sue mani, da Mario Bò, durante un permesso premio (negli interrogatori pre-dibattimentali, invece, Andriotta dichiarava che riceveva, personalmente, in entrambi i casi, le somme in questione per cinque milioni di Lire). L’imputato spiegava poi che non riferiva, in precedenza, che parte di quelle somme venivano ricevute dalla sua ex moglie, perché non voleva coinvolgerla nella sua vicenda processuale. Analoga giustificazione veniva data dall’imputato ad un’altra dichiarazione inedita, relativa alla circostanza che la sua ex convivente, Manacò Concetta, a metà degli anni duemila, sapeva della falsità della sua collaborazione con la giustizia e, in un’occasione, gli sputava persino in faccia per questo motivo, dicendogli che sapeva che tutto quello che lui dichiarava sui fatti di via D’Amelio era falso, perché Scarantino non gli aveva mai fatto quelle confidenze35. Oltre alla predetta vicenda degli appunti, contenenti le dichiarazioni da imparare, in vista dell’avvio della collaborazione, l’imputato confermava che, prima di diversi interrogatori con l’autorità giudiziaria, i funzionari di polizia gli indicavano cosa doveva dichiarare ai Pubblici Ministeri. Ad esempio, prima di un interrogatorio nel carcere di Milano Opera con la dottoressa Boccassini, Andriotta aveva un colloquio con il dottor Arnaldo La Barbera (la circostanza, tuttavia, non risulta affatto riscontrata), così come incontrava il predetto funzionario, nel carcere di Vercelli, prima di un altro interrogatorio (quest’ultima affermazione dell’imputato, invece, è riscontrata: il 17 gennaio 1994, Andriotta veniva interrogato, peraltro, aggiungendo circostanze significative rispetto alle sue precedenti rivelazioni ed, in pari data, risulta un colloquio investigativo con Arnaldo La Barbera). Ancora, l’imputato ricordava d’aver incontrato il dottor Mario Bò, nel carcere di Paliano, con il funzionario che gli spiegava cosa doveva dichiarare nell’interrogatorio successivo. Su quest’ultima emergenza si tornerà a breve, ma si deve subito accennare che, dagli accertamenti espletati […], risultano documentati due accessi al carcere di Paliano del predetto funzionario, in occasione degli interrogatori resi da Andriotta il 16 settembre ed il 28 ottobre 1994: la circostanza pare di non poco momento, posto che si trattava proprio dei due interrogatori immediatamente successivi alla sopravvenuta ‘collaborazione’ di Vincenzo Scarantino, dove Andriotta, adeguandosi (in gran parte) alle dichiarazioni dell’ex compagno di detenzione, millantava, per la prima volta, delle confidenze dello stesso Scarantino sulla riunione di Villa Calascibetta, asseritamente taciute, sino ad allora, per timore. Inoltre, Andriotta dichiarava (non senza qualche oscillazione, […]) d’aver ricevuto, mentre era ristretto in cella (con tale Nicola Di Comite), nel carcere di Milano Opera, agli inizi del 1996, tramite il comandante della polizia penitenziaria di detto istituto, corposa documentazione, contenente anche interrogatori resi dal ‘collaboratore’ Vincenzo Scarantino. Ancora, sul tema del materiale scritto che gli veniva messo a disposizione dagli inquirenti, Andriotta dichiarava, per la prima volta al dibattimento, che riceveva, personalmente, dal dottor Mario Bò, presso uno dei tre istituti dove veniva trasferito, in rapida successione, dopo il carcere romano di Rebibbia, anche il verbale contenente la ritrattazione dibattimentale di Vincenzo Scarantino. In merito ai suoi rapporti con Scarantino, Andriotta escludeva decisamente d’essersi mai accordato con lui, per rendere le sue false dichiarazioni all’autorità giudiziaria (così anche Scarantino), negando (in maniera molto decisa) d’aver mai riferito di un tale accordo (appunto, inesistente) a Franco Tibaldi ed a Giuseppe Ferone (come, invece, affermavano costoro, nei verbali d’interrogatorio acquisiti agli atti del dibattimento). A Franco Tibaldi, che faceva la socialità con lui al carcere di Ferrara, Andriotta spiegava (giacché questi era con lui, quando l’imputato riceveva la missiva) che il suo avvocato (Valeria Maffei) rinunciava al mandato, poiché assumeva la difesa di un nuovo collaboratore di giustizia (Gaspare Spatuzza), che faceva rivelazioni sui fatti di via D’Amelio e, probabilmente, si lasciava pure andare ad uno sfogo, in sua presenza, dicendo che “gli accordi non erano questi”. Tuttavia, detto riferimento del prevenuto era agli accordi con i predetti funzionari, messi in discussione dalla collaborazione di Gaspare Spatuzza […]. In merito alle promesse che gli venivano fatte affinché si determinasse a rendere le false dichiarazioni sulla strage di via D’Amelio, Andriotta ha sostenuto che gli inquirenti gli prospettavano anche (come già esposto) la riduzione della pena dell’ergastolo di primo grado, nei successivi gradi di giudizio. Dopo che la condanna all’ergastolo diventava definitiva, senza che Andriotta ottenesse la prospettata riduzione di pena, gli inquirenti, oltre a spiegargli i benefici di cui poteva, comunque, fruire come collaboratore di giustizia, gli avrebbero parlato della possibile revisione del processo: “ne parlò la dottoressa Anna Maria Palma di una revisione, di una probabile revisione del processo e ci fu quella volta là c’è la dottoressa e c’era il dottore Antonino Di Matteo quando mi disse questa cosa” (era la prima occasione in cui Andriotta conosceva il dottor Di Matteo). Inoltre, veniva anche assicurato all’imputato che, da lì a poco, gli avrebbero concesso un permesso premio, come -effettivamente- accadeva e come gli comunicava Salvatore La Barbera, nell’aula bunker di Catania Bicocca (il funzionario sottolineava che loro mantenevano le promesse). Ancora, dopo che Scarantino ritrattava, ad Andriotta veniva richiesto di dichiarare, falsamente, d’esser stato avvicinato, in località protetta, da due mafiosi per indurlo alla ritrattazione. Il fine di tali dichiarazioni, come gli spiegavano, in occasione di due diversi permessi premio, sia Arnaldo La Barbera (a settembre 1997) che Mario Bò (a dicembre 1997), era quello di screditare la ritrattazione di Scarantino, facendola apparire come il frutto di un’intimidazione mafiosa (per rendere tali dichiarazioni, all’imputato veniva promessa la detenzione domiciliare e, dopo due anni, la liberazione condizionale). Con particolare riferimento a taluni degli interrogatori (già richiamati) che segnavano le tappe della sua falsa collaborazione con l’autorità giudiziaria, Andriotta dichiarava quanto di seguito riportato. In relazione al primo interrogatorio da ‘collaboratore’, fatto il 13 settembre 1993, al Pubblico Ministero, dottoressa Boccassini, Andriotta spiegava che, delle circostanze in esso riportate, rispondevano al vero unicamente quelle relative al fatto che egli era detenuto nella cella a fianco di Vincenzo Scarantino e che si prestava, effettivamente, a scrivergli delle lettere destinate alla moglie (giacché il compagno di detenzione era praticamente analfabeta), nonché i bigliettini da recapitarle o da comunicarle, attraverso la propria coniuge (Bossi Arianna). Rispondeva al vero, inoltre, la preoccupazione mostrata da Vincenzo Scarantino in occasione dell’arresto del fratello Rosario: il compagno di detenzione, effettivamente, temeva che il germano fosse stato arrestato anch’egli, per il furto della Fiat 126 utilizzata per la strage, pur essendo entrambi estranei a quella vicenda.Non era affatto vero, invece, che Michele Giambone chiedeva ad Andriotta di portare i suoi saluti a Scarantino (come gli suggerivano di riferire al detenuto Arnaldo o Salvatore La Barbera). Neppure rispondeva a verità che il compagno di detenzione gli confidava d’aver ricevuto, da un parente, l’incarico di rubare la Fiat 126, che doveva essere di color bordeaux come quella di sua sorella o che il furto veniva poi effettivamente eseguito da Salvatore Candura, che portava la vettura in un luogo prestabilito, con Luciano Valenti. Si trattava di circostanze che Andriotta poteva leggere negli appunti che gli venivano recapitati, prima di sostenere l’interrogatorio con la dott.ssa Ilda Boccassini. Lo stesso vale per le dichiarazioni relative ai problemi meccanici dell’automobile, alla necessità di trainarla dopo il furto e, ancora, alla sua riparazione ed al cambio delle targhe prima dell’attentato, nonché al ritardo nella denuncia del furto delle targhe stesse, al lunedì successivo alla strage (tutte circostanze, peraltro, intrinsecamente vere, come visto in altra parte della motivazione, sebbene mai rivelate da Scarantino ad Andriotta). Del pari, era un suggerimento del dottor Arnaldo La Barbera quello relativo alla falsa confidenza di Scarantino che, ad accusarlo, erano proprio i predetti Candura e Valenti. Ancora, era falsa la circostanza che, dopo l’arresto del ‘garagista’, Scarantino iniziava a temere per la propria posizione e che mutava pure la sua versione sul luogo dove l’autovettura veniva imbottita d’esplosivo (come già accennato, indicando, prima dell’arresto menzionato, la porcilaia nella disponibilità dei suoi parenti e, successivamente, proprio il garage di Orofino). Questa dichiarazione sul cambio del luogo di riempimento della Fiat 126, tuttavia, non era contenuta negli appunti predetti, ma gli veniva suggerita oralmente, da taluno degli inquirenti, prima dell’interrogatorio (l’imputato non specificava da chi). Quanto al Matteo o Mattia o La Mattia, Andriotta si limitava a ripetere al Pubblico Ministero il nominativo contenuto negli appunti che gli venivano forniti, evidenziando che le indicazioni ricevute erano proprio di fare quel nome in maniera volutamente generica ed imprecisa e che egli non chiedeva alcunché a tal riguardo. Ancora, l’imputato si limitava ad indicare, genericamente, in quel primo interrogatorio, la figura di un ‘telefonista’, che associava poi al nome di Gaetano Scotto solo nel successivo interrogatorio del gennaio 1995, perché così gli veniva detto di fare. In relazione all’interrogatorio del 4 ottobre 1993, presso il carcere di Milano-Opera, con la dott.ssa Ilda Boccassini ed il dottor Fausto Cardella, Andriotta spiegava che era presente anche il dottor Arnaldo La Barbera; quest’ultimo non partecipava all’atto istruttorio, ma accompagnava la dottoressa e fumava anche una sigaretta con l’imputato, prima dell’atto istruttorio. Come spiegato dall’imputato, anche le dichiarazioni rese in quella circostanza erano false e, in particolare, non rispondeva affatto al vero la circostanza relativa al messaggio minatorio, dentro il panino imbottito, diretto al dott. Lo Forte (“guida forte la macchina”), che Scarantino (a suo dire) recapitava all’esterno del carcere tramite Andriotta e la moglie di quest’ultimo. Detta dichiarazione gli veniva suggerita da Arnaldo La Barbera, così come gli veniva suggerita la falsa confidenza di Scarantino (“è arrivata la Profezia”) relativa all’incarico ricevuto dal cognato, Salvatore Profeta, per rubare la Fiat 126 da impiegare nell’attentato: detta ultima circostanza, suggeritagli prima dell’interrogatorio, serviva per render più credibili le sue dichiarazioni, in considerazione dello spessore criminale del cognato di Scarantino (“perché Scarantino è un pesce piccolo, mentre ProfetaSalvatore mi dissero che era uno che contava”). Arnaldo La Barbera, come detto, suggeriva detta dichiarazione, che gli serviva per far scattare il blitz contro Profeta (“C’era il dottor Arnaldo La Barbera, mi disse: “Adesso devi dire Salvatore Profeta, il cognato di Scarantino, perché io devo fare scattare il blitz dell’arresto”. E mi sembra che fu pochi giorni dopo ilmio interrogatorio l’arresto di Profeta”). Più in generale, Andriotta spiegava che era, appunto, Arnaldo La Barbera, a capo del gruppo inquirente che si occupava delle indagini sulla strage, a dare le direttive, mentre gli altri funzionari di polizia erano “diciamo dei supervisori … come glielo devo spiegare? Non so. Non erano proprio loro che mi dicevano le cose, se non in alcune occasioni, tipo Salvatore La Barbera o il dottor Mario Bo’. Però in special modo era il dottor Arnaldo La Barbera”. In relazione all’interrogatorio del 17 gennaio 1994, nel carcere di Vercelli, con la dott.ssa Ilda Boccassini, Andriotta (come anticipato) rammentava d’aver sostenuto, prima dello stesso, un colloquio investigativo, non breve, con il dottor Arnaldo La Barbera, tant’è che l’imputato terminava tutte le sigarette ‘Marlboro’ a propria disposizione, fumando poi le ‘Rothmans’ che gli offriva il funzionario, anche se non ricordava di cosa parlavano in quella specifica occasione (della quale, come detto, risulta traccia documentale, negli accertamenti espletati). Sul punto, va rilevato che nel corso dell’interrogatorio del 17 luglio 2009 (come detto, acquisito agli atti), l’imputato dichiarava che il funzionario di polizia, in detta occasione, gli suggeriva le dichiarazioni da rendere all’autorità giudiziaria e, come già riportato, l’interrogatorio in questione era quello in cui Andriotta dichiarava, per la prima volta, adeguandosi ad una sopravvenuta dichiarazione di Salvatore Candura, che quest’ultimo, dopo la strage del 19 luglio 1992, contattava più volte Scarantino, telefonicamente, per sapere se la Fiat 126 che gli faceva rubare era proprio quella impiegata come autobomba in via D’Amelio. Invece, l’imputato non ricordava alcunché di un ulteriore colloquio investigativo con Arnaldo La Barbera, sostenuto, sempre nella casa circondariale di Vercelli, il 2 marzo 1994 (del quale, pure, vi è traccia negli atti), non rammentando nemmeno se vi era o no un collegamento fra tale colloquio ed il successivo interrogatorio reso alla dott.ssa Boccassini il 21 marzo 1994 (nel quale Andriotta manifestava un momento di disagio per la sua situazione carceraria). Quanto al contenuto degli interrogatori del 16 settembre 1994 e del 28 ottobre 1994 (come già accennato), Andriotta evidenziava che, in occasione del primo di tali atti istruttori, il dottor Mario Bò -che vi assisteva per ragioni investigative- gli suggeriva di riferire all’autorità giudiziaria (i Pubblici Ministeri erano la dottoressa Anna Maria Palma ed il dottor Carmelo Antonio Petralia) di una riunione cui era presente anche Vincenzo Scarantino. In quella occasione, il dottor Mario Bò, durante una pausa, gli consegnava, su direttiva di Arnaldo La Barbera, due o tre fogli contenenti le circostanze che doveva studiare e riferire nell’interrogatorio successivo (quest’ultima circostanza non veniva mai menzionata prima del dibattimento, dall’imputato; infatti, negli interrogatori resi in fase d’indagine, Andriotta raccontava solo di un colloquio di circa mezz’ora con il dottor Bò, senza fare alcun riferimento a documenti od appunti che provenivano da Arnaldo La Barbera). Quanto alle dichiarazioni rese nell’interrogatorio del 26 gennaio 1995, al carcere di Paliano (innanzi ai Pubblici Ministeri, dott.ri Anna Maria Palma e Carmelo Antonio Petralia, assistiti dall’Agente Scelto Michele Ribaudo), Andriotta non rammentava chi gli suggeriva di dichiarare, per la prima volta in occasione di tale atto istruttorio, da un lato, che alla predetta riunione di villa Calascibetta partecipavano anche Ciancio o Gancio e Matteo o La Mattia e, dall’altro lato, che anche Gaetano Scotto era coinvolto nella strage di via D’Amelio, avendo fornito il consenso della famiglia Madonia. Si trattava, comunque, di un suggerimento proveniente dagli inquirenti, vale a dire da Arnaldo o Salvatore La Barbera o, ancora, da Mario Bò (quest’ultimo, appena qualche giorno prima, andava in carcere per fare firmare ad Andriotta delle carte relative al suo programma di protezione). Quanto, poi, alle dichiarazioni rese il 29 aprile 1998, presso il carcere di Roma Rebibbia (alla dott.ssa Anna Maria Palma, coadiuvata da Mario Bò), sulle minacce (come detto, inesistenti) ricevute da due emissari mafiosi, in località protetta, affinché ritrattasse le dichiarazioni rese in precedenza, Andriotta evidenziava che era un suggerimento di Arnaldo La Barbera e Mario Bò. Quest’ultimo, in compagnia di altri due funzionari, che non Andriotta conosceva e che sembravano di livello più elevato (poiché uno di loro, ad un certo punto, zittiva Mario Bò), in occasione del permesso natalizio del 1997, durante il viaggio notturno, in automobile, dal carcere romano di Rebibbia, gli suggeriva appunto di riferire quelle false circostanze, spiegando che ciò serviva a sostenere le sue precedenti dichiarazioni ed a rendere non credibile la ritrattazione di Vincenzo Scarantino, facendola apparire come il frutto di un’intimidazione mafiosa. Inoltre, Andriotta riceveva analoga sollecitazione anche da Arnaldo La Barbera, in occasione del precedente permesso premio, a settembre 1997, quando si trovava a Piacenza. Sempre per far apparire verosimili le dichiarazioni di Andriotta, screditando la ritrattazione di Vincenzo Scarantino, Mario Bò suggeriva all’imputato di nominare, come propri difensori, due dei legali che difendevano alcuni imputati della strage di via D’Amelio, nei processi in corso di celebrazione, vale a dire (come già detto) gli Avvocati Scozzola e Petronio. Ancora, era il dottor Mario Bò che -allo stesso scopo- spingeva Andriotta a denunciare Scarantino per calunnia, per le dichiarazioni rese da quest’ultimo con la clamorosa ritrattazione della sua ‘collaborazione’. Ciò avveniva, forse, nel marzo/aprile 1998 (la datazione è evidentemente errata, poiché la predetta ‘ritrattazione’ di Scarantino avveniva, come è noto, soltanto a settembre di quell’anno), all’interno del carcere di Rebibbia, allorché il dottor Bò era in compagnia della dottoressa Palma; quest’ultima, però, non assisteva a tale discorso. Inoltre, l’imputato sosteneva (in maniera assai poco convincente) la propria volontà di ritrattare le sue false dichiarazioni sulle confidenze carcerarie di Vincenzo Scarantino, anche prima d’esser messo innanzi all’evidenza delle risultanze successive alla collaborazione di Gaspare Spatuzza. In particolare, Andriotta sosteneva d’aver riferito ad un ispettore dell’Anticrimine di Piacenza di nome “Davio, Davico, Davini”, durante un permesso premio del marzo 1998: “mi stanno facendo girare le scatole, se voglio io, gli faccio cadere tutto il processo” (la circostanza, tuttavia, non trovava alcuna conferma, nonostante l’audizione dei poliziotti dell’Anticrimine piacentina). Ancora, durante un permesso premio nel mese di ottobre/novembre 2005, preso dal rimorso, Andriotta avrebbe fatto un’istanza al servizio centrale di protezione per poter rendere una dichiarazione alla stampa ed alla televisione, ma l’autorizzazione veniva negata. Nessun magistrato della Procura di Caltanissetta andava ad interrogarlo per comprendere che cosa voleva riferire agli organi di stampa, né Andriotta avanzava alcuna richiesta d’esser ascoltato dai magistrati, poiché intendeva ritrattare soltanto “via etere”, sentendosi più tutelato dai media (in quanto, a suo parere, i magistrati potevano insabbiare la vicenda). Ancora (per lo stesso motivo), pur venendo successivamente ascoltato dalla Procura Nazionale Antimafia, Andriotta non ritrattava le sue dichiarazioni sui fatti di via D’Amelio (chiedeva d’esser ascoltato dal dottor Pietro Grasso, ma veniva interrogato dal dottor Giordano, già in servizio alla Direzione Distrettuale Antimafia di Caltanissetta). Andriotta, dettagliando un accenno fatto durante le indagini (nell’interrogatorio del 17 luglio 2009: “ci sono state delle volte che io volevo ritrattare e ho preso botte”), riferiva anche alcuni episodi di maltrattamenti personalmente realizzati dagli agenti di polizia penitenziaria nel carcere di Sulmona, nel 2002 e nel 2007, allorché aveva rappresentato al suo avvocato dell’epoca, a colloquio in tale carcere, che non riusciva più a sopportare il peso delle false dichiarazioni e che intendeva ritrattarle. Per tali fatti veniva anche celebrato un processo penale, presso il Tribunale di Sulmona (“Perché purtroppo in quel carcere, quando parli con il tuo legale di fiducia, ti ascoltano e io dissi in più occasioni all’Avvocato che non… non riuscivo ad andare avanti, volevo dire la verità perché non me la sentivo, mi stavo facendo io la galera e anche gli altri, non volevo più andare avanti così. Però puntualmente, come operazione farfalla, abbuscavo mazzate. Ogni volta, ogni volta!”). Sul punto, Andriotta rendeva anche un’altra dichiarazione inedita sul fatto che, dopo l’inizio della collaborazione di Gaspare Spatuzza, veniva avvicinato, nel giugno/luglio del 2009, dal comandante della polizia penitenziaria del carcere di Ferrara, che gli faceva domande “strane”, se corrispondeva o meno a verità che intendeva ritrattare le sue precedenti dichiarazioni.
Altra dichiarazione rilevante di Andriotta era quella relativa alla circostanza che, durante uno dei processi in cui deponeva come testimone, in particolare nell’aula bunker di Torino, in una pausa dell’udienza (trattasi dell’udienza del 16 ottobre 1997, nel dibattimento di primo grado del processo c.d. Borsellino bis), il dottor Mario Bò lo rimproverava duramente perché rendeva una dichiarazione difforme da quella che gli veniva suggerita (della quale, però l’imputato non rammentava l’oggetto), rischiando, a dire del funzionario, di far saltare il processo. A tal proposito, quando gli veniva domandato se a tale “rimprovero” di Mario Bò assistevano anche la dott.ssa Palma oppure il dottor Di Matteo (che erano i due Pubblici Ministeri di quell’udienza), Andriotta rispondeva (più di una volta): “mi avvalgo della facoltà di non rispondere”. Analoga facoltà veniva esercitata dall’imputato anche in risposta ad una domanda sulla conoscenza, da parte dei magistrati inquirenti dell’epoca, della circostanza che Scarantino si professava innocente per la strage, peraltro dopo che Andriotta aveva già affermato, spontaneamente, d’aver rivelato, anche ai magistrati inquirenti, che Scarantino si professava innocente (“Ah, questo gliel’avevo detto ai poliziotti che lui non mi aveva mai raccontato nulla e che continuava a dire che era innocente. (…) Al dottor Arnaldo La Barbera, al dottor Ricciardi e anche al dottor Mario Bo. (…) E anche ai magistrati. (…) Su questo mi avvalgo della facoltà di non rispondere, come ho detto all’Avvocato Scozzola nell’aula bunker di Torino”). Tale atteggiamento dell’imputato è legittimo, ma contraddittorio, poiché egli esercitava il c.d. diritto al silenzio, dopo una serie domande su eventuali intromissioni dei magistrati nella sua falsa collaborazione: ebbene, a dette domande (fatte appena pochi minuti prima), Andriotta rispondeva escludendo qualsivoglia ruolo o consapevolezza dei magistrati dell’epoca, per poi affermare, invece, quanto sopra riportato. Nel riesame del Pubblico Ministero, infine, Andriotta tornava sui suoi passi, sostenendo (in maniera assolutamente non convincente) che s’era avvalso della facoltà di non rispondere soltanto per un “errore di pronuncia” e specificando di non aver mai informato alcun magistrato delle falsità delle sue rivelazioni o di quelle di Scarantino. Invece, nell’interrogatorio del 17 luglio 2009 (pienamente utilizzabile ai fini probatori), Andriotta spiegava che era proprio la dott.ssa Palma ad arrabbiarsi molto con lui, chiedendogli come faceva a sapere delle cose che non erano nemmeno uscite sui giornali (cfr. interrogatorio 17.7.2009, pag. 154: “E allora in una occasione è stato che durante un processo in video conferenza nell’aula bunker di Torino addirittura la dottoressa Anna Maria Palma si arrabbiò tantissimo con me, c’era la scorta dei Carabinieri quindi stiamo parlando che era 1996 o ’97 (…). Perché io aggiunsi delle dichiarazioni nuove che non erano ancora uscite nemmeno sui giornali o sulla televisione e disse “Andriotta adesso mi devi dire chi t’ha detto ste cose?”, e io me le sono ricordate. In quell’occasione c’era il dottor Mario Bo insieme alla dottoressa Anna Maria Palma, non mi ricordo se c’era anche il dottore Antonino Di Matteo quel giorno come Sostituto Procuratore per la parte dell’accusa, non mi faccia dire una bugia”). Orbene, prima di passare alle conclusioni in merito alla responsabilità penale dell’imputato per la calunnia continuata ed aggravata […] occorre fare alcune considerazioni generali sul contenuto delle predette dichiarazioni, palesemente autoaccusatorie. A tal proposito, va -innanzitutto- sottolineato come il percorso dell’imputato (a far data dal luglio del 2009, allorché decideva di ritrattare le dichiarazioni rese nei precedenti procedimenti) sia tutt’altro che lineare, in quanto segnato da molteplici incoerenze e contraddizioni, oltre che da significativi aspetti di progressione (e pure da qualche reticenza) nelle accuse mosse contro altri soggetti. Talune novità nelle dichiarazioni dibattimentali dell’imputato, poi, dopo ben quattro interrogatori nell’arco di un anno e mezzo (in fase d’indagine preliminare), sono assolutamente non credibili e paiono strumentali ad alleggerire la propria posizione processuale. […] Ebbene, pur con tutte le (doverose) cautele e riserve sull’attendibilità complessiva dell’imputato (le cui dichiarazioni vanno ‘maneggiate’ con estrema cautela, soprattutto ove attingano terze persone), alla luce del suddetto percorso di falso ‘collaboratore’ della giustizia ed anche della marcata progressività delle dichiarazioni stesse (evidentemente funzionali, come detto, ad alleggerire la propria posizione processuale), pare difficile, alla luce del complessivo compendio probatorio (ed al di là delle accennate ed evidenti contraddizioni ed incongruenze, su molteplici circostanze specifiche), confutare quanto da lui dichiarato in merito alla tematica generale dell’indottrinamento da parte degli inquirenti infedeli dell’epoca, sebbene sia del tutto evidente che l’imputato introduca anche circostanze non vere e, comunque, non voglia raccontare tutto quanto è a sua conoscenza in merito alla propria ed all’altrui ‘collaborazione’. Sul punto, al di là dell’evidenziata progressività delle dichiarazioni dell’imputato (che parlava, come detto, solo al dibattimento di appunti scritti consegnatigli in carcere, prima dell’avvio della ‘collaborazione’), pare assai difficile ipotizzare un’origine diversa rispetto al suggerimento degli inquirenti dell’epoca (poco importa, da tale punto di vista, se con appunti scritti o soltanto con indottrinamento orale, magari fatto con modalità assai diverse, rispetto a quelle -inverosimili- riferite dall’imputato negli interrogatori acquisiti agli atti), atteso che la collaborazione di Scarantino non era ancora iniziata (come è noto, il primo verbale del pentito della Guadagna risale al giugno 1994). […] Addirittura inquietanti (come già accennato), alla luce di quanto ampiamente accertato in questo procedimento sul furto della Fiat 126 e sulle sue condizioni meccaniche, oltre che sulla sistemazione dell’impianto frenante, a cura di Gaspare Spatuzza (tramite Maurizio Costa) e francamente inspiegabili (come si vedrà meglio, trattando della posizione di Vincenzo Scarantino), senza un apporto di infedeli inquirenti e/o funzionari delle istituzioni, la circostanza che Andriotta, già nel primo interrogatorio da falso ‘collaboratore’ della giustizia, senza sapere alcunché della strage che occupa, né ricevendo alcuna confidenza da Scarantino (totalmente estraneo alla preparazione ed esecuzione della strage), parlava di circostanze non rientranti nel suo bagaglio di conoscenze, ma oggettivamente vere (come risulta da questo procedimento), vale a dire di problemi meccanici della Fiat 126 utilizzata come autobomba e della necessità di trainarla subito dopo il furto (come oggi dichiarato da Gaspare Spatuzza), ed, ancora, della sua riparazione e del cambio delle targhe prima dell’attentato, nonché del ritardo nella denuncia al lunedì successivo la strage (di tutte queste circostanze, così come dell’attendibilità di Gaspare Spatuzza e dei numerosi riscontri alle sue dichiarazioni, si è dato ampiamente atto, in altra parte della motivazione, alla quale si rimanda).
I Graviano e le accuse di Fabio Tranchina
Più in generale, le dichiarazioni di Fabio Tranchina, che, curando in quel periodo la latitanza del capo mandamento di Brancaccio, aveva un punto d’osservazione privilegiato su quello che accadeva in Cosa nostra, assumono notevole rilevanza nella misura in cui evidenziano la partecipazione diretta di Giuseppe Graviano alla fase esecutiva della strage di via D’Amelio, ponendosi in linea con la ricostruzione operata da Gaspare Spatuzza che, in maniera più marcata rispetto a quanto emerso dai precedenti processi (basati anche sulla falsa collaborazione di Vincenzo Scarantino), sposta l’accento sul gruppo di Brancaccio in relazione alla gestione di un rilevante segmento della preparazione e dell’esecuzione dell’attentato del 19 luglio 1992. […] Tranchina spiegava che -all’epoca dei fatti- abitava a Borgo Ulivia, nel rione Falsomiele di Palermo, con i suoi genitori, e che questi ultimi, come ogni estate, dalla metà del mese di giugno e fino ai primi giorni di settembre del 1992, si trasferivano nella casa di villeggiatura a Carini. In tale arco di tempo, rimanendo la casa vuota, egli la metteva a disposizione di Giuseppe Graviano […], affinché questi vi trascorresse la sua latitanza (il quartiere, peraltro, è ubicato a poca distanza da quello di Brancaccio e, dunque, era in un’ottima posizione affinché il capo mandamento continuasse a curare i propri interessi ed a mantenere i contatti coi sodali). Tranchina ricordava che, tra le varie persone che Giuseppe Graviano incontrava, in quel periodo estivo, all’interno della sua abitazione, c’era anche Gaspare Spatuzza […]. Tranchina riferiva anche di aver accompagnato Giuseppe Graviano, nel corso dell’anno 1992, sia prima che dopo la strage di Capaci, a Palermo, in via Tranchina, nel luogo che, come apprendeva dopo la cattura di Riina, era l’abituale punto di ritrovo tra il capomafia di Corleone ed il capo mandamento di Brancaccio. In particolare, proprio la mattina del giorno in cui veniva poi catturato Riina (o, come diceva la sorellina di Tranchina, veniva “arrestata Cosa nostra”), il collaboratore accompagnava Giuseppe Graviano nel locale di via Tranchina e, dopo aver sentito la notizia dell’arresto del boss corleonese, veniva poi contattato da Cristofaro Cannella che gli diceva di star tranquillo per Giuseppe Graviano, perché questi era con lui. Successivamente, Giuseppe Graviano commentava col Tranchina l’arresto di Riina, dicendo che potevano dirsi “tutti figli di ‘stu cristianu” e che, certamente, la sua cattura non era dovuta a delle microspie piazzate nel magazzino di via Tranchina, poiché -in tal caso- avrebbero fatto il blitz in detto locale, dove vi erano talmente tanti soldi “che noi ci potevamo comprare la Sicilia” […]. In particolare, in due diverse circostanze, entrambe nel mese di luglio 1992, proprio lungo il tragitto di ritorno dal magazzino di via Tranchina verso l’abitazione di Borgo Ulivia, Giuseppe Graviano chiedeva a Fabio Tranchina di cambiare il consueto percorso, appositamente per accedere in via D’Amelio. Il primo di tali sopralluoghi, nella prima settimana di luglio, avveniva quando ancora era giorno ed era Graviano ad indicare al Tranchina di imboccare la via D’Amelio, fare il giro della strada ed uscire dalla stessa, senza arrestare la marcia. Il secondo accesso, invece, avveniva nella settimana precedente all’attentato, dopo il tramonto: in quell’occasione c’era anche Cristofaro Cannella, che li precedeva, a bordo della sua autovettura Audi 80, e Graviano raccomandava a Tranchina di non arrestare la marcia perché quella era una zona che “scottava”. Vale la pena di evidenziare come queste indicazioni di Fabio Tranchina in merito ai due sopralluoghi in via D’Amelio con Giuseppe Graviano, oltre ad esser perfettamente compatibili con i dati oggettivi del tabulato dell’utenza mobile di quest’ultimo, si compongano armonicamente con le indicazioni fornite da Spatuzza, sia in ordine al furto della Fiat 126, che ai successivi incontri con il capo mandamento, proprio nella casa messa a disposizione da Tranchina, con la raccomandazione (nel primo incontro) di rifare i freni dell’automobile e le direttive (nel secondo incontro) sulle modalità con cui rubare le targhe. Detti incontri, infatti, sono (come già detto) ragionevolmente collocabili, anche alla luce dei predetti dati di traffico telefonico dell’utenza di Giuseppe Graviano, rispettivamente, nella prima settimana del mese di luglio (prima dell’allontanamento di Graviano dalla Sicilia, nel pomeriggio del 7 luglio 1992) ed in quella precedente all’attentato di via D’Amelio (dopo il rientro a Palermo del boss, la mattina del 14 luglio 1992). Si riporta, ancora una volta, uno stralcio delle dichiarazioni rese da Fabio Tranchina, sul punto:
P. M. LUCIANI – Scusi se la interrompo, la pregherei di essere estremamente dettagliato su queste circostanze.
TRANCHINA – Sì. Ricordo che ci fu una prima volta, e questo fu esattamente la prima settimana di Luglio del 1992, che Giuseppe quando uscendo da questo appuntamento mi chiese, che ero in macchina con lui ovviamente, io poco fa quando ho detto me ne andavo prendevo via Ugo La Malfa, Viale Regione Siciliana intendevo quando lasciavo lui e me ne andavo solo. Questo invece quando io poi lo andavo a prendere è successo in un paio di occasioni, uno siamo nella prima settimana di Luglio che usciamo da, cioè io lo vado a prendere in questo appuntamento in via Tranchina e Giuseppe Graviano mi dice di fare, abbiamo fatto una strada insolita, diciamo, siamo scesi dalla parte interna, Viale Strasburgo, una cosa dentro dentro, comunque gira di qua, gira a destra, vai avanti mi porta in via D’Amelia. Arrivato in via D’Amelio lui mi disse: “Entra di qua, entra proprio in via D’Amelio – Perché la via D’Amelio è una strada che non spunta perché c’è un muro là di fronte – fai il giro rallenta però non ti fermare”. Quindi abbiamo fatto il giro proprio a ferro di cavallo e siamo andati via. E questa è la prima volta che mi fa passare da Via D’Amelio. Poi praticamente avviene una seconda volta, sempre un’altra volta che io sono andato a prendere il Graviano che l’avevo lasciato la mattina, quando lui finiva l’appuntamento lo andai a prendere e quindi si era fatto un po’ più tardi, perché sono state due volte questi passaggi in via D’Amelio, una volta era buio e una volta era giorno, credo che la seconda volta fosse buio, io lo andai di nuovo a prendere in questo appuntamento in via Tranchina che lui aveva e ci recammo di nuovo…
AVV. – Signor Tranchina ci può dire quando fu la seconda volta?
TRANCHINA – Siamo proprio nella settimana che precede la strage di Via D’Amelio. Però questa volta davanti a noi c’è Fifetto Cannella con la sua macchina. Stessa cosa, siamo arrivati in via D’Amelio, però ho omesso un particolare dottore, che dopo il primo sopralluogo che facciamo in via D’Amelio Giuseppe mi chiede se io gli avrei potuto trovare un appartamento in via D’Amelio. Dice: “Fabio, mi serve un appartamento qua”. Gli ho detto: “Qua dove?” – “Qua”, proprio mentre eravamo in via D’Amelio mi disse: “Qua mi serve un appartamento, vedi se riesci ad affittarmi un appartamento, però non te ne andare alle Agenzie, non dare documenti, vedi se lo trovi casomai se vogliono pagato sei mesi, pure un anno di affitto anticipato glielo paghi, l’importante che non contatti agenzie. Privatamente”. […] Al che Giuseppe Graviano, proprio nell’occasione del secondo sopralluogo mi chiese: “Fabio, ma l’hai trovato l’appartamento?”. Io in verità neanche l’avevo cercato, signor Presidente, perché per le modalità in cui lui mi aveva chiesto di cercarlo, non ti fare contratto d’affitto, non te ne andare dalle agenzie, non contattare nessuno, non dare documenti, io ho detto ma dove vado? Cioè come faccio io a trovare una casa in questi termini, con queste richieste? E gli disse: “Giuseppe, no, non l’ho trovata”. Perché lui mi chiese: “Ma l’hai trovata?”. Ho detto: “No, sinceramente non ho trovato niente”. E lui aggiunse un particolare perché mi disse che precedentemente questo compito lo aveva dato a Giorgio Pizzo. Dice: “Fabio, glielo avevo detto a Giorgio Pizzo di trovarmi una casa qua però non me l’ha trovata, vedi se me la trovi tu con quelle modalità che mi chiese”. E io gli dissi che non l’avevo trovata. A quel punto gli scappa dalla bocca, dice: “Va bene, non ti preoccupare – lo dico in siciliano signor Presidente e poi lo traduco perché… Giuseppe mi disse, alla mia risposta negativa che non avevo trovato la casa: “va bene non ti preoccupare addubbunnu iardinu (pare dica)”. Che tradotto sarebbe: “Mi arrangio nel giardino”. Cioè una cosa del genere. E io fino là, addubbunnu iardinu non è che… Va beh l’ha detto, però nel momento in cui succedono i fatti signor Presidente, io ho realizzato che in via D’Amelio dove c’era il muretto, perché la via D’Amelio è una strada che non spunta, c’è un muro dietro c’è un giardino. E poi… […].
Le dichiarazioni di Tranchina, poc’anzi riportate, oltre a confermare l’attendibilità di quelle rese da Gaspare Spatuzza, aprono anche significativi spiragli circa il soggetto che azionò il telecomando in via D’Amelio ed in ordine al luogo dove era appostato il commando (od almeno, una parte del commando) che attendeva l’arrivo del dott. Paolo Borsellino, presso l’abitazione dove si trovava sua madre. Infatti, in occasione del primo sopralluogo, Giuseppe Graviano chiedeva a Tranchina di procurargli un appartamento proprio in via D’Amelio, raccomandandogli di non rivolgersi alle agenzie immobiliari, né di stipulare contratti e di pagare in contanti (dicendo anche che la stessa richiesta, già fatta a Giorgio Pizzo, non veniva soddisfatta). Tranchina, tuttavia, non si attivava particolarmente, attesa la prevedibile difficoltà che avrebbe incontrato per assolvere siffatto compito, in ragione delle modalità indicategli, sicché, al momento del secondo sopralluogo in via D’Amelio, quando il capo mandamento tornava sull’argomento, Tranchina gli faceva presente che non aveva trovato alcun immobile. La secca risposta di Giuseppe Graviano (“va bé addubbo ne iardinu”), da un lato, rende palese che la sua richiesta non era certamente volta a reperire un appartamento dove trascorrere la latitanza e, dall’altro lato, fornisce una indicazione circa il possibile luogo da cui gli attentatori azionavano il telecomando che provocava la micidiale esplosione (la via D’Amelio, infatti, è a fondo chiuso e termina con un muro, dietro al quale c’è, appunto, un agrumeto), tenuto anche conto di quanto rivelato da Giovan Battista Ferrante, in merito al commento di Salvatore Biondino che (durante il macabro brindisi di festeggiamento), diceva che “le uniche persone che potevano avere delle conseguenze era chi stava dietro il muro, vicino al muro, a chi poteva succedere qualcosa, perché essendo vicino al posto, dove era successa l’esplosione, gli poteva accadere il muro addosso”.
GIUDICE – Senta una cosa, Lei ha detto che ci fu quel commento di questo Graviano, “Hai visto ca na spirugliamu?”, questo dopo via D’Amelio, no? Ma dopo Capaci ci furono commenti di questo genere all’interno dell’organizzazione?
TRANCHINA – No.
GIUDICE – C’era un’aria, come dire, di obiettivo raggiunto, di successo conseguito?
TRANCHINA – Come commenti, diciamo, di quel genere no, però mi ricordo che un giorno vedendo Filippo Graviano era come a quello che cercava di giustificare quanto era successo, con riferimento parlando a Capaci, perché diceva: “Ma lo sai, io parlando con le persone mi hanno detto «intanto non è successo niente, che non è morta neanche una persona estranea al fatto», sono cose che si muore in tanti modi, può capitare di tutto”. Cioè lui cercava di giustificare come se la gente non condannava il gesto. Cioè questa cosa mi restò impressa. Cioè lui non stava parlando proprio con me esplicitamente, eravamo più di una persona, diciamo, là, e mi ricordo pure che eravamo alla zona industriale, in dei capannoni che avevano acquistato da un fallimento, e lui fece questo commento. Come a volere… come se la gente giustificava questo gesto folle che era stato commesso.
GIUDICE – O come se lui si volesse giustificare davanti alla gente che non lo capiva.
TRANCHINA – Sì, “la gente non ci condanna”. Io poi mi vedevo il telegiornale e dicevo: ma mi sa mi sa che un po’ qua Filippo le cose non le vede tanto bene, perché la risposta della gente c’è stata, eccome.
La “collaborazione” di Francesco Andriotta
La collaborazione di Francesco Andriotta (intrapresa nel settembre 1993) per la strage di via Mariano D’Amelio, non solo apriva la strada, in maniera determinante, a quella successiva di Vincenzo Scarantino (che iniziava a giugno 1994), ma permetteva altresì di puntellare il costrutto accusatorio riversato nei tre gradi del primo processo celebrato per questi fatti (nei confronti dello stesso Scarantino Vincenzo, nonché di Profeta Salvatore, Scotto Pietro ed Orofino Giuseppe), consentendo persino di superare la clamorosa ritrattazione dibattimentale di Scarantino, nel settembre 1998. Oggi, anche alla luce delle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, la genesi e l’evoluzione di quella ‘collaborazione’, devono esser rivisitate, con la consapevolezza che le dichiarazioni di Andriotta costituivano la svolta per le indagini preliminari dell’epoca, inducendo alla collaborazione anche Scarantino. Pertanto, come anticipato, prima di affrontare il merito di quanto riferito dall’imputato nell’odierno procedimento, dal 2009 in avanti, ammettendo apertamente la natura mendace della propria collaborazione (e lo scopo della stessa, vale a dire costringere Scarantino a ‘collaborare’, mettendolo con le “spalle al muro”), soltanto una volta messo innanzi all’evidenza di quanto già accertato dalle più recenti indagini, pare opportuno muovere dal contenuto delle dichiarazioni (come detto, pacificamente mendaci) che questi rendeva, da ‘collaboratore’ della giustizia, in relazione a quanto (asseritamente) appreso sulla strage di via D’Amelio, durante la detenzione in carcere a Busto Arsizio, con Vincenzo Scarantino. Andriotta iniziava a ‘collaborare’ sui fatti di via D’Amelio, con l’interrogatorio del 14 settembre 1993 (reso a Milano, davanti al Pubblico Ministero, dott.ssa Ilda Boccassini), dove riferiva (in sintesi, in ben otto ore d’interrogatorio) che:
– chiedeva il trasferimento dal carcere di Saluzzo a quello di Busto Arsizio, per essere più vicino alla famiglia; arrivava in tale ultima struttura il 3 giugno 1993 e veniva assegnato al Reparto Osservazione, occupando prima la cella n. 5 e poi la n. 1, dove rimaneva fino al 23 agosto 1993;
– proprio in tale periodo conosceva Vincenzo Scarantino, col quale instaurava un rapporto cordiale, che diventava, giorno dopo giorno, più stretto; come usualmente avveniva tra detenuti, i due iniziavano a parlare delle rispettive vicissitudini e, quindi, anche delle attività illecite per cui erano detenuti;
– Scarantino gli riferiva che contrabbandava sigarette (come attività collaterale) e che era legato ad importanti personaggi mafiosi, in particolare a Carlo Greco e Salvatore Profeta, con i quali gestiva grossi traffici di stupefacenti; di Profeta aggiungeva che era suo cognato, nonché ‘uomo d’onore’, che godeva di grande rispetto in Cosa Nostra, essendo il braccio destro di Pietro Aglieri, il capo nel quartiere della Guadagna;
– col passare dei giorni, il rapporto di confidenza si tramutava in vera e propria amicizia, con scambio di favori: Scarantino cucinava anche per Andriotta, mentre quest’ultimo, in occasione dei colloqui carcerari, consegnava alla propria moglie dei messaggi scritti per la famiglia di Scarantino; a volte era lo stesso imputato che scriveva tali messaggi, su dettatura di Scarantino, poiché questi non sapeva scrivere in corretto italiano e la moglie di Andriotta (che doveva chiamare il numero di telefono riportato sul ‘pizzino’, leggendone il contenuto all’interlocutore), non capiva cosa vi era scritto;
– nel prosieguo del rapporto fra i due detenuti, Scarantino si lasciava andare ad una serie di importanti confidenze, riguardanti anche il suo diretto coinvolgimento nella strage di via D’Amelio. Inizialmente, Scarantino gli spiegava solo che era imputato per questi fatti e che le prove a suo carico erano le dichiarazioni di tali Candura e Valenti, delle quali non si preoccupava perché si trattava di due tossicodipendenti poco attendibili (Scarantino aveva, addirittura, appreso che il secondo, nel corso di un confronto con il primo, aveva ritrattato le sue dichiarazioni). Scarantino neppure era preoccupato per il filmato, in possesso di Candura, che lo ritraeva in occasione di una festa di quartiere, giacché era in grado di darne ampia giustificazione. Invece, qualche apprensione mostrava Scarantino quando apprendeva dell’arresto di suo fratello per l’accusa di ricettazione di autovetture, tanto che, con il predetto sistema dei messaggi trasmessi tramite la moglie di Andriotta, cercava di capire se detto reato era o no collegato alla strage di via D’Amelio. Molto più forte era la preoccupazione di Scarantino quando (tramite un detenuto della seconda sezione) apprendeva che in televisione davano notizia dell’arresto di un garagista coinvolto nella strage di via D’Amelio.
In tale contesto, Scarantino si lasciava andare ad ulteriori confidenze, rivelando ad Andriotta, tra le altre cose, che temeva un eventuale pentimento del predetto garagista, le cui dichiarazioni potevano comportare, per lui, la condanna all’ergastolo. La fiducia nutrita nel compagno di detenzione, poi, induceva Scarantino a confessare ad Andriotta di aver effettivamente commissionato al predetto Candura il furto di quella Fiat 126 che veniva utilizzata nella strage del 19 luglio 1992, e ciò su richiesta di un parente (un cognato o fratello). L’autovettura da sottrarre doveva essere di colore bordeaux, perché anche la sorella di Scarantino (Ignazia) ne possedeva una dello stesso colore (in tal modo, se qualcuno lo avesse visto durante gli spostamenti della vettura, non avrebbe nutrito alcun sospetto). Candura (sempre secondo le false confidenze di Scarantino, riferite da Andriotta) aveva sottratto la Fiat 126 di proprietà della sorella di Valenti Luciano e quest’ultimo la aveva portata nel posto stabilito, dove Scarantino la aveva presa in consegna, provvedendo a ricoverarla in un garage, diverso da quello dove la stessa era stata, successivamente, imbottita d’esplosivo. Inoltre, Andriotta aveva riferito anche ulteriori circostanze di dettaglio (sempre apprese, a suo dire, da Scarantino), in merito al furto della predetta autovettura, come il fatto che la stessa non era in condizioni di perfetta efficienza e, per tal motivo, veniva spinta o trainata. Ancora, per il furto di detta autovettura, Scarantino aveva promesso 500.000 lire a Candura, ma ne aveva corrisposto soltanto una parte, vale a dire 150.000 Lire, oltre a della sostanza stupefacente (non pagando la differenza). L’autovettura era stata anche riparata ed alla stessa erano state cambiate le targhe. Inoltre, Scarantino gli confidava che era lui stesso che aveva portato la macchina dal garage alla via D’Amelio. Circa il luogo dove la vettura era stata imbottita d’esplosivo, Scarantino gli confidava cose contrastanti, giacché, in un primo momento, riferiva di una località di campagna dove la sua famiglia possedeva dei maiali, e successivamente, dopo l’arresto del predetto garagista, faceva invece riferimento proprio all’autorimessa di quest’ultimo. Peraltro, Scarantino non era presente al riempimento della vettura d’esplosivo, perché se ne occupavano altre due persone, uno dei quali era uno specialista italiano di nome Matteo o Mattia. Scarantino spiegava anche che si era ritardata la denuncia del furto delle targhe al lunedì successivo all’attentato. A tale primo interrogatorio ne seguivano altri, in relazione ai quali si riporteranno, in questa sede (anche per economia motivazionale, attesa la pacifica falsità di tutte queste dichiarazioni dell’imputato, come ammesso ampiamente da Andriotta, anche nell’esame dibattimentale) solo gli ulteriori dettagli e circostanze, via via aggiunti, rispetto a quanto già sopra sintetizzato. In particolare, nel corso dell’interrogatorio del 4 ottobre 1993 (nel carcere di Milano Opera, sempre alla presenza del Pubblico Ministero, dott.ssa Ilda Boccassini), l’odierno imputato riferiva:
– di un messaggio fatto pervenire a Vincenzo Scarantino, occultato dentro un panino e gettato all’interno del cubicolo dove questi si trovava, da parte di alcuni detenuti sottoposti al regime differenziato dell’art. 41-bis O.P. (e ristretti nell’apposita sezione), come preannunciato da un amico del detenuto (che gridava dalla finestra “Vincenzo quando vai all’aria domani mattina, trovi un panino, mangiatillo”). Nel biglietto c’era il seguente messaggio: “guidala forte la macchina”; detto biglietto veniva poi dato da Scarantino ad Andriotta, affinché quest’ultimo lo consegnasse alla moglie, che avrebbe dovuto chiamare il recapito telefonico indicatole, per leggere all’interlocutore il testo del predetto messaggio;
– che Scarantino confidava ad Andriotta che il “telefonista” arrestato per la strage di via D’Amelio aveva intercettato la telefonata per conoscere gli spostamenti del dott. Paolo Borsellino operando su un armadio della società telefonica posto in strada. Questo soggetto era il fratello di un grosso boss mafioso. Quando veniva arrestato il “telefonista”, comunque, Scarantino non sembrava affatto preoccupato;
– che colui che, a dire di Scarantino, gli aveva commissionato il furto dell’automobile da utilizzare per la strage, era Salvatore Profeta; Andriotta motivava l’iniziale reticenza, a tale riguardo, con la paura di menzionare un personaggio d’elevato spessore criminale, spiegando che rammentava il nome del parente di Scarantino, in quanto quest’ultimo gli confidava che commentava tale presenza, al momento in cui l’esplosivo arrivava o veniva prelevato per essere trasportato nella carrozzeria, con la frase ”è arrivata la Profezia”;
– che il ritardo nella denuncia di furto al lunedì successivo la strage, riguardava le targhe apposte alla Fiat 126.
In occasione dell’interrogatorio del 25 novembre 1993, inoltre, Andriotta rendeva le seguenti ed ulteriori dichiarazioni:
– riferiva alcuni dettagli sul messaggio minatorio di cui aveva parlato nel precedente atto istruttorio, precisandone il contenuto (“guida forte la macchina”);
– su domanda dei magistrati, rendeva ulteriori dichiarazioni sul predetto Matteo o Mattia, evidenziando che Scarantino non gli specificava se questi era siciliano o meno, e precisando di non essere sicuro se, al posto di tale nome, il compagno di detenzione menzionava un altro nome, simile a quello appena riferito;
– nel momento in cui arrivava l’esplosivo o quando lo stesso veniva trasferito sulla Fiat 126, assieme a tale Matteo o Mattia, era presente anche Salvatore Profeta; inoltre, Andriotta non poteva escludere che fossero presenti altre persone, poiché Scarantino gli faceva intendere di aver pronunciato la frase “è arrivata la Profezia”, a coloro che si trovavano sul posto.
Ancora, in occasione dell’interrogatorio del 17 gennaio 1994, Andriotta aggiungeva che, dopo la strage di via D’Amelio, Candura cercava, più volte, Scarantino, per sapere se l’autovettura utilizzata per l’attentato era proprio quella rubata da lui; Scarantino lo trattava in malo modo, intimandogli di non fargli più domande sul punto, e facendogli fare anche una telefonata minatoria, vista l’insistenza del Candura. Infine, Andriotta precisava che Scarantino ordinava a Candura di non rubare l’automobile nel quartiere della Guadagna. Ulteriori e significative progressioni nelle dichiarazioni di Andriotta, sempre riportando (falsamente) le confidenze carcerarie (inesistenti) di quest’ultimo, si registravano nel verbale d’interrogatorio del 29 ottobre 1994, dove l’imputato spiegava di aver taciuto, sino a quel momento, su alcune circostanze, per timore delle eventuali conseguenze per la propria incolumità personale. In particolare, il prevenuto riferiva che alla strage partecipava anche Salvatore Biondino, pur non sapendo con quale ruolo (Scarantino non glielo aveva detto). Inoltre, Scarantino gli parlava anche di una riunione in cui si definivano alcuni dettagli relativi all’esecuzione della strage, cui partecipavano Salvatore Riina, Pietro Aglieri e Carlo Greco, Salvatore Cancemi, Gioacchino La Barbera e Giovanni Brusca (sul punto si tornerà nel prosieguo, atteso che Andriotta, in buona sostanza, si adeguava alle sopravvenute dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, sulla riunione di villa Calascibetta). Nel successivo interrogatorio del 26 gennaio 1995, Andriotta proseguiva nell’aggiunta di ulteriori particolari sulla predetta riunione, evidenziando che alla stessa (sempre a dire di Scarantino) partecipava anche un tal Gancio o Ciancio, capo mafia di un quartiere di Palermo, nonché quel Matteo o La Mattia di cui aveva parlava in precedenza. Mentre si svolgeva la riunione, Scarantino rimaneva all’esterno, a fare la vigilanza; per un motivo che Andriotta non ricordava, ad un certo punto, entrava dentro la stanza, assistendo persino ad un momento della discussione: non tutti i partecipanti alla riunione erano d’accordo per assassinare il dott. Paolo Borsellino e, in particolare, Cancemi era uno di quelli che dissentiva. I Madonia non erano presenti alla riunione ma facevano pervenire il loro consenso. Ancora, Scotto aveva avuto anch’egli un ruolo nella strage (sempre a dire di Scarantino), avendo -quanto meno- fornito il consenso dei Madonia rispetto alla stessa. Infine, a proposito del “telefonista”, Scarantino confidava all’imputato che, circa due giorni prima del collocamento dell’autobomba in via Mariano D’Amelio, questo soggetto comunicava che “era tutto a posto”, nel senso che era stato messo sotto controllo il telefono della casa della madre del dott. Borsellino. In data 31 gennaio 1995 e 16 ottobre 1997, Andriotta veniva esaminato, rispettivamente, nei dibattimenti di primo grado dei processi c.d. Borsellino uno e Borsellino bis ed, in specie, nella seconda occasione, approfondiva le accuse mosse nei confronti dello Scarantino, chiamando anche in causa (sempre de relato dal compagno di detenzione), per la prima volta, in relazione alla strage di via D’Amelio, Cosimo Vernengo, come “partecipe” all’eccidio (si riporta, in nota, lo stralcio d’interesse della relativa dichiarazione dibattimentale, sulla quale si ritornerà). Infine, sempre nell’ambito del processo c.d. Borsellino bis, Andriotta veniva nuovamente esaminato il 10 giugno 1998, allorché riferiva (falsamente) che veniva minacciato, in data 17 settembre 1997, mentre si trovava in permesso premio a Piacenza, da due individui che lo chiamavano per nome, gli intimavano di confermare la ritrattazione fatta da Scarantino ad Italia Uno nel 1995 e aggiungevano che doveva anche parlare dell’omosessualità del predetto. In sostanza, Andriotta doveva dire che Vincenzo Scarantino nel 1995, ritrattando le sue dichiarazioni, aveva detto la verità e che aveva fatto (prima d’allora) delle accuse false, per la strage di via D’Amelio, perché continuamente picchiato, su istigazione del dott. Arnaldo La Barbera. Inoltre, Andriotta doveva spiegare che quanto a sua conoscenza sulla strage di via D’Amelio e su fatti di mafia era il frutto di un accordo fra lui e Scarantino. Altri avvertimenti gli venivano fatti sempre dagli stessi due individui, nel periodo natalizio del 1997, quando si trovava in permesso: tra le istruzioni ricevute, vi era anche quella di nominare come suoi difensori, prima di Pasqua, gli avvocati Scozzola e Petronio (direttiva alla quale aveva, poi, ottemperato). In cambio di quanto richiesto, gli venivano promessi trecento milioni di Lire. Ciò premesso, si deve ora passare a trattare della valutazione d’attendibilità o meno delle predette dichiarazioni, da parte delle Corti d’Assise che si occupavano di questi fatti, nei precedenti processi celebrati per la strage di via D’Amelio. Così sinteticamente riportate le mendaci dichiarazioni che l’imputato rendeva in ordine alle inesistenti confidenze carcerarie di Vincenzo Scarantino, occorre esaminare anche le conclusioni raggiunte da talune delle sentenze dei precedenti processi celebrati per la strage di via D’Amelio, in ordine alla sua attendibilità. In tal senso, la sentenza di primo grado del primo processo celebrato per questi fatti (c.d. Borsellino uno), concludeva per un giudizio positivo sull’attendibilità intrinseca di Andriotta, evidenziando che la decisione di questi di collaborare con la giustizia era il frutto di una scelta autonoma, maturata e meditata all’interno della sua coscienza, in maniera del tutto libera e spontanea. A tal proposito, si valorizzavano le dichiarazioni di alcuni testimoni che consentivano (ad avviso di quella Corte) di dissipare i dubbi prospettati dalle difese sul possibile impiego del ‘collaboratore’ di giustizia in funzione di agente provocatore, nonché il fatto (positivamente valutabile) che Andriotta riferiva, inizialmente, i fatti di reato che lo riguardavano in prima persona e, solo in seguito, delle confidenze carcerarie di Vincenzo Scarantino sulla strage di via D’Amelio (peraltro, seguendo un preciso suggerimento degli inquirenti dell’epoca, come oggi è dato sapere per la confessione dell’imputato, sul punto specifico attendibile), nonché il fatto che l’imputato continuava a rendere dette dichiarazioni anche dopo la conferma in appello della pena dell’ergastolo, nel processo (per omicidio) a suo carico: queste circostanze deponevano per l’assoluta mancanza, nella genesi della collaborazione di Andriotta, di valutazioni di personale tornaconto, che potessero far dubitare della genuinità delle sue dichiarazioni. Non risultavano, poi, elementi da cui inferire che Andriotta nutrisse nei confronti degli imputati (con i quali non aveva, in precedenza, alcun genere di rapporti), sentimenti d’astio, risentimento o vendetta, tali da far ipotizzare che potesse esser mosso da ragioni di malanimo o da intenti calunniosi. Infine, le dichiarazioni di Andriotta venivano valutate ricche di dettagli, costanti rispetto a quelle rese in fase d’indagine e verosimili sul fatto che potesse essere stato il ricettore delle confidenze di Scarantino, poiché l’ingresso dell’imputato, dal 3 giugno 1993, nel reparto carcerario di Busto Arsizio dove il detenuto della Guadagna era (in precedenza) ristretto da solo, era motivo di sollievo per Scarantino, consentendogli di uscire finalmente da quella condizione di solitudine ed alienazione che si protraeva ormai da diversi mesi. Con particolare riferimento alle valutazioni negative, sulla credibilità di Francesco Andriotta, già contenute nella pronuncia d’appello a suo carico (per la quale l’imputato è ergastolano), confermata dalla decisione del giudice di legittimità, la Corte d’Assise del primo processo sui fatti di via D’Amelio, riteneva che tale giudizio critico non potesse, in alcun modo, inficiare il suddetto giudizio d’attendibilità, non refluendo nel procedimento per la strage del 19 luglio 1992. Inoltre, le dichiarazioni di Andriotta potevano dirsi, sempre ad avviso della prima Corte d’Assise che s’occupava della strage di via D’Amelio, confortate da una serie di elementi oggettivi:
– dagli accertamenti condotti presso il carcere di Busto Arsizio, emergeva l’effettiva possibilità di comunicare per Andriotta e Scarantino, come confermato anche dai testi Murgia ed Eliseo, che spiegavano come le rispettive celle (e finestre) erano contigue (inoltre, era dimostrato che l’agente di turno della Polizia Penitenziaria, unico per tutto il Reparto, non poteva assicurare la sorveglianza a vista di Scarantino, dovendo attendere a tutte le altre incombenze);
– potevano dirsi pienamente riscontrate le dichiarazioni del collaboratore Andriotta per quanto atteneva al proprio ruolo di tramite con l’esterno, in favore di Scarantino, sulla base della documentazione acquisita al processo, nonché per le dichiarazioni di Bossi Arianna (moglie di Andriotta), e, ancora, per il contenuto delle intercettazioni di quel processo;
– era accertato che Ignazia Scarantino, sorella di Vincenzo, coniugata con Salvatore Profeta, utilizzava l’autovettura Fiat 126, di colore amaranto, targata PA 622751, intestata a Profeta Angelo, e che, in effetti, sul quotidiano “Il Giorno” del 10 luglio 1993, veniva riportata, in un trafiletto in settima pagina, la notizia dell’arresto di un fratello di Vincenzo Scarantino.
In parte diverso era il giudizio sull’attendibilità di Francesco Andriotta, nonché sulla valenza del suo contributo dichiarativo, da parte dei Giudici di prime cure del secondo processo celebrato per la strage di via D’Amelio.
Vale la pena di riportare, qui di seguito, un breve stralcio della sentenza di primo grado emessa nel processo c.d. Borsellino bis, appunto, nella parte della motivazione a ciò dedicata:
“Dal contesto delle dichiarazioni dibattimentali di Andriotta e, soprattutto, dall’analisi delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni appare tuttavia evidente che le dichiarazioni di Andriotta prima del pentimento di Scarantino Vincenzo sono state limitate alle confidenze di Scarantino riguardanti singoli momenti esecutivi della strage, quali il furto della Fiat 126 utilizzata come autobomba, la custodia dell’autovettura prima della sua utilizzazione, il ruolo di Profeta Salvatore, (…), il caricamento dell’esplosivo presso la carrozzeria Orofino, il trasporto dell’autovettura sul luogo della strage e l’esecuzione di una intercettazione telefonica sul telefono della madre del dott. Borsellino ad opera di un parente di un uomo d’onore a nome Scotto, (…). Infatti risulta chiaro dalle dichiarazioni rese in dibattimento dall’Andriotta che lo stesso ha parlato della famosa riunione preparatoria della strage solamente dopo che i mezzi di informazione avevano diffuso la notizia del pentimento di Scarantino Vincenzo. (…) Orbene, per quanto attiene alla prima fase delle dichiarazioni di Andriotta è agevole osservare che hanno trovato ampio riscontro (…) tutte le indicazioni fornite da Andriotta circa la concreta possibilità che lo stesso aveva di dialogare con Scarantino (…). Assolutamente incontestabile appare, poi, lo scambio di favori e cortesie tra lo Scarantino e l’Andriotta e, in particolare, il fatto che lo Scarantino si sia avvalso della collaborazione dell’Andriotta per le comunicazioni con l’esterno del carcere (…). Alla luce di tali fatti appare ampiamente riscontrato il fatto che Scarantino Vincenzo abbia progressivamente intensificato i suoi rapporti con il compagno di detenzione, (…) ed appare credibile che possa anche avergli fatto qualche confessione, verosimilmente limitata, frammentaria e forse confusa (…). Certamente il distacco temporale tra le prime dichiarazioni di Andriotta e l’inizio della collaborazione con la giustizia di Scarantino e la divergenza di molti dettagli dagli stessi riferiti induce ad escludere un iniziale accordo tra i due (…) le dichiarazioni di Andriotta non possono certo considerarsi come prove autonome rispetto alle corrispondenti dichiarazioni di Scarantino Vincenzo, per la semplice ragione che lo stesso non ha fatto altro che riferire confidenze ricevute dal compagno di detenzione. Tali dichiarazioni (…) hanno solamente il valore di confermare, proprio per il fatto di essere state raccolte ampiamente prima dell’avvio della collaborazione di Scarantino Vincenzo, soltanto l’intrinseca attendibilità delle dichiarazioni rese da quest’ultimo nella prima fase della sua collaborazione con la giustizia e di rendere per contro assolutamente inattendibile la successiva totale ritrattazione di Scarantino”. In buona sostanza (come appena riportato), i Giudici di primo grado del processo c.d. Borsellino bis ritenevano veritiere le rivelazioni originarie di Francesco Andriotta, fatte prima che Vincenzo Scarantino intraprendesse la sua ‘collaborazione’: le dichiarazioni dell’imputato, non dotate di autonomia (nel senso che si trattava, come detto, delle confidenze del vicino di cella), erano pienamente utilizzabili per dimostrare l’attendibilità della collaborazione di Scarantino e la falsità della sua successiva ritrattazione (“in tale limitato ambito le dichiarazioni di Andriotta hanno una sicura valenza di conferma dell’attendibilità intrinseca delle originarie dichiarazioni di Scarantino Vincenzo e ciò a prescindere da qualsiasi eventuale arricchimento o coloritura che l’Andriotta possa avere operato”). Inoltre, la Corte d’Assise del secondo processo celebrato per questi fatti, riteneva logicamente credibile anche il predetto intervento intimidatorio, da parte di emissari di Cosa Nostra, mentre Andriotta si trovava in permesso premio; tale intervento era collocabile in una più ampia strategia d’inquinamento probatorio, tesa ad ottenere anche la ritrattazione delle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino (la stessa conclusione, sul punto, veniva raggiunta dai Giudici di secondo grado). A diversa conclusione, invece, pervenivano i medesimi Giudici, in relazione alle dichiarazioni di Andriotta, successive alla notizia del pentimento di Scarantino ed alle sue rivelazioni sulla riunione deliberativa della strage di via D’Amelio. A tal proposito, si evidenziava, in chiave negativa, che dette confidenze di Scarantino ad Andriotta non erano agganciate ad alcun episodio concreto (come gli arresti di Giuseppe Orofino, Rosario Scarantino e Pietro Scotto) o a risultanze tangibili, come la ricostruzione delle modalità del fatto attraverso gli esiti della consulenza esplosivistica, sicché le stesse, qualora effettivamente fatte, sarebbero state del tutto gratuite ed ingiustificate (se non per il solo fatto della fiducia che Scarantino riponeva in Andriotta). Inoltre, le giustificazioni fornite da Andriotta in relazione al grave ritardo con cui rendeva questa parte delle sue dichiarazioni, vale a dire il timore di conseguenze negative per la propria incolumità personale, venivano ritenute fragili, poiché egli, in precedenza, non si limitava a tacere qualche nome o talune circostanze, ma ometteva totalmente di fare dette rivelazioni. Infine, tali ultime dichiarazioni, a differenza delle prime, non apparivano costellate da incertezze e contraddizioni, ma si mostravano perfettamente allineate rispetto a quelle (sopravvenute) di Vincenzo Scarantino.
La Corte d’Assise del secondo processo per questi fatti, così si esprimeva, sul punto:
“Ad un certo punto, leggendo le dichiarazioni rese da Scarantino nel corso delle indagini, come meglio di dirà più avanti, si ha quasi l’impressione che Scarantino ed Andriotta conducano un gioco perverso, non necessariamente concordato prima, in cui le due fonti si confermano reciprocamente e progressivamente: Andriotta confermando di avere ricevuto le confidenze relative alle ulteriori dichiarazioni rese dall’ex compagno di detenzione, spesso riportate dai mezzi di infomazioni o culminate in arresti ed operazioni di polizia; Scarantino confermando di avere fatto tali confidenze all’Andriotta (ciò avviene sicuramente per esempio in un particolare momento sospetto della collaborazione di Scarantino in cui lo stesso indica Di Matteo Mario Santo tra i partecipanti alla riunione, Andriotta conferma di avere percepito un cognome simile che ricorda come “Matteo, Mattia o La Mattia” e Scarantino a chiusura del cerchio conferma di averne parlato ad Andriotta in pericoloso incastro di reciproche conferme)”. In conclusione, la Corte d’Assise “ritiene che l’attendibilità delle dichiarazioni rese da Andriotta successivamente al pentimento di Scarantino e, in particolare, delle dichiarazioni riguardanti la famosa riunione preparatoria sia perlomeno dubbia, non potendosi escludere che l’Andriotta abbia in realtà riportato notizie apprese dai mezzi di informazione e che abbia avviato con Scarantino, anche al di fuori di un espresso e preventivo accordo, un facile sistema di riscontro reciproco incrociato”. Nello stesso solco rispetto alle valutazioni appena riportate, si ponevano anche quelle effettuate dai Giudici dell’appello del primo processo celebrato per questa strage (l’appello del processo c.d. Borsellino uno, infatti, veniva celebrato in parallelo rispetto al dibattimento di primo grado del secondo processo per questi fatti). Come si diceva, anche i Giudici di secondo grado del primo troncone del processo, dopo aver acquisito, con l’accordo delle parti, le nuove dichiarazioni testimoniali di Andriotta (fatte nel parallelo procedimento c.d. Borsellino bis), le valutavano inattendibili, nella parte in cui il collaboratore introduceva elementi nuovi, mai accennati prima della collaborazione di Vincenzo Scarantino. (pagg 1531 – 1563)
Un summit che non c’è mai stato
Allo stesso modo, non veniva ritenuta credibile nemmeno la parte del racconto di Andriotta, in cui questi si adeguava alla narrazione, sopravvenuta, della fonte primaria. Emblematico, a tal proposito, quanto affermato da Andriotta proprio sulla riunione che si teneva nella villa di Giuseppe Calascibetta, di cui egli riferiva (come già accennato), esclusivamente, dopo la collaborazione di Scarantino, senza averne mai accennato in precedenza. Andriotta, nel corso dell’esame testimoniale, specificava di aver parlato, per la prima volta, della predetta riunione, ai magistrati inquirenti, nel settembre 1994, perché -prima d’allora- aveva paura di fare dette rivelazioni. La sopravvenuta collaborazione del compagno di cella, poi, lo induceva (a suo dire) a riferire anche della predetta riunione, in quanto, diversamente, avrebbe perso di credibilità.
Si riporta, qui di seguito, uno stralcio della motivazione di tale sentenza d’appello del primo processo sui fatti di via D’Amelio: Andriotta Francesco, ha, dunque, dichiarato di avere, per la prima volta, parlato della riunione dopo avere saputo che Scarantino Vincenzo aveva iniziato a collaborare con lo Stato, essendosi allora preoccupato di perdere la sua credibilità se ne avesse parlato lo Scarantino.
Egli ha aggiunto che non ne aveva parlato prima per paura e, perché, narrando la riunione, sarebbe stato “fin troppo attendibile”; non credeva invece che le sue accuse contro Scarantino Vincenzo e Profeta Salvatore – prima della collaborazione dello Scarantino – avrebbero potuto portare alla condanna delle persone chiamate in reità (vedi anche, supra, pag. 397).
Andriotta Francesco ha, quindi, riferito di avere saputo da Scarantino Vincenzo, durante la comune detenzione nel carcere di Busto Arsizio, che la riunione era stata tenuta “in campagna, all’aperto, in una casa pubblica, privata” e che vi avevano partecipato Riina Salvatore, Aglieri Pietro, Cancemi, La Barbera e “La Mattia, Matteo o Mattia” e, forse, Profeta Salvatore; non ricordava, inoltre, se avessero preso parte alla riunione Biondino e Cosimo Vernengo dei quali lo Scarantino gli aveva, comunque, detto che avevano partecipato alla strage.
Conviene riportare testualmente il brano delverbale dell’udienza del 16.10.1997, relativo alla testimonianza resa dall’Andriotta sulla riunione e su coloro che vi avrebbero preso parte (cfr. pag. 144 – 148).
Domanda Ecco, cos’ha saputo lei da Scarantino Vincenzo…. se ha saputo qualcosaa proposito di riunioni, incontri relativi alla strage ?
Risposta Sì, sì. Sì, lui mi disse che ci fu questa riunione, però ora io non mi ricordo bene se fu in campagna, all’aperto, in una casa pubblica, privata; questo non glielo so dire. Mi dispiace, questo non glielo so dire nemmeno oggi. E mi disse che parteciparono dei personaggi grossi: Pietro Aglieri, Salvatore Riina e lo stesso Cancemi e La Barbera, mi disse. Questo io mi ricordo. Salvatore Profeta io non mi ricordo se era presente.
Il collaboratore ha così proseguito:
Domanda Quindi lei ricorda che Scarantino le fece i nomi di Aglieri, Riina, Cancemi e La Barbera ?
Risposta Sì, sì
Domanda Ricorda se le fece qualche altro nome, oppure le fece il nome soltanto di queste quattro persone ?
Risposta No, mi sembra che c’era pure ‘sto La Mania … Matteo … Mania:, non mi ricordo bene, dottore. Comunque mi fece dei nomi. Ecco che io so che Cosimo Vernengo è partecipante della strage ..l ‘ho già detto nel primo grado di via D’Amelio e lo ripeto ancora oggi perché devo dirlo.
E ancora, su domanda del Pubblico Ministero:
Domanda Lei ricorda se fu fatto in qualche modo, e ci dica lei eventualmente per quali fatti, il nome di tale Biondino?
Risposta Ah, sì, Salvatore Biondino, però mi disse che era partecipe alla strage, ma non sono sicuro se partecipò anche lui …ancora oggi non sono sicuro se mi disse che lui era partecipe alla riunione, oppure no…
Domanda Quindi lei ci sta dicendo: “Ricordo che mi disse che alla riunione avevano partecipato Cancemi, La Barbera, Riina e Aglieri”… mentre di Vernengo e Biondino ci dice: “Mi ha detto Scarantino che hanno partecipato alla strage”.
Abbiamo capito bene ?
Risposta Sì. Però che erano presenti alla riunione non credo… non melo ricordo. Non credo che forse me l ‘ha detto o no, non lo so.
Domanda A proposito del Cancemi, Scarantino le aggiunse qualche particolare, le specificò … ?
Risposta Sì, perché Scarantino era fuori da questa abitazione. Poi fu chiamato ed è entrato dentro, dove c’erano tutti questi grossi personaggi, e disse che Cancemi espresse parere praticamente… era… non consenziente, va’, a questa strage. Questo è vero. Questo mi disse … e c’erano altri, una o due persone, anche loro che avevano espresso un parere non tanto positivo per la strage di via Mariano D’Amelio. Questo me lo ricordo …
Domanda Lo Scarantino le specificò se Cancemi avesse un qualche ruolo in Cosa Nostra ?
Risposta. Sì, disse che era una persona molto di spicco di Cosa Nostra; era una persona che comandava in Cosa Nostra.
Più avanti, sempre su domanda del Pubblico Ministero:
Domanda E di questo La Barbera del quale …
Risposta Ah, io scherzosamente, proprio di questo La Barbera, oggi ricordo – perché il dottor Arnaldo La Barbera mi deve ancora perdonare oggi, che… gli dissi: ‘Ma quale LaBarbera, il poliziotto ?’ . Lui mi disse: ‘No, quale poliziotto. Un altro La Barbera’…
Il 16 Ottobre 1997 Andriotta Francesco ha dunque riferito davanti alla Corte di Assise di Caltanissetta di avere appreso da Scarantino che ad una riunione sulla strage di via D’Amelio, cui avevano partecipato Riina Salvatore, Pietro Aglieri e, forse, Profeta Salvatore – cioè alla riunione in casa Calascibetta – erano presenti
anche il Cancemi e il La Barbera.
E di ciò egli si mostrò sicuro perché del Cancemi lo Scarantino gli disse che «era una persona molto di spicco in ‘Cosa Nostra’; una persona che comandava» e che, nel corso della riunione, aveva manifestato il dissenso.
Il nome del La Barbera, fattogli dallo Scarantino, gli era rimasto impresso nella memoria, a causa dell’omonimia con il questore Arnaldo La Barbera.
Si è, tuttavia, dimostrato nel precedente capitolo che il Cancemi e il La Barbera (al pari del Di Matteo, di Ganci Raffaele e di Brusca Giovanni, quest’ultimo chiamato in correità dallo Scarantino il 25.11.1994) non hanno partecipato alla riunione nella villa del Calascibetta.
Si è, inoltre, accertato che la falsa chiamata in correità di Scarantino Vincenzo nei confronti del Cancemi e del La Barbera – al pari di quella nei confronti del Di Matteo e di Ganci Raffaele – fu formulata da Scarantino Vincenzo, per la prima volta, il 6 Settembre 1994.
Le false dichiarazioni sono state ricondotte ad una precisa strategia di settori esterni (riconducibili al contesto mafioso palermitano) che hanno interferito nel percorso collaborativo dello Scarantino; strategia rivolta a inquinare deliberatamente le prove e realizzata nell’estate del 1994.
Ma anche nell’ipotesi – non ritenuta da questa Corte – di un’autonoma iniziativa dello Scarantino che – nel lanciare false accuse contro soggetti (che collaboravano, con la giustizia) i quali avevano partecipato alla strage di Capaci e che egli riteneva avessero potuto prendere parte anche alla strage di via D’Aurelio – pensava che avrebbero potuto allinearsi alle sue dichiarazioni sulla riunione, è certo che l’idea nacque nel 1994 e dopo i primi interrogatori dello Scarantino che dei collaboratori di giustizia di allora (Cancemi, La Barbera e Di Matteo) non aveva fatto originariamente alcuna menzione.
Ne consegue che lo Scarantino non ha potuto riferire all’Andriotta che il Cancemi e il La Barbera erano presenti alla riunione nella villa di Calascibetta Giuseppe, durante il periodo di comune detenzione a Busto Arsizio e, cioè, tra il Giugno e l’Agosto del 1993. Ulteriore conseguenza è che la chiamata in reità, formulata da Andriotta Francesco, quale testimone de relato, nei confronti di Cancemi Salvatore e La Barbera Gioacchino, è una chiamata mendace, nel senso che non corrisponde al vero che Scarantino Vincenzo abbia potuto confidare all’Andriotta nel carcere di Busto Arsizio, parlandogli di una riunione prodromica alla strage di via D’Amellio, che Cancemi e La Barbera avevano partecipato ad una riunione di tal genere.Il mendacio di Andriotta Francesco si desume, inoltre, da un particolare che egli ha introdotto e che ha tratto da informazioni giornalistiche, non avendoglielo potuto riferire Scarantino Vincenzo. Il particolare si riferisce all’autovettura con a quale Riina Salvatore sarebbe stato accompagnato alla riunione. Conviene, al riguardo riportare testualmente il verbale del 16 Ottobre 1997 (vedi, supra, pag. 398 – 399 e cfr. verbale citato, pag. 215 – 216):
Domanda E allora, signor Andriotta, Scarantino le disse come era arrivato Totò Riina alla riunione di cui ci ha parlato lei questa mattina?
Andriotta Sì, se io mi ricordo bene, arrivò per ultimo con una Citroen lui mi disse. Se io ricordo bene la macchina era una Citroen. Disse che arrivò per ultimo; prese queste precauzioni, ecco.
Scarantino Vincenzo non avrebbe potuto mai dire ad Andriotta Francesco che Salvatore Riina era arrivato, per ultimo e con una Citroen, avendo egli sempre affermato, sin dal primo interrogatori del 24.giugno 1994, che il Riina era già giunto alla villa del Calascibetta a bordo di una Fiat 126 bianca e non avendo mai fatto
riferimento a un Citroen.
Andriotta ha indicato quest’ultima autovettura per averne avuto conoscenza dai mezzi di informazione: è un fatto notorio che Salvatore Riina è stato catturato a Palermo nel Gennaio del 1993 mentre viaggiava in compagnia di Salvatore Biondino a bordo di una piccola Citroen.
Lo stesso Andriotta, peraltro, ha dichiarato, rispondendo alla domande di un altro difensore, di avere seguito con grande interesse le cronache televisive della cattura di Salvatore Rima ed ha aggiunto di avere così commentato l’arresto del capo di ‘Cosa Nostra’: “Va be’, dopo 24 anni di latitanza, hanno preso la belva” (cfr. verb. ud. 16.10.1997, pag. 278 – 280).
Se, infine, si dovesse ritenere – ipotesi non ritenuta da questa Corte per le considerazioni appena svolte – che effettivamente lo Scarantino abbia parlato all’Andriotta della riunione e della presenza dei collaboratori di giustizia, durante il periodo di detenzione a Busto Arsizio, si dovrebbe necessariamente concludere – posto che è stata raggiunta la prova della loro non partecipazione alla riunione – che lo Scarantino avrebbe raccontato una circostanza non vera.
Né, infine, può ipotizzarsi che Scarantino Vincenzo abbia. potuto fare altre confidenze all’Andriotta in epoca successiva a quella della comune detenzione, posto che non risulta che i due collaboratori abbiano avuto successivi contatti e che lo stesso Andriotta, anche se sottoposto al programma di protezione, è rimasto detenuto in carcere.
Inoltre, la medesima Corte d’Assise d’Appello del primo processo celebrato per questi fatti, riteneva inattendibili le dichiarazioni di Francesco Andriotta sulle minacce delle quali riferiva (come detto, ai Giudici del processo c.d. Borsellino bis), per le osservazioni di seguito riportate:
“Ritiene la Corte che non corrisponda al vero quanto riferito da Andriotta Francesco sulle minacce che avrebbe subito nel 1997 per le seguenti ragioni:
a)Non trova, innanzitutto, una plausibile spiegazione il suggerimento che, secondo il racconto dell’Andriotta, gli sarebbe stato dato dai due emissari di “Cosa Nostra” – così accorti da conoscere tutti i suoi movimenti e da essere informati anticipatamente anche dei permessi premio di cui avrebbe potuto usufruire – di non dar luogo ad una netta ritrattazione davanti alla Corte di Assise di Caltanissetta ma soltanto di “traballare” e, cioè, di confermare le precedenti dichiarazioni, limitandosi a mostrare qualche incertezza, e a riservare la ritrattazione – che in ogni caso sarebbe apparsa più debole – ad un successivo ed eventuale esame davanti ai giudici (va, peraltro, rilevato che il 17.9.1997 l’Andriotta non poteva sapere che sarebbe stato chiamato a testimoniare davanti a questa Corte, poiché l’ordinanza ammissiva della relativa prova è stata pronunciata il successivo 26.9.1997).
b) Gli emissari di “Cosa Nostra” non avrebbero mai potuto fissargli un appuntamento per il 14 o il 15 Febbraio 1998 (come narrato dall’Andriotta) poiché non potevano sapere anticipatamente se l’autorità giudiziaria avesse concesso all’Andriotta il permesso premio e quando costui ne avrebbe usufruito. (…) L’Andriotta (…) non ha saputo chiarire come gli emissari di “Cosa Nostra” fossero a conoscenza del fatto che egli avrebbe usufruito del permesso premio il 14 o il 15 Febbraio 1998, se non ricorrendo a una vera e propria petizione di principio: gli emissari sapevano del giorno in cui egli avrebbe goduto del permesso premio perché “loro sapevano tutto”. L’Andriotta non ha potuto dare nessun chiarimento perché nessuno poteva conoscere la decisione che avrebbe adottato l’autorità giudiziaria
non a caso il permesso non è stato concesso); neppure gli emissari di “Cosa Nostra” potevano, dunque, conoscere preventivamente il giorno del permesso, non essendo ancora stato emesso dal magistrato di sorveglianza nessun provvedimento.
c)Altrettanto priva di senso logico, ad avviso di questa Corte, è l’indicazione che gli sarebbe stata data nel Dicembre del 1997 – quando già era stato esaminato, come teste, dalla Corte di Assise e non doveva essere più esaminato da questa Corte che aveva acquisito i verbali delle dichiarazioni rese dall’Andriotta nell’altro processo (c.d. “Borsellino bis”) – di nominare come propri difensori gli avvocati Scozzola e Petronio, che sono difensori di alcuni imputati nell’uno e nell’altro processo, tanto più se si considera che egli aveva già deposto il 16.10.1997 e, comunque, che, in qualità di teste, non aveva il diritto di essere assistito da un difensore, a meno di non considerare gli ispiratori delle minacce esercitate nei suoi confronti (ispiratori che secondo lo stesso Andriotta “sapevano tutto”) tanto sprovveduti da ignorare che un teste non può essere assistito dal difensore.
La nomina, poi, dei difensori degli imputati della strage di via D’Amelio portava immediatamente a classificare l’operazione come una manovra ispirata dagli stessi imputati e a vanificare, dunque, il risultato che essi intendevano conseguire con le minacce rivolte ad Andriotta Francesco per costringerlo a “ritrattare”.
d)È, poi, ragionevole ritenere che chiunque avesse voluto influire sulla testimonianza di Andriotta, si sarebbe limitato a chiedergli che smentisse di avere ricevuto confidenze sulla strage di via D’Amelio nel carcere di Busto Arsizio e gli avrebbe ordinato di dichiarare di avere costruito la sua verità mettendo insieme informazioni carpite a Scarantino Vincenzo, notizie pubblicate sui giornali e voci che circolavano nell’ambiente carcerario (questa è, ad esempio, la tesi sostenuta da Scarantino Vincenzo dopo la sua ‘ritrattazione’).
e) È, infine, inspiegabile il motivo per il quale gli emissari di “Cosa Nostra” gli avrebbero ordinato di riferire una circostanza che l’Andriotta non poteva conoscere e, cioè, che Scarantino Vincenzo sarebbe stato sottoposto a maltrattamenti nel carcere di Pianosa: fatto, questo, di cui egli era sicuramente ignaro, essendo stato detenuto con Scarantino nell’estate del 1993, vale a dire, prima del trasferimento di quest’ultimo nel carcere di Pianosa.
Non è chiaro per quale ragione Andriotta Francesco abbia raccontato di minacce mai ricevute: l’unica ipotesi che può essere formulata è quella che egli – con l’invio della nomina dei due difensori e con la richiesta di essere esaminato, avanzata ai presidenti delle due Corti innanzi alle quali si svolgevano i due processi per la strage di via D’Amelio – intendesse riallacciare i rapporti con i magistrati della Procura della Repubblica di Caltanissetta i quali, come ha dichiarato lo stesso Andriotta, si recarono a trovarlo dopo avere preso conoscenza della nomina degli avvocati Petronio e Scozzola, attesa la singolarità della nomina. Il racconto delle minacce, sotto altro profilo, mirava a rafforzare il ruolo di collaboratore di giustizia dell’Andriotta il quale, proclamandosi vittima di un complotto e di gravissime minacce finalizzate a ottenere la sua “ritrattazione”, poteva sperare di conseguire tutti quei benefici che non gli erano stati ancora concessi.
È, però, certo – quale che sia la motivazione dell’Andriotta – che gli elementi, acquisiti in questo processo, portano ad escludere l’esistenza delle minacce da lui denunciate come opera di emissari di “Cosa Nostra”.
Ciò influisce negativamente sulla credibilità di Andriotta Francesco poiché dimostra che, per raggiungere i suoi scopi, egli non si è neppure preoccupato di narrare fatti che, nei termini da lui indicati, non hanno trovato il benché minimo riscontro e sono stati contraddetti da altre acquisizioni probatorie.
Possono essere, a questo punto, tratte le conclusioni sulla credibilità del collaboratore di giustizia Andriotta Francesco.
C) CONCLUSIONI.
1. E’ stata dimostrata – ad avviso della Corte – non soltanto l’opportunità di comunicazione, all’interno del carcere di Busto Arsizio, ma l’effettività della comunicazione tra Scarantino Vincenzo e Andriotta Francesco e della verosimiglianza delle confidenze tra i due, anche in considerazione del particolare stato d’animo dello Scarantino (vedi, supra, pag. 401 – 404). Non possono, in conseguenza, essere condivisi gli assunti difensivi tendenti a negare, in generale, l’esistenza dei rapporti tra i due collaboratori e le confidenze dello Scarantino al suo compagno di detenzione.
2. Andriotta Francesco, per effetto del ruolo assunto nell’ambito dei procedimenti per la strage di via D’Amelio, ha conseguito taluni benefici che -data la sua condanna definitiva all’ergastolo – non possono essere ritenuti insignificanti. Risulta, infatti, dalle dichiarazioni rese dallo stesso Andriotta nel processo c.d. “Borsellino bis”, che egli è stato ammesso il 13 Gennaio 1995 al programma speciale di protezione, per sé e per i propri familiari e che, in conseguenza di tale provvedimento, egli sconta la sua pena in speciali sezioni destinate ai collaboratori di giustizia, gode di permessi premio (in deroga alla normativa in materia che prevede la concessione di questo beneficio, per i condannati all’ergastolo, dopo l’espiazione di dieci anni di pena) e la sua famiglia mensilmente ha ricevuto un modesto contributo finanziario. Risulta, inoltre, che – già nel 1995 – Andriotta Francesco ha presentato la domanda di affidamento in prova al servizio Sociale (misura, in generale, prevista per i condannati che devono scontare pene residue non superiori a tre anni). L’istanza (respinta dal competente Tribunale di Sorveglianza, in
ragione della brevità della pena già espiata) è stata riproposta da Andriotta Francesco che, al momento della sua deposizione davanti alla Corte di Assise, era in attesa della decisione dell’autorità giudiziaria. La ricerca di benefici premiali, come già si è osservato, non incide negativamente né sulla spontaneità della scelta di collaborazione né sul requisito del disinteresse (vedi, supra, pag. 405 – 406).
2.L’affannosa ricerca di tali benefici da parte dell’Andriotta – desumibile dalla introduzione, nel corso dell’esame dibattimentale del 16.10.1997 reso nell’ambito del processo “Borsellino bis”, di circostanze nuove o di modificazioni delle precedenti dichiarazioni per adeguare la sua deposizione alla narrazione della fonte primaria e dalla narrazione della vicenda relativa alle minacce che avrebbe subito perché “ritrattasse” (vedi, supra, pag. 406 – 418 e 426 – 430) – impone necessariamente una particolare cautela nella valutazione delle dichiarazioni di Andriotta Francesco al fine di stabilire quali circostanze da lui narrate siano state effettivamente apprese da Scarantino Vincenzo e quali siano, invece, patrimonio di altre conoscenze e riferite all’autorità giudiziaria per conseguire dei benefici. L’unico criterio valido per eseguire questo accertamento – come si è già osservato – è dato dalla coerenza e dalla costanza delle sue dichiarazioni (vedi supra, pag. 418 – 419).
3.Devono, in applicazione del criterio enunciato, essere ritenute inattendibili, come già si è rilevato, le parti della narrazione in cui sono contenute circostanze del tutto nuove o elementi aggiuntivi con i quali il collaboratore ha sostanzialmente modificato il suo racconto per adeguarlo alla narrazione della fonte primaria.
Devono, inoltre, essere ritenuti inattendibili – attesa la complessiva modesta attendibilità di Andriotta Francesco – le dichiarazioni in cui il teste è incorso in contraddizioni delle quali non ha saputo fornire una plausibile giustificazione.
4. Nell’ambito delle dichiarazioni che presentino i requisiti della coerenza e della
costanza tanto più il collaboratore deve essere ritenuto attendibile quanto più è da escludere che egli abbia attinto le sue conoscenze non dal suo confidente (Scarantino Vincenzo) ma da altre fonti.
L’originalità del racconto – rispetto a fonti diverse da quella costituita dalle confidenze di Scarantino Vincenzo – è il criterio che deve essere seguito (e a questo criterio si è attenuta la Corte) per escludere che il teste abbia potuto riferire circostanze apprese da fonti di informazione diverse da quelle del suo confidente.
Ne consegue che l’attendibilità delle dichiarazioni di Andriotta Francesco è tanto più alta quanto più le circostanze da lui narrate non erano altrimenti conoscibili se non attraverso il racconto di Scarantino Vincenzo (erano, cioè, circostanze nuove e mai diffuse da organi di informazione); l’attendibilità è, invece, più bassa quando il racconto di Andriotta Francesco può essere fondato su fonti diverse dalle confidenze di Scarantino Vincenzo.
Deve, in applicazione di questo criterio, essere riconosciuto un alto grado di attendibilità intrinseca alle parti del discorso narrativo dell’Andriotta sul ruolo di Profeta Salvatore, poiché ciò che è stato narrato dal teste non era altrimenti da lui conoscibile se non attraverso il racconto di Scarantino Vincenzo (nessun organo di informazione aveva parlato del coinvolgimento nella strage di Profeta Salvatore e del ruolo che, secondo il racconto di Andriotta, sarebbe stato svolto dall’imputato).
Nel caso in cui le dichiarazioni dell’Andriotta possano – astrattamente – essere ricondotte a fonti diverse dal suo confidente (il ragionamento si riferisce alla posizione degli imputati Orofino Giuseppe e Scotto Pietro che furono arrestati prima dell’inizio della collaborazione dell’Andriotta e dei quali erano note le imputazioni) occorre fare riferimento al criterio della precisione e della ricchezza di dettagli, per accertare se quanto riferito dall’Andriotta non era altrimenti conoscibile da lui se
non attraverso le confidenze di Scarantino Vmcenzo e, quindi, potere escludere una fonte di conoscenza diversa da parte di Andriotta Francesco.
5. Va, infine, precisato che – ai fini dell’attendibilità dei due collaboratori di giustizia (Scarantino Vincenzo e Andriotta Francesco) – può essere riconosciuta attendibilità alle loro dichiarazioni, nei limiti della loro reciproca convergenza, a meno che non sia provato il mendacio di uno dei collaboratori.
Si deve, peraltro, precisare che, ad avviso della Corte, sussiste convergenza tra le due dichiarazioni anche nel caso in cui per il racconto del teste de relato – che contenga elementi diversi rispetto alla sua fonte di conoscenza – possa essere formulato il giudizio logico di implicazione rispetto alla narrazione della fonte primaria.
Tale convergenza – come si vedrà nei successivi capitoli – è stata riconosciuta relativamente alla posizione dell’imputato Profeta Salvatore ma non in quelle degli altri due imputati di questo processo”.
In conclusione, secondo i Giudici d’Appello del primo processo, residuava l’attendibilità ‘frazionata’ di Francesco Andriotta per tutte le dichiarazioni rese prima della sopravvenuta collaborazione di Vincenzo Scarantino, purché dotate dei requisiti della costanza e coerenza. Detta attendibilità, pertanto, veniva ritenuta in riferimento alle (asserite) confidenze carcerarie di Scarantino, relative al furto dell’autovettura utilizzata per la strage, al luogo di caricamento dell’esplosivo sulla Fiat 126 (la porcilaia ed il garage di Giuseppe Orofino), alla presenza di Salvatore Profeta al momento dell’arrivo o del prelievo dell’esplosivo dalla porcilaia, nonché alla sostituzione delle targhe effettuata nel garage di Orofino, all’indicazione di Scotto e così via. Invece, ogni ulteriore dichiarazione di Andriotta su altre confidenze ricevute, in carcere, da Scarantino, doveva ritenersi inattendibile, poiché esclusivamente finalizzata ad ottenere dei benefici per la propria collaborazione.
Ben diverse erano le valutazioni sulla credibilità di Andriotta, da parte dei giudici dell’appello del secondo processo celebrato per questi fatti (c.d. Borsellino bis), i quali ritenevano integralmente attendibile l’apporto del ‘collaboratore’ di giustizia Andriotta. Nella sentenza, alla cui lettura integrale si rimanda (anche per economia di motivazione), nell’ampia parte dedicata alla collaborazione di Vincenzo Scarantino ed alla sua attendibilità intrinseca, si argomenta (in ben 65 pagine) in termini di “integrale valorizzabilità” delle dichiarazioni di Francesco Andriotta, “con riferimento a tutti i segmenti del racconto di Scarantino”, vale a dire, oltre al furto dell’autobomba ed al caricamento della stessa, anche la riunione precedente la strage (“le soli reali novità che Andriotta apporta alle sue originarie dichiarazioni dopo l’inizio della collaborazione di Scarantino”). Secondo i giudici d’appello del secondo troncone del processo per la strage di via D’Amelio, “la testimonianza di Andriotta si presenta per ogni suo aspetto attendibile e per i tempi, modi e circostanze in cui è stata resa e per i riscontri esterni che ha ricevuto (…) essa è stata giustamente ritenuta attendibile dai giudici di primo grado nelle parti concernenti le dichiarazioni rese prima dell’inizio della collaborazione di Scarantino”. Ma anche nella parte relativa alla riunione di Villa Calascibetta (come anticipato), la conclusione dei giudici d’appello non mutava (discostandosi da quella del primo grado), giacché il ritardo in tali dichiarazioni veniva giustificato da Andriotta, in maniera ritenuta plausibile, per il timore di sovraesporsi nei confronti di esponenti di primo piano di Cosa Nostra e per la necessità di non apparire reticente, dopo l’avvio della collaborazione di Scarantino. Grande rilievo, poi, veniva dato nella medesima pronuncia, anche al tentativo d’indurre alla ritrattazione Andriotta, da parte di emissari di Cosa Nostra, anch’esso ritenuto ampiamente riscontrato e pienamente credibile, con “singolari analogie con le modalità con le quali è stata realizzata la ritrattazione di Scarantino”: “la conferma delle minacce e dei tentativi di induzione alla ritrattazione che Andriotta ha subito influiscono positivamente sull’attendibilità complessiva dello stesso e in definitiva sull’attendibilità di Scarantino che l’attendibilità di Andriotta sorregge”. In sintesi, il contributo probatorio di Francesco Andriotta nel processo d’appello c.d. Borsellino bis, veniva valutato di “rilevanza decisiva nell’economia della prova”, vale a dire “un riscontro fondamentale a sostegno dell’attendibilità intrinseca di Vincenzo Scarantino il cui racconto su tutti i segmenti dell’azione dallo stesso descritti erano stati puntualmente descritti e anticipati nelle linee essenziali all’Andriotta, in un momento in cui Scarantino era ancora un mafioso a pieno titolo, sia pure in crisi, e non aveva affatto deciso ancora, anche se l’ipotesi gli balenava da tempo nella mente, di pentirsi”.
Nella ricostruzione (necessariamente sintetica) delle valutazioni effettuate dai Giudici che ebbero a pronunciarsi nei precedenti processi celebrati per la strage di via D’Amelio, non si riportano quelle effettuate nell’ambito del processo c.d. Borsellino ter, non utili per l’analisi della posizione di Andriotta, rispetto alla calunnia, aggravata e continuata, della quale risponde in questa sede.
Si passerà -di seguito- ad analizzare le dichiarazioni rese da Andriotta nell’ambito dell’odierno procedimento (sia nella fase dibattimentale, che in quella delle indagini preliminari).
La testimonianza dell’appuntato
Parzialmente divergente rispetto alle predette deposizioni del giornalista Felice Cavallaro e del dottor Giuseppe Ayala, anche sulla durata della permanenza di quest’ultimo in via D’Amelio, oltre che su diversi altri particolari, tutt’altro che secondari, si rivela la deposizione del Carabiniere che faceva da capo scorta ad Ayala, quel pomeriggio, vale a dire l’Appuntato Rosario Farinella.
Il Carabiniere, infatti, ricordava che, subito dopo la deflagrazione, quando si muovevano, con l’automobile blindata, dal residence ‘Marbella’, per andare ad accertarsi dell’accaduto, parcheggiando poi all’incrocio fra la via dell’Autonomia Siciliana e la via D’Amelio, Ayala faceva presente che in quella strada abitava la madre di Paolo Borsellino (circostanza che contrasta con quanto affermato dallo stesso Ayala, in merito al fatto che, prima della strage, non era al corrente della circostanza appena menzionata). Dopo il riconoscimento dei resti di Paolo Borsellino e delle altre vittime, il militare si recava presso la Croma blindata, unitamente ad Ayala, che non perdeva mai di vista. Vi era qualche fiammata dal lato posteriore destro ed un vigile del fuoco la spegneva. Poi, Farinella e il vigile del fuoco aprivano la portiera posteriore destra della Croma, forzandola, poiché Ayala si accorgeva che dentro vi era la borsa di Paolo Borsellino.
Lo stesso Farinella, inoltre, prelevava direttamente la borsa dal sedile posteriore e, dopo un certo lasso di tempo in cui la teneva in mano, su indicazione di Ayala, la consegnava ad una persona -in abiti civili- conosciuta dal Parlamentare (anche questo ricordo del teste contrasta decisamente con quanto affermato da Ayala ed anche da Cavallaro, in merito alla consegna della borsa ad un ufficiale in uniforme, neppure conosciuto). Il soggetto che riceveva la borsa non era Giovanni Arcangioli (la cui fotografia veniva mostrata al teste) ed era una persona (si ripete) conosciuta da Ayala. Quest’ultimo spiegava al consegnatario che si trattava della borsa del Magistrato (“Questa è la borsa che abbiamo preso della macchina del dottore Borsellino”) e veniva rassicurato dall’interlocutore, prima che questi s’allontanasse verso via dell’Autonomia Siciliana (“lo stesso ci rassicurò, dicendo che si sarebbe occupato della cosa, per cui gli consegnai la borsa”).
Si riporta, qui di seguito, uno stralcio della deposizione:
P.M. Dott. GOZZO – Sì, buonasera, appuntato, buongiorno. Le volevo fare in primo luogo la domanda specifica, diciamo, orientiamoci nel tempo e nello spazio: lei dove prestava servizio il 19 luglio del 1992?
TESTE FARINELLA R. – Ero in servizio al Nucleo Radiomobile di Palermo, però in servizio provvisorio presso le scorte di Palermo. (…) Scortavo il dottor Ayala.
P.M. Dott. GOZZO – Seguiva, quindi, il dottor Ayala. Si ricorda se in particolare proprio il giorno 19 luglio del 1992 lei era in servizio di scorta al dottor Ayala?
TESTE FARINELLA R. – Sì, come caposcorta.
P.M. Dott. GOZZO – Come caposcorta. Nella fattispecie, nel momento in cui… lei dove si trovava nel momento della strage, diciamo al momento dello scoppio?
TESTE FARINELLA R. – Circa cinquanta metri, cento metri in linea d’aria, eravamo all’hotel Marbella, se ricordo male. (…) Perché la personalità abitava lì.
P.M. Dott. GOZZO – La personalità abitava là. Quindi stavate aspettando la personalità, doveva scendere?
TESTE FARINELLA R. – Sì.
P.M. Dott. GOZZO – Cosa avete fatto subito dopo lo scoppio?
TESTE FARINELLA R. – Subito l’abbiamo avvisato e abbiamo capito che veniva il fumo di là. Lui diceva che là ci abitava la… la mamma e siamo andati subito lì.
P.M. Dott. GOZZO – La mamma di chi?
TESTE FARINELLA R. – Del Giudice Borsellino.
P.M. Dott. GOZZO – Dunque il dottor Ayala sapeva di questo fatto.
TESTE FARINELLA R. – Sì.
P.M. Dott. GOZZO – Una cosa le volevo chiedere: se ci può descrivere, se può descrivere alla Corte, che potrebbe anche non saperlo, quanto dista l’hotel Marbella da via D’Amelio.
TESTE FARINELLA R. – In linea d’aria nemmeno cento metri, perché deve passare la ferrovia, il palazzo e quello.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi nel momento in cui il dottore Ayala ha ricostruito che poteva essere il dottore Borsellino la vittima dell’attentato, perché diceva…
TESTE FARINELLA R. – No, no, no.
P.M. Dott. GOZZO – Cioè che, insomma, proveniva comunque dai pressi…
TESTE FARINELLA R. – Proveniva di là.
P.M. Dott. GOZZO – Cosa avete fatto?
TESTE FARINELLA R. – Mica avevamo la sfera magica.
P.M. Dott. GOZZO – Cosa avete fatto?
TESTE FARINELLA R. – Niente, ci siamo portati su quella parte e poi siamo entrati; non potevamo entrare, perché siamo entrati i primi di tutti quasi là, perché eravamo vicino. Siamo arrivati contemporaneamente ai Vigili del Fuoco, quindi nemmeno potevamo entrare con le fiamme che c’erano.
P.M. Dott. GOZZO – Può quantificare all’incirca quanto tempo era passato dall’esplosione che lei ha sentito da lontano?
TESTE FARINELLA R. – Non lo saprei dire. (…) Poco tempo.
P.M. Dott. GOZZO – …cronologicamente quando siete arrivati, siete arrivati contemporaneamente ai Vigili del Fuoco.
TESTE FARINELLA R. – Sì, sì.
P.M. Dott. GOZZO – Chi c’era lì di altre Forze di Polizia lo ricorda?
TESTE FARINELLA R. – No.
P.M. Dott. GOZZO – Quando siete arrivati voi.
TESTE FARINELLA R. – No, perché noi siamo arrivati, io mi… stavo dietro; c’era tanta gente, quindi ho dato ordine al mio carabiniere di lasciare la macchina, chiudere la macchina e stare con me, insieme con la personalità, cosa che è fuori dalla regola, visto la gravità della situazione.
P.M. Dott. GOZZO – Certo. Senta, che cosa avete fatto una volta arrivati in via D’Amelio? Quindi arrivate insieme ai Vigili del Fuoco. Cosa fate con il dottor Ayala?
TESTE FARINELLA R. – Andiamo dove è successo il cratere, camminando vedevamo dei corpi dei colleghi della scorta.
P.M. Dott. GOZZO – Sì. E in particolare vi siete diretti ad un posto specifico?
TESTE FARINELLA R. – Sì, siamo entrati dentro, abbiamo visto…
P.M. Dott. GOZZO – Dentro il cortiletto, stiamo parlando…
TESTE FARINELLA R. – Sì, sì.
P.M. Dott. GOZZO – …dei numeri 19 e 21 di via D’Amelio.
TESTE FARINELLA R. – Ma… sì, sì. Poi abbiamo visto il dottore che era lì per terra, l’abbiamo conosciuto tramite i baffi.
P.M. Dott. GOZZO – Parliamo del dottore Borsellino, evidentemente.
TESTE FARINELLA R. – Sì, perché era senza gambe e senza arti.
P.M. Dott. GOZZO – Il dottor Ayala l’ha riconosciuto da questo.
TESTE FARINELLA R. – Sì, sì.
P.M. Dott. GOZZO – Dopo avere visto queste scene terribili, dove siete andati? Se lo ricorda.
TESTE FARINELLA R. – Ma abbiamo visto un po’ sia la collega, la poliziotta, era sul marciapiede, vicino la macchina, e altri colleghi.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi, diciamo, avete fatto un giro dei luoghi per riuscire a verificare qual era lo stato.
TESTE FARINELLA R. – Sì.
P.M. Dott. GOZZO – E ricorda se vi siete avvicinati all’autovettura (…) che doveva essere del magistrato?
TESTE FARINELLA R. – No, dopo. (…) Al momento pensavamo soltanto alle persone (…) Alle vittime.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi, diciamo, c’è stato un periodo in cui avete
pensato a verificare dov’erano i corpi, essenzialmente.
TESTE FARINELLA R. – Sì, vedere tutti i colleghi che, cioè, conoscevamo e uscivamo insieme.
P.M. Dott. GOZZO – Dopo avere fatto questa cosa tremenda, diciamo, siete andati poi sulla macchina, vicino alla macchina?
TESTE FARINELLA R. – Poi, appena siamo usciti, le due macchine erano posizionate al centro della strada e guardando le macchine il dottor Ayala ha notato che c’era la borsa dentro il sedile posteriore.
P.M. Dott. GOZZO – Ci può descrivere la macchina com’era? Prima di tutto se vi erano delle fiamme, se non vi erano delle fiamme, se era chiusa, se era aperta.
TESTE FARINELLA R. – Ma no, la macchina era chiusa, chiusa ma non forse a chiave, era chiusa e c’era un po’ di… di fiamma nel lato destro, la ruota, non mi ricordo bene. Abbiamo chiamato i Vigili del Fuoco e abbiamo fatto spegnere.
P.M. Dott. GOZZO – Dico, il vigile del fuoco in particolare cosa ha fatto?
TESTE FARINELLA R. – Abbiamo… ha spento la… quell’incendio che c’era all’esterno e poi abbiamo… ha forzato la macchina per aprire lo sportello posteriore.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi per aprire la porta, l’ha fatto da solo o lei lo ha aiutato?
TESTE FARINELLA R. – Non ricordo se l’ho aiutato io o l’abbiamo fatto insieme o l’ha fatto solo lui, non… è impossibile ricordare queste cose.
P.M. Dott. GOZZO – E allora, per aiuto del suo ricordo, il 2 marzo del 2006 lei ha detto, a pagina 1: “Con l’aiuto dello stesso vigile del fuoco abbiamo aperto la portiera posteriore”.
TESTE FARINELLA R. – Sì, dico… può essere, sì.
P.M. Dott. GOZZO – Si ricorda dove il dottor Ayala aveva visto la borsa? Va beh, l’ha vista anche lei, immagino, facendo…
TESTE FARINELLA R. – Sì, passando da là, vicino le macchine.
P.M. Dott. GOZZO – Dov’era la borsa del dottore Borsellino?
TESTE FARINELLA R. – Nel sedile posteriore.
P.M. Dott. GOZZO – Nel sedile posteriore. Dove ci si siede, diciamo così, o sotto, diciamo, dove si poggiano i piedi?
TESTE FARINELLA R. – No, no, dove… nel seggiolino.
P.M. Dott. GOZZO – Nel seggiolino.
TESTE FARINELLA R. – Altrimenti, se era sotto, come facevamo a vederlo?
P.M. Dott. GOZZO – Senta, l’operazione di aprire la porta è stata difficile, facile? Da che cosa dipendeva?
TESTE FARINELLA R. – Sì, era un po’ incastrata dall’onda d’urto, naturalmente.
P.M. Dott. GOZZO – Dal calore anche?
TESTE FARINELLA R. – Non sono un esperto per questo.
P.M. Dott. GOZZO – Senta, l’ha prelevata lei la borsa poi dall’autovettura?
TESTE FARINELLA R. – Sì.
P.M. Dott. GOZZO – Ma l’ha fatto autonomamente o su disposizione del dottor Ayala?
TESTE FARINELLA R. – Io l’ho presa la borsa, se ricordo… se non ricordo male, l’ho presa io, perché aprendo la porta ho preso la borsa e volevo darla a lui; lui non l’ha voluta prendere perché non era più magistrato, quindi mi ha detto di tenerla io, e l’ho tenuta io.
P.M. Dott. GOZZO – Tenerla in attesa di qualcosa o tenerla definitivamente?
TESTE FARINELLA R. – No, tenerla in… che lui individuasse qualche persona da dare la borsa e dire la borsa di chi era.
P.M. Dott. GOZZO – Sì. E a chi dovevate… cioè aveva già individuato a chi dovevate consegnarla? No nel senso della persona, dico, dovevate consegnarla alle Forze dell’Ordine?
TESTE FARINELLA R. – Mah, di questo non me ne ha parlato e non abbiamo parlato, mi ha detto, dice, di tenerla, che… di consegnarla a qualche persona, o qualche ufficiale o qualche ispettore di Polizia e di darla, a qualche persona.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi a qualcuno delle Forze dell’Ordine.
TESTE FARINELLA R. – Certo. Che noi non avevamo il potere, cioè la cosa per tenerla, non è che la possiamo tenere una borsa.
P.M. Dott. GOZZO – Una volta che il dottor Ayala ha individuato questa persona… l’ha individuata questa persona? Domanda preliminare che non ho fatto. Dico, ha individuato questa persona appartenente alle Forze dell’Ordine a cui darla?
TESTE FARINELLA R. – Sì, lui ha individuato una persona, che mi… mi disse, dice: “Appuntato, dia la borsa”, mi avrebbe detto il nome, ma non ricordo, e io ho consegnato la borsa alla persona che mi ha detto il dottor Ayala. Io non conoscevo.
P.M. Dott. GOZZO – Senta, il dottor Ayala le disse che si trattava di una persona delle Forze dell’Ordine o le disse semplicemente di darla a questa persona?
TESTE FARINELLA R. – Mi ha detto allora che era o un ufficiale o un ispettore, non ricordo. Mi ha detto che era un funzionario, appartenente o alla Polizia o ai Carabinieri, non ricordo.
P.M. Dott. GOZZO – Si trattava di una persona, che lei rico… prima di tutto se ricorda come era fatta, diciamo, questa persona e poi com’era vestita anche.
TESTE FARINELLA R. – Come era vestita non… non ricordo.
P.M. Dott. GOZZO – No, non intendo dire se aveva un vestito rosso o verde.
TESTE FARINELLA R. – Ah.
P.M. Dott. GOZZO – No, non le sto chiedendo questo. (…) Le sto chiedendo, visto che le è stato
presentato come un ufficiale, se era vestito, diciamo così, d’ordinanza o se invece era in abiti civili.
TESTE FARINELLA R. – Adesso ho capito. No, in abiti civili. (…) Se era in divisa, era facile capirlo.
P.M. Dott. GOZZO – Certo. Che lei sappia, il dottor Ayala lo conosceva o si è qualificato lui come persona appartenente alle Forze di Polizia?
TESTE FARINELLA R. – No, penso che lo conosceva.
P.M. Dott. GOZZO – Pensa che lo conoscesse.
TESTE FARINELLA R. – Perché mi ha detto: “Dagliela a lui”, che è una persona che conosceva lui, perché… Gli ho detto: “Devo darla a lui?” “Sì – dice – è una persona che conosco io”. “Ecco qua la borsa”.
P.M. Dott. GOZZO – Nel consegnare la borsa, il dottor Ayala spiegò di che cosa si trattava all’ufficiale?
TESTE FARINELLA R. – Certo, ha detto, dice: “Questa è la borsa che abbiamo preso della macchina del dottore Borsellino”.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi che era la borsa di Borsellino, essenzialmente.
TESTE FARINELLA R. – Certo, quella era.
P.M. Dott. GOZZO – Si ricorda se vi disse qualche cosa, a questo punto, questo ufficiale che lei non conosceva?
TESTE FARINELLA R. – No, perché non… io ho consegnato, loro si sono parlati e basta. Non è che… io non conoscevo, quindi ho stato in fiducia del dottor Ayala e basta.
P.M. Dott. GOZZO – Sempre per aiuto alla sua memoria, le ricordo che il 2 marzo del 2006 lei ha detto, a pagina 2: “Lo stesso ci rassicurò, dicendo che si sarebbe occupato della cosa, per cui gli consegnai la borsa”.
TESTE FARINELLA R. – Certamente, una volta che la… prende la borsa, è normale che…
P.M. Dott. GOZZO – Quindi lo conferma questo, che vi disse: “Non vi preoccupate, ci penso io”.
TESTE FARINELLA R. – E certo.
P.M. Dott. GOZZO – E voi vi siete disinteressati di questa vicenda.
TESTE FARINELLA R. – Certamente, eh, certo.
P.M. Dott. GOZZO – Avete aperto la borsa mentre l’avevate nella vostra disponibilità? Sto parlando di lei e del dottor Ayala, chiaramente.
TESTE FARINELLA R. – Assolutamente no, perché l’avevo io soltanto.
P.M. Dott. GOZZO – Quando il dottor Ayala ha avuto la borsa, ricorda se si sono avvicinate… quando lei aveva la borsa, diciamo, si sono avvicinate delle persone, degli amici del dottor Ayala che lo hanno salutato?
TESTE FARINELLA R. – No, no, ma…
P.M. Dott. GOZZO – Le faccio una domanda specifica: ricorda se si è avvicinato il giornalista Cavallaro? Con cui oltretutto la personalità stava scrivendo in qualche modo un libro e quindi lei avrà avuto modo di vedere altre volte.
TESTE FARINELLA R. – No.
P.M. Dott. GOZZO – Non ricorda il dottore Cavallaro nel…
TESTE FARINELLA R. – Assolutamente. Ma lì c’erano una calca di persone, quindi parlava con tante persone, non è che parlava solo con una persona in una parte da soli, allora vedevo con chi parlava. Si parlava con tante persone che… in divisa, colleghi, quindi non è che era… Deve pensare che eravamo avvolti da… da una folla di persone.
P.M. Dott. GOZZO – Senta, lei ricorda se vi erano dei magistrati sul luogo del…? Degli altri magistrati, perché il dottore era in quiescenza, ma era ancora magistrato. C’erano degli altri magistrati in servizio che lei conosceva lì sui luoghi?
TESTE FARINELLA R. – No, no.
P.M. Dott. GOZZO – Il dottore Lo Forte, nella fattispecie.
TESTE FARINELLA R. – No, no, no.
P.M. Dott. GOZZO – Non lo ricorda. Quanto tempo siete rimasti sui luoghi? Se ricorda.
TESTE FARINELLA R. – Un’ora, non ricordo con… circa un’oretta o di più o di meno, non… non saprei dire, perché non è che stavamo lì a guardare l’orologio in quei momenti, una cosa…
P.M. Dott. GOZZO – Lei aveva detto nel 2006: “Almeno un paio d’ore”. (…) Ecco, le volevo fare una domanda: prima di tutto se lo conferma questo, almeno un paio d’ore, che aveva detto allora.
TESTE FARINELLA R. – Dico (…) non saprei quantificare. Se allora ho detto così, io adesso non riesco a quantificarlo.
P.M. Dott. GOZZO – Certo.
TESTE FARINELLA R. – Dopo ventun anni come facciamo?
P.M. Dott. GOZZO – Dico, ma ricorda se vi siete allontanati per recarvi da qualche altra parte?
TESTE FARINELLA R. – Poi siamo andati… ce ne siamo andati di lì e siamo andati a Mondello.
P.M. Dott. GOZZO – Volevo riuscire a capire. Quindi è stato successivo questo fatto, dico, non è stata una parentesi, cioè prima siete stati in via D’Amelio, siete andati là e poi siete tornati?
TESTE FARINELLA R. – No, no, siamo andati via e non siamo più ritornati.
P.M. Dott. GOZZO – Una volta che l’ufficiale ebbe la borsa, lei ricorda cosa fece l’ufficiale? Al di là di quello che ha detto. Che cosa fece? Dove si recò?
TESTE FARINELLA R. – Ha preso la borsa ed è andato verso l’uscita.
P.M. Dott. GOZZO – Aprì la borsa?
TESTE FARINELLA R. – No.
P.M. Dott. GOZZO – Non lei, l’ufficiale.
TESTE FARINELLA R. – No, assolutamente.
P.M. Dott. GOZZO – E’ un’altra domanda rispetto a quella che ho fatto prima.
TESTE FARINELLA R. – No, no, no, assolutamente. Davanti a noi ha preso la borsa, si è parlato con il dottor Ayala, ha girato, ha salutato e se n’è andato verso l’uscita.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi verso via D’Amelio, verso l’uscita di via D’Amelio, diciamo.
TESTE FARINELLA R. – Sì, sì.
P.M. Dott. GOZZO – Verso via Autonomia Siciliana.
TESTE FARINELLA R. – Sì, verso via Autonomia Siciliana.
P.M. Dott. GOZZO – Io le volevo mostrare, a questo punto… Presidente, sono le stesse foto che ho mostrato, quelle allegate (…) Quelle esibite già ieri, sì. (…) allora, le volevo fare le domande specifiche: se riconosce qualcuno nelle prime due foto che… quindi nella prima pagina che le viene mostrata, la pagina 3 di questa relazione.
TESTE FARINELLA R. – Il dottor Ayala.
P.M. Dott. GOZZO – Sì. E l’altra persona, invece, quella vestita con…
TESTE FARINELLA R. – Arcangioli.
P.M. Dott. GOZZO – Eh.
TESTE FARINELLA R. – No, no, non la ricono… non la ricordo, perché non… completamente.
(…)
P.M. Dott. GOZZO – (…) E io questo le volevo chiedere, non gliel’ho chiesto immediatamente. Un’altra cosa le volevo chiedere: quella persona a cui avete consegnato la borsa, se lo ricorda, ricorda, prendendo a base la sua altezza, se fosse della sua altezza, altezza superiore, altezza inferiore?
TESTE FARINELLA R. – Guardi, in quel momento io ho avuto solo ed esclusivamente fiducia del dottor Ayala; mi sono disinteressato della persona, chi poteva essere e chi non poteva essere, quindi non ho fatto tanta attenzione alla persona in cui io ho consegnato la borsa, perché il
dottor Ayala ha garantito lui, dice: “Dagliela a lui, è una persona che conosco io”, basta, per me… non dovevo… cioè la mia idea, la mia mente non doveva stare… avevo tante cose in testa all’infuori di quella persona. (…) Ha garantito lui, me l’ha detto lui, per me…
P.M. Dott. GOZZO – Per lei va bene. Senta, un’altra cosa le volevo chiedere: lei ricorda se, diciamo, quando avete aperto l’autovettura vi erano delle fiamme all’interno?
TESTE FARINELLA R. – No.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi non è stato necessario utilizzare l’idrante per…
TESTE FARINELLA R. – Era… no.
P.M. Dott. GOZZO – Per la macchina, per l’interno della macchina intendo.
TESTE FARINELLA R. – No, all’interno non c’era…
P.M. Dott. GOZZO – No, glielo chiedo relativamente allo stato della borsa. Lei ricorda in che stato era la borsa? Perché lei l’ha tenuta per un po’ di tempo, ha detto.
TESTE FARINELLA R. – Perfetto.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi era assolutamente intonsa, diciamo così, non era…
TESTE FARINELLA R. – Integra, ma si vede come… si evince anche nelle foto, quindi… La borsa…
P.M. Dott. GOZZO – E no, adesso le mostro le foto, perché, diciamo, lo stato della borsa è un po’ diverso poi, successivamente. Ecco, volevo sapere prima di tutto se riconosce il tipo di borsa. Presidente, chiederei di mostrare questo, è un album fotografico che era allegato al verbale di s.i.t. di una persona che dovremmo sentire oggi, cioè Maggi. (…) E’ la fotografia della borsa del dottore
Borsellino. (…) Dico, io le specifico che dalle fotografie si evince che la borsa è da un lato, diciamo, abbastanza direi carbonizzata, mentre dall’altro lato è perfetta. Dico, quando lei l’ha presa era in queste condizioni o era in condizioni perfette, come ha detto lei?
TESTE FARINELLA R. – No, la borsa era integra.
(…)
AVV. REPICI – Quando, quindi, fermate la macchina, il dottor Ayala vi spiega che cosa ci fosse lì nei pressi, nella zona dell’esplosione, in via D’Amelio? Se ci abitasse qualcuno.
TESTE FARINELLA R. – Quando siamo entrati, dice: “Ma qua c’è… – dice – abita la mamma del dottor Borsellino”.
AVV. REPICI – Ah, quindi ve lo dice lui.
TESTE FARINELLA R. – Sì.
(…)
TESTE FARINELLA R. – Io ricordo che passando di là, il dottor Ayala ha detto: “C’è la borsa all’interno”. Poi se hanno detto gli altri o gli altri hanno visto, non lo so, non l’ho sentito io.
AVV. REPICI – A lei l’ha detto il dottor Ayala?
TESTE FARINELLA R. – Sì, certo.
AVV. REPICI – Può riferire le modalità pratiche con cui fu forzata la portiera?
TESTE FARINELLA R. – Avvocato, come faccio a saperlo adesso? Se è stata forzata, c’era un vigile del fuoco. (…) Aveva… non so, in quel momento aveva un attrezzo e l’ho aiutato pure io ad aprire la portiera, non…
AVV. REPICI – Non ha ricordo.
TESTE FARINELLA R. – E’ impossibile, cioè è impossibile ricordare quegli attimi di…
AVV. REPICI – Lo capisco.
TESTE FARINELLA R. – Queste piccolezze che… visto la gravità
della situazione andavo…
AVV. REPICI – Lo capisco, appuntato, lo capisco, cerchiamo di riuscire a recuperare ogni dettaglio. Mentre lei fa questa operazione, cioè cerca di aprire la porta, poi si avvale dell’aiuto del vigile del fuoco e poi, infine, una volta aperta la portiera, estrae dalla macchina la borsa, il dottor Ayala è rimasto lì al suo fianco?
TESTE FARINELLA R. – Certamente. Mica posso lasciare la personalità. Il mio compito era la personalità, non la borsa.
(…)
AVV. REPICI – E’ chiaro. In quel frangente lei sentì il dottor Ayala o chiunque altro parlare di un’agenda del dottor Borsellino?
TESTE FARINELLA R. – Assolutamente no, nessuno ha parlato di questo finché avevo la borsa io, o successivamente non abbiamo mai parlato, che non c’è stato nessun motivo
Candura, uno dei falsi pentiti
Stralcio della deposizione dell’Ispettore Claudio Castagna, che assisteva a detti sopralluoghi (videoregistrati) con Gaspare Spatuzza e con Pietrina Valenti:
P.M. Dott. LUCIANI – Senta, lei ha parlato, invece, di sopralluoghi esperiti con l’Autorità Giudiziaria assieme a Gaspare Spatuzza.
TESTE C.G. CASTAGNA – Sì.
P.M. Dott. LUCIANI – Lei ha presenziato a questi sopralluoghi?
TESTE C.G. CASTAGNA – Sì.
P.M. Dott. LUCIANI – Sa le modalità con le quali sono stati condotti questi sopralluoghi? Cioè da un punto di vista tecnico intendo.
TESTE C.G. CASTAGNA – Sì, tra l’altro mi sono occupato quasi… quasi totalmente, in una sola occasione credo si sia occupato un collega di tutte le videoriprese, di tutti i sopralluoghi che sono stati fatti con…
P.M. Dott. LUCIANI – Quindi i sopralluoghi sono stati…
TESTE C.G. CASTAGNA – Tutti videofilmati.
P.M. Dott. LUCIANI – Lei ha detto di aver visto anche le immagini del sopralluogo di Candura Salvatore.
TESTE C.G. CASTAGNA – Di Candura, sì. Sì, ne ho fatto anche annotazione, tra l’altro, su questo per…
P.M. Dott. LUCIANI – Ha fatto anche annotazione per descrivere.
TESTE C.G. CASTAGNA – Sì, sì.
P.M. Dott. LUCIANI – Ecco, sa che luogo ha indicato Candura Salvatore al momento del sopralluogo?
TESTE C.G. CASTAGNA – Allora, lui, invece, sosteneva che… di essere, quindi, l’autore del furto della 126 e che l’autovettura, nel momento in cui l’aveva prelevata, si trovava posteggiata proprio davanti l’ingresso dello stabile, quindi nella parte terminale della L.
P.M. Dott. LUCIANI – Davanti il portone, diciamo.
TESTE C.G. CASTAGNA – Allora, immaginando questa L immaginaria, Spatuzza e la signora Valenti la indicavano proprio nel primo parcheggio principale sul lato dello stabile, mentre Candura diceva che la macchina si trovava al termine della L, del… della L.
P.M. Dott. LUCIANI – Nel vialetto che conduce al portone di accesso.
TESTE C.G. CASTAGNA – Proprio davanti al portone di accesso.
P.M. Dott. LUCIANI – Proprio davanti al portone.
TESTE C.G. CASTAGNA – Dove c’erano questi gradini, questi gradini che conducevano verso il piazzale.
P.M. Dott. LUCIANI – Senta, per poter fare le attività che vi sono state delegate dalla Procura della Repubblica, avete avuto modo di visionare anche le attività che erano state fatte illo tempore?
TESTE C.G. CASTAGNA – Sì, abbiamo, praticamente, acquisito buona parte del carteggio degli accertamenti che erano stati fatti all’epoca.
P.M. Dott. LUCIANI – Per quello che ha potuto lei verificare dalla lettura di questi atti, chiaramente per poter assolvere alle deleghe della Procura, questo tipo di accertamento in via Sirillo di individuazione dei luoghi era mai stato fatto?
TESTE C.G. CASTAGNA – No, non…
P.M. Dott. LUCIANI – Da parte del Candura.
TESTE C.G. CASTAGNA – Non risultano atti.
P.M. Dott. LUCIANI – O da parte della Valenti.
TESTE C.G. CASTAGNA – Non risultano atti in cui… cioè in cui sarebbero stati fatti questi sopralluoghi.
Orbene, come emerge anche dalla testimonianza appena riportata, una tale attività istruttoria di sopralluogo non veniva mai espletata in passato, allorquando si raccoglievano le dichiarazioni di Candura e Scarantino, per la strage di via D’Amelio.
Durante le pregresse investigazioni, condotte dal dott. Arnaldo La Barbera e dai suoi uomini, nonostante le naturali perplessità che potevano insorgere, in relazione alla personalità di entrambi i ‘collaboratori’ ed anche al contenuto delle loro dichiarazioni (si pensi, solo per fare un esempio, al racconto di Scarantino sulla cerimonia della sua affiliazione a Cosa nostra), non veniva mai fatto un sopralluogo con il ladro dell’automobile, né con la derubata.
Anche per questo motivo, oltre che per il sopravvenuto mutamento dei luoghi, l’atto istruttorio si rivela di fondamentale importanza, andando a riscontrare, in maniera molto significativa e puntuale, le dichiarazioni di Spatuzza (e, per converso, ad escludere la credibilità di quelle rese da Salvatore Candura e da Vincenzo Scarantino, nei precedenti processi). Inoltre, l’individuazione del luogo esatto di sottrazione della Fiat 126, da parte di Gaspare Spatuzza, si rivela ancor più attendibile, in considerazione del fatto che il collaboratore indicava un punto dove, all’epoca del sopralluogo, era impossibile posteggiare un’automobile, poiché vi erano delle fioriere, installate in epoca successiva, come spiegato dalla stessa Pietrina Valenti. Quest’ultima (nella consueta maniera confusionaria), spiegava che, all’epoca dei fatti, nel posto dove venivano poi collocate le fioriere condominiali, si poteva parcheggiare (“io la posteggiavo la macchina dov’è che ora ci sono messe le piante”).
[…] Sempre in occasione della sua testimonianza, Pietrina Valenti precisava che, per come aveva parcheggiato la sua Fiat 126, quella sera, non aveva modo di controllarla a vista, dalle finestre del suo appartamento. […] Le dichiarazioni della Valenti trovavano anche conferma nell’attività di riscontro del Centro Operativo DIA di Caltanissetta, da cui risultava che, effettivamente, la zona dove venivano installate le menzionate fioriere condominiali (dove la teste, come detto, posteggiava la Fiat 126, prima che le venisse rubata), non era visibile dalle finestre dell’appartamento della proprietaria. Al contrario (come anticipato), Salvatore Candura, nel sopralluogo del 24 novembre 2008 (anch’esso agli atti), confermando quanto già dichiarato nei precedenti procedimenti, indicava, come luogo dove rubava la Fiat 126 di Pietrina Valenti, un posto diverso, nelle immediate vicinanze del portone d’ingresso dello stabile, peraltro in una posizione parzialmente visibile dalla camera da letto della Valenti. Venivano, poi, acquisite al fascicolo per il dibattimento, sul consenso delle parti, anche tutte le dichiarazioni rese dai condomini di via Sirillo, su tre temi di prova:
1) se i luoghi subivano o meno delle modifiche, dal luglio 1992, come affermato da Pietrina Valenti e negato da Salvatore Candura (fatta eccezione, secondo quanto dichiarato da quest’ultimo, per due archi in ferro, messi per ostruire la marcia di possibili autovetture, nel vicolo cieco d’accesso al portone condominiale);
2) se, all’epoca dei fatti, era possibile oppure no posteggiare automobili, per un tempo apprezzabile, nel predetto vicolo cieco, come escluso dalla Valenti ed affermato da Candura, che sosteneva, appunto, d’aver rubato la Fiat 126 proprio da siffatta posizione;
2) se qualche condomino notava il furto della Fiat 126 oppure la presenza di due persone nei pressi della medesima automobile, la sera in cui la stessa veniva asportata (attese le menzionate dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, secondo cui, mentre perpetrava il furto con Tutino, una coppia con due bambini transitava a piedi).
Le circostanze complessivamente desumibili dalle dichiarazioni acquisite agli atti, possono riassumersi (in maniera estremamente sintetica, considerata anche la sopravvenuta confessione, da parte di Salvatore Candura, della falsità delle proprie precedenti dichiarazioni, sul furto della Fiat 126, sotto casa di Pietrina Valenti), come segue. Effettivamente, alla fine del vicolo cieco che conduce al portone dello stabile di via Bartolomeo Sirillo n. 5, successivamente al luglio del 1992, venivano realizzate, da uno dei condomini (Passantino Vincenzo), delle opere (abusive), consistenti nella realizzazione di alcuni gradini, di fronte all’entrata per l’edificio. Detta circostanza, oltre che dal diretto interessato (che operava, come accennato, senza alcun titolo edilizio, per cui non esistono atti pubblici, per una precisa datazione delle opere), veniva confermata anche dagli altri condomini (tutti collocavano tali opere, all’incirca, negli anni 2000-2005). Inoltre, pure i paletti per impedire l’accesso al cortile prospiciente al portone d’ingresso, venivano collocati in epoca più recente, rispetto al luglio 1992 (verosimilmente, dopo l’anno 2003). Lo stesso vale per le fioriere poste nel cortile/parcheggio dello stabile, a ridosso dell’edificio condominiale, collocate nella stessa epoca dei paletti.
Quanto alla possibilità di posteggiare, all’epoca dei fatti, nel vicolo cieco che conduce al portone d’ingresso condominiale, le dichiarazioni dei condomini non erano del tutto univoche: molti evidenziavano che, prima dell’installazione dei paletti, le automobili venivano parcheggiate fin davanti al portone dello stabile, ma solo per soste brevi (come per scaricare merci o per la pausa pranzo); tuttavia, la collocazione degli ostacoli si rendeva necessaria proprio per evitare che parcheggiassero lì autovetture che non consentivano l’accesso allo stabile, qualora ve ne fosse stato bisogno, per i mezzi di soccorso; con particolare riferimento alla signora Pietrina Valenti, alcuni condomini dichiaravano che la stessa era solita parcheggiare dal lato delle fioriere; altri ricordavano, genericamente, che la predetta parcheggiava dove trovava posto. Sul punto, Roberto Valenti (confermando, sia pure con qualche titubanza, le indicazioni già fornite in fase d’indagine, anche con la redazione di uno schizzo planimetrico) dichiarava che sua zia Pietrina, abitualmente, posteggiava la Fiat 126 sul lato lungo del cortile, limitrofo all’edificio condominiale, in posizione dove la stessa ne poteva controllare visivamente la presenza, affacciandosi dalle finestre dell’abitazione. Analoghe indicazioni dava Luciano Valenti, che spiegava come la sorella Pietrina era solita posteggiare, sul lato lungo dello stabile di via Sirillo (confermando, anche in tal caso, le indicazioni offerte in uno schizzo planimetrico, redatto di suo pugno, acquisito al fascicolo per il dibattimento); inoltre, quest’ultimo teste chiariva anche quanto dichiarato nel dibattimento del primo processo sulla strage di via D’Amelio: allorquando rispondeva che la Fiat 126 della sorella, prima di esser rubata, veniva posteggiata “sotto la scala” (proprio come sostenuto, all’epoca, da Salvatore Candura), non intendeva indicare (in senso letterale) proprio l’ingresso dello stabile.
Peraltro, anche Salvatore Candura, allorché (nell’interrogatorio reso il 10.3.2009, acquisito al fascicolo per il dibattimento, col consenso delle parti e riportato in nota) decideva di ammettere (innanzi all’evidenza) la falsità delle sue precedenti dichiarazioni in merito al furto della Fiat 126, dichiarava (fornendo una versione, comunque, da prendere con le dovute cautele) che l’automobile della Valenti era posteggiata dalla parte delle fioriere (anch’egli redigendo uno schizzo planimetrico, allegato al verbale), riferendo che la vedeva parcheggiata lì, nella stessa sera in cui veniva, poi, asportata (poiché, a suo dire, quella sera, si recava effettivamente a casa di Pietrina, per farle visita) e che, durante il sopralluogo indicava agli inquirenti, volutamente, un posto sbagliato per lanciare loro un segnale sulla falsità delle proprie dichiarazioni (delle quali avrebbe sempre avvertito il peso). Anche in dibattimento, Candura confermava tali indicazioni.
[…] Infine, si deve dare atto (più che altro per completezza d’esposizione) che anche Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura, dopo aver confessato -entrambi- la falsità delle loro precedenti dichiarazioni su questi fatti, tornavano sui loro passi anche sul punto specifico, spiegando che la Fiat 126 di Pietrina Valenti non si poteva affatto rubare con lo “spadino”. Vincenzo Scarantino, nel corso di un interrogatorio (acquisito al fascicolo per il dibattimento), ammetteva di aver adeguato le sue dichiarazioni alla versione di Candura circa l’utilizzo dello “spadino” per rubare la Fiat 126 della Valenti, spiegando che solo i modelli più “antichi” di detta automobile potevano essere rubati con tale arnese, mentre quelle “di ‘a secunna serie in poi con uno spadino non si apre”, confermando così la versione di Agostino Trombetta e quella di Gaspare Spatuzza.
Anche Salvatore Candura ammetteva che quel modello di Fiat 126 in uso a Pietrina Valenti si poteva mettere in moto solo rompendo il bloccasterzo e collegando i fili d’accensione, spiegando addirittura (ma la circostanza deve esser valutata con il beneficio dell’inventario) che, al momento della sua falsa collaborazione, dichiarava volutamente che lui utilizzava un “chiavino”, anche se ciò era un “controsenso” (così come, a suo dire, lo era pure la circostanza di avere utilizzato il medesimo attrezzo anche per aprire la portiera, poiché quella macchina si poteva aprire pure con la “chiave Simmenthal”), al fine di lanciare dei segnali agli inquirenti […]. (pagg 1220-1240)
G
Giorno dopo giorno fino al 19 luglio 1992
Proseguendo, poi, nell’analisi delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia, sulla preparazione della strage e sulle attività compiute il sabato 18 luglio 1992, dopo aver personalmente consegnato la Fiat 126, nel garage di via Villasevaglios, ai sodali Renzino Tinnirello e Ciccio Tagliavia, oltre che (si ripete) al predetto terzo estraneo, si deve esaminare la successiva sottrazione delle targhe (poi apposte all’autobomba), da parte di Gaspare Spatuzza e Vittorio Tutino, secondo le direttive impartite dal loro capo mandamento.
L’incarico in tal senso (come anticipato) veniva dato a Spatuzza da Giuseppe Graviano, nella settimana antecedente alla strage, nella casa di Borgo Ulivia, dove il capo mandamento trascorreva la sua latitanza: le direttive (come già accennato) erano quelle di rubare delle targhe da una Fiat 126, nel pomeriggio del sabato di quella settimana, da automobili parcheggiate all’interno di autosaloni od officine, senza far scattare allarmi né operare alcuna effrazione, in maniera tale che il proprietario se ne potesse accorgere solo al momento della successiva riapertura, dopo il fine settimana (secondo i piani di Cosa nostra, a strage già avvenuta).
Peraltro, simili modalità operative erano state seguite anche in precedenza, come spiegato dal collaboratore, per l’esecuzione di un omicidio negli anni ’90 (in quel caso le targhe venivano prelevate in via Fichidindia), oltre che, successivamente, per il fallito attentato allo stadio Olimpico nel gennaio del 1994: lo scopo non era tanto quello di sfuggire ai possibili controlli delle forze dell’ordine, in occasione degli spostamenti del mezzo da utilizzare come autobomba (come visto, infatti, la Fiat 126 di Pietrina Valenti, circolava con la sua targa originale, sia pure per pochi chilometri e con altre due automobili a far da vedetta, ancora il sabato 18 luglio 1992), quanto quello di evitare che ne venisse accertata la provenienza furtiva, una volta che l’automezzo era, appunto, già imbottito d’esplosivo e posizionato nei luoghi dove doveva esplodere. […]
Una volta reperite le due targhe, Spatuzza (come già concordato con il capo mandamento) si recava, da solo, al maneggio dei fratelli Vitale, per incontrare Giuseppe Graviano e consegnargli le targhe stesse. Giuseppe Graviano lo aspettava, come concordato, appoggiato sulla Renault 19 che usava in quel periodo165, intento a conversare con un’altra persona. Una volta avvedutosi della sua presenza, Graviano gli si faceva incontro, a piedi, mentre il soggetto col quale parlava, entrava negli uffici della Palermitana Bibite (si trattava di uno de fratelli Vitale, in particolare, di quello che abitava proprio nello stabile di via Mariano D’Amelio).
Il capo mandamento di Brancaccio prendeva in consegna le targhe da Spatuzza e, dopo essersi informato sul luogo dove le aveva rubate, gli raccomandava di allontanarsi, l’indomani 19 luglio 1992, stando il “più lontano possibile” di Palermo. Seguendo il consiglio, Spatuzza si recava a trascorrere la domenica in un villino che prendeva in affitto a Campofelice di Roccella, organizzato una piccola festa per i familiari e le persone più care, proprio per far sì che costoro non si trovassero a Palermo e, una volta appreso, dai mezzi d’informazione, della strage in danno del dott. Paolo Borsellino e degli uomini della sua scorta, pensava “ce l’abbiamo fatta” (sino a quel momento, non aveva ricevuto alcuna informazione sull’identità dell’obiettivo). L’indomani, Spatuzza faceva rientro a Palermo ed aveva un ulteriore incontro con Giuseppe Graviano, in un appartamento di via Lincoln, nella disponibilità di Giuseppe Farana: nell’occasione, il capo mandamento si complimentava con Spatuzza per il suo apporto nell’attentato e si dimostrava estremamente soddisfatto, poiché avevano dimostrato di essere in grado “di colpire dove e quando” volevano; nel contempo, invitava Spatuzza ad adoperarsi affinché si componessero i malumori ed i piccoli contrasti che, di tanto in tanto, insorgevano nella famiglia mafiosa di Brancaccio, in prospettiva di “altre cose” che dovevano “portare avanti”. […] Dunque, si può senz’altro affermare che le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, in ordine alle attività compiute nella settimana precedente all’attentato di via D’Amelio, vanno a comporsi armonicamente con quelle rese dagli altri collaboratori di giustizia coinvolti in quel segmento della fase esecutiva relativa all’osservazione degli spostamenti di Paolo Borsellino, nella giornata della domenica 19 luglio 1992. Se ne ricava, infatti, un quadro complessivo in cui, nella settimana precedente la strage, i soggetti deputati alla sua realizzazione (appartenenti, da un lato, alle famiglie della Noce, Porta Nuova, San Lorenzo e, dall’altro, a quelle di Brancaccio, Corso dei Mille e Roccella) si attivavano, secondo i rispettivi ambiti di competenza, per portare a compimento l’attentato (pianificato per la giornata di domenica 19 luglio 1992), secondo la sequenza cronologica di seguito indicata:
– sabato 11 luglio 1992, Salvatore Biondino ed i suoi uomini (Giovan Battista Ferrante ed i due Salvatore Biondo, “il lungo” ed “il corto”), effettuavano la prova del telecomando alle Case Ferreri;
– lunedì 13 luglio oppure martedì 14 luglio, Raffaele Ganci sondava la disponibilità di suo nipote, Antonino Galliano ad effettuare, per la domenica successiva, il pedinamento del dott. Borsellino;
– in un arco di tempo compreso tra il martedì 14 luglio ed il successivo giovedì 16 luglio, Gaspare Spatuzza veniva convocato da Giuseppe Graviano, per ricevere le sue direttive sul furto delle targhe da apporre all’autobomba. Nell’occasione, il capo mandamento raccomandava espressamente di rubare le targhe il sabato pomeriggio, in orario di chiusura degli autosaloni e delle officine, senza operare alcuna effrazione o fare altro che potesse anticipare la denuncia del furto a prima del lunedì successivo;
– giovedì 16 luglio 1992, Salvatore Biondino (in compagnia di Giuseppe Graviano e di Carlo Greco) diceva a Giovanni Brusca che erano “sotto lavoro” e che non avevano bisogno di alcun aiuto, da parte sua (confermando che, in quel preciso momento, la macchina organizzativa della strage era già ben definita);
– lo stesso giovedì 16 luglio oppure l’indomani, Salvatore Biondino avvisava Giovan Battista Ferrante di non andare in barca la domenica successiva e di tenersi a disposizione, perché ci sarebbe stato “del daffare”;
– nello stesso arco di tempo, fra il 16 giovedì ed il venerdì 17 luglio, Raffaele Ganci informava Salvatore Cancemi che la domenica ci sarebbe stato l’attentato con l’esplosivo, contro Paolo Borsellino, durante una visita del Magistrato alla madre e che Salvatore Biondino aveva già messo a punto ogni dettaglio per l’esecuzione;
– venerdì 17 luglio 1992, alle ore 17.58, Gaspare Spatuzza telefonava all’utenza intestata a Cristofaro Cannella […];
– sabato 18 luglio 1992, nella tarda mattina, Gaspare Spatuzza e Vittorio Tutino recuperavano, da un elettrauto di Corso dei Mille, due batterie per autovettura, necessarie, assieme all’antennino procurato dall’imputato, a far esplodere l’autobomba; successivamente, Spatuzza portava la Fiat 126 in un garage seminterrato, a meno di un chilometro di distanza dalla via D’Amelio, scortato da Nino Mangano e Fifetto Cannella; nello stesso pomeriggio, Spatuzza e Tutino rubavano anche le targhe da un’altra Fiat 126, nella carrozzeria di Giuseppe Orofino e, successivamente, Spatuzza consegnava dette targhe a Giuseppe Graviano, presso il maneggio dei fratelli Vitale (come da precedenti accordi);
– sempre nella giornata del sabato 18 luglio 1992, Giovan Battista Ferrante incontrava Salvatore Biondino, che – dandogli appuntamento per le sette dell’indomani mattina – gli consegnava un biglietto con scritto il numero di un’utenza mobile (quella intestata a Cristofaro Cannella) che doveva chiamare, l’indomani, appena avvistato il convoglio di automobili della scorta di Paolo Borsellino;
– domenica 19 luglio 1992, alle ore 16.52, Giovan Battista Ferrante telefonava all’utenza mobile di Cristofaro Cannella, per avvisare dell’imminente arrivo del magistrato in via D’Amelio.
Dalla sequenza degli eventi appena indicati, desumibile dal racconto dei collaboratori di giustizia che partecipavano alla fase esecutiva dell’attentato (o che offrivano, comunque, elementi concreti per ricostruire detta fase), pare evidente che le (attendibili) dichiarazioni di Gaspare Spatuzza (sostituendosi a quelle, mendaci, rese in precedenza da Vincenzo Scarantino) si saldano perfettamente con quelle rese da Antonino Galliano, Giovan Battista Ferrante, Salvatore Cancemi e Giovanni Brusca, trovando anche, nello svolgimento degli accadimenti da costoro descritta, un’efficace riscontro di natura logica.
Ancora, si deve rilevare come le predette dichiarazioni dei vari collaboratori di giustizia, oltre ad essere perfettamente compatibili e complementari fra di loro, convergono anche in merito alla circostanza fondamentale che il giorno prescelto per l’attentato in via D’Amelio era proprio la domenica 19 luglio 1992: in questo senso, infatti, vanno lette anche le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, sulle precise direttive impartitegli da Giuseppe Graviano per il furto delle targhe (di sabato pomeriggio, in orario di chiusura degli esercizi, senza fare effrazioni o lasciare tracce visibili, che avrebbero anticipato la denuncia, rispetto al lunedì).
Nello stesso senso, come detto, paiono illuminanti le dichiarazioni di Antonino Galliano, cui veniva richiesta – già lunedì 13 o martedì 14 luglio – la disponibilità a pedinare il magistrato per la domenica successiva ed anche quelle di Giovan Battista Ferrante, che doveva tenersi a disposizione per la domenica, nonché (sia pure con minor precisione) quelle di Salvatore Cancemi, cui Raffaele Ganci faceva presente, pochi giorni prima della strage (giovedì o venerdì), che tutto era già organizzato per fare un attentato a Paolo Borsellino, con l’eplosivo, quella domenica. Tutte queste dichiarazioni, trovano ora, ulteriore e significativo sostegno, in quelle rese da Gaspare Spatuzza.
[…] Per quanto riguarda, poi, le ragioni della scelta di collaborare con la giustizia, Spatuzza la spiegava come il punto d’arrivo di un tormentato percorso morale e religioso, di rivisitazione critica delle proprie condotte delinquenziali, avendo egli maturato, durante la propria detenzione ed anche a seguito dell’incontro con persone che scontavano condanne per la strage di via D’Amelio, basate su ricostruzioni che egli ben sapeva non esser rispondenti a quanto realmente accaduto il 19 luglio 1992 e nei giorni immediatamente precedenti, il desiderio di modificare radicalmente la sua vita e di riscattare i suoi trascorsi, anche cercando conforto nella religione […] In proposito va evidenziato che, […], era proprio nel periodo della detenzione a Parma, con Gaetano Murana, che Spatuzza, pur non essendo affatto intenzionato a diventare un collaboratore della giustizia, si spingeva a fare delle rivelazioni ai magistrati della Procura Nazionale Antimafia, per avvisare che c’erano stavano facendo un errore negli accertamenti giudiziari sulla strage di via D’Amelio: a tal riguardo, si rinvia alla lettura del verbale integrale del colloquio investigativo con i dottori Vigna e Grasso del 26.6.1998 (acquisito agli atti, sull’accordo delle parti, all’udienza del 7.11.2016). In detto verbale -peraltro, ben difficilmente utilizzabile, ai fini di prova (sebbene oggetto di molteplici domande, nel controesame dibattimentale del collaboratore), in quanto reso in totale assenza di garanzie difensive (e facendo esplicitamente presente che si trattava di un colloquio senza alcuna valenza processuale)- Gaspare Spatuzza (ben dieci anni prima dell’avvio della sua collaborazione), diceva che l’automobile, poi utilizzata come autobomba in via D’Amelio, veniva rubata dai ragazzi della Guadagna e, poi, da ‘‘altri’’, senza che Orofino sapesse alcunché o c’entrasse qualcosa, avendo semplicemente subito il furto delle targhe da un mezzo ricoverato nella sua autofficina; l’automobile veniva riempita altrove, d’esplosivo, e Vincenzo Scarantino era totalmente estraneo a questi fatti; gli avevano fatto dire ‘‘quelle cose che non doveva dire’’.
LUG
Il pentito Spatuzza e il furto della 126
Il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, all’epoca dei fatti oggetto del presente processo era pienamente inserito nella famiglia mafiosa di Brancaccio (famiglia egemone dell’omonimo mandamento, composto altresì da quelle di Ciaculli, Corso dei Mille e Roccella), sin dagli anni ’80, sebbene non fosse ancora ritualmente affiliato, come uomo d’onore. Infatti, come risulta anche dalle dichiarazioni degli altri collaboratori di giustizia escussi nel presente procedimento, soltanto dopo l’arresto dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano (27 gennaio 1994) e quello di Antonino Mangano (24 giugno 1995), Gaspare Spatuzza diveniva uomo d’onore e veniva, contestualmente, investito (attesi i predetti arresti dei vertici della famiglia) della rappresentanza del mandamento mafioso di Brancaccio, su impulso e per volontà di Matteo Messina Denaro, che voleva un punto di riferimento per quest’ultimo territorio. La relativa cerimonia d’affiliazione si teneva in presenza dello stesso Matteo Messina Denaro, con Nicola Di Trapani a fare da ‘padrino’ e la partecipazione anche di Giovanni Brusca e Vincenzo Sinacori (questi ultimi due, com’è noto, divenuti collaboratori della giustizia, confermavano – entrambi – d’aver personalmente assistito a detta affiliazione di Gaspare Spatuzza, alla presenza dei predetti sodali71). Comunque, a prescindere da quest’ultimo dato relativo alla formale affiliazione (come detto, successiva ai fatti che costituiscono oggetto del presente processo), e rinviando ad altra parte della motivazione per l’analisi dei motivi della ritenuta credibilità soggettiva del dichiarante, anche in rapporto al suo curriculum criminale ed ai motivi della sua collaborazione con l’autorità giudiziaria, deve subito evidenziarsi come, già all’epoca della strage di via D’Amelio, Gaspare Spatuzza fosse organicamente inserito nella famiglia di Brancaccio e godesse della piena fiducia dei vertici di detto mandamento: infatti, egli entrava a far parte attiva del gruppo mafioso negli anni ’80 grazie al rapporto di conoscenza instaurato con la famiglia dei Graviano, dalla parte dei quali si era schierato nella guerra di mafia poiché, proprio come gli stessi fratelli Graviano, in relazione all’omicidio del loro padre (Michele Graviano), sospettava anch’egli che proprio fratello (Salvatore Spatuzza) fosse stato eliminato da quella fazione di Cosa nostra che faceva capo a Salvatore Contorno e, da quel momento in poi, s’era dunque prestato a controllare gli spostamenti dei familiari e dei soggetti ritenuti vicini allo stesso Contorno (del quale si temeva un ritorno a Palermo, per vendicarsi nei confronti di coloro che riteneva nemici, avvalendosi, appunto, dei familiari o dei soggetti a lui più legati).
[…] Gli incarichi che gli venivano, via via, affidati nell’ambito della famiglia di Brancaccio erano, nel corso del tempo, aumentati per frequenza ed importanza, arrivando (come meglio esposto nella parte dedicata alla valutazione della credibilità soggettiva del collaboratore) anche a numerosi omicidi per conto del sodalizio mafioso (fra gli altri, quelli di Don Pino Puglisi e del piccolo Giuseppe Di Matteo) e, soprattutto, al coinvolgimento diretto nell’intera campagna stragista, in Sicilia (con le stragi di Capaci e di via D’Amelio) e nel continente.
Venendo ai fatti oggetto del presente processo, Gaspare Spatuzza dichiarava, fin dall’avvio (il 26 giugno 2008, avanti a magistrati delle Procure di Caltanissetta, Palermo e Firenze) della propria collaborazione con la giustizia (invero, come rilevato dal Pubblico Ministero, nella sua requisitoria, inizialmente accolta dagli inquirenti con diffidenza, poiché si trattava di rimettere in discussione, dopo più di quindici anni dai fatti, diverse sentenze che accertavano, con il crisma dell’irrevocabilità, responsabilità penali per fatti gravissimi), gli eventi che lo vedevano protagonista, anche in relazione alla strage di via D’Amelio, approfondendo, poi, nel corso dei successivi atti istruttori, il contenuto delle sue dirompenti rivelazioni In particolare, per quanto di specifico interesse in questa sede, il collaboratore riferiva che, un giorno (sulla collocazione cronologica, ci si soffermerà nel paragrafo successivo), allorché si trovava in macchina con il sodale Cristofaro (inteso Fifetto) Cannella, che parlava a nome e per conto del loro mandamento, Giuseppe Graviano, questi, dopo essersi sincerato che la vettura fosse “pulita” (cioè che non vi fosse pericolo d’esser intercettati) gli faceva presente che occorreva rubare una Fiat 126.
All’obiezione dello Spatuzza, che si diceva non in grado di rubare un simile modello di autovettura, per la quale non si poteva utilizzare lo “spadino”, il Cannella rispondeva, in maniera categorica (“la macchina si deve rubare”): da tale atteggiamento, Gaspare Spatuzza comprendeva che, del tutto verosimilmente, era in preparazione un attentato, facendo un collegamento con quello effettuato in danno del dott. Rocco Chinnici, per il quale era stata utilizzata proprio una Fiat 126, imbottita d’esplosivo.
Data l’irremovibilità di Cannella, Spatuzza gli domandava se poteva avvalersi dell’aiuto di Vittorio Tutino ed anche se, per l’esecuzione del furto, dovevano rispettare il limite territoriale del loro mandamento (Brancaccio), oppure se, al contrario, avevano libertà di agire su tutta la città di Palermo. Cannella prendeva tempo, dicendo che simili decisioni spettavano a Giuseppe Graviano, riservandosi di far pervenire una risposta, dopo aver, appunto, interpellato il capo mandamento.
Effettivamente, dopo qualche giorno, Cannella comunicava a Spatuzza che poteva utilizzare Tutino per il furto della Fiat 126 e che potevano operare in tutto il territorio palermitano ed anche oltre. Spatuzza si attivava, dunque, immediatamente, per rintracciare Vittorio Tutino, facendogli presente la necessità di rubare una Fiat 126, munendosi degli arnesi da scasso necessari per asportare quel modello di autovettura, poiché (come anticipato), sapeva (da alcuni soggetti del quartiere Sperone di Palermo, dediti ai furti di autovetture) che non era possibile rubare la Fiat 126 utilizzando il “chiavino” o “spadino”, essendo necessario romperne il bloccasterzo e poi collegare i fili di accensione (la circostanza veniva ampiamente confermata, come si vedrà, nel corso dell’istruttoria).
Dunque, nel giorno stabilito (sull’individuazione, ancora una volta, si rinvia al paragrafo successivo), Spatuzza si metteva in moto, assieme a Tutino, a bordo della Renault 5 di proprietà del fratello, in prima serata (dopo le ore venti), per individuare l’autovettura da rubare, in realtà, avendo in animo soltanto di perlustrare la zona e poi, una volta individuata la vettura, di agire in un tempo più idoneo. […]
Una volta individuata la Fiat 126, Spatuzza e Tutino decidevano di agire nell’immediatezza, perché l’automobile era posteggiata in una zona isolata e l’occasione era propizia81. Quindi, Vittorio Tutino, munito dell’attrezzatura da scasso (un cacciavite per forzare la serratura ed il “tenaglione” per rompere il bloccasterzo), scendeva e si metteva in azione, mentre Spatuzza rimaneva a bordo dell’automobile del fratello, posizionandola all’imbocco della stradina e rimanendo in attesa.
Tuttavia, vedendo che il compare impiegava più tempo del dovuto, Spatuzza usciva dall’abitacolo e s’avvicinava alla Fiat 126, dove Tutino, rannicchiato sotto lo sterzo, gli diceva che stava incontrando qualche difficoltà. Proprio in quel frangente, passavano alcune persone (un uomo, con in braccio un bambino piccolo ed una donna che camminava, dando la mano ad una bambina più grande), che, apparentemente, non s’accorgevano d’alcunché.
A quel punto, Spatuzza s’introduceva anch’egli all’interno dell’abitacolo ed, alla fine, i due sodali riuscivano a romperne il bloccasterzo. Ciononostante, una volta collegati i fili dell’accensione, non riuscivano a mettere in moto la vettura (che, come si vedrà in altra parte della motivazione, aveva dei problemi anche d’accensione), sicché, dopo averla condotta, a mano, fuori della stradina, a fondo chiuso, dove si trovava posteggiata, decidevano di portarla via a spinta, appunto, avvalendosi dell’automobile del fratello di Spatuzza. Utilizzando tale metodo, i due giungevano, sicuramente prima della mezzanotte, in un garage del quartiere di Brancaccio, nella disponibilità di Spatuzza dove ricoveravano la Fiat 126 (le operazioni duravano, complessivamente, più di un’ora); Spatuzza informava poi Fifetto Cannella.
[…] Sulla collocazione cronologica di questa prima fase, il collaboratore di giustizia non forniva dati precisi, ma solo indicazioni piuttosto approssimative. Detta circostanza (assolutamente comprensibile, anche alla luce del lungo tempo decorso dai fatti), non preclude comunque una ricostruzione attendibile, cui pare ben possibile addivenire, attraverso una lettura ‘sinottica’ delle dichiarazioni di Spatuzza e degli ulteriori dati istruttori disponibili (di seguito evidenziati).
Un primo dato certo è che la Fiat 126 utilizzata come autobomba in via D’Amelio veniva inserita nell’archivio del Ministero dell’Interno il 10 luglio 1992, poiché in tale data, Pietrina Valenti ne denunciava il furto presso la Stazione Carabinieri di Palermo-Oreto: inoltre, il furto veniva denunciato dalla proprietaria come avvenuto la sera o la notte prima. Un altro dato certo (sul quale convergono le dichiarazioni di tutti i soggetti coinvolti) è che la proprietaria della Fiat 126 incaricava Salvatore Candura di ricercare l’automobile, una volta avvedutasi della sua sottrazione.
A tal proposito, Pietrina Valenti (con modalità alquanto confusionarie), sosteneva di aver presentato la sua denuncia subito dopo la scoperta del furto, aggiungendo di ricordare “perfettamente” che si trattava di una domenica (in realtà, il 10 luglio 1992 era un venerdì), tanto che (a suo dire) le veniva richiesto di tornare in un altro giorno non festivo, perché non c’era personale disponibile per raccogliere la sua denuncia.
Luciano Valenti (anch’egli in maniera confusa), dapprima rispondeva che sua sorella Pietrina sporgeva denuncia subito dopo essersi accorta del furto e poi, dopo la lettura delle sue precedenti dichiarazioni al dibattimento del processo c.d. Borsellino uno, confermava che Pietrina ritardava la denuncia, si pure di poco, in attesa dell’esito delle ricerche dell’automobile, da parte di Candura. […]
Sulla stessa linea, anche le dichiarazioni di Salvatore Candura, che spiegava come, su suo consiglio, Pietrina Valenti (che lo sospettava del furto della sua automobile), prima di sporgere la denuncia, attendeva l’esito delle sue ricerche, per “un po’ di giorni”. […] Dunque, sulla scorta degli elementi sin qui richiamati, si può ritenere provato, che il furto della Fiat 126 veniva consumato in epoca compresa tra i primi giorni di luglio 1992, così come dichiarato da Salvatore Candura, e la sera del giorno 9 luglio 1992, come indicato dalla stessa Pietrina Valenti nella denuncia presentata ai Carabinieri, l’indomani 10 luglio 1992. La tesi più ragionevole è che la sottrazione della Fiat 126 sia avvenuta diversi giorni prima rispetto alla denuncia, attesa la convergenza, in tal senso, di plurime fonti dichiarative (Salvatore Candura, Roberto Valenti ed anche Luciano Valenti, almeno secondo quanto dal medesimo dichiarato nel processo c.d. Borsellino uno) ed in considerazione anche della circostanza (pacifica) che la proprietaria si rivolgeva a Salvatore Candura per recuperare il veicolo (come da lei ammesso), secondo una prassi che, evidentemente, richiedeva che la stessa attendesse poi l’esito delle ricerche del mezzo, almeno per qualche giorno, prima di denunciarne la sottrazione alle autorità, tanto più che lei sospettava proprio del Candura, per la commissione del furto. Inoltre, in tale ottica, potrebbe avere senso anche la circostanza (diversamente non spiegabile) che Pietrina Valenti ricordava “perfettamente” di essersi recata in Caserma in una giornata domenicale, non appena si avvedeva della sottrazione della sua Fiat 126: pare, infatti, del tutto ragionevole ipotizzare (alla luce delle suddette risultanze istruttorie) che la stessa sia andata, effettivamente, dai Carabinieri la domenica 5 luglio 1992 e che, alla richiesta dei militari di ripresentarsi in giorno non festivo, abbia poi deciso di rivolgersi al Candura, per cercare di recuperare l’automobile, facendogli presente (proprio come dichiarato da quest’ultimo), che in caso di mancato ritrovamento della Fiat 126, sarebbe andata a denunciarne la sottrazione, come effettivamente avvenuto il successivo venerdì 10 luglio 1992.
[…] Il ricordo (comprensibilmente) poco nitido di Gaspare Spatuzza, sulla data dell’incarico di rubare una Fiat 126 (sintomo evidente di genuinità delle sue dichiarazioni), può essere colmato da altri elementi istruttori, assolutamente compatibili con le sue dichiarazioni ed utili a ricostruire l’esatta cronologia (anche) di questo segmento esecutivo. […] Dunque, andando a ritroso di circa una settimana o poco più, secondo l’indicazione fornita da Gaspare Spatuzza, è del tutto verosimile collocare l’incarico di Cannella, per il furto della Fiat 126, alla fine del mese di giugno. […]
Dopo aver riferito dell’incarico ricevuto per il furto della Fiat 126 e delle modalità con le quali assolveva a detto compito, come detto, unitamente all’imputato Vittorio Tutino, nonché del luogo in cui ricoverava l’autovettura, subito dopo la sottrazione, Gaspare Spatuzza proseguiva nel suo racconto, spiegando che, dopo aver fatto sapere a Fifetto Cannella che aveva appunto rubato la macchina, veniva convocato dal capo mandamento, Giuseppe Graviano, che – in quel frangente – trascorreva la latitanza a Falsomiele, nella casa di Borgo Ulivia, del padre di Fabio Tranchina […]. Nell’occasione, come detto, da collocare in epoca antecedente al pomeriggio del 7 luglio 1992 (allorquando il capo mandamento si allontanava dalla Sicilia, facendovi rientro il 14 luglio 1992), Graviano si informava, innanzitutto, da Spatuzza sul luogo dove aveva rubato l’automobile (la zona dov’era posteggiata la Fiat 126 ricadeva nel territorio del mandamento di Brancaccio, diviso da quello di Santa Maria di Gesù, dalla via Oreto) e gli chiedeva anche se, dalla visione dei documenti o dall’eventuale richiesta di restituzione del mezzo, la stessa fosse riconducibile a persone di loro conoscenza […]. Spatuzza osservava le direttive ricevute, così come quella di comprare un bloccasterzo ad ombrello, da poter applicare al volante della Fiat 126 (evidentemente, in vista della sua collocazione in via D’Amelio, al fine di allontanare dubbi che la stessa fosse rubata), bruciando tutto ciò che era contenuto all’interno (immagini sacre, documenti ed anche un ombrello). […]
Nel frattempo (come anticipato), pochi giorni dopo il furto della Fiat 126118, Spatuzza, collegandone i fili dell’accensione, l’aveva messa in moto e trasportata in un altro garage, anch’esso nella sua disponibilità, nella zona della famiglia di Roccella […]. Dopo aver riferito dello spostamento della Fiat 126 in un altro magazzino (rispetto a quello di Brancaccio, dove aveva ricoverato l’automobile, subito dopo averla rubata), nel territorio della famiglia di Roccella (sempre ricompreso nel mandamento di Brancaccio), nonché dell’incontro con Giuseppe Graviano (nella casa del padre di Fabio Tranchina) e dell’adempimento delle direttive impartite da quest’ultimo, in merito alla sistemazione dell’automobile (provvedendovi direttamente, salvo che per la sistemazione dei freni, per cui s’avvaleva dell’amico meccanico, Maurizio Costa), Gaspare Spatuzza riferiva anche gli ulteriori segmenti della sua partecipazione alle attività preparatorie della stage di via D’Amelio, con il contributo operativo, ancora una volta, dell’imputato Vittorio Tutino. Infatti, dopo un ulteriore incontro con Giuseppe Graviano, nella casa del padre di Fabio Tranchina, la settimana precedente alla strage del 19 luglio 1992, con le ulteriori direttive del capo mandamento sul furto delle targhe che Spatuzza doveva effettuare (tassativamente) sabato 18 luglio 1992, in orario di chiusura degli esercizi ed evitando effrazioni (per ritardare il più possibile la denuncia di furto), proprio in quest’ultimo giorno (vale a dire la vigilia della strage), Vittorio Tutino rintracciava il collaboratore, mentre costui si trovava a casa della madre, poiché doveva consegnargli delle batterie per automobile (evidentemente, assolvendo ad un incarico).
Pertanto, i due sodali si recavano, prima dell’orario di chiusura mattutina, dall’elettrauto “Settimo”, in Corso dei Mille, dove Tutino ritirava le “due batterie”, dopo averne controllato la carica (così testandone l’efficienza), consegnandole a Spatuzza, assieme ad “un antennino”, del tipo di quelli che venivano montati nella canaletta di utilitarie di piccola cilindrata.
Spatuzza si recava, quindi, nel garage di Roccella, dove la Fiat 126 era ricoverata e collocava le due batterie e l’antennino all’interno dell’abitacolo, dove aveva già posizionato anche l’occorrente per poter sostituire le targhe che, di lì a poco, avrebbe rubato, secondo le predette direttive di Giuseppe Graviano ed avvalendosi, ancora una volta, dell’amico e sodale Vittorio Tutino. Peraltro, Spatuzza chiariva anche a cosa servisse il predetto materiale, recuperato attraverso l’ausilio dell’imputato, sia pure facendo riferimento alla sua successiva esperienza criminale, in particolare a quella relativa all’attentato di via Fauro a Roma, allorquando veniva approntato un meccanismo di doppia detonazione per l’ordigno esplosivo destinato al giornalista Maurizio Costanzo, appunto, utilizzando due batterie (in quel caso di motociclo), a garanzia di una maggiore riuscita dell’azione delittuosa (in quel caso, non portata a compimento). Successivamente, nel pomeriggio della medesima giornata di sabato 18 luglio 1992, in orario ricompreso tra le ore 15 e le ore 18, Gaspare Spatuzza veniva contattato, sotto la propria abitazione, nel quartiere Brancaccio, da Fifetto Cannella, che gli comunicava che si doveva spostare la Fiat 126. […] Giunto in via Don Orione, sempre seguendo le vetture del Cannella e del Mangano (proprio all’altezza della casa della suocera di Vittorio Tutino), Spatuzza notava i predetti sodali che arrestavano la marcia e, in particolare, Cannella che gli faceva cenno di posteggiare la Fiat 126. Così faceva Spatuzza, che scendeva anche dall’abitacolo, per dirigersi a piedi (non sapendo bene cos’altro fare) verso un bar ubicato lì all’angolo, venendo subito raggiunto da Cannella, a piedi, che gli diceva di salire nuovamente a bordo della Fiat 126 e di seguirlo.
Cannella e Mangano, camminando a piedi conducevano, quindi, Spatuzza in via Villasevaglios, all’interno di un vano seminterrato di uno stabile sulla destra di tale strada, nel quale si accedeva attraverso uno scivolo (dove, come si vedrà, Spatuzza portava gli inquirenti, nel corso del sopralluogo). Imboccando tale scivolo e svoltando poi a destra, Spatuzza notava, tra i numerosi garage del seminterrato, uno che era proprio di fronte alla sua autovettura e che aveva la saracinesca già aperta, con all’interno due uomini: uno era Lorenzo (detto Renzino) Tinnirello, come già accennato, all’epoca dei fatti, vice capo della famiglia di Corso dei Mille (sulla cui figura ci si soffermerà in altra parte della motivazione), mentre l’altro era uno sconosciuto, verosimilmente estraneo a Cosa nostra (secondo lo stesso collaboratore, una presenza anomala e misteriosa). Era proprio su Tinnirello che si concentrava l’attenzione di Spatuzza, poiché era quest’ultimo che lo guidava, con i gesti, nella manovra di parcheggio nel garage. Terminata detta manovra, Spatuzza faceva notare a Tinnirello la presenza, all’interno dell’abitacolo, del materiale che aveva procurato, anche grazie all’ausilio di Tutino (le due batterie e l’antennino, oltre al necessario per reinstallare delle altre targhe che avrebbe dovuto rubare, di lì a poco), raccomandando anche di ripulire lo sterzo, il cambio e la maniglia dalle impronte digitali che aveva lasciato.
Mentre usciva dal garage, in compagnia di Cannella, Spatuzza vedeva sopraggiungere, scendendo lungo il predetto scivolo d’accesso al seminterrato, Francesco (detto Ciccio) Tagliavia, all’epoca dei fatti, come accennato, a capo della famiglia di Corso dei Mille (anche su tale figura ci si soffermerà in altra parte della motivazione) e latitante, sicché, proprio per quest’ultimo motivo, il collaboratore evitava anche solo di salutarlo. Spatuzza s’allontanava, poi, a bordo dell’autovettura del Cannella.
LUG
I sospetti del Sovrintentendente di polizia
P.M. Dott. GABRIELE PACI – Le posso leggere il passaggio che risale al 2005, quindi, diciamo, un periodo lontano dalla strage, ma sicuramente (…) più vicino nel tempo rispetto ad oggi. Su questo punto lei dice, dunque: “Relativamente alla borsa ho un flash che posso spiegare in questi termini: ricordo di avere notato una persona in abiti civili, alla quale ho chiesto spiegazioni in merito alla sua presenza nei pressi dell’auto. A questo proposito non riesco a ricordare se la persona menzionata mi abbia chiesto qualcosa in merito alla borsa o se io l’ho vista con la borsa in mano o comunque nei pressi dell’auto del Giudice. Di sicuro io ho chiesto a questa persona chi fosse per essere interessato alla borsa del Giudice e lui mi ha risposto di appartenere ai Servizi”.
TESTE GIUSEPPE GAROFALO – E allora se ho riferito nel 2005 così, probabilmente sì, è…
P.M. Dott. PACI – No, sostanzialmente è quello che ripete anche oggi. Le voglio chiedere se è in grado di attivare i circuiti della sua memoria per capire questo riferimento a una borsa, che era la borsa del dottor Borsellino, se deriva da una interlocuzione diretta con questo signore, cioè.
TESTE G. GAROFALO – Sì, probabilmente sì, perché, insomma, non…
P.M. Dott. PACI – Sì. Cioè viene strano pensare che lei possa avere, così, autonomamente…
TESTE G. GAROFALO – Esatto, sì.
P.M. Dott. PACI – …correlato una borsa al fatto poi…
TESTE G. GAROFALO – Del soggetto.
P.M. Dott. PACI – …che questa appartenesse al Giudice.
TESTE G. GAROFALO – Sì, probabilmente sì, cioè l’argomento era la borsa.
P.M. Dott. PACI – Questo signore lei non l’aveva visto mai e non l’ha più rivisto?
TESTE G. GAROFALO – No.
P.M. Dott. PACI – Ma lei aveva, diciamo, rapporti, conosceva il personale del SISDE…
TESTE G. GAROFALO – No, no. No, assolutamente no.
P.M. Dott. PACI – …a Palermo, che lavorava a Palermo? Ha avuto mai contatti, rapporti?
TESTE G. GAROFALO – No, no.
P.M. Dott. PACI – Professionali intendo, con queste…
TESTE G. GAROFALO – Mai con nessuno.
P.M. Dott. PACI – Senta, di questa persona lei è in grado di dare una descrizione?
TESTE G. GAROFALO – Allora, di questa persona ho dato una descrizione anche in passato, è una descrizione però molto… molto approssimativa, perché, ripeto, il contatto è stato immediato e il contesto in cui è nato questo contatto era un po’ particolare. Altezza media, carnagione chiara. L’unica cosa che mi è… che, insomma, mi ha incuriosito, mi ha… è stata cristallizzata nella memoria, è il fatto di… che questo soggetto indossava una giacca. Evidentemente una situazione un po’ particolare e strana, perché eravamo in estate e quindi non era consuetudinario notare una persona in giro con una giacca. Solo questo mi ha attirato… ha attirato la mia attenzione, per il resto a livello di… di riconoscimento o comunque di fornire delle indicazioni somatiche del soggetto, ricordo che era stempiato o comunque non aveva i capelli e…
P.M. Dott. PACI – Quindi pochi capelli.
TESTE G. GAROFALO – Sì, stempiato, pochi capelli. Poteva essere rasato, non… onestamente… però di fatto non aveva una chioma fluente.
P.M. Dott. PACI – Fluente. Senta, l’inflessione, visto che ha avuto anche per breve tempo modo di parlare con questa persona, ricorda se era un uomo (…) che si esprimeva in dialetto, che si…?
TESTE G. GAROFALO – Non ricordo se si è… se ha parlato in dialetto o in palermitano o in… in italiano, non… non potrei dire, non potrei essere certo.
PRESIDENTE – Ma qualche inflessione, ecco, la ricorda di qualche provenienza geografica? Indipendentemente dal fatto che fosse dialetto oppure…
TESTE G. GAROFALO – No, no, Presidente.
PRESIDENTE – …lingua italiana, qualche…
TESTE G. GAROFALO – Presidente, i momenti erano così concitati che non… non ci facevi caso, cioè era una situazione troppo… troppo particolare. E ripeto, il… il contatto è stato velocissimo, breve, pochi…
PRESIDENTE – Senta, questa forma di interessamento in qualche modo per la borsa del dottor Borsellino (…) lei ricorda se si concretò anche in qualche gesto?
TESTE G. GAROFALO – No.
PRESIDENTE – Cioè in che senso era interessato? Lo spieghi, se riesce a scavare nei suoi ricordi in modo più preciso.
TESTE G. GAROFALO – Non… l’argomento, ripeto, potrebbe essere quello legato alla borsa, però di fatto e ribadisco, non posso dire se l’ho visto con la borsa o se lui mi abbia chiesto della borsa. Sono momenti troppo…
PRESIDENTE – Comunque ricorda se era una di queste due cose oppure se si trattava di qualcos’altro?
TESTE G. GAROFALO – No, no. Era probabilmente della borsa.
PRESIDENTE – Quindi riguardava la borsa.
TESTE G. GAROFALO – Sì.
PRESIDENTE – In qualche modo…
TESTE G. GAROFALO – Collegato alla… alla borsa.
PRESIDENTE – L’interesse, ecco, sì.
TESTE G. GAROFALO – Sì.
PRESIDENTE – E lei questa borsa la vide?
TESTE G. GAROFALO – No.
PRESIDENTE – Prego, Pubblico Ministero.
P.M. Dott. PACI – Allora, un’ulteriore domanda, ispettore: quando lei vede questa persona, riesce a ricordare se il quadro che lei ha indicato quando è arrivato, e cioè quel fumo, le fiamme, è mutato o meno?
TESTE G. GAROFALO – Quando ho il contatto con questa persona?
P.M. Dott. PACI – Quando è in contatto con questa persona.
TESTE G. GAROFALO – Probabilmente era il momento in cui noi eravamo già scesi dalle abitazioni e quindi, ovviamente, non immediatamente vicino (…) al nostro arrivo, sì. Probabilmente era un momento in cui i curiosi incominciavano a sopraggiungere, personale, giornalisti e…
P.M. Dott. PACI – Senta, ma quanto è rimasto lei lì quel giorno?
TESTE G. GAROFALO – In quel luogo?
P.M. Dott. PACI – Sì.
TESTE G. GAROFALO – Tutta la (…). Tutto il turno e probabilmente, se non ricordo male, fino a tarda ora.
(…)
P.M. Dott. PACI – Senta, le mostriamo questa foto, ed è una foto che è depositata in atti e che riguarda, appunto, la presenza di un soggetto con in mano una borsa in via D’Amelio nei momenti successivi all’esplosione.
TESTE G. GAROFALO – Sì.
P.M. Dott. PACI – E’ in grado di fornire qualche…? Questa immagine è in grado di fornirle qualche delucidazione, di sollecitare qualche ricordo?
TESTE G. GAROFALO – Questa è… sì, questa è una delle tante foto che mi hanno mostrato e ritrae l’ufficiale dei Carabinieri sul… sul teatro dei fatti. (…) Perché l’ho letto dopo e perché… E’
chiaro.
P.M. Dott. PACI – Ecco, quel giorno l’ha visto quel signore?
TESTE G. GAROFALO – No, no, non lo ricordo in quel momento.
P.M. Dott. PACI – E la persona che lei… il ricordo che lei ha di questa persona, questo ricordo sfumato, ha qualche compatibilità con quella persona?
TESTE G. GAROFALO – Con questo soggetto no, evidentemente.
P.M. Dott. PACI – Assolutamente no.
TESTE G. GAROFALO – Assolutamente no. Poi mi hanno fatto vedere parecchi filmati e… insomma, è stato notato questo soggetto, quindi l’ufficiale dei Carabinieri, insieme ad un altro soggetto, che orientativamente potrebbe essere…
P.M. Dott. PACI – Va beh.
TESTE G. GAROFALO – …insomma, questo…
P.M. Dott. PACI – D’accordo.
TESTE G. GAROFALO – Però, insomma, non…
P.M. Dott. PACI – D’accordo, d’accordo. Senta, allora, parliamo del suo collega con cui lei ha poi parlato successivamente di questa vicenda, credo che si chiami ispettore…
TESTE G. GAROFALO – L’assistente Migliore.
P.M. Dott. PACI – L’assistente Migliore, sì. Allora, c’è, diciamo, un ulteriore scatto nel suo ricordo, no? A seguito di un contatto che lei ha con un suo collega.
TESTE G. GAROFALO – Ecco, questo… questo piccolo particolare io… non è che lo ricordo. Di seguito ci siamo incontrati con… con questo collega, che fa servizio nella provincia di Ragusa, e…
P.M. Dott. PACI – Che oggi fa servizio a Ragusa, ma un tempo faceva servizio…
TESTE G. GAROFALO – Faceva servizio a Palermo, era sulle Volanti, non era sulle Volanti… sulla 32 e neanche sulla 21. (…) Ma se non ricordo male faceva servizio sulla Volante che si occupava della zona di Brancaccio, però potrei sbagliarmi. Logicamente abbiamo cercato di ripercorrere quello che avevamo vissuto in quel… in quel contesto.
P.M. Dott. PACI – Perché anche lui intervenne in via D’Amelio, diciamo.
TESTE G. GAROFALO – Lui… ovviamente tutte le autovetture sono state (…) dirottate sul luogo, anche se quel… anche le auto che non dovevano essere dirottate sono arrivate lì, perché evidentemente è una situazione troppo eclatante. E c’era pure lui. Ora, lui mi dice di… così, parlando, rivangando un po’ i… tra i ricordi, che io gli ho detto…
P.M. Dott. PACI – Mi scusi (…) questo per farlo capire alla Corte (…) anche se è ben esplicitato nei verbali che produciamo, e cioè lei riceve l’avviso di…
TESTE G. GAROFALO – Ho ricevuto una citazione, evidentemente un invito a presentarmi per essere nuovamente sentito e… logicamente parecchi colleghi che facevano servizio a Palermo in quel momento sono stati trasferiti con l’andare del tempo, uno di questi è il collega Migliore, che fa servizio al Commissariato di Modica.
P.M. Dott. PACI – Quindi l’occasione è questa.
TESTE G. GAROFALO – L’occasione è quella. Ne abbiamo parlato, ho detto: “Senti, Michele – il nome è Michele – ma tu che cosa ti ricordi di questi fatti?” Anche perché con l’andar del tempo determinati fatti tendono a diventare una sorta di… non so neanche come spiegare, fino a un certo punto io pensavo che tutto quello che avevo visto era un sogno, un… un qualcosa di (…) di irreale; dal 2005 in poi incomincio a… a focalizzare e a cercare di ricordare, perché ovviamente vengo… vengo convocato e incomincio a fornire delle dichiarazioni. A seguito di quest’ultima…
P.M. Dott. PACI – Scusi, lei prima non era stato mai sentito su questi fatti?
TESTE G. GAROFALO – No, no, mai. Dal 2005…
P.M. Dott. PACI – Il 2005 è la prima volta che lei viene sentito.
TESTE G. GAROFALO – Sono stato la prima volta. Insomma, parliamo con questo collega e abbiamo cercato di capire, ho detto: “Ma tu cosa ti ricordi di queste… di questi fatti?” Perché i miei sono quelli legati a tutto quello che ho detto finora. E lui mi dice: “Sì, no, io mi ricordo che tu lì, sul luogo del… dell’attentato, mi hai parlato di questo… di questo fantomatico soggetto, di questo soggetto, del contatto che hai avuto e… di come eri sconvolto e…” Insomma, questo è quanto, non… Quindi rafforza ulteriormente la convinzione che…
P.M. Dott. PACI – Lei non ricordava di aver parlato con il suo collega quel giorno?
TESTE G. GAROFALO – No.
P.M. Dott. PACI – E’ lui che le rammenta…
TESTE G. GAROFALO – E’ lui che me lo ricorda, sì.
P.M. Dott. PACI – Esattamente lo rammenta che cosa…? Cioè le dice di averlo incontrato quel giorno a via D’Amelio e sostanzialmente di essersi sfogato con lui a proposito di che cosa?
TESTE G. GAROFALO – Sì, lui mi diceva di… che, insomma, da… io gli ho raccontato questo contatto con… con un soggetto appartenente ai Servizi sul posto, di come l’argomento era la borsa del dottore Borsellino e… e basta, insomma, questo sostanzialmente ricordo che mi dice.
P.M. Dott. PACI – Senta, l’incontro con questo soggetto è stato un incontro, diciamo, sereno o è stato dato luogo a un contrasto?
TESTE G. GAROFALO – Con chi?
P.M. Dott. PACI – Sì, tra lei… non con il suo collega.
TESTE G. GAROFALO – Ah.
P.M. Dott. PACI – Con questo fantomatico soggetto che lei incontra a via D’Amelio. Cioè ci sono stati momenti di tensione?
TESTE G. GAROFALO – Allora…
P.M. Dott. PACI – Anche normali in quei frangenti.
TESTE G. GAROFALO – Lo stato d’animo, insomma, era… era quello che era. No, è stato un contatto… duro, diretto, immediato, veloce, non… non potevamo perdere tempo, insomma, a… il nostro… il nostro obiettivo primario, la nostra… il nostro obiettivo era quello di salvare le persone che erano all’interno delle… degli stabili. Del resto i colleghi… non c’era più nulla da fare, insomma.
P.M. Dott. PACI – Senta, aveva placche di riconoscimento questo signore?
TESTE G. GAROFALO – No, no.
P.M. Dott. PACI – Non aveva nulla che potesse, insomma, in qualche modo…
TESTE G. GAROFALO – No, no, no.
P.M. Dott. PACI – …se non evidentemente quella che poi è stata…
TESTE G. GAROFALO – Altrimenti – ma questo vado per esclusione – non avrei… non l’avrei bloccato, non avrei avuto un contatto, perché se… se aveva una placca di riconoscimento, così come riporta l’ufficiale dei Carabinieri, non avevo motivo di… di chiedere che cosa facesse in quel… in quel momento lì.
P.M. Dott. PACI – Quindi anche se non lo ricorda, la deduzione è, diciamo, conseguente.
TESTE G. GAROFALO – Sì, è…
P.M. Dott. PACI – Il fatto che lei gli abbia chiesto… che questo le abbia mostrato dei documenti di
riconoscimento.
TESTE G. GAROFALO – Sì.
P.M. Dott. PACI – Perché altrimenti non gli avrebbe consentito di rimanere lì?
TESTE G. GAROFALO – Altrimenti non gli avrei consentito di rimanere lì e altrimenti lo avrei preso e consegnato ad altri colleghi o comunque lo avrei allontanato dai luoghi, perché comunque in quel momento ogni persona si dirigeva su quel luogo e… e si metteva a girare tra…
P.M. Dott. PACI – Senta, lei ricorda poi, ovviamente tra i tanti organi dello Stato che sono intervenuti quel giorno, naturalmente sono intervenuti anche i Vigili del Fuoco.
TESTE G. GAROFALO – Ovviamente.
P.M. Dott. PACI – Lei ricorda di attività svolta dai Vigili del Fuoco quel giorno a via D’Amelio, di attività sulle macchine, sulle blindate?
TESTE G. GAROFALO – Le attività che ricordo erano quelle di… di spegnimento dei focolai di incendio e di mettere in sicuro ogni tipo di potenziale pericolo che poteva scaturire dall’esplosione di… di serbatoi di benzina.
P.M. Dott. PACI – Queste macchine lei… faccio riferimento alle blindate.
TESTE G. GAROFALO – Sì.
P.M. Dott. PACI – Perché, diciamo, è la cosa che ci interessa. Ricorda se la macchina del dottor Borsellino era chiusa o aveva lo sportello aperto?
TESTE G. GAROFALO – No, non… non lo ricordo, no. Probabilmente era aperto, ma non… non lo ricordo, no. Ma lo dico perché di solito le autovetture quando lasciano le personalità comunque rimangono con le porte aperte. (…) Però non… no, non… non potrei dare una risposta certa, vado per… per deduzione. Ma in quel momento non… cioè non ricordo materialmente se l’autovettura era chiusa o aperta, non…
(…)
P.M. Dott. PACI – Sempre parlando poi con il suo collega, il suo collega le rammenta questo particolare, che le dice che c’era stato un incontro – scontro con questo… Cioè lui glielo definisce così, glielo ricorda così, le ha detto che c’era stato un incontro – scontro e che lei era molto arrabbiato. Questa cosa aveva una ragione e una spiegazione? Se a lei…
TESTE G. GAROFALO – Era…
P.M. Dott. PACI – Cioè ogni particolare che lei può riferire sulla…
TESTE G. GAROFALO – Non era uno scontro, cioè nel senso…
P.M. Dott. PACI – …sull’incontro con questa persona è importante. Cioè…
TESTE G. GAROFALO – Va beh, è stato un incontro…
P.M. Dott. PACI – …al di là di dirgli: “Lei chi è?” E questo le dice: “Guardi, sono dei Servizi e questo è il tesserino”, c’è stato qualcosa in più, qualcosa di…?
TESTE G. GAROFALO – No, il…
P.M. Dott. PACI – Il fatto che lei l’ha invitato ad andar via e quello è voluto rimanere. Insomma…
TESTE G. GAROFALO – No, no, no, i toni sono duri perché lo stato d’animo era… era particolare, quindi probabilmente sono stato un po’ aggressivo, ma faceva parte del… del contesto e quindi (…). Ma non è stato né invitato ad allontanarsi, niente (…). Sarò stato un po’ duro, un po’… un po’ forte nel… nel mio modo di esprimermi, ma questo, insomma (…) lo sono di sovente così.
(…)
AVV. REPICI – Senta, una precisazione mi interessava: lei ha fatto riferimento all’incontro con questo soggetto che si qualifica come agente dei Servizi e che lei poi verifica essere effettivamente, diciamo, tale. (…) Fino a quel momento, cioè fino a questo incontro, lei, dal momento in cui arriva lì in via D’Amelio, la sua mente, la sua attenzione era andata, anche solo con il pensiero, alla borsa del dottore Borsellino?
TESTE G. GAROFALO – No, no, no. (…) Noi… il nostro interesse primario era quello di verificare se vi era rimasto qualcuno in vita e… e poi provvedere…
AVV. REPICI – E dare soccorso.
TESTE G. GAROFALO – E dare soccorso ai…
AVV. REPICI – Questo è ovvio. Quindi, diciamo, nella sua mente l’attenzione alla borsa del dottor Borsellino arriva in concomitanza (…) con l’incontro con questa persona?
TESTE G. GAROFALO – Sì.
AVV. REPICI – A proposito della possibilità di riconoscere in qualche modo, nel corso delle sue audizioni, questa persona, lei ha detto: “Sicuramente non è quel capitano Arcangioli”, di cui alla foto che le è stata mostrata.
TESTE G. GAROFALO – No, lo… lo escludo.
AVV. REPICI – Sì, sì, e questo l’ha già detto chiaramente. Poi lei ha detto: “C’era una possibile compatibilità con altro soggetto che in un video mi è stato mostrato vicino al capitano Arcangioli”. Ho capito bene?
P.M. Dott. LUCIANI – Presidente, ci troviamo costretti a fare opposizione su questa domanda, che, come si sarà potuto notare, non è stata esplorata, essendoci in corso attività da parte di questo ufficio.
PRESIDENTE – Va beh, allora su questo evidentemente lasciamo… per adesso soprassediamo. Eventualmente il Pubblico Ministero comunicherà il momento in cui queste attività saranno completate e sarà possibile, eventualmente, riprendere la deposizione del teste a questo scopo.
LUG
Un misterioso uomo che parla di una borsa
La presenza di appartenenti ai Servizi Segreti, in via D’Amelio, a pochi minuti dalla deflagrazione, risulta anche (come già esposto nel precedente paragrafo) da un’altra deposizione dibattimentale, di seguito riportata per stralcio. Infatti, il Vice Sovrintendente Giuseppe Garofalo, in servizio alla Questura di Palermo, Sezione Volanti, arrivava sul posto appena cinque minuti dopo la deflagrazione e, dopo aver constatato che non c’era più nulla da fare per il Magistrato ed i colleghi della Polizia di Stato che gli facevano da scorta, aiutava i residenti nello stabile di via D’Amelio, soccorrendo forse anche la madre del Magistrato. Quando riscendeva in strada, il poliziotto notava, nei pressi della Croma blindata di Paolo Borsellino, un uomo in borghese, con indosso la giacca (nonostante il torrido clima estivo) e pochi capelli in testa. Alla richiesta di chiarimenti sulla sua presenza lì, l’uomo si qualificava come appartenente ai “Servizi”, mostrando anche un tesserino di riconoscimento: vi era persino un veloce e secco scambio di battute fra i due, sulla borsa di Paolo Borsellino. Infatti, l’agente dei Servizi Segreti chiedeva se c’era la borsa del Magistrato dentro l’auto blindata, oppure (addirittura) si giustificava per il fatto che aveva detta borsa in mano. Si riporta (come anticipato) uno stralcio della deposizione:
P.M. Dott. PACI – Allora, nel 1992 lei prestava servizio?
TESTE G. GAROFALO – Alla Volante, alla Sezione Volanti della Questura di Palermo.
P.M. Dott. PACI – Ecco, che qualifica aveva allora?
TESTE G. GAROFALO – Ero vice-sovrintendente ed ero al comando di un’unità operativa, di una Volante.
P.M. Dott. PACI – Quindi era il capopattuglia.
TESTE G. GAROFALO – Sì.
P.M. Dott. PACI – Senta, da quanto tempo svolgeva servizio presso l’ufficio Volanti?
TESTE G. GAROFALO – Eh, forse neanche un anno; non ricordo ora di preciso, ma penso che… di essere stato assegnato alle Volanti di Palermo il ’92 stesso, se non… se non erro, o il ’91, comunque un breve periodo. (…)
P.M. Dott. PACI – Ho capito. Senta, veniamo al giorno della strage di via D’Amelio.
TESTE G. GAROFALO – Sì.
P.M. Dott. PACI – Lei era in servizio?
TESTE G. GAROFALO – Sì, ero in servizio, ero sulla 32, sulla Volante 32.
P.M. Dott. PACI – Il turno qual era?
TESTE G. GAROFALO – E il turno era 13.00 – 19.00. La Volante 32 abbracciava la zona da Mondello, orientativamente, verso via Autonomia Siciliana, e quelle zone, insomma,
limitrofe. Ricordo che… ora non…
P.M. Dott. PACI – Certo. Allora, veniamo alla strage e al deflagrare della bomba. La notizia voi l’apprendete come?
TESTE G. GAROFALO – Allora, noi l’apprendiamo via radio. Sul posto viene inviata subito la Volante 21, che era quella più… più vicina al… alla zona. Noi, come 32, eravamo nella zona di Mondello o comunque, insomma, nella nostra zona di competenza.
P.M. Dott. PACI – Quindi nella zona di Mondello vi trovavate quando avete…
TESTE G. GAROFALO – Sì, Mondello, sì, in quella zona lì.
P.M. Dott. PACI – Ma avete sentito l’esplosione o…?
TESTE G. GAROFALO – Allora, si è sentito un boato, solo che logicamente è stata inviata dalla Sala… da parte della Sala Operativa la Volante 21, che evidentemente era quella più vicina o comunque era quella di zona. Noi di fatto abbiamo deciso di… di avvicinarci verso… verso il luogo dov’era stata segnalata questa… questa esplosione. All’inizio, come prima notizia, era stata
fornita dalla Sala Operativa un’esplosione di una bombola, qualcosa del genere, solo che, insomma, il… conoscendo i luoghi, insomma, orientativamente sapevamo che in quella zona lì vi era un obiettivo sensibile, che era evidentemente un luogo legato al dottore Borsellino, e quindi ho… ho invitato il mio autista ad accelerare la marcia.
P.M. Dott. PACI – Senta, e dal momento in cui c’è stata questa segnalazione della Sala Operativa, o meglio, voi il boato l’avete sentito, quindi…
TESTE G. GAROFALO – Sì.
P.M. Dott. PACI – …prendiamo come punto di riferimento il momento in cui sentite l’esplosione e il boato. Al momento in cui arrivate in via D’Amelio quanto sarà passato?
TESTE G. GAROFALO – Ma saranno passati cinque minuti, anche di meno, perché, insomma, era domenica, le strade erano sgombre, non c’era traffico, quindi di fatto è stata una… quasi immediato il nostro arrivo.
P.M. Dott. PACI – Quindi entro cinque minuti siete arrivati.
TESTE G. GAROFALO – Sì, più o meno, cinque – dieci minuti, insomma, quello, i tempi erano quelli.
P.M. Dott. PACI – Allora, senta, siccome nella sua deposizione, che si è svolta in due momenti, no? Lei ha già raccontato (…) e adesso lo racconterà alla Corte, che alcuni elementi poi lei li ricordò a seguito di un colloquio avuto con un suo collega.
TESTE G. GAROFALO – Sì.
P.M. Dott. PACI – Ecco, allora vorrei, innanzitutto, che lei esprimesse e riferisse alla Corte quello che è il ricordo di allora, poi parleremo di quello che le ha riferito il suo collega; però noi vorremmo che lei, per quanto capisco sia difficile, insomma, selezioni quello che è il ricordo di quella giornata, per come lei… Poi parleremo di quelli che sono gli elementi che poi il suo collega le ha rammentato. (…) Però questo in un secondo momento. In questo momento vorrei che lei riferisse alla Corte quello che è il ricordo visivo di quel giorno e dei particolari che lei ha, diciamo, memorizzato.
TESTE G. GAROFALO – Niente, siamo arrivati sul luogo della… dell’attentato, ricordo che già era arrivata la Volante 21.
P.M. Dott. PACI – Quindi quante pattuglie o uomini delle Forze dell’Ordine erano già presenti?
TESTE G. GAROFALO – Allora, al momen… quando sono arrivato io, ho visto solo la Volante 21, ma potrei anche sbagliarmi, perché, insomma, la… la situazione emotiva era parecchio… parecchio pesante. Di certo la Volante 21 era già lì sul posto, quindi era un’auto con tre… tre agenti, tre poliziotti. Siamo arrivati noi come 32 e ci siamo resi conto di quello… di quello che era successo e abbiamo… abbiamo notato… abbiamo visto parecchie autovetture in fiamme e…
P.M. Dott. PACI – Ecco, le autovetture erano in fiamme quando arrivate?
TESTE G. GAROFALO – Sì, sì, sì.
P.M. Dott. PACI – In particolare le chiedo: lei ha ricordo della vettura del dottor Borsellino?
TESTE G. GAROFALO – Allora, non… non so se… abbiamo visto le due autovetture, le due… le due Croma blindate. Sì, le abbiamo viste, cioè le ho viste, me le ricordo. Di fatto l’attenzione è rivolta ai… alle persone, insomma, ai colleghi che erano morti, al dottore Borsellino, è stata quasi immediata, nel senso che ci siamo resi conto che, insomma, non… non c’era nulla da fare e… e quello che abbiamo deciso di fare… di fare sul momento era quello di aiutare le persone che si trovavano all’interno delle abitazioni che erano state devastate, perché oltre alla… all’impatto nel… cioè l’esplosione ha creato dei danni enormi sulle abitazioni che circondavano il luogo del… dell’attentato, e quindi io ricordo di essere salito insieme ad altri colleghi, ora non… non so se sono venuti insieme a me o sono partito da solo, siamo saliti all’interno dell’abitazione del… del dottore Borsellino proprio per vedere com’era la… se c’era bisogno di aiutare delle persone. I miei ricordi lì sono così, vaghi, io ho percezione di essere addirittura entrato a casa del dottore Borsellino e di avere preso la mamma del dottore Borsellino e di averla portata giù, però sono dei… dei frame, dei… dei flash di memoria. Questa, insomma, è la situazione.
P.M. Dott. PACI – Lei ha notato, ha individuato persone, magistrati, persone conosciute? Insomma, se ha individuato volti in qualche modo conosciuti a lei o personaggi dell’entourage giudiziario.
TESTE G. GAROFALO – Nell’immediato, quando siamo… quando siamo arrivati noi, non c’era nessuno evidentemente, perché il nostro è stato il primo intervento. Poi, con l’andar del tempo, si sono presentati sul luogo della…
P.M. Dott. PACI – Sì.
TESTE G. GAROFALO – …dell’esplosione parecchi personaggi noti: magistrati, Giudici.
P.M. Dott. PACI – Sì, sì, sì, però, diciamo, nell’immediatezza, cioè quando lei arriva, trova solamente gli uomini della Volante 21?
TESTE G. GAROFALO – Sì, sì, per come io ho dei ricordi. Poi c’è quella…
P.M. Dott. PACI – Ci arriviamo. (…) Un attimo, volevo un attimo che focalizzasse, se è possibile, la memoria e l’attenzione su questi particolari: sullo stato delle vetture, delle due vetture blindate. Se lei è in grado di riferire qual era lo stato di queste vetture quando arrivate, cioè se erano ancora in fiamme, se c’erano dei focolai, se c’erano i Vigili del Fuoco.
TESTE G. GAROFALO – Quando siamo arrivati, le auto… c’erano dei focolai evidentemente, quello che ricordo parecchio bene era il fumo, cioè il fumo che scaturiva da… da quella zona.
P.M. Dott. PACI – La domanda gliela devo fare, però lei deve capire la mia intenzione che è quella di cercare di, da un lato, ravvivare il ricordo, ma senza cercare di, diciamo, forzare il dato. Cioè mi rendo conto che, come dice lei, ci sono dei frame, ci sono dei particolari che sono importanti, sarebbe oggi importante capire. Quando lei arriva, ricorda se all’interno delle due vetture blindate c’erano delle fiamme? Se c’era un principio di incendio anche all’interno delle vetture.
TESTE G. GAROFALO – No, non…
P.M. Dott. PACI – Non è in grado di dare questa informazione?
TESTE G. GAROFALO – Non mi pare che c’erano delle… delle fiamme all’interno delle… dei mezzi blindati.
P.M. Dott. PACI – Dei mezzi blindati. Ricorda la presenza di personale dei Vigili del Fuoco?
TESTE G. GAROFALO – Non… non nell’immediatezza.
P.M. Dott. PACI – Non nell’immediatezza. Oltre a personale della 21 ricorda se c’era personale dei Carabinieri, personale…
TESTE G. GAROFALO – Questo non… no, non lo ricordo, onestamente.
P.M. Dott. PACI – …della Croce Rossa? Se già, insomma, c’era…
TESTE G. GAROFALO – No, no, c’eravamo solo noi e la 21.
P.M. Dott. PACI – Quindi, diciamo, il primo intervento è della 21.
TESTE G. GAROFALO – E il nostro.
P.M. Dott. PACI – E subito dopo arrivate voi.
TESTE G. GAROFALO – Sì.
P.M. Dott. PACI – Quindi la zona non è transennata.
TESTE G. GAROFALO – No, no, è proprio…
P.M. Dott. PACI – La visibilità?
TESTE G. GAROFALO – E’ pessima, perché c’era fumo, c’era fuliggine, c’era un po’ di tutto, è una sorta di… un film da guerra, né più e né meno.
P.M. Dott. PACI – Quando lei dice la visibilità era pessima, vuol dire che c’era una visibilità pari a un raggio di…?
TESTE G. GAROFALO – No, ma non… non si può quantificare, perché le autovetture che sono state coinvolte non erano solo quelle delle… del dottore e della scorta, erano anche altre autovetture che erano parcheggiate nella zona, quindi i fumi, l’olio bruciato, quindi era un… non so neanche io come poterlo spiegare visivamente. Era… la visibilità… non siamo di fronte a una visibilità ridotta a causa di un banco di nebbia, siamo di fronte a un… a una zona di guerra, quindi fumo, si usciva da una zona dove c’era… non si poteva vedere, in altre zone non si vedeva, in altre zone non potevamo neanche respirare, cioè non… non c’era una netta non visibilità o una visibilità in alcune zone, era un misto di… di situazioni.
P.M. Dott. PACI – Ho capito. Allora, tra i flash che lei ha di quel giorno (…) ricorda qualcosa? Oltre, appunto, a questa carneficina a cui lei assiste, ricorda qualcosa di specifico, di qualcosa che ha attirato la sua attenzione?
TESTE G. GAROFALO – Questo è il… la situazione. Non ricordo, non riesco ad inserirlo in un… in un lasso di tempo preciso, se immediatamente prima del nostro arrivo… cioè se immediatamente dopo del nostro arrivo o dopo dieci – venti minuti, questo non… non riesco a capirlo, non riesco a ricordarlo; di fatto nella zona dove c’erano le macchine di via D’Amelio…
P.M. Dott. PACI – Le macchine intende le blindate?
TESTE G. GAROFALO – Sì, le blindate, le autovetture, insomma, tutte le… i mezzi danneggiati, comunque sul teatro dei fatti, diciamo così. Ho un contatto con una persona, ma questo contatto è immediato, velocissimo, dura pochissimo, perché evidentemente la nostra… il nostro
intento era quello di mantenere le persone al di fuori della… della zona e quindi non fare avvicinare a nessuno, anche per un problema di natura… di ordine pubblico, perché c’era il rischio che altre autovetture… i serbatoi di altre autovetture potessero esplodere. E incontro questa… un soggetto, una persona, al quale… ecco, e questo è il momento, non riesco a ricordare se questo soggetto mi chiede della… della valigia, della borsetta del dottore o se lui era in possesso della valigia.
P.M. Dott. PACI – Quindi c’è un riferimento alla valigia.
TESTE G. GAROFALO – C’è un contatto, questo.
P.M. Dott. PACI – Ecco, c’è un contatto con una persona.
TESTE G. GAROFALO – Con questa persona, al quale io chiedo, evidentemente, il motivo perché si trovava su quel… su quel luogo. Questo soggetto mi dice di essere… di appartenere ai Servizi.
P.M. Dott. PACI – Ai Servizi?
TESTE G. GAROFALO – Ai Servizi.
P.M. Dott. PACI – Scusi, dice appartenente ai Servizi o dice SISDE, SISMI? Cioè la parola…
TESTE G. GAROFALO – No, Servizi.
P.M. Dott. PACI – La parola la ricorda qual era?
TESTE G. GAROFALO – Ai Servizi.
P.M. Dott. PACI – Ai Servizi.
TESTE G. GAROFALO – L’ho lasciato andare perché sono sicuro, e questa è l’unica cosa di cui sono veramente certo, mi avrà mostrato dei documenti di riconoscimento.
P.M. Dott. PACI – Quindi, ecco, questa era la domanda che le volevo fare.
TESTE G. GAROFALO – Sì.
P.M. Dott. PACI – Lei accerta che questa persona, dopo che si è presentata come personale dei Servizi, è accreditato, insomma, le mostra un tesserino, qualcosa?
TESTE G. GAROFALO – Sì, perché altrimenti avrei perso più tempo con lui, nel senso che lo avrei accompagnato da parte, lo avrei… lo avrei preso e consegnato ad altri colleghi. Cioè, voglio dire, io avevo prestato servizio a Palermo anche in altri tempi, ero alla Mobile, alla Squadra Mobile, alla Sezione Omicidi, e non era una cosa al di fuori dal normale che in occasione di eventi
delittuosi particolari si presentassero dei soggetti appartenenti a dei Servizi sul luogo di un omicidio,
quindi, insomma (…) per noi era una cosa normale. Quindi, all’atto in cui io ho avuto contezza che questo soggetto fosse dei Servizi…
P.M. Dott. PACI – Che effettivamente appartenesse ai Servizi di Sicurezza.
TESTE G. GAROFALO – Ai Servizi, riscontrato cioè anche da un… dalla presentazione di un tesserino, io non ho più avuto contatti con quel soggetto, cioè non… la mia attenzione è stata… si è focalizzata su altri… su altre emergenze.
P.M. Dott. PACI – Allora, detto che è una persona che lei incontra in prossimità del teatro (…) di questa azione di guerra, detto che si presenta come una persona appartenente ai Servizi e che le dà dimostrazione di questa sua appartenenza, la cosa che lei ha detto è che faceva riferimento alla borsa del dottor Borsellino. (…) Questo particolare adesso dobbiamo scavare.
TESTE G. GAROFALO – E’ un particolare… io ribadisco, non so se lui mi abbia chiesto qualcosa sulla borsa o se io l’abbia visto in possesso della borsa o… o altre… altri particolari, perché, ripeto, è stata una frazione di secondi.
P.M. Dott. PACI – Voglio capire questo: il riferimento ad una borsa, che è incerto, cioè se è stato oggetto di colloquio o se questo avesse una borsa, in riferimento alla borsa del dottor Borsellino, cioè che questa fosse la borsa che apparteneva al magistrato, qual è? Qual è l’aggancio?
TESTE G. GAROFALO – E l’aggancio… i motivi per cui… allora, io ripeto, non… a distanza di tanti anni i ricordi si affievoliscono, poi un fatto così tragico comunque si tende a cancellare quelli che sono i ricordi legati a questi… a questi fatti. Ripeto, non… non so se lui mi abbia chiesto, tra virgolette: “La borsa del dottore Borsellino è all’interno della macchina”, oppure, tra virgolette, io gli abbia chiesto: “Cosa qui con la borsa in mano?” Oppure… (pagg 939-962)
9
I primi arrivati sulla scena del crimine
TESTE FRANCESCO PAOLO MAGGI: – Dottore, io vorrei aggiungere una cosa, che a distanza di tempo non ho detto, però ‘sta cosa ora sta andando per le lunghe, non me la sento più. (…) Preme pure a me la ricerca della verità, perché… Io questo lavoro l’ho fatto veramente con il senso del dovere, ho fatto ventisette anni in questa amministrazione. (…) A me la cosa strana, dottore, più che strana, pure infastidito, perché purtroppo anche all’interno da noi ci sono queste cose, però poi sono ritornato su questo pensiero. Cioè lei sa benissimo che in un’emergenza si allerta il 113 e quindi il 113 dirama
la nota di una cosa e quindi… (…) Cioè la cosa strana è che io notai molta gente che si aggirava giacca e cravatta dei Servizi. Ho detto: “Ma questi come hanno fatto a… a sapere già…?” Ma dopo dieci minuti io già ne avevo visto un paio là che gironzolavano.
P.M. Dott. GOZZO – Lei ha ricostruito che si trattasse dei Servizi o…?
TESTE MAGGI F.P. – Sì, perché un paio li conosco, di Roma. Io ho lavorato sette anni a Roma.
P.M. Dott. GOZZO – E a questo punto la invito a fare i nomi di queste persone, se li riconosce.
TESTE MAGGI F.P. – E non li conosco, conosco di… di faccia, è gente questa che… manco ti dà confidenza.
P.M. Dott. GOZZO – E quando ha notato queste persone? Dal punto di vista del timing, diciamo così.
TESTE MAGGI F.P. – Dopo dieci minuti che era avvenuto tutto il fatto.
P.M. Dott. GOZZO – E quindi quando siete arrivati voi, praticamente.
TESTE MAGGI F.P. – Sì, sì, subito dopo. Io uscii da… da ‘sta nebbia che… e subito vedevo che arrivavano tutti ‘sti… tutti chissi giacca e cravatta, tutti cu’ ‘u stesso abito, una cosa meravigliosa.
P.M. Dott. GOZZO – Ho capito. E questa cosa ebbe modo di riferirla a qualcuno?
TESTE MAGGI F.P. – No, me la sono tenuta sempre dentro, dottore.
P.M. Dott. GOZZO – Perché? C’è un motivo? Ce lo dica.
TESTE MAGGI F.P. – Non lo so, ora sta venendo fuori ‘sta cosa, perché ‘sta cosa mi… mi sta dando fastidio, perché sono stato sentito più volte e mi… mi lede la mia moralità, se permette, dottore, non… E quindi mi sono promesso a me stesso che tutto… Oggi sono qua proprio per questo.
P.M. Dott. GOZZO – Mi scusi se le faccio questa domanda (…) ma evidentemente essendo passati vent’anni io devo indagare anche sul fatto perché lei queste cose le dica oggi. Lei aveva timore a dire questo fatto?
TESTE MAGGI F.P. – No, nessun timore, solo che (…) al tempo non… non pensavo che fosse
rilevante questa cosa, trattandosi di poliziotti e carabinieri.
P.M. Dott. GOZZO – E perché oggi pensa che sia rilevante,invece?
TESTE MAGGI F.P. – E non lo so, perché ci sono molti punti oscuri. ‘Sta borsa chi l’ha trovata? Ma quante borse c’erano?
P.M. Dott. GOZZO – No, va beh, una ce n’era. Quante ce n’erano?
TESTE MAGGI F.P. – Cioè non… veramente, alle volte dico: ma è successo veramente? Cioè veramente, non… Mi sento un po’ frastornato da ‘sta storia.
P.M. Dott. GOZZO – Senta, ecco, io volevo che lei ricordasse se oltre ai Vigili del Fuoco vi erano anche delle ambulanze quando lei è arrivato.
TESTE MAGGI F.P. – Una – due sicure. (…) Si sentivano le sirene di ambulanze che arrivavano.
P.M. Dott. GOZZO – Sempre per calcolare quando lei è arrivato (…). Un’altra cosa: quando lei è arrivato, c’erano degli scoppi?
TESTE MAGGI F.P. – Sì, erano le auto parcate sempre là, nella zona, che giustamente i vetri, riscaldando, esplodevano e quindi dovevo fare pure attenzione a districarmi.
P.M. Dott. GOZZO – Senta, un’ultima cosa, scusi se ritorno di nuovo su questi fatti (…) che non sono certo piacevoli da ricordare, però per completezza lo devo fare. Quando lei si è occupato delle vittime dell’attentato, ricorda il giro che ha fatto qual è stato? Se lo ricorda, chiaramente, mi rendo conto che sono passati vent’anni, però può darsi che le sia rimasto impresso.
(…)
TESTE MAGGI F.P. – Io la prima persona che ho visto era… è stato il collega Vullo, come ho detto, all’inizio della strada, seduto sul ciglio del marciapiede, con le mani… con il capo tra le mani, che implorava, che… era sconvolto. Poi, addentrandomi, ripeto a dire che non era… cioè non era agevole andare avanti, perché il fumo era denso; anzi, più volte io mi… mi inoltravo e ritornavo, perché mi mancava l’aria, non… non mi potevo addentrare.
P.M. Dott. GOZZO – Sì, oltretutto lei ha detto che…
TESTE MAGGI F.P. – E quindi quando i vigili operavano e si diradava, io mi… a più riprese andavo avanti, fino ad inoltrarmi dentro l’androne e dall’altro lato notai il dottor Borsellino. (…) Con vicino… poi ho capito che era Catalano quello vicino (…) al dottor Borsellino.
P.M. Dott. GOZZO – Il caposcorta. Lei ha notato altri oggetti, oltre alla borsa che bruciava, all’interno dell’autovettura? Che aveva un inizio di incendio, diciamo, nell’autovettura?
TESTE MAGGI F.P. – Direi una bugia, a me attirò subito l’attenzione la borsa, perché l’ho capito subito che era la borsa del magistrato, era l’unica cosa da… da salvare là, perché non c’era più niente là da… da recuperare, e quindi mi concentrai sulla borsa. C’era un… un M12, un… è una pistola mitragliatrice, un M12.
P.M. Dott. GOZZO – Ah, c’era un’arma dentro. (…) Ma carte e cose di questo genere non le ricorda?
TESTE MAGGI F.P. – No, carte sciolte, così, no, niente. Sciolte, dico… cioè buttate lì, non ne ho notato.
P.M. Dott. GOZZO – Senta, lei è sicuro di non aver fatto relazione nell’immediatezza? Dico, non c’è nel suo ricordo di averla fatta, magari non consegnata?
TESTE MAGGI F.P. – No, dottore.
P.M. Dott. GOZZO – No, non l’ha fatta. E anche se le chiedo di ricordare qual è l’orario presunto, all’incirca, in cui la borsa arriva alla Squadra Mobile, diciamo, non lo ricorda, cioè non ha un ricordo. Non le sto chiedendo di ricostruire, quello ho cercato di farlo io; cioè se lei ha un ricordo magari sopra, dove…
TESTE MAGGI F.P. – Minuti.
P.M. Dott. GOZZO – …quando lei arriva, ha visto l’orologio e ha visto l’ora, non lo so, dico.
TESTE MAGGI F.P. – No. (…) Minuti sono passati, perché mi ricordo benissimo che ho fatto velocemente, ho lasciato la borsa e mi sono recato di nuovo sul posto. Incontrai al collega Di Franco, la borsa l’ho consegnata a lui.
P.M. Dott. GOZZO – Il collega Di Franco chi è?
TESTE MAGGI F.P. – Era l’autista quel periodo, perché mi pare che quello del dottor La Barbera era in ferie, era l’autista del dottor La Barbera (…). Entrammo assieme nella stanza del funzionario, del capo della Mobile, e la pose… sulla destra c’era un divano con delle poltrone e l’ha messa sul… sul divano. (…) Gli ho detto: “Mi raccomando di ‘sta borsa, io sto ritornando sul posto”. E lui mi fa: “Va beh, Ciccio, vai”.
P.M. Dott. GOZZO – Senta, vorrei che ritorni un attimo al momento in cui lei vede la borsa. Successivamente cosa fa, la prende lei o la prende il vigile del fuoco la borsa dall’autovettura?
TESTE MAGGI F.P. – La prende… la prende il vigile del fuoco, anche se io cerco di entrare, però… di questa cosa, ecco, non ne sono certo, ma presumo che l’ha presa lui, perché lui aveva la pompa e quindi…
P.M. Dott. GOZZO – Io glielo devo chiedere, chiaramente: ma lei il nome di questo vigile del fuoco o lo sa o non lo sa?
TESTE MAGGI F.P. – Non mi… non gliel’ho chiesto, poi ho riflettuto e ho detto: “Potevo chiedere il nome al vigile del fuoco”.
P.M. Dott. GOZZO – Ma era un giovane o una persona un po’ più avanti negli anni?
TESTE MAGGI F.P. – No, all’epoca poteva avere qualche anno più di me. (…) Nel ’92 ne avevo 36 – 37.
P.M. Dott. GOZZO – Va bene. Che lei ricordi, le venne poi… Lei ha avuto modo di parlare comunque con questo vigile del fuoco?
TESTE MAGGI F.P. – No, non… quando sono ritornato… perché avevano tutti i caschi e poi avevano la visiera, erano tutti uguali, non…
P.M. Dott. GOZZO – Tra le persone che lei ha visto sui luoghi, ricorda se vi era l’allora Onorevole Ayala, ex magistrato della Procura di Palermo?
TESTE MAGGI F.P. – Dopo, perché poi, dottore, arrivavano persone, poi, autorità da tutte le parti. Quel giorno l’ho… l’ho scorto il Giudice Ayala.
P.M. Dott. GOZZO – Ma quando lei si reca all’autovettura non c’è il Giudice Ayala o c’è?
TESTE MAGGI F.P. – Penso di no, perché, ripeto, io sono stato uno dei primi ad arrivare là. E poi in questo andirivieni, che saranno passati cinque – dieci minuti, forse pure un quarto d’ora, non riesco a quantificare i minuti, notavo questa gente giacca e cravatta che… che si avvicinava, che cercava, che… (…) In primo tempo mi volevo avvicinare a queste persone per chiedere: “Ma voi che state facendo? Che state cercando?” Poi ho visto che era gente di Roma, perché li conoscevo di vista, e ho lasciato perdere.
P.M. Dott. GOZZO – Eh, ma mi scusi, ecco, allora a questo punto esploriamo meglio questa cosa. Stavano cercando cosa? Cioè non dico che lei sapesse cosa stavano cercando, dico, ma cosa facevano?
TESTE MAGGI F.P. – No, tipo che si aggiravano in tutto… in tutta la… come vogliamo dire. (…) In tutta l’area, sì. (…) Ecco, nelle macchine parcheggiate.
P.M. Dott. GOZZO – Anche vicino a questa macchina azzurrina che lei…?
TESTE MAGGI F.P. – Certo, qualcuno si avvicinò pure là. Va beh, si avvicinarono quando il fumo già forse era un po’ meno, sennò i vestiti si sporcavano.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi forse cercavano qualche traccia, come stava facendo lei.
TESTE MAGGI F.P. – E penso di sì, essendo… essendo poliziotti pure loro. (…) Non è che gli posso dire a un collega: “Oh, ma che stai facendo? Che fai qua?” Non glielo posso dire. (…) ho detto: “Ma chissi… ma che ci avevano la radio?” Non lo so io, va’, mi sono posto questa domanda, ho detto: “Ma come mai?” E me la sono posto ora. Ai tempi non lo so perché, forse ero troppo giovane, ora, con il tempo, ‘sta cosa. (…).
P.M. Dott. GOZZO – Senta, a questo punto, visto che lei ha un ricordo abbastanza nitido, mi pare, se può specificare, ecco, adesso quante sono queste persone, se può in qualche modo quantificarle.
TESTE MAGGI F.P. – Perché arrivavano man mano, diventarono poi un esercito.
P.M. Dott. GOZZO – Allora, diciamo, nell’immediatezza lei già ha individua…?
TESTE MAGGI F.P. – Quattro o cinque potevano essere. (…) E c’era qualcuno pure che non conoscevo, ah? Solo che parlavano tra di loro e ho detto: “Mi’, su’ puru colleghi”, erano vistuti uguali, avevano ddocu ‘a spilletta, perché poi…
P.M. Dott. GOZZO – Avevano anche la spilletta di riconoscimento?
TESTE MAGGI F.P. – Penso del Ministero degli Interni o (…) dell’ufficio che facevano parte questi, non lo so.
P.M. Dott. GOZZO – Senta, riesce a descriverli, cioè a dire com’erano, insomma, che…? Oppure ha un ricordo semplicemente numerico, diciamo così?
TESTE MAGGI F.P. – Sì, grossomodo è numerico, dottore, io non… non riesco a vedere… a riconoscere i visi. Mah, statura normale, tipo la mia. (…) Non mi ricordo i volti, perché… non lo so, non mi interessava. Poi la mente elabora con il tempo, ti fai tante domande, acquisisci magari attraverso i giornali riscontri, e quindi ti fai pure tu delle domande. Dico: “Ma se la chiamata arrivò al 113, questi…” Minchia, ma erano belli freschi, proprio senza una goccia di sudore, proprio questi… proprio come se erano dietro l’angolo, non lo so io. Da chi hanno appreso la notizia questi? Dopo dieci minuti sul posto, un quarto d’ora. Vularu? Chissi di Roma vularu? Erano qua, boh! Non lo so che ci facessero a Palermo. Questo ci tengo a dirlo, eh?
(…)
P.M. Dott. LUCIANI – (…) Lei oggi ha detto che fu lei a prelevarla, dice: “Anche se non ne sono certo al 100%”. Questo, in realtà, è quello… Lei ricorda di essere stato sentito più volte, ce l’ha detto, no? su questa circostanza. (…) In realtà, nella relazione di servizio che lei ha avuto modo di visionare, lei relazionava che: “Lo stesso – sta parlando del vigile del fuoco che ha spento il principio di incendio che interessava la borsa, quindi – lo stesso, dal sedile posteriore del mezzo in questione, prelevava una borsa in pelle di colore marrone, parzialmente bruciata, il quale, dopo avergli gettato dell’acqua per spegnerla, la consegnò al sottoscritto”. Cioè in questa relazione di servizio che lei fa a dicembre in realtà sembrerebbe dire che è il vigile del fuoco che la preleva e gliela dà. Dico, facendo mente locale, io capisco che è difficile, facendo mente locale lei…
TESTE MAGGI F.P. – Dottore, sono passati ventun anni, e no perché voglio divagare, però nella mia vita sono successe troppe… troppe cose brutte.
P.M. Dott. LUCIANI – No, lo capisco, dico, per quello che è il suo ricordo, oggi qual è? Che la preleva lei o che la preleva questo vigile del fuoco? Sposta poco, ma per cercare di essere quanto più precisi.
TESTE MAGGI F.P. – Sì, sì, comprendo. Non ne sono certo al 100%, ma al 90% il mio ricordo… il vigile del fuoco, perché era lui che stava operando e quindi (…) me la passò lui.
P.M. Dott. LUCIANI – Senta, un’altra cosa, mi perdonerà se le faccio delle domande… io non ho assistito proprio ai primi cinque minuti della sua deposizione. Quando lei preleva questa borsa e la porta al dottor Fassari, il dottor Fassari dov’era fisicamente, se lo ricorda lei?
TESTE MAGGI F.P. – Il dottor Fassari era un po’ distanziato dov’è successo, dove… dove c’era tutto…
P.M. Dott. LUCIANI – Distanziato, quindi dove, verso il muro o verso via Autonomia Siciliana?
TESTE MAGGI F.P. – Verso Autonomia Siciliana. (…) Parlava via radio, era con altri funzionari.
P.M. Dott. LUCIANI – Quindi, diciamo, era quasi alla fine di via D’Amelio?
TESTE MAGGI F.P. – Sì, quasi alla fine.
P.M. Dott. LUCIANI – Poi lei ha detto al Procuratore di aver provveduto a soccorrere persone, ha ricordato l’episodio della bambina.
TESTE MAGGI F.P. – Sì, mi ricordo… mi ricordo una signora mi passò una bambina.
P.M. Dott. LUCIANI – Oh, e ha collocato questo fatto dopo la circostanza della borsa.
TESTE MAGGI F.P. – Sì, penso proprio di sì.
P.M. Dott. LUCIANI – Questo sempre, diciamo, per cercare un po’ di fare mente locale (…) il 13 ottobre del 2005 lei alla DIA dichiara questo: “Ricordo di aver prestato soccorso ad una bambina, che verosimilmente insieme ad altre persone usciva dal palazzo danneggiato e di averla accompagnata fuori della strada, ove erano le ambulanze”. Lo leggo perché da questo verbale, almeno per come è verbalizzato, sembrerebbe, invece, che questo fatto avvenga prima del fatto della borsa, perché lei dice: “Dopo che i Vigili del Fuoco hanno iniziato a spegnere i primi incendi, ricordo peraltro che si udivano anche gli scoppi, verosimilmente provocati da vetri che esplodevano a causa del calore, abbiamo iniziato a perlustrare la zona e la macchina”. Quindi, per come è verbalizzato qua, sembrerebbe che lei prima soccorre questa bambina, la porta fuori da via D’Amelio e poi si addentra e succede quello della borsa.
TESTE MAGGI F.P. – Può anche darsi che è successo prima, dottore, sono state fasi molto concitate. (…) Poi, a distanza di ventun anni, la mente… Io pure ho una certa età, sa, mi… mi sto sforzando ora, questi giorni proprio ho cercato di… di ritornare indietro nei ricordi e quindi di attingere più… più ricordi possibili.
P.M. Dott. LUCIANI – Senta, sempre per questa relazione di servizio, lei oggi ha detto: “Io sono certo che all’epoca non l’ho fatta”, e poi è stato sollecitato, come già ci ha detto, in previsione di una escussione. In realtà, nel verbale del 13… sempre di questo, del 13 ottobre del 2005, lei dichiara: “Sono certo che all’epoca ho redatto una relazione di servizio in cui ho raccontato l’episodio. Sono altrettanto sicuro che è stato redatto un verbale di sequestro, ma non so se tale atto fu redatto da me o da qualche altro collega che si occupò delle indagini”.
TESTE MAGGI F.P. – No, no, è stato redatto…
P.M. Dott. LUCIANI – Aspetti, scusi, scusi, scusi. (…) Ed è una circostanza in cui poi si torna in un successivo verbale del 3 settembre del 2007, in cui appunto le chiedono il motivo per il quale questa relazione di servizio è successiva, e lei dice: “Non ricordo assolutamente questo particolare, io ero sicuro di aver redatto qualche atto inerente la borsa nell’immediatezza dei fatti”. Ora questo è quello… per completezza, perché gliele debbo leggere tutte le dichiarazioni, questo è quello che lei dichiara il 13 ottobre del 2005 e successivamente, quindi da questi s.i.t. che lei rende, sembrerebbe che lei era sicuro di aver redatto questa relazione di servizio. In realtà, poi, quando lei viene sentito a dicembre del ’92 innanzi al dottore Cardella, lei, appunto, dice di non aver redatto la relazione di servizio, dice: “Sul momento non ho ritenuto necessario redigere relazione scritta, del
resto, data la concitazione degli eventi, devo dire che non ho nemmeno pensato a farla. Poi non ho più pensato all’opportunità di fare relazione, fino a quando non sono stato citato”.
TESTE MAGGI F.P. – Sì, perché partirono subito (…) le indagini, dotto’, quel… quell’atto lì mi sfuggì, non… infatti il dottore La Barbera mi fece proprio una lavata di testa, dice: “Ma…”
P.M. Dott. LUCIANI – Ma questa è una circostanza che ha ricordato dopo? Perché nel 2005, quando viene sentito, lei dice: “Ma io sono certo di averla fatta ‘sta relazione di servizio”.
TESTE MAGGI F.P. – Mi sono contraddetto (…). Comunque è chiaro che non l’ho fatta nell’immediatezza, di questo ne sono certo; è stata fatta cinque mesi dopo.
P.M. Dott. LUCIANI – E conferma che gliela chiese il dottore La Barbera?
TESTE MAGGI F.P. – Sì, sì, e infatti…
P.M. Dott. LUCIANI – E lei la consegnò poi al dottore La Barbera questa relazione anche?
TESTE MAGGI F.P. – Sì.
P.M. Dott. LUCIANI – Al dottor La Barbera, parliamo di Arnaldo La Barbera, chiaramente.
TESTE MAGGI F.P. – Arnaldo La Barbera.
P.M. Dott. LUCIANI – Senta, per tornare al tempo che trascorre, diciamo, tra quando lei arriva e quando poi lei agisce sull’autovettura prelevando la borsa, lei in questo verbale sempre del 2005, il 13 ottobre, dice: “Ritengo che nel periodo in questione…” quindi il periodo che trascorre tra quando lei arriva in via D’Amelio, fa tutte quelle operazioni di cui ha detto e poi arriva e prende la borsa, dice: “Ritengo che nel periodo in questione siano trascorsi circa dieci minuti”. Poi, in un verbale successivo, lei specifica questo, ridice tutto quello che ha fatto da quando è arrivato in via D’Amelio fino a quando poi è arrivato alla Squadra Mobile e ha depositato la borsa, ma dice: “Come ho detto nelle mie precedenti dichiarazioni, per me questo è stato un tempo abbastanza breve, tanto che ho indicato in circa dieci minuti dopo il mio arrivo e il rinvenimento della borsa, ma chiaramente di ciò non può essere certo. La situazione disastrosa sui luoghi che inizialmente non ci ha consentito di entrare in via D’Amelio e l’attività di soccorso da me svolta subito dopo, non mi consentono di individuare con certezza l’ora del rinvenimento della borsa e di conseguenza
l’ora in cui sono arrivato alla Squadra Mobile. Posso ribadire che quando ho prelevato la borsa, il grosso dell’incendio era stato spento, ma vi era ancora qualche focolaio, uno dei quali interessava anche l’auto blindata che conteneva la borsa”. Quindi le volevo chiedere se conferma queste indicazioni che lei aveva dato all’epoca.
TESTE MAGGI F.P. – Sì, confermo questo.
P.M. Dott. LUCIANI – Cioè il fatto che aveva indicato in dieci minuti come un tempo di massima, però circostanza della quale lei non può essere certo, ecco.
TESTE MAGGI F.P. – Sì.
P.M. Dott. LUCIANI – Senta, l’ultima cosa: le vorremmo mostrare, a questo punto… Lei poi sa che esito ebbe questa…? Cioè lei dice: “Io l’ho portata alla Squadra Mobile”. E poi lei ha avuto più modo di vederla questa borsa successivamente?
TESTE MAGGI F.P. – No, questa borsa non mi è stata più mostrata.
P.M. Dott. LUCIANI – Ma negli uffici della mobile lei l’ha più vista poi, nel periodo successivo? Sa che fine ha fatto?
TESTE MAGGI F.P. – No, dottore, e che fa, andavo a vedere la borsa? Non c’è stato modo di… (…) Non l’ho vista più la borsa.
P.M. Dott. LUCIANI – Quindi da quando lei poi la mette, diciamo, nell’ufficio del dottore La Barbera, lei non l’ha più vista questa borsa in epoca successiva. E’ corretto?
TESTE MAGGI F.P. – Sì. A me poi mi è stata mostrata, mi scusi, dottore.
(…)
P.M. Dott. LUCIANI – Ecco, e allora visto che le è stata mostrata per foto, gliela rimostriamo anche oggi. Si tratta, Presidente, dello stesso album fotografico che abbiamo mostrato al dottore Cavaliero. (…) Esatto, che peraltro è allegato proprio ad un verbale di sommarie informazioni rese dal teste il 13 ottobre 2005.
PRESIDENTE – Sì, va bene, può essere esibito, sì.
TESTE MAGGI F.P. – Sì, presumibilmente la borsa è questa. Però la borsa, io devo essere proprio… proprio sincero proprio al massimo, devo… non era piegata così, la borsa era bella piena. Non lo so se ‘sta foto se è stata fatta con la borsa piena e la borsa vuota.
P.M. Dott. LUCIANI – No, va beh, credo che sia stata fatta in epoca successiva. Comunque la differenza che lei nota qual è?
TESTE MAGGI F.P. – Che è sgonfia.
P.M. Dott. LUCIANI – E invece quando lei la prende è piena?
TESTE MAGGI F.P. – Era bella… bella…
P.M. Dott. LUCIANI – Senti, ma (…) per quella che è stata la sua percezione, visto che ha dichiarato di non averla aperta, questo suo essere piena dipendeva dal contenuto della borsa o dal fatto che la borsa fosse stata attinta dall’acqua?
TESTE MAGGI F.P. – No, penso dal contenuto della borsa. Eh, e quanta acqua…? Avrà fatto in tempo a… ad assorbire tutta ‘st’acqua? (…) No, ma una borsa di questa per riempirsi d’acqua deve stare a bagno cinque ore, dottore, impossibile.
P.M. Dott. LUCIANI – Quindi la sua percezione era che fosse piena per il contenuto.
TESTE MAGGI F.P. – Sì, c’era il materiale all’interno, sì.
P.M. Dott. LUCIANI – Per il materiale che c’era all’interno.
TESTE MAGGI F.P. – Sì. Una borsa buona, di cuoio.
(…)
AVV. FARACI – Una domanda di precisazione, se naturalmente riesce a collocarlo nel tempo. Lei, facendo uno sforzo di memoria, può dirci se incontrò o se pensa di avere incontrato il dottor Ayala prima che lei prelevava la borsa o dopo?
TESTE MAGGI F.P. – Penso dopo, dopo l’ho incontrato.
AVV. FARACI – Dopo quanti minuti?
TESTE MAGGI F.P. – Eh, non riesco. Quando si tratta di minuti, veramente, io mi sforzo di… ma vi giuro che è impossibile, un evento di quello quantificare i minuti, quanto passa.
AVV. FARACI – E lo capisco. (…) Ma se ricorda, dopo che portò la borsa in Questura e tornò?
TESTE MAGGI F.P. – Alla Mobile l’ho portata.
AVV. FARACI – Alla Mobile. Cioè incontrò il dottor Ayala dopo aver portato la borsa…?
TESTE MAGGI F.P. – No, l’ho incontrato prima che io portassi la bora.
AVV. FARACI – Quindi l’aveva in mano lei questa borsa?
TESTE MAGGI F.P. – No, l’ho data al funzionario. Poi sono passati un po’ di minuti e dice: “Dai, forza, piglia ‘sta borsa e portala alla Mobile”. Perché io la borsa al funzionario, e a me non mi compete; ho rinvenuto questo, metto a conoscenza il mio diretto superiore, così a me mi hanno insegnato, perciò… attendevo disposizioni da lui, io, da sempre, mai preso iniziativa.
(…)
AVV. CRESCIMANNO – E la borsa, se non ho sentito male, non l’ha prelevata lei direttamente.
TESTE MAGGI F.P. – Di questa cosa non… non ne sono molto certo. Io sono sicuro che mi sono pure abbassato, cioè chinarmi come se… se volessi entrare nell’abitacolo, però non sono sicuro se il gesto di allungare la mano l’ha fatto lui, perché tutti e due contemporaneamente, assieme al vigile del fuoco, e me l’ha passata lui, di questo non ne sono…
AVV. CRESCIMANNO – E che la portiera posteriore di destra fosse chiusa, lei ne ha un ricordo o…?
TESTE MAGGI F.P. – Era aperta.
AVV. CRESCIMANNO – Quella di…
TESTE MAGGI F.P. – Di questo ne sono proprio…
AVV. CRESCIMANNO – No, scusi…
TESTE MAGGI F.P. – Qua al 100%
AVV. CRESCIMANNO – No, mi scusi, io le ho chiesto della portiera posteriore destra, non quella sinistra, lei ha già detto che era aperta.
TESTE MAGGI F.P. – No, quella posteriore destra era chiusa.
AVV. CRESCIMANNO – Era chiusa.
TESTE MAGGI F.P. – Quella aperta era quella sinistra.
G
Quegli uomini dei servizi segreti
Un altro contributo alla ricostruzione della vicenda in esame, difficilmente compatibile con tutti quelli sopra analizzati, veniva fornito con la deposizione (in parte già anticipata) di Francesco Paolo Maggi, Sovrintendente della Polizia di Stato, in servizio alla Squadra Mobile di Palermo.
Il poliziotto era uno dei primissimi rappresentanti delle forze dell’ordine ad intervenire in via D’Amelio ed arrivava sul posto, con il funzionario di turno (dottor Fassari della Sezione Omicidi), con l’automobile di servizio (fondendone il motore), appena una decina di minuti dopo la deflagrazione.
Al momento del suo arrivo, il poliziotto notava l’Agente Antonio Vullo, unico superstite fra gli appartenenti alla scorta del dottor Paolo Borsellino, in evidente stato di shock, seduto sul marciapiede, con il capo fra le mani. Il poliziotto, dunque, confidando di poter trovare qualcun altro ancora in vita, si faceva strada fra i rottami, entrando nella densa colonna di fumo che avvolgeva i relitti, mettendo un panno bagnato sul naso. Purtroppo, era subito evidente che non c’era più nulla da fare, né per il Magistrato, né per gli altri colleghi della scorta: i corpi, infatti, erano tutti carbonizzati ed orrendamente mutilati. I resti del dottor Paolo Borsellino erano riconoscibili solo dai tratti somatici del viso e dai baffi. I resti di Claudio Traina erano finiti addirittura sull’albero rampicante che si trovava all’ingresso dello stabile di via D’Amelio, mentre Eddie Walter Cosina era carbonizzato dentro l’automobile. I resti di Emanuela Loi erano riconoscibili unicamente per un seno rimasto intatto, mentre i resti delle altre due vittime della Polizia di Stato, vale a dire Agostino Catalano e Vincenzo Li Muli erano irriconoscibili.
Il Sovrintendente Maggi si metteva alla ricerca di eventuali tracce o reperti, anche scavalcando un muretto di recinzione posto alla fine (del lato chiuso) della via D’Amelio. Nel frattempo, le ambulanze prestavano i soccorsi ai feriti ed i Vigili del Fuoco spegnevano i focolai d’incendio. Uno di questi interessava proprio la Croma blindata del Magistrato.
Mentre si diradava il fumo, si potevano notare quattro o cinque persone, vestite tutte uguali, in giacca e cravatta, che si aggiravano nello scenario della strage, anche nei pressi della predetta blindata: si trattava, a dire del teste (come già anticipato nel precedente paragrafo), di appartenenti ai Servizi Segreti, alcuni dei quali conosciuti di vista da Maggi e già notati a Palermo, presso gli uffici del Dirigente della Squadra Mobile, anche in occasione delle indagini sulla strage di Capaci (come detto, la circostanza, prima della deposizione dibattimentale era assolutamente inedita, nonostante le diverse audizioni precedenti del teste, in fase d’indagine preliminare).
Un vigile del fuoco, non meglio identificato (dell’età di circa quarant’anni), seguendo le disposizioni di Maggi, spegneva il focolaio d’incendio che interessava la Fiat Croma blindata, che aveva già lo sportello posteriore sinistro aperto. Il fuoco cominciava ad attingere anche la borsa che era all’interno dell’abitacolo, in posizione inclinata, fra il sedile anteriore del passeggero e quello posteriore. La borsa, bruciacchiata ma integra, veniva prelevata (quasi sicuramente) dal predetto vigile del fuoco, che la passava a Maggi. Nei pressi non vi era il dottor Giuseppe Ayala (pure notato e riconosciuto dal teste, prima di allontanarsi dalla via D’Amelio). Il poliziotto poteva constatare che la borsa era piena, anche se non ne controllava il contenuto all’interno. Maggi consegnava la borsa al proprio superiore gerarchico, rimasto all’inizio della Via D’Amelio (lato via Dell’Autonomia Siciliana) a comunicare, via radio, con gli altri funzionari. Quest’ultimo funzionario (trattasi del menzionato dottor Fassari della Sezione Omicidi) teneva la borsa del Magistrato fino a quando, ad un certo punto, rivedendo il sottoposto, gli ordinava di portarla subito negli uffici della Squadra Mobile (“Ancora qua sei? -dice- Piglia ‘sta borsa e portala alla Mobile”). Così faceva il Maggi, che la portava dentro l’ufficio del dottor Arnaldo La Barbera (dove entrava con l’aiuto dell’autista del dirigente), lasciandola sul divano dell’ufficio.
Si riporta, qui di seguito, uno stralcio della relativa deposizione, dalla quale risulta anche che la relazione di servizio sulla propria attività di polizia giudiziaria (come appena visto, tutt’altro che secondaria), veniva redatta soltanto 5 mesi più tardi, su esplicita richiesta del dottor Arnaldo La Barbera ed unicamente in vista dell’audizione (pochi giorni dopo) del teste davanti al Pubblico Ministero di Caltanissetta, dottor Fausto Cardella:
P.M. Dott. GOZZO – Sovrintendente, perfetto. Le volevo chiedere se lei ebbe modo, il 19 luglio del 1992, di intervenire presso via D’Amelio.
TESTE MAGGI F.P. – Sì, le spiego: io quel giorno non dovevo lavorare, mi hanno chiesto un turno di servizio perché periodo di ferie e quindi ho acconsentito a questa cosa. Mi trovavo negli uffici dove noi espletavamo servizio normalmente, a disposizione del funzionario di turno, di…
P.M. Dott. GOZZO – Quindi stiamo parlando, mi scusi, degli uffici della Squadra Mobile di Palermo?
TESTE MAGGI F.P. – Della Squadra Mobile di Palermo. Ora non ricordo bene l’orario, all’incirca è quello che sappiamo tutti, la… quando sono successi i fatti. Ho sentito un po’ di trambusto e quindi… la cosa era abbastanza grave, perché c’erano colleghi abbastanza concitati, chi
correva a destra. Io, così, istintivamente presi le chiavi e mi recai subito a prendere il funzionario di turno; quel giorno era il dottor Fassari della Sezione Omicidi, e subito mi recai sul posto, presi contatto con la Sala Operativa, gli dissi che avevo il funzionario a bordo e quindi mi portavo in via… in via D’Amelio. Avrò messo pochissimo, Signor Presidente, ora non riesco a quantificare, fatto sia che il Ministero addirittura mi voleva addebitare l’auto, in quanto ho bruciato il motore e quindi… saranno passati minuti, non… Arrivato, giunto sul posto, notai subito che c’erano i Vigili del Fuoco che già stavano operando, una coltre di fumo e ancora vetri che… che saltavano in aria, macchine andate a fuoco. Mi addentrai per vedere, cioè, se c’era qualcosa da fare; subito mi sono reso conto che per i colleghi purtroppo non c’era niente da fare e mi misi alla ricerca subito di prove, di qualche indizio che poteva servire. Non potendo fare altro, feci quello; solo che lo feci in più riprese, perché il fumo era così denso che non mi permetteva di permanere molto tempo sul posto e quindi trovai uno straccio, lo bagnai e mi feci spazio. Arrivato a un certo punto, notai… presumo che era l’auto del magistrato, una Croma azzurra. I miei ricordi sono sfuocati, la mia relazione di servizio al tempo è abbastanza dettagliata.
P.M. Dott. GOZZO – Eh, ma siccome non si può acquisire, io, Presidente, chiederei, visto che è una nota a firma proprio del… del 21 dicembre ’92, di mostrarla al teste.
P.M. Dott. GOZZO – Perfetto. E allora, la prima domanda che le vorrei fare, perché adesso vorrei che… lei già ha dato, diciamo così, una prima descrizione dei fatti come li ricorda. Io le volevo chiedere, ma è un dato, diciamo, che salta agli occhi: questa nota ha una data, che è quella del 22 dicembre del 1992, stiamo parlando del 21 dicembre 1992, stiamo parlando, quindi, di -mi scusi- cinque mesi dopo i fatti. Può specificare alla Corte per quale motivo venne fatta questa relazione (….) tutto questo tempo dopo?
TESTE MAGGI F.P. – …al momento poi io subentrai a far parte del gruppo di lavoro Falcone – Borsellino, che è stato instaurato. ‘Sta relazione non so perché non… non la feci al momento, l’ho fatta successivamente e la consegnai al dottor La Barbera personalmente, il capo della…
P.M. Dott. GOZZO – Ecco, infatti, questa è un’altra cosa che le volevo chiedere: la relazione è diretta al signor dirigente della Squadra Mobile sede. Ebbe una richiesta in questo senso da parte del dottore La Barbera?
TESTE MAGGI F.P. – Una richiesta in che senso? Mi scusi.
P.M. Dott. GOZZO – Una richiesta di redigere dopo tutti questi mesi, insomma…
TESTE MAGGI F.P. – Sì, magari lui si… si incavolò su questa cosa, dice: “Come mai ancora non l’hai fatta la relazione?” “Dottore, fra una cosa e un’altra mi… non l’ho fatta”, mi… mi giustificai così.
P.M. Dott. GOZZO – E si ricorda, appunto, quali erano i motivi per cui le venne chiesta la relazione? Si ricorda se in quei giorni…?
TESTE MAGGI F.P. – E perché dovevo essere sentito a… al tempo mi sentì il dottor Garofalo, mi pare, se non…
P.M. Dott. GOZZO – Il dottore Cardella.
TESTE MAGGI F.P. – Cardella, mi scusi, Cardella.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi doveva essere sentito il 29 dicembre dal dottore Cardella. (…) Quindi fu questo il motivo.
TESTE MAGGI F.P. – Sì, sì.
P.M. Dott. GOZZO – E il dottore La Barbera lo sapeva, evidentemente, e quindi…
TESTE MAGGI F.P. – Sì, esatto.
P.M. Dott. GOZZO – …le chiese di fare questa relazione.
TESTE MAGGI F.P. – Sì.
P.M. Dott. GOZZO – Senta, lei ricorda… ecco, lei già ha riferito su quello che ricordava oggi, diciamo, relativamente a quello che le venne detto quando avvenne lo scoppio. Lei ricorda, in particolare, se venne detto dove vi era stato questo scoppio? Subito, diciamo così.
TESTE MAGGI F.P. – No, subito no, lo appresi tramite… tramite radio, dando la mia sigla radio, ho chiesto più… più informazioni alla Sala Operativa e… mi specificò che c’era stata una deflagrazione, si presume che fosse la scorta del dottore Borsellino.
P.M. Dott. GOZZO – Ma visto che lei si è recato a prendere il dottore Fassari, doveva avere un’idea su dove recarsi. (…) Dico, è sicuro? E’ sicuro, e per questo. (…) a suo ricordo, la invito a leggere la sua relazione, che inizialmente non venisse riportata, anche se genericamente, la zona in cui era avvenuta l’esplosione?
TESTE MAGGI F.P. – Sì, qua io lo menziono che lo apprendevo dalla Sala Operativa che…
(…) Via Autonomia Siciliana.
P.M. Dott. GOZZO – Via Autonomia Siciliana, perfetto. Poi, successivamente, in macchina apprendeste di via D’Amelio.
TESTE MAGGI F.P. – E’ chiaro, sì.
P.M. Dott. GOZZO – Avete appreso proprio che si trattava di via D’Amelio.
TESTE MAGGI F.P. – Sì, sì.
P.M. Dott. GOZZO – Senta, e quand’è che ha avuto la consapevolezza che si trattava, ecco, di una blindata, che si trattava di un magistrato, che si trattava del dottore Borsellino e degli uomini della scorta del dottore Borsellino?
TESTE MAGGI F.P. – Subito, subito, nell’immediatezza, quando sono arrivato.
P.M. Dott. GOZZO – Cioè che cosa attirò la sua attenzione?
TESTE MAGGI F.P. – Io quando… quando arrivai sul posto, ho visto davanti all’ingresso del… dell’edificio dei corpi smembrati; tutti i corpi presentavano mutilazioni sia degli arti superiori che degli arti inferiori, a terra c’erano solo tronchi. Riconobbi subito il dottor Borsellino, perché i dati somatici del viso erano rimasti intatti, anche se il corpo era carbonizzato lo riconoscevo, l’ho riconosciuto dai baffetti, e quindi senza ombra di dubbio ho riconosciuto il dottor Borsellino. I colleghi un po’ meno, erano più dilaniati.
P.M. Dott. GOZZO – Sì. Lei poco fa ha detto, appunto, che la prima cosa che ha fatto non appena è arrivato, prima di tutto ha visto i Vigili del Fuoco che già spegnevano…
TESTE MAGGI F.P. – Prima… prima mi accertavo che… di quello che era successo, se c’era ancora qualche… qualcuno che bisognava aiuto, che… subito dopo mi sono reso conto che per i colleghi non c’era… e per il dottore non c’era più niente da fare.
P.M. Dott. GOZZO – Ma erano già presenti i Vigili del Fuoco?
TESTE MAGGI F.P. – Mi pare… erano presenti, un’autopompa già era presente quando sono arrivato.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi quando lei è arrivato, anche per collocare temporalmente, diciamo, il suo arrivo, erano arrivati già i Vigili del Fuoco.
TESTE MAGGI F.P. – Sì, un’autopompa me la ricordo benissimo.
P.M. Dott. GOZZO – Perfetto. Ricorda se c’erano delle Volanti presenti, oltre a voi?
TESTE MAGGI F.P. – Questo non lo so, non glielo so dire, dottore, perché io, come ripeto, mi sono proiettato immediatamente sul posto dove è successo l’attentato e quindi davanti a me… cioè cercavo solo tracce e non… Subito dopo che…
P.M. Dott. GOZZO – Perfetto. E allora, andiamo su queste cose, anche per cercare di quantificare il periodo di tempo che lei ha speso, diciamo, prima di arrivare sulla macchina del Procuratore Aggiunto Borsellino. Nella fattispecie le volevo chiedere: quindi, lei ha detto che la prima cosa che ha fatto è verificare se c’erano, appunto (…) le condizioni dei colleghi. Anche perché
c’era un collega vivo lì presente, lei lo ricorda?
TESTE MAGGI F.P. – Sì, era… era all’ingresso del… di via D’Amelio, con le mani giunte sul capo, seduto sul marciapiede, sconvolto, non… Non mi sono preoccupato di fargli domande, perché ho capito lo stato in cui versava e quindi (…) non c’ho fatto caso. Cioè ho riconosciuto il collega Vullo, però ho tirato avanti e…
P.M. Dott. GOZZO – E quindi ha fatto questa prima verifica sui corpi. Li ha rinvenuti tutti? Cioè…
TESTE MAGGI F.P. – Mancava solo Traina, perché era rimasto attaccato, quel che restava del collega, in un albero; forse era un rampicante che adornava l’ingresso dell’edificio, era…
P.M. Dott. GOZZO – Quindi, diciamo, non vorrei sembrare macabro, ma è sempre per calcolare il tempo necessario. (…) Lei è riuscito a trovare sei corpi.
TESTE MAGGI F.P. – Sì, gli altri… Cosina era dentro l’auto, carbonizzato, mi ricordo. Poi c’era Manuela Loi che a terra era proprio… l’ho riconosciuta che era rimasto un seno intatto e ho capito che si trattava della ragazza. Gli altri, Catalano e gli altri, non… non riuscivo a distinguerli; ho riconosciuto il dottore Borsellino, come gli ho detto, che il viso proprio era… era solo carbonizzato, però si vedeva che era il dottore Borsellino, dai dati somatici, ecco.
P.M. Dott. GOZZO – Senta, per riuscire a comprendere: in tutto questo lei seguiva il dottore Fassari oppure era per i fatti suoi?
TESTE MAGGI F.P. – No, il dottor Fassari l’ho perso di vista, perché il dottor Fassari aveva acciacchi. Io mi… mi sono dato molto da fare, non… non so che fine ha fatto il dottor Fassari. (…) Ah, faccio una premessa: subito dopo il mio istinto mi ha portato… via D’Amelio è una strada chiusa, confina con un giardino. Qualcosa mi faceva dire che se… qualcuno che aveva progettato tutto questo fosse ancora là e quindi, così, magari inconsciamente, magari subito dopo mi sono reso conto di quello che stavo facendo. Mi sono addentrato pure dentro il giardino, a rischio e pericolo mio; poi sono ritornato sui miei passi, sono ritornato ancora sul posto dell’accaduto, dell’attentato.
P.M. Dott. GOZZO – E ha visto qualcosa di interessante all’interno del giardino?
TESTE MAGGI F.P. – Non ho visto niente, anche perché la vegetazione era fitta, c’erano spine, non mi permetteva più di andare avanti.
P.M. Dott. GOZZO – Mi scusi se a questo punto intervengo su questo punto, ma il cancello era aperto? Quindi lei è riuscito ad entrare.
TESTE MAGGI F.P. – Non lo so, perché io ho scavalcato una recinzione, mi sono strappato il pantalone. (…) non sono entrato da un ingresso.
P.M. Dott. GOZZO – Glielo chiedo perché nelle fotografie il cancello appare aperto, quindi volevo capire se lei aveva (…) Se lei mi dice che ha scavalcato (…) evidentemente non era aperto. Ricorda
anche se c’era un muro oltre al cancello? Forse è passato dal muro.
TESTE MAGGI F.P. – Sì, mi pare che c’è un muro di contenimento.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi forse sarà passato da là.
TESTE MAGGI F.P. – Non sono sicuro, ma mi pare… mi sembra di sì.
P.M. Dott. GOZZO – Senta, quindi, per riuscire a comprendere, lei arriva quando ci sono già i Vigili del Fuoco, quindi siamo…
TESTE MAGGI F.P. – Sì, sì.
P.M. Dott. GOZZO – Questo lo data, da quello che sono le sue conoscenze (…) una decina di minuti dopo il fatto. (…) Già stavano spegnendo, quindi forse qualcosa di più.
TESTE MAGGI F.P. – Stavano spegnendo le auto.
P.M. Dott. GOZZO – E poi ha visto tutte queste persone, quindi aggiungo un’altra… Quindi possiamo dire che a questo punto siamo a circa venti minuti dal fatto e lei comincia a verificare che cosa c’è…
TESTE MAGGI F.P. – Qualche minuto prima, un quarto d’ora. Eh, ma ero
molto concitato io, non (…) tutto quello che… che mi si mostrava agli occhi era una cosa proprio…
P.M. Dott. GOZZO – Sconvolgente.
TESTE MAGGI F.P. – Sì. (…) Ma io in quel momento cercavo un qualcosa di utile, perché non c’era più niente da fare là, e l’unica cosa era la ricerca di prove, di indizi, di qualcosa, va’.
P.M. Dott. GOZZO – Senta, e quindi dopo avere cercato, diciamo così, i colleghi e il magistrato che erano state vittime di questo fatto, lei che cosa ha fatto?
TESTE MAGGI F.P. – Sì, ho visto il… il vigile del fuoco che stava spegnendo l’auto, l’auto azzurra, presumo che era quella del magistrato.
P.M. Dott. GOZZO – Si ricorda dov’erano le fiamme? Cosa stava spegnendo?
TESTE MAGGI F.P. – Già era quasi spenta l’auto, perché già l’aveva domato.
P.M. Dott. GOZZO – Ricorda se la macchina era aperta o era chiusa?
TESTE MAGGI F.P. – Sì, la portiera era aperta.
P.M. Dott. GOZZO – Quale era aperta?
TESTE MAGGI F.P. – Sennò non potevo vedere la borsa.
P.M. Dott. GOZZO – Quale portiera era aperta?
TESTE MAGGI F.P. – Lato sinistro, lato di… del guidatore, posteriore… no, sinistro, sì.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi non quello del guidatore, l’altro sarebbe quello di sinistra.
TESTE MAGGI F.P. – Sì, quello… quella dietro, la portiera dietro. (…) E scorsi la borsa. Gli dissi ai Vigili del Fuoco di indirizzare… siccome era fumante, quella borsa mi sembrò l’unica cosa che potevo recuperare.
P.M. Dott. GOZZO – Dov’era posizionata la borsa esattamente? Se lo ricorda.
TESTE MAGGI F.P. – La borsa non era posizionata come di solito uno entra in auto e poggia la borsa e la fa poggiare nello schienale; la borsa era riversa di mezzo lato tra il sedile anteriore e posteriore, come se fosse caduta la borsa, inclinata.
P.M. Dott. GOZZO – (…) Senta, quindi poi, effettivamente,il vigile del fuoco bagnò la…?
TESTE MAGGI F.P. – Sì, sì, seguì le mie indicazioni.
P.M. Dott. GOZZO – Lei ricorda se la borsa era vuota, piena? Come le sembrava?
TESTE MAGGI F.P. – La borsa, sì, già mi è stata fatta più volte quella (…) La borsa era piena, sicuramente, e abbastanza pesante, perché questo me lo ricordo, va’, non è che… è normale che me lo ricordo. La borsa, sì, conteneva materiale all’interno.
P.M. Dott. GOZZO – Conteneva materiale all’interno. Lei ha avuto modo di aprirla?
TESTE MAGGI F.P. – No, non… non mi è passato, dottore, perché a me mi interessava nell’immediatezza, cioè, recuperare la borsa e quindi avvertire
il funzionario che… del rinvenimento della borsa, e poi prodigarmi assieme agli altri a prestare sempre là assistenza a chi… C’erano persone che sgombravano, bambini, mi trovai con un neonato in mano, gente che urlava, si può immaginare le scene. (…) Una bambina di… di un paio di mesi, io l’avevo in braccio, l’ho portata all’ambulanza.
P.M. Dott. GOZZO – Questo prima o dopo la borsa? Se lo ricorda.
TESTE MAGGI F.P. – Dopo la borsa.
P.M. Dott. GOZZO – Dopo. E’ sicuro di questo?
TESTE MAGGI F.P. – Sì, perché poi fui avvicinato dal funzionario, dice: “Ancora qua sei? – dice – Piglia ‘sta borsa e portala alla Mobile”.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi lei aveva avuto modo di interloquire sul fatto della borsa con il funzionario?
TESTE MAGGI F.P. – Sì.
P.M. Dott. GOZZO – E che cosa vi siete detti, diciamo, relativamente alla borsa?
TESTE MAGGI F.P. – Niente, e… di portare la borsa alla Mobile e consegnarla al… all’ufficio del dottore La Barbera.
P.M. Dott. GOZZO – Fu una disposizione del funzionario di non aprire la borsa e di portarla immediatamente in…?
TESTE MAGGI F.P. – No, non ci furono disposizioni in tal senso, ma a me non mi… non mi passava proprio per la testa di aprirla, non…
P.M. Dott. GOZZO – Sì. Senta, e una volta che lei poi si è… Quindi, se ho capito bene, mi corregga se sbaglio, la successione degli eventi, voi arrivate quando ci sono già i Vigili del Fuoco in operazione; lei prima vede i corpi, poi vede la borsa.
TESTE MAGGI F.P. – Sì.
P.M. Dott. GOZZO – Poi la bambina e poi Fassari le dice: “Ma ancora qua sei? Vai”.
TESTE MAGGI F.P. – Sì, sì.
P.M. Dott. GOZZO – A questo punto lei va via, quindi, diciamo, siamo all’incirca mezz’ora – tre quarti d’ora dopo l’evento, diciamo. (pagg 908-939)
La testimonianza dell’appuntato
Parzialmente divergente rispetto alle predette deposizioni del giornalista Felice Cavallaro e del dottor Giuseppe Ayala, anche sulla durata della permanenza di quest’ultimo in via D’Amelio, oltre che su diversi altri particolari, tutt’altro che secondari, si rivela la deposizione del Carabiniere che faceva da capo scorta ad Ayala, quel pomeriggio, vale a dire l’Appuntato Rosario Farinella.
Il Carabiniere, infatti, ricordava che, subito dopo la deflagrazione, quando si muovevano, con l’automobile blindata, dal residence ‘Marbella’, per andare ad accertarsi dell’accaduto, parcheggiando poi all’incrocio fra la via dell’Autonomia Siciliana e la via D’Amelio, Ayala faceva presente che in quella strada abitava la madre di Paolo Borsellino (circostanza che contrasta con quanto affermato dallo stesso Ayala, in merito al fatto che, prima della strage, non era al corrente della circostanza appena menzionata). Dopo il riconoscimento dei resti di Paolo Borsellino e delle altre vittime, il militare si recava presso la Croma blindata, unitamente ad Ayala, che non perdeva mai di vista. Vi era qualche fiammata dal lato posteriore destro ed un vigile del fuoco la spegneva. Poi, Farinella e il vigile del fuoco aprivano la portiera posteriore destra della Croma, forzandola, poiché Ayala si accorgeva che dentro vi era la borsa di Paolo Borsellino.
Lo stesso Farinella, inoltre, prelevava direttamente la borsa dal sedile posteriore e, dopo un certo lasso di tempo in cui la teneva in mano, su indicazione di Ayala, la consegnava ad una persona -in abiti civili- conosciuta dal Parlamentare (anche questo ricordo del teste contrasta decisamente con quanto affermato da Ayala ed anche da Cavallaro, in merito alla consegna della borsa ad un ufficiale in uniforme, neppure conosciuto). Il soggetto che riceveva la borsa non era Giovanni Arcangioli (la cui fotografia veniva mostrata al teste) ed era una persona (si ripete) conosciuta da Ayala. Quest’ultimo spiegava al consegnatario che si trattava della borsa del Magistrato (“Questa è la borsa che abbiamo preso della macchina del dottore Borsellino”) e veniva rassicurato dall’interlocutore, prima che questi s’allontanasse verso via dell’Autonomia Siciliana (“lo stesso ci rassicurò, dicendo che si sarebbe occupato della cosa, per cui gli consegnai la borsa”).
Si riporta, qui di seguito, uno stralcio della deposizione:
P.M. Dott. GOZZO – Sì, buonasera, appuntato, buongiorno. Le volevo fare in primo luogo la domanda specifica, diciamo, orientiamoci nel tempo e nello spazio: lei dove prestava servizio il 19 luglio del 1992?
TESTE FARINELLA R. – Ero in servizio al Nucleo Radiomobile di Palermo, però in servizio provvisorio presso le scorte di Palermo. (…) Scortavo il dottor Ayala.
P.M. Dott. GOZZO – Seguiva, quindi, il dottor Ayala. Si ricorda se in particolare proprio il giorno 19 luglio del 1992 lei era in servizio di scorta al dottor Ayala?
TESTE FARINELLA R. – Sì, come caposcorta.
P.M. Dott. GOZZO – Come caposcorta. Nella fattispecie, nel momento in cui… lei dove si trovava nel momento della strage, diciamo al momento dello scoppio?
TESTE FARINELLA R. – Circa cinquanta metri, cento metri in linea d’aria, eravamo all’hotel Marbella, se ricordo male. (…) Perché la personalità abitava lì.
P.M. Dott. GOZZO – La personalità abitava là. Quindi stavate aspettando la personalità, doveva scendere?
TESTE FARINELLA R. – Sì.
P.M. Dott. GOZZO – Cosa avete fatto subito dopo lo scoppio?
TESTE FARINELLA R. – Subito l’abbiamo avvisato e abbiamo capito che veniva il fumo di là. Lui diceva che là ci abitava la… la mamma e siamo andati subito lì.
P.M. Dott. GOZZO – La mamma di chi?
TESTE FARINELLA R. – Del Giudice Borsellino.
P.M. Dott. GOZZO – Dunque il dottor Ayala sapeva di questo fatto.
TESTE FARINELLA R. – Sì.
P.M. Dott. GOZZO – Una cosa le volevo chiedere: se ci può descrivere, se può descrivere alla Corte, che potrebbe anche non saperlo, quanto dista l’hotel Marbella da via D’Amelio.
TESTE FARINELLA R. – In linea d’aria nemmeno cento metri, perché deve passare la ferrovia, il palazzo e quello.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi nel momento in cui il dottore Ayala ha ricostruito che poteva essere il dottore Borsellino la vittima dell’attentato, perché diceva…
TESTE FARINELLA R. – No, no, no.
P.M. Dott. GOZZO – Cioè che, insomma, proveniva comunque dai pressi…
TESTE FARINELLA R. – Proveniva di là.
P.M. Dott. GOZZO – Cosa avete fatto?
TESTE FARINELLA R. – Mica avevamo la sfera magica.
P.M. Dott. GOZZO – Cosa avete fatto?
TESTE FARINELLA R. – Niente, ci siamo portati su quella parte e poi siamo entrati; non potevamo entrare, perché siamo entrati i primi di tutti quasi là, perché eravamo vicino. Siamo arrivati contemporaneamente ai Vigili del Fuoco, quindi nemmeno potevamo entrare con le fiamme che c’erano.
P.M. Dott. GOZZO – Può quantificare all’incirca quanto tempo era passato dall’esplosione che lei ha sentito da lontano?
TESTE FARINELLA R. – Non lo saprei dire. (…) Poco tempo.
P.M. Dott. GOZZO – …cronologicamente quando siete arrivati, siete arrivati contemporaneamente ai Vigili del Fuoco.
TESTE FARINELLA R. – Sì, sì.
P.M. Dott. GOZZO – Chi c’era lì di altre Forze di Polizia lo ricorda?
TESTE FARINELLA R. – No.
P.M. Dott. GOZZO – Quando siete arrivati voi.
TESTE FARINELLA R. – No, perché noi siamo arrivati, io mi… stavo dietro; c’era tanta gente, quindi ho dato ordine al mio carabiniere di lasciare la macchina, chiudere la macchina e stare con me, insieme con la personalità, cosa che è fuori dalla regola, visto la gravità della situazione.
P.M. Dott. GOZZO – Certo. Senta, che cosa avete fatto una volta arrivati in via D’Amelio? Quindi arrivate insieme ai Vigili del Fuoco. Cosa fate con il dottor Ayala?
TESTE FARINELLA R. – Andiamo dove è successo il cratere, camminando vedevamo dei corpi dei colleghi della scorta.
P.M. Dott. GOZZO – Sì. E in particolare vi siete diretti ad un posto specifico?
TESTE FARINELLA R. – Sì, siamo entrati dentro, abbiamo visto…
P.M. Dott. GOZZO – Dentro il cortiletto, stiamo parlando…
TESTE FARINELLA R. – Sì, sì.
P.M. Dott. GOZZO – …dei numeri 19 e 21 di via D’Amelio.
TESTE FARINELLA R. – Ma… sì, sì. Poi abbiamo visto il dottore che era lì per terra, l’abbiamo conosciuto tramite i baffi.
P.M. Dott. GOZZO – Parliamo del dottore Borsellino, evidentemente.
TESTE FARINELLA R. – Sì, perché era senza gambe e senza arti.
P.M. Dott. GOZZO – Il dottor Ayala l’ha riconosciuto da questo.
TESTE FARINELLA R. – Sì, sì.
P.M. Dott. GOZZO – Dopo avere visto queste scene terribili, dove siete andati? Se lo ricorda.
TESTE FARINELLA R. – Ma abbiamo visto un po’ sia la collega, la poliziotta, era sul marciapiede, vicino la macchina, e altri colleghi.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi, diciamo, avete fatto un giro dei luoghi per riuscire a verificare qual era lo stato.
TESTE FARINELLA R. – Sì.
P.M. Dott. GOZZO – E ricorda se vi siete avvicinati all’autovettura (…) che doveva essere del magistrato?
TESTE FARINELLA R. – No, dopo. (…) Al momento pensavamo soltanto alle persone (…) Alle vittime.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi, diciamo, c’è stato un periodo in cui avete
pensato a verificare dov’erano i corpi, essenzialmente.
TESTE FARINELLA R. – Sì, vedere tutti i colleghi che, cioè, conoscevamo e uscivamo insieme.
P.M. Dott. GOZZO – Dopo avere fatto questa cosa tremenda, diciamo, siete andati poi sulla macchina, vicino alla macchina?
TESTE FARINELLA R. – Poi, appena siamo usciti, le due macchine erano posizionate al centro della strada e guardando le macchine il dottor Ayala ha notato che c’era la borsa dentro il sedile posteriore.
P.M. Dott. GOZZO – Ci può descrivere la macchina com’era? Prima di tutto se vi erano delle fiamme, se non vi erano delle fiamme, se era chiusa, se era aperta.
TESTE FARINELLA R. – Ma no, la macchina era chiusa, chiusa ma non forse a chiave, era chiusa e c’era un po’ di… di fiamma nel lato destro, la ruota, non mi ricordo bene. Abbiamo chiamato i Vigili del Fuoco e abbiamo fatto spegnere.
P.M. Dott. GOZZO – Dico, il vigile del fuoco in particolare cosa ha fatto?
TESTE FARINELLA R. – Abbiamo… ha spento la… quell’incendio che c’era all’esterno e poi abbiamo… ha forzato la macchina per aprire lo sportello posteriore.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi per aprire la porta, l’ha fatto da solo o lei lo ha aiutato?
TESTE FARINELLA R. – Non ricordo se l’ho aiutato io o l’abbiamo fatto insieme o l’ha fatto solo lui, non… è impossibile ricordare queste cose.
P.M. Dott. GOZZO – E allora, per aiuto del suo ricordo, il 2 marzo del 2006 lei ha detto, a pagina 1: “Con l’aiuto dello stesso vigile del fuoco abbiamo aperto la portiera posteriore”.
TESTE FARINELLA R. – Sì, dico… può essere, sì.
P.M. Dott. GOZZO – Si ricorda dove il dottor Ayala aveva visto la borsa? Va beh, l’ha vista anche lei, immagino, facendo…
TESTE FARINELLA R. – Sì, passando da là, vicino le macchine.
P.M. Dott. GOZZO – Dov’era la borsa del dottore Borsellino?
TESTE FARINELLA R. – Nel sedile posteriore.
P.M. Dott. GOZZO – Nel sedile posteriore. Dove ci si siede, diciamo così, o sotto, diciamo, dove si poggiano i piedi?
TESTE FARINELLA R. – No, no, dove… nel seggiolino.
P.M. Dott. GOZZO – Nel seggiolino.
TESTE FARINELLA R. – Altrimenti, se era sotto, come facevamo a vederlo?
P.M. Dott. GOZZO – Senta, l’operazione di aprire la porta è stata difficile, facile? Da che cosa dipendeva?
TESTE FARINELLA R. – Sì, era un po’ incastrata dall’onda d’urto, naturalmente.
P.M. Dott. GOZZO – Dal calore anche?
TESTE FARINELLA R. – Non sono un esperto per questo.
P.M. Dott. GOZZO – Senta, l’ha prelevata lei la borsa poi dall’autovettura?
TESTE FARINELLA R. – Sì.
P.M. Dott. GOZZO – Ma l’ha fatto autonomamente o su disposizione del dottor Ayala?
TESTE FARINELLA R. – Io l’ho presa la borsa, se ricordo… se non ricordo male, l’ho presa io, perché aprendo la porta ho preso la borsa e volevo darla a lui; lui non l’ha voluta prendere perché non era più magistrato, quindi mi ha detto di tenerla io, e l’ho tenuta io.
P.M. Dott. GOZZO – Tenerla in attesa di qualcosa o tenerla definitivamente?
TESTE FARINELLA R. – No, tenerla in… che lui individuasse qualche persona da dare la borsa e dire la borsa di chi era.
P.M. Dott. GOZZO – Sì. E a chi dovevate… cioè aveva già individuato a chi dovevate consegnarla? No nel senso della persona, dico, dovevate consegnarla alle Forze dell’Ordine?
TESTE FARINELLA R. – Mah, di questo non me ne ha parlato e non abbiamo parlato, mi ha detto, dice, di tenerla, che… di consegnarla a qualche persona, o qualche ufficiale o qualche ispettore di Polizia e di darla, a qualche persona.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi a qualcuno delle Forze dell’Ordine.
TESTE FARINELLA R. – Certo. Che noi non avevamo il potere, cioè la cosa per tenerla, non è che la possiamo tenere una borsa.
P.M. Dott. GOZZO – Una volta che il dottor Ayala ha individuato questa persona… l’ha individuata questa persona? Domanda preliminare che non ho fatto. Dico, ha individuato questa persona appartenente alle Forze dell’Ordine a cui darla?
TESTE FARINELLA R. – Sì, lui ha individuato una persona, che mi… mi disse, dice: “Appuntato, dia la borsa”, mi avrebbe detto il nome, ma non ricordo, e io ho consegnato la borsa alla persona che mi ha detto il dottor Ayala. Io non conoscevo.
P.M. Dott. GOZZO – Senta, il dottor Ayala le disse che si trattava di una persona delle Forze dell’Ordine o le disse semplicemente di darla a questa persona?
TESTE FARINELLA R. – Mi ha detto allora che era o un ufficiale o un ispettore, non ricordo. Mi ha detto che era un funzionario, appartenente o alla Polizia o ai Carabinieri, non ricordo.
P.M. Dott. GOZZO – Si trattava di una persona, che lei rico… prima di tutto se ricorda come era fatta, diciamo, questa persona e poi com’era vestita anche.
TESTE FARINELLA R. – Come era vestita non… non ricordo.
P.M. Dott. GOZZO – No, non intendo dire se aveva un vestito rosso o verde.
TESTE FARINELLA R. – Ah.
P.M. Dott. GOZZO – No, non le sto chiedendo questo. (…) Le sto chiedendo, visto che le è stato
presentato come un ufficiale, se era vestito, diciamo così, d’ordinanza o se invece era in abiti civili.
TESTE FARINELLA R. – Adesso ho capito. No, in abiti civili. (…) Se era in divisa, era facile capirlo.
P.M. Dott. GOZZO – Certo. Che lei sappia, il dottor Ayala lo conosceva o si è qualificato lui come persona appartenente alle Forze di Polizia?
TESTE FARINELLA R. – No, penso che lo conosceva.
P.M. Dott. GOZZO – Pensa che lo conoscesse.
TESTE FARINELLA R. – Perché mi ha detto: “Dagliela a lui”, che è una persona che conosceva lui, perché… Gli ho detto: “Devo darla a lui?” “Sì – dice – è una persona che conosco io”. “Ecco qua la borsa”.
P.M. Dott. GOZZO – Nel consegnare la borsa, il dottor Ayala spiegò di che cosa si trattava all’ufficiale?
TESTE FARINELLA R. – Certo, ha detto, dice: “Questa è la borsa che abbiamo preso della macchina del dottore Borsellino”.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi che era la borsa di Borsellino, essenzialmente.
TESTE FARINELLA R. – Certo, quella era.
P.M. Dott. GOZZO – Si ricorda se vi disse qualche cosa, a questo punto, questo ufficiale che lei non conosceva?
TESTE FARINELLA R. – No, perché non… io ho consegnato, loro si sono parlati e basta. Non è che… io non conoscevo, quindi ho stato in fiducia del dottor Ayala e basta.
P.M. Dott. GOZZO – Sempre per aiuto alla sua memoria, le ricordo che il 2 marzo del 2006 lei ha detto, a pagina 2: “Lo stesso ci rassicurò, dicendo che si sarebbe occupato della cosa, per cui gli consegnai la borsa”.
TESTE FARINELLA R. – Certamente, una volta che la… prende la borsa, è normale che…
P.M. Dott. GOZZO – Quindi lo conferma questo, che vi disse: “Non vi preoccupate, ci penso io”.
TESTE FARINELLA R. – E certo.
P.M. Dott. GOZZO – E voi vi siete disinteressati di questa vicenda.
TESTE FARINELLA R. – Certamente, eh, certo.
P.M. Dott. GOZZO – Avete aperto la borsa mentre l’avevate nella vostra disponibilità? Sto parlando di lei e del dottor Ayala, chiaramente.
TESTE FARINELLA R. – Assolutamente no, perché l’avevo io soltanto.
P.M. Dott. GOZZO – Quando il dottor Ayala ha avuto la borsa, ricorda se si sono avvicinate… quando lei aveva la borsa, diciamo, si sono avvicinate delle persone, degli amici del dottor Ayala che lo hanno salutato?
TESTE FARINELLA R. – No, no, ma…
P.M. Dott. GOZZO – Le faccio una domanda specifica: ricorda se si è avvicinato il giornalista Cavallaro? Con cui oltretutto la personalità stava scrivendo in qualche modo un libro e quindi lei avrà avuto modo di vedere altre volte.
TESTE FARINELLA R. – No.
P.M. Dott. GOZZO – Non ricorda il dottore Cavallaro nel…
TESTE FARINELLA R. – Assolutamente. Ma lì c’erano una calca di persone, quindi parlava con tante persone, non è che parlava solo con una persona in una parte da soli, allora vedevo con chi parlava. Si parlava con tante persone che… in divisa, colleghi, quindi non è che era… Deve pensare che eravamo avvolti da… da una folla di persone.
P.M. Dott. GOZZO – Senta, lei ricorda se vi erano dei magistrati sul luogo del…? Degli altri magistrati, perché il dottore era in quiescenza, ma era ancora magistrato. C’erano degli altri magistrati in servizio che lei conosceva lì sui luoghi?
TESTE FARINELLA R. – No, no.
P.M. Dott. GOZZO – Il dottore Lo Forte, nella fattispecie.
TESTE FARINELLA R. – No, no, no.
P.M. Dott. GOZZO – Non lo ricorda. Quanto tempo siete rimasti sui luoghi? Se ricorda.
TESTE FARINELLA R. – Un’ora, non ricordo con… circa un’oretta o di più o di meno, non… non saprei dire, perché non è che stavamo lì a guardare l’orologio in quei momenti, una cosa…
P.M. Dott. GOZZO – Lei aveva detto nel 2006: “Almeno un paio d’ore”. (…) Ecco, le volevo fare una domanda: prima di tutto se lo conferma questo, almeno un paio d’ore, che aveva detto allora.
TESTE FARINELLA R. – Dico (…) non saprei quantificare. Se allora ho detto così, io adesso non riesco a quantificarlo.
P.M. Dott. GOZZO – Certo.
TESTE FARINELLA R. – Dopo ventun anni come facciamo?
P.M. Dott. GOZZO – Dico, ma ricorda se vi siete allontanati per recarvi da qualche altra parte?
TESTE FARINELLA R. – Poi siamo andati… ce ne siamo andati di lì e siamo andati a Mondello.
P.M. Dott. GOZZO – Volevo riuscire a capire. Quindi è stato successivo questo fatto, dico, non è stata una parentesi, cioè prima siete stati in via D’Amelio, siete andati là e poi siete tornati?
TESTE FARINELLA R. – No, no, siamo andati via e non siamo più ritornati.
P.M. Dott. GOZZO – Una volta che l’ufficiale ebbe la borsa, lei ricorda cosa fece l’ufficiale? Al di là di quello che ha detto. Che cosa fece? Dove si recò?
TESTE FARINELLA R. – Ha preso la borsa ed è andato verso l’uscita.
P.M. Dott. GOZZO – Aprì la borsa?
TESTE FARINELLA R. – No.
P.M. Dott. GOZZO – Non lei, l’ufficiale.
TESTE FARINELLA R. – No, assolutamente.
P.M. Dott. GOZZO – E’ un’altra domanda rispetto a quella che ho fatto prima.
TESTE FARINELLA R. – No, no, no, assolutamente. Davanti a noi ha preso la borsa, si è parlato con il dottor Ayala, ha girato, ha salutato e se n’è andato verso l’uscita.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi verso via D’Amelio, verso l’uscita di via D’Amelio, diciamo.
TESTE FARINELLA R. – Sì, sì.
P.M. Dott. GOZZO – Verso via Autonomia Siciliana.
TESTE FARINELLA R. – Sì, verso via Autonomia Siciliana.
P.M. Dott. GOZZO – Io le volevo mostrare, a questo punto… Presidente, sono le stesse foto che ho mostrato, quelle allegate (…) Quelle esibite già ieri, sì. (…) allora, le volevo fare le domande specifiche: se riconosce qualcuno nelle prime due foto che… quindi nella prima pagina che le viene mostrata, la pagina 3 di questa relazione.
TESTE FARINELLA R. – Il dottor Ayala.
P.M. Dott. GOZZO – Sì. E l’altra persona, invece, quella vestita con…
TESTE FARINELLA R. – Arcangioli.
P.M. Dott. GOZZO – Eh.
TESTE FARINELLA R. – No, no, non la ricono… non la ricordo, perché non… completamente.
P.M. Dott. GOZZO – (…) E io questo le volevo chiedere, non gliel’ho chiesto immediatamente. Un’altra cosa le volevo chiedere: quella persona a cui avete consegnato la borsa, se lo ricorda, ricorda, prendendo a base la sua altezza, se fosse della sua altezza, altezza superiore, altezza inferiore?
TESTE FARINELLA R. – Guardi, in quel momento io ho avuto solo ed esclusivamente fiducia del dottor Ayala; mi sono disinteressato della persona, chi poteva essere e chi non poteva essere, quindi non ho fatto tanta attenzione alla persona in cui io ho consegnato la borsa, perché il
dottor Ayala ha garantito lui, dice: “Dagliela a lui, è una persona che conosco io”, basta, per me… non dovevo… cioè la mia idea, la mia mente non doveva stare… avevo tante cose in testa all’infuori di quella persona. (…) Ha garantito lui, me l’ha detto lui, per me…
P.M. Dott. GOZZO – Per lei va bene. Senta, un’altra cosa le volevo chiedere: lei ricorda se, diciamo, quando avete aperto l’autovettura vi erano delle fiamme all’interno?
TESTE FARINELLA R. – No.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi non è stato necessario utilizzare l’idrante per…
TESTE FARINELLA R. – Era… no.
P.M. Dott. GOZZO – Per la macchina, per l’interno della macchina intendo.
TESTE FARINELLA R. – No, all’interno non c’era…
P.M. Dott. GOZZO – No, glielo chiedo relativamente allo stato della borsa. Lei ricorda in che stato era la borsa? Perché lei l’ha tenuta per un po’ di tempo, ha detto.
TESTE FARINELLA R. – Perfetto.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi era assolutamente intonsa, diciamo così, non era…
TESTE FARINELLA R. – Integra, ma si vede come… si evince anche nelle foto, quindi… La borsa…
P.M. Dott. GOZZO – E no, adesso le mostro le foto, perché, diciamo, lo stato della borsa è un po’ diverso poi, successivamente. Ecco, volevo sapere prima di tutto se riconosce il tipo di borsa. Presidente, chiederei di mostrare questo, è un album fotografico che era allegato al verbale di s.i.t. di una persona che dovremmo sentire oggi, cioè Maggi. (…) E’ la fotografia della borsa del dottore
Borsellino. (…) Dico, io le specifico che dalle fotografie si evince che la borsa è da un lato, diciamo, abbastanza direi carbonizzata, mentre dall’altro lato è perfetta. Dico, quando lei l’ha presa era in queste condizioni o era in condizioni perfette, come ha detto lei?
TESTE FARINELLA R. – No, la borsa era integra.
AVV. REPICI – Quando, quindi, fermate la macchina, il dottor Ayala vi spiega che cosa ci fosse lì nei pressi, nella zona dell’esplosione, in via D’Amelio? Se ci abitasse qualcuno.
TESTE FARINELLA R. – Quando siamo entrati, dice: “Ma qua c’è… – dice – abita la mamma del dottor Borsellino”.
AVV. REPICI – Ah, quindi ve lo dice lui.
TESTE FARINELLA R. – Sì.
TESTE FARINELLA R. – Io ricordo che passando di là, il dottor Ayala ha detto: “C’è la borsa all’interno”. Poi se hanno detto gli altri o gli altri hanno visto, non lo so, non l’ho sentito io.
AVV. REPICI – A lei l’ha detto il dottor Ayala?
TESTE FARINELLA R. – Sì, certo.
AVV. REPICI – Può riferire le modalità pratiche con cui fu forzata la portiera?
TESTE FARINELLA R. – Avvocato, come faccio a saperlo adesso? Se è stata forzata, c’era un vigile del fuoco. (…) Aveva… non so, in quel momento aveva un attrezzo e l’ho aiutato pure io ad aprire la portiera, non…
AVV. REPICI – Non ha ricordo.
TESTE FARINELLA R. – E’ impossibile, cioè è impossibile ricordare quegli attimi di…
AVV. REPICI – Lo capisco.
TESTE FARINELLA R. – Queste piccolezze che… visto la gravità
della situazione andavo…
AVV. REPICI – Lo capisco, appuntato, lo capisco, cerchiamo di riuscire a recuperare ogni dettaglio. Mentre lei fa questa operazione, cioè cerca di aprire la porta, poi si avvale dell’aiuto del vigile del fuoco e poi, infine, una volta aperta la portiera, estrae dalla macchina la borsa, il dottor Ayala è rimasto lì al suo fianco?
TESTE FARINELLA R. – Certamente. Mica posso lasciare la personalità. Il mio compito era la personalità, non la borsa.
AVV. REPICI – E’ chiaro. In quel frangente lei sentì il dottor Ayala o chiunque altro parlare di un’agenda del dottor Borsellino?
TESTE FARINELLA R. – Assolutamente no, nessuno ha parlato di questo finché avevo la borsa io, o successivamente non abbiamo mai parlato, che non c’è stato nessun motivo.(pagg 891-908)
…La versione del dottor Giuseppe Ayala, fra i primi a giungere nel luogo della strage, con la sua scorta, dopo avere udito il boato della deflagrazione dal vicino Residence ‘Marbella’, a pochissime centinaia di metri dalla via D’Amelio, dove il teste (all’epoca fuori ruolo dalla Magistratura), soggiornava nei fine settimana, in occasione dei suoi rientri a Palermo (da Roma, dove faceva il Parlamentare).
Infatti, il teste spiegava che non sapeva nemmeno che Paolo Borsellino teneva un’agenda nella quale annotava le proprie riflessioni più delicate, anche perché, da diversi anni (cioè da quando non lavoravano più – entrambi – alla Procura di Palermo), aveva pochissime occasioni di frequentarlo. Comunque, Ayala escludeva decisamente d’aver guardato dentro alla borsa di Paolo Borsellino, che pure passava fugacemente fra le sue mani, così come escludeva d’averla portarta via sulla autovettura blindata della propria scorta.
Ayala giungeva in via D’Amelio con la sua scorta ed intuiva quanto poteva essere accaduto, pur non sapendo che la madre di Paolo Borsellino abitava lì, dopo notato che la blindata vicino al cratere dell’esplosione era una di quelle in dotazione alla Procura della Repubblica di Palermo. Il teste aveva conferma dei propri sospetti quando andava a riconoscere i resti di Paolo Borsellino (assieme al dottor Guido Lo Forte) e vedeva anche la sua borsa in pelle dentro alla Fiat Croma, dopo che un ufficiale dei Carabinieri apriva lo sportello (come il teste dichiarava nelle indagini preliminari) od approfittando del fatto che lo sportello posteriore sinistro era già aperto (come dichiarava, invece, al dibattimento).
La borsa del Magistrato era nel sedile posteriore oppure nel pianale fra i sedili anteriori e quelli posteriori, ma Ayala (come già detto) non vi guardava dentro, limitandosi a prenderla in mano per pochi attimi (forse, era una persona in borghese che gliela passava), consegnandola -subito dopo- ad un ufficiale dei Carabinieri che nemmeno conosceva, per poi recarsi a Mondello a rassicurare i propri figli, poiché il giornalista Felice Cavallaro gli spiegava che si stava diffondendo la falsa notizia che fosse proprio lui la vittima dell’attentato. Si riporta qui di seguito un ampio stralcio dell’articolata deposizione dibattimentale del teste:
TESTE AYALA G. – Guardi, io… siccome sappiamo di cosa stiamo parlando, e cioè dell’agenda di Paolo, la cui esistenza ovviamente è confermata dai familiari più stretti, dai collaboratori più stretti di Paolo, e che non essendosi trovata da nessun’altra parte è presumibile, è chiaro che era dentro quella borsa.
P.M. Dott. GOZZO – Lei ne era a conoscenza che comunque…
TESTE AYALA G. – No.
P.M. Dott. GOZZO – …Paolo Borsellino scriveva tutto sulle sue agende?
TESTE AYALA G. – Non ne avevo idea di questo.
(…)
TESTE AYALA G. – Io non potevo sapere… da sei anni non avevo contatti con Paolo di rapporti di lavoro, di ufficio, di frequentazione, da sei anni, a parte in alcune vicende occasionali, quindi non avevo idea: a), che lui avesse un’agenda, ma dico l’agenda ce l’abbiamo tutti, soprattutto di che cosa ci fosse scritto; che evidentemente, questa è una cosa, diciamo, di percezione immediata, eh, dovevano essere delle annotazioni delicate, altrimenti non si capisce perché qualcuno, tradendo le istituzioni, l’ha fatta scomparire. Ora, delle annotazioni, da quello che so io, non ne sapevano niente neanche i suoi collaboratori più stretti, più fidati, quelli con cui si vedeva quotidianamente, credo neanche i parenti più stretti. (…) Per cui io non avevo idea, a), che esistesse questa agenda di Paolo; b), che fosse nella borsa, ma meno che mai che ci potessero essere delle annotazioni delicate. Rispondo alla sua domanda sul…
P.M. Dott. GOZZO – Certo.
TESTE AYALA G. – Perché poi era pure domenica.
P.M. Dott. GOZZO – Va bene.
TESTE AYALA G. – Nella borsa non pensi che ci sia qualche cosa…
P.M. Dott. GOZZO – Ho capito questa risposta. No, volevo chiederle un’altra cosa a questo punto: ma lei comunque, a questo punto, ha cercato di verificare dove fosse la macchina? L’aveva vista, diciamo. (…) Verificare se nella macchina ci fosse qualcosa.
TESTE AYALA G. – No, no, io proprio… siccome lo sportello aperto era quello lato… come è normale che sia, perché quando tu arrivi, si apre lo sportello di dietro, o scende il Giudice, se siede dietro, o scende uno della scorta per proteggerti, quindi quello sportello avrebbe fatto notizia se fosse stato chiuso. E proprio io ho il fotogramma, quello… ho visto questa borsa che era proprio sul sedile posteriore, non c’è dubbio; ed era proprio lì, vicinissima a me. In quel momento è arrivato Felice Cavallaro, stravolto, che ove ci fossero spazi ancora, mi ha ulteriormente, come dire, proiettato in una dimensione che faccio fatica a descrivere, perché mi ha detto che si era sparsa la voce, anzi, forse qualche media palermitano aveva dato notizia che avevano ammazzato a me; credo che sia comparsa su qualche TV privata, adesso non so bene. E allora lì proprio io… io non c’è dubbio che questa borsa è transitata dalla mia mano, ma non c’è neanche dubbio che io l’abbia consegnata, ma secondi è stato, subito, a un ufficiale dei Carabinieri, perché io non avevo nessun titolo per tenerla. E poi, devo dire la verità, certo, con il senno di poi, visto quello che è successo, forse sarebbe stato meglio che non l’avessi fatto, ma in generale quando tu consegni un reperto, poi in fondo questo era, ad un ufficiale dei Carabinieri, sei convinto di averlo affidato nelle mani migliori. Quante volte noi Sostituti Procuratori interveniamo (…) e diciamo: “Maresciallo, questo lo prenda lei, lo reperti lei”, oppure capitano, secondo il tipo di ufficiale che… o il sottufficiale che è presente. Quindi io, affidando… ma dico, l’ho avuta, io l’ho avuta in mano, forse neanche il tempo di stringere la mani… come si chiama, la… la maniglia. E allora…
P.M. Dott. GOZZO – Ora ci arriviamo, io vorrei che facessimo un attimo un passo indietro e poi arriviamo proprio a questo punto, che è il punto, chiaramente, nodale di tutta la vicenda. Relativamente all’autovettura, quando lei la vede la prima volta, era chiusa l’autovettura?
TESTE AYALA G. – No, no, lo sportello è aperto.
P.M. Dott. GOZZO – Io sto parlando quando la vede arrivando in…
TESTE AYALA G. – Quando io arrivo, noto questa macchina con lo sportello posteriore aperto; e ripeto, la cosa non poteva essere diversamente, perché per chi è abituato a fare una vita da scortato, quella macchina… quello sportello doveva essere aperto, perché o c’era seduto il… Io non so se Paolo era seduto dietro o davanti, lo sportello è lato cancelletto, proprio il la… quello che porta in direzione, sennò devi fare il giro della macchina o scendi dall’altro lato; o scendeva uno della scorta. Quindi… questo dello sportello aperta era…
P.M. Dott. GOZZO – Questo però, ecco, io chiedo sempre ai testi di distinguere tra quelli che sono i loro ricordi effettivi, diciamo così (…) dai ricordi ricostruiti in punto logico, diciamo così.
TESTE AYALA G. – No, no, questo è un ricordo proprio…
P.M. Dott. GOZZO – No, le spiego, perché quando lei è stato sentito nel 1998, questo lo dico anche per aiuto della sua memoria, a pagina 2 del verbale lei dice, proprio racconta di quando arriva alla via D’Amelio: “Vidi i primi cadaveri a brandelli e osservai la blindata che era ancora integra. Cercai di guardare all’interno senza risultato per via del fumo che avvolgeva tutto, cercando
di capire chi fosse stato l’obiettivo. Allora mi guardai intorno e vidi il cratere causato dallo scoppio”. Quindi va al…
TESTE AYALA G. – Sì, sì.
P.M. Dott. GOZZO – “Frattanto i pompieri avevano spento le fiamme. Tornai indietro verso la blindata, anche perché nel frattempo un carabiniere in divisa, quasi certamente un ufficiale, aveva aperto lo sportello posteriore sinistro dell’auto”. Da queste dichiarazioni, ecco, si evince che prima la macchina era chiusa, evidentemente lei non riusciva a vedere all’interno.
TESTE AYALA G. – Guardi… guardi, può darsi che… il fatto che lo sportello era aperto è quando io faccio ritorno, diciamo, dopo avere…
P.M. Dott. GOZZO – Ecco, io questo le chiedevo poco fa.
TESTE AYALA G. – Io in questo momento… beh, insomma, e ventun anni sono passati.
P.M. Dott. GOZZO – No, lo so, questo…
TESTE AYALA G. – Per me… per me vedere quella macchina con lo sportello aperto mi sembrò la cosa più normale. Probabilmente forse nel ’98 magari ricordavo meglio, insomma. Però, ripeto, quando sono ritornato dalla scoperta tremenda che avevo fatto, lo sportello era sicuramente aperto, questo è… Perché ho il fotogramma della borsa, la vedo io sul sedile posteriore, sono lì vicino; ci sono… nel frattempo erano arrivate altre persone.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi possiamo dire che la seconda volta che si avvicina alla macchina, lo sportello era aperto.
TESTE AYALA G. – Sì, sì.
P.M. Dott. GOZZO – Ricorda se accanto alla macchina… appunto, lei diceva, in quello che io ora le ho letto si parla dei pompieri. C’erano dei pompieri vicino alla macchina, che ricordi? Ancora stavano cercando di spegnere qualcosa?
TESTE AYALA G. – I pompieri non me li ricordo, no. Delle persone sì, perché nel frattempo c’erano… erano arrivate molte persone. Quello che mi scombinò molto in quel momento fu l’arrivo di Cavallaro, che mi dice questa cosa tremenda e mi dice: “Corri dai tuoi figli. Dove sono i tuoi figli?” “Mah, penso che saranno a Mondello”. “Corri dai tuoi figli – fa – vacci subito, perché guarda che a Palermo tutti sanno che hanno ammazzato a te”, questo è sicuro. E questo spiega anche perché, dico, sempre con i limiti, naturalmente, della mia memoria, legati anche a un momento, insomma, umanamente penso che non ci sia bisogno di spiegarlo, io proprio non c’ero con la testa, ero fuori di testa completamente, ma io mi sono fermato lì per pochissimo, perché dopo questa consegna della borsa, che ho fatto quasi come un gesto automatico, mi sono interrogato se per caso ho peccato di superficialità o di leggerezza, ma non avendo idea di cosa contenesse, se ci potesse essere… non ci pensi mai, una borsa, una giornata di domenica, neanche si sta uscendo dall’ufficio, chissà che carte ci sono. Dico, non mi rimprovero neanche di questo. Ma ripeto, il tutto è avvenuto in un contesto in cui io veramente ero dentro un tunnel buio, non vedevo luce, non capivo niente, proprio non capivo niente e non mi vergogno a dirlo. Questo gesto è stato quasi un automatismo; mi ha confortato il fatto che lo mettessi in mano ai Carabinieri e questo… Dopodiché sarò stato, ma due minuti, e me ne sono andato a Mondello; sono rimasto altri due minuti.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi, per riuscire a capire e quindi tornando a questo punto sul tema oggetto di questa testi… anche oggetto, oltre ad altri, di questa testimonianza: la borsa viene presa da lei, viene presa dalla persona che aveva aperto la macchina?
TESTE AYALA G. – Guardi, la borsa era lì, io me la sono ritrovata in mano. Mi sembra che ci fosse uno che me la… ma erano questione di centimetri, insomma, era proprio lì, vicinissima. Ripeto, io l’ho tenuta pochissimi secondi in mano, ho visto questo ufficiale dei Carabinieri: “Guardi, la tenga”, anche perché io non avevo nessun titolo per tenerla, in ogni caso, non essendo neanche in quel momento in ruolo, non facevo il magistrato, non facevo il Sostituto. Quindi io… io ho questo ricordo, ripeto, legato al momento, proprio di un attimo, di… tanto è vero che, ripeto, mi sono poi detto: “Ma può darsi che… Ma che dovevo fare?” Poi, ripeto, io questo lo voglio ribadire, perché ognuno di noi c’ha una storia personale alla quale tiene. Se nessuno di quelli che Paolo sapeva… che sapevano che Paolo aveva questa agenda sa che cosa c’era scritto, io potevo pensare mai che fosse uno di quei documenti in cui bisogna stare molto attenti in questi casi? Cioè non avevo… non potevo avere… dico, a una dimensione dell’umano, fino ai confini estremi, qualcuno che è generoso nei miei giudizi può pensare che io ci arrivi, ma qui siamo fuori dalla… dall’umano, cioè è una cosa che ignori, non… non ne sai nulla; non ne sapevano nulla nemmeno quelli che sapevano che lui l’aveva, la portava sempre con… con sé, era… Quindi, ripeto, non mi… non mi sento di muovermi neanche un rimprovero di leggerezza, non…
P.M. Dott. GOZZO – Senta, una cosa non sono riuscito a capire: se in questa scena, diciamo così, in cui stiamo parlando proprio dell’apprensione della borsa, se trova in qualche modo spazio anche un soggetto che non è un ufficiale dei Carabinieri o comunque che è in abiti borghesi. Che lei ricordi.
TESTE AYALA G. – C’era, sì, c’era qualcuno, ma forse più di uno lì vicino. Cioè c’era molta gente che si andava avvicinando. Io avevo, quello che ricordo perfetto è, Cavallaro alla mia sinistra, che mi ripeteva ‘sta storia, che era sconvolto pure lui, esagitato, e poi c’era questo ufficiale dei Carabinieri che era quasi di fronte a me e poi ho intravisto con l’altra… con l’altra parte dell’occhio, c’erano altre persone, tre, due, non me lo ricordo, insomma, ma certo non eravamo soltanto io, Cavallaro e l’ufficiale dei Carabinieri, c’era altra gente e altra ne arrivava, cioè c’era una certa… Perché ormai si era sparsa la voce, arrivavano persone, magari forse gente che abitava nei palazzi e scendeva, adesso non so, non ho idea di chi potessero essere, né li ho memorizzati, non avevo nessun motivo di memorizzarli.
P.M. Dott. GOZZO – No, no, io le faccio questa domanda, dico (…) proprio e glielo dico sempre anche in questo caso per aiuto della memoria, perché lei l’8 febbraio del 2006 ha detto che riceve la borsa da un uomo in borghese e poi lei la dà all’ufficiale, la consegna all’ufficiale.
TESTE AYALA G. – Sì, sì, quello che dicevo prima, sì.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi ci sarebbe stata questa specie di passaggio di mano.
TESTE AYALA G. – Sì, ma una cosa proprio contestuale, che so, distanza zero, insomma. E poi io… io l’unica cosa ferma che ho sempre ricordato e che ho sempre detto, malgrado, diciamo, la particolarità del momento è che non mi sembrò vero, addirittura, che ci fosse ‘sto ufficiale dei Carabinieri per consegnarmi questa borsa e scapparmene via. Dico, io vorrei molto insistere su questo, sono rimasto…
P.M. Dott. GOZZO – Ecco, inizialmente lei questo, la presenza della persona in borghese non la ricordava. Ecco, volevo riuscire a capire (…) quanto di questo suo ricordo sia suo o sia, invece, un apporto di persone che conosceva, come per esempio il dottore Cavallaro, che aveva altri ricordi, ecco.
TESTE AYALA G. – Guardi, io… io la ringrazio di questa osservazione, perché io, c’è chi mi conosce da molto tempo, sono fatto in una certa maniera, che non sempre… per carità, forse è encomiabile. Io con Cavallaro non ho parlato mai di questo, di quello che è successo, anche perché, forse ingenuamente, ritenevo di… visto quello che è stato in questo momento il mio ruolo, ritenevo, insomma, la cosa… cioè da che cosa… di che cosa mi devo preoccupare? Di una entità a me ignota, del tutto ignota? Ragionevolmente ignota, perché, insomma, quando tu con una persona da sei anni, con tutto l’affetto, la stima che Paolo mi ha dimostrato anche nel ’92, perché lui nel ’92 ha fatto una cosa che… cioè lui ha partecipato ad un’iniziativa elettorale a mio favore, ma non che era seduto in mezzo al pubblico, no, no, Giovanni Falcone, lui e l’allora vicesindaco… (…)
P.M. Dott. GOZZO – Senta, torniamo un attimo… mi scuso, sembro (…) settato solo su quello, ma in effetti il nostro interesse è quello. (…) La borsa, se ce la può descrivere.
TESTE AYALA G. – Ma era una borsa evidentemente un po’ bruciacchiata, non era un colore omogeneo, ma quasi…
P.M. Dott. GOZZO – Questo è un ricordo che lei ha o è sempre una sovrapposizione razionale?
TESTE AYALA G. – No, mi sembra… no, grossomodo, grossomodo mi pare che fosse così. La classica borsa quella con il manico imbottito, tipica borsa dei magistrati. (…) Sì, tipo… sì, quella che abbiamo tutti, insomma, abbiamo avuto tutti. Non in condizioni ottimali, questo me lo ricordo, però chiusa, questo non c’è dubbio, chiusa, l’ho presa… per cinque secondi l’ho avuta in mano e chiusa l’ho consegnata.
P.M. Dott. GOZZO – Si ricorda dov’era esattamente posizionata la borsa?
TESTE AYALA G. – Sul sedile posteriore, lato… abbastanza vicino al lato, diciamo, dove c’era lo sportello aperto, per capirci.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi quello sinistro? Se lei era…
TESTE AYALA G. – Sì. (…) Sì, ricordavo posteriore sinistro, giusto.
P.M. Dott. GOZZO – Rispetto al sedile di guida da quale parte si trovava? Lo stesso lato del sedile di guida o l’altro?
TESTE AYALA G. – Era non proprio simmetricamente dietro il sedile di guida, ma verso il centro, ma dal lato del sedile di guida, questo è un fotogramma che ho perfettamente… questo nelle poche cose che ricordo con chiarezza.
P.M. Dott. GOZZO – Senta, lei ricorda poi se la borsa venne aperta in sua presenza?
TESTE AYALA G. – Questa è un’altra cosa che… io me ne sono andato dopo due minuti, aperta in mia presenza…
P.M. Dott. GOZZO – No, è una domanda che le faccio perché qualcun altro l’ha detto, non glielo contesto…
TESTE AYALA G. – Sì, ma cioè… no, l’ho sentito.
P.M. Dott. GOZZO – …perché non è formalmente contestabile, dico, però…
TESTE AYALA G. – Va beh.
P.M. Dott. GOZZO – Altrimenti non gliela farei la domanda, chiaramente.
TESTE AYALA G. – Io poi, voglio dire, siccome di queste cose se n’è parlato anche, insomma, in maniera a mio parere strumentale, posto che l’agenda era nella borsa, non possiamo dubitarne, posto che il contenuto di quell’agenda era ignoto, tranne che al povero Paolo, la mia… dico, io qualche indagine nella mia vita l’ho fatta e un po’ di mestiere l’ho maturato. La borsa non viene svuotata, viene eliminata l’agenda. Non penso che il criterio selettivo, perché di prelievo selettivo si tratta, sia stato in base al colore dell’agenda. (…) Io credo che sia stato in base al contenuto dell’agenda. Allora ci vuole qualcuno che ha avuto il tempo di tirarla fuori, leggere e ritenere, tradendo le istituzioni, che era meglio che quella roba lì non venisse fuori. Ma dico, è un ragionamento… Tutto questo lei pensa sia possibile farlo in quel contesto, davanti a decine di persone?
P.M. Dott. GOZZO – Ragionamento deduttivo, chiaramente.
TESTE AYALA G. – Non dico estrarre l’agenda.
P.M. Dott. GOZZO – Dico, lo vorrei specificare, è un ragionamento deduttivo il suo.
TESTE AYALA G. – Ma è deduttivo fino a un certo punto, perché, vede, un approccio corretto, come certamente è quello suo, ex post è un discorso, ex ante è la valutazione che bisogna fare. Lì il contenuto dell’agenda, la presenza dell’agenda, non so, magari qualcuno lo sapeva, che ne so, lo escluderei, ma la selezione del prelievo è legata al suo contenuto, non al suo colore o alle sue dimensioni, non ad un fatto oggettivo. E quindi te la devi guardare ‘sta agenda, la devi esaminare e devi decidere che non sei un servitore fedele dello Stato e che… per cui questa agenda deve rimanere da qualche parte nascosta. Tutto questo si fa davanti a decine di persone? Sia ha il tempo materiale di farlo, senza che nessuno se ne accorga? A parte il fatto che il famoso filmato è arrivato, chissà perché, tanti anni dopo, ritrae un ufficiale dei Carabinieri con la borsa chiusa che si allontana dalla macchina. Tutto questo a me, sul piano personale, della testimonianza che io sto dando, non mi riguarda, perché io non c’ero. Io consegno la borsa, mi risento ‘sto Cavallaro che mi dice dei figli e mi dice anche: “Scappa a telefonare al giornale”, dopo, subito dopo me ne sono andato e io non sono più tornato, naturalmente. Sono andato a Mondello dai miei figli. La notizia era fondata, tra l’altro. (…) Che lo so io come ho trovato i miei figli.
[…]
P.M. Dott. LUCIANI – Senta, per quello che è il suo ricordo, oltre al dottore Lo Forte, nel momento in cui lei si avvicina lì poi, insomma, diciamo, al cratere, c’erano altri magistrati? (…) Che si avvicinano in quella circostanza o anche successivamente.
TESTE AYALA G. – No, no.
P.M. Dott. LUCIANI – Altri magistrati con i quali lei è entrato in contatto in quel momento.
TESTE AYALA G. – No, non ricordo assolutamente. Il dottore Lo Forte me lo ricordo, perché… perché si è piegato assieme a me sul povero Paolo, su quello che restava del povero Paolo.
P.M. Dott. LUCIANI – Glielo chiedo perché, sempre in questo verbale dell’8 aprile del ’98, lei dichiara: “Nel frattempo – dico, sta facendo riferimento, appunto, all’avvicinarsi del luogo dove era il dottore Borsellino, e lei dice – nel frattempo arrivarono, infatti, i colleghi Lo Forte e Natoli e insieme cercammo conferma del sospetto che già avevamo”.
TESTE AYALA G. – Se ho dichiarato che c’era Natoli, c’era; in questo momento non me lo ricordavo. Lo Forte… lo sa probabilmente la differenza di ricordo qual è? Che Lo Forte io me lo ricordo proprio piegato assieme a me, perché, dico, lo abbiamo dovuto guardare molto da vicino per cercare di confermare la… l’identificazione, chiamiamola così. Magari Gioacchino Natoli sarà rimasto in piedi, insomma, ma se ho detto che c’era, c’era.
P.M. Dott. LUCIANI – La domanda successiva è questa: la borsa, prescindendo comunque da questi segni di bruciatura che lei ha notato e ha riferito, ma era integra o era parzialmente distrutta?
TESTE AYALA G. – No, distrutta sicuramente no, ma ho già risposto.
P.M. Dott. LUCIANI – No…
TESTE AYALA G. – Aveva dei segni.
P.M. Dott. LUCIANI – Dei segni.
TESTE AYALA G. – Sì, sì, sì.
P.M. Dott. LUCIANI – Però era integra, non era mancante di parti o eccessivamente danneggiata, ecco, questo.
TESTE AYALA G. – No, ecco, ecco, non era particolarmente danneggiata, sì.
P.M. Dott. LUCIANI – Senta, se ho capito bene, la borsa era sul sedile.
TESTE AYALA G. – Posteriore.
P.M. Dott. LUCIANI – Quindi poggiata proprio sul sedile.
TESTE AYALA G. – Poggiata sul sedile, più verso il retro posto guida, diciamo.
P.M. Dott. LUCIANI – Perché sempre in questo verbale dell’8 aprile, per capire se è un… dell’8 aprile del ’98, lei dice: “Guardammo insieme in particolare verso il sedile posteriore, dove notammo, tra questo e il sedile anteriore”, quindi sembrerebbe però, per chiarire un po’ il suo pensiero, sembrerebbe da questa verbalizzazione che era poggiata in terra, almeno questa.
TESTE AYALA G. – No, no, ha ragione lei a dire questo, ma io… il mio ricordo è che era… non credo che differenza comporti, per la verità, ma il mio ricordo… cioè o era tra il sedile anteriore e il sedile posteriore o era posata sul sedile posteriore, tutto sommato…
P.M. Dott. LUCIANI – No, le chiederei di fare uno sforzo di memoria, perché magari, diciamo, sono altre risultanze processuali. Quindi, diciamo, il suo ricordo è quello del sedile posteriore.
TESTE AYALA G. – Il mio ricordo oggi è che fosse poggiata sul sedile posteriore.
P.M. Dott. LUCIANI – Mi perdonerà, ma io ancora non ho compreso se, per quello che è il suo ricordo oggi, cioè lei ricorda di essere stato lei materialmente a prendere la borsa o se la borsa le venne consegnata da altri.
TESTE AYALA G. – Guardi, il tutto è avvenuto in un contesto talmente di confusione mentale, che l’unica cosa di cui sono sicuro e ho sempre detto è che questa borsa è transitata per le mie mani ed è stata consegnata immediatamente ad un ufficiale dei Carabinieri. Che poi l’abbia presa io da lì o c’era questo in borghese che me l’ha avvicinata, io francamente non lo so.
P.M. Dott. LUCIANI – Ma anche qua le sembrerà banale, dico, ma il fatto che fosse un ufficiale dei Carabinieri da cosa lo ha ricavato?
TESTE AYALA G. – Guardi, dal fatto che aveva un’uniforme, perché quando… in un primo momento dico: ma come ho individuato ‘sto ufficiale dei Carabinieri? Poi c’ho riflettuto ed era un’uniforme non estiva, cioè non, sa, di queste camicia azzurra, diciamo; era un’uniforme, un’uniforme classica.
P.M. Dott. LUCIANI – Cioè, quindi, quella nera, per intenderci.
TESTE AYALA G. – Sì, sì.
P.M. Dott. LUCIANI – Quella…
TESTE AYALA G. – Sì, sì. Comunque, l’ho riconosciuto certamente come ufficiale dei Carabinieri.
P.M. Dott. LUCIANI – E il dato che fosse un ufficiale e non…
TESTE AYALA G. – Sì.
P.M. Dott. LUCIANI – Perché un ufficiale intendiamo, no? capitano, colonnello.
TESTE AYALA G. – Il grado non glielo so dire assolutamente, ma insomma, era un ufficiale, ho capito che era un ufficiale. Così mi è sembrato. Che era un carabiniere è sicuro, cioè che io in quel momento ero sicuro di dare la borsa ad un esponente dell’Arma dei Carabinieri è sicurissimo.
P.M. Dott. LUCIANI – Oh, ora le posso dare lettura integrale, perché, come le dicevo prima, da questo verbale del ’98 sembrerebbe che la successione degli eventi sia inversa, nel senso che… Allora: “Cercando di capire, cercai di guardare all’interno, senza risultato per via del fumo che avvolgeva tutto, cercando di capire chi fosse stato l’obiettivo dell’attentato, mi guardai intorno e vidi il cratere. Frattanto i pompieri avevano spento le fiamme. Tornai indietro verso la blindata, anche perché nel
frattempo un carabiniere in divisa, quasi certamente un ufficiale, se mal non ricordo aveva aperto lo sportello posteriore sinistro dell’auto. Guardammo insieme”, etc., etc., posso saltare perché, diciamo, le sue dichiarazioni le ha rese.
TESTE AYALA G. – Sì, ma questo “torno indietro” vuol dire dopo il riconoscimento di Paolo.
P.M. Dott. LUCIANI – Aspetti, però proseguendo lei dice: “Subito dopo – quindi subito dopo aver descritto le fasi della borsa, lei dice – subito dopo mi diressi verso lo stabile. In prossimità dell’ingresso, sulla sinistra per chi lo guardava, inciampai in un troncone umano”, etc., etc. Quindi da questa verbalizzazione sembrerebbe che la successione degli eventi sia inversa rispetto a quella
che ha descritto oggi.
TESTE AYALA G. – No… sì, sì, lei…
P.M. Dott. LUCIANI – E che, per la verità, poi lei ha descritto esattamente come oggi nelle verbalizzazioni successive, quindi per capire.
TESTE AYALA G. – Sì, sarà stato… guardi, è sicuro che… ma poi c’era il collega Lo Forte, ci siamo ricordati anche oggi di Natoli, eravamo lì assieme, abbiamo… la prima cosa, ma insomma, la cosa della macchina, della borsa, è successiva.
P.M. Dott. LUCIANI – Quindi il suo ricordo è che la borsa è successivo.
TESTE AYALA G. – Sì. Io cercavo di capire chi era questa… non avendo, come dire… a parte l’indicazione dell’antenna, che mi portava alla Procura, beh, lì, insomma, già cominci a capire chi poteva essere. (…)
P.M. Dott. LUCIANI – Ma lei complessivamente, più o meno, quanto ritiene di essere stato in via D’Amelio?
TESTE AYALA G. – Pochissimo, pochissimo.
P.M. Dott. LUCIANI – Pochissimo?
TESTE AYALA G. – Pochissimo, pochissimo.
P.M. Dott. LUCIANI – Più o meno quanto?
TESTE AYALA G. – Mah, arrivo, percorro questo pezzo di via D’Amelio, arrivo lì, succede quello che succede, riconosco, eh, mi si avvicina Guido Lo Forte, probabilmente c’era anche Gioacchino Natoli. Va beh, è superfluo dire che scoppiamo a piangere tutti, proprio assolutamente in maniera… va beh, questo c’è stato. Esco, mi trovo la macchina vicino, lo sportello aperto, delle persone, uno o due, sì, sicuramente c’erano. Poi mi ritrovo… arriva Cavallaro, mi ritrovo ‘sta borsa in mano e questo ufficiale dei Carabinieri a cui la consegno. Dopo ma sarò rimasto ma neanche un minuto, perché c’era il problema di andare ad avvertire i miei figli, questo; cosa che io, naturalmente, non potevo sapere essendo lì, perché non è che guardavo la televisione, ovviamente. Quindi mi arriva la notizia che addirittura avevano dato questa notizia come probabile vittima, e questo crea in me un ulteriore… Va beh, insomma, non ci sono… non c’è bisogno di spiegare.
P.M. Dott. LUCIANI – Perché in questo verbale (…) dell’8 aprile del ’98 lei fa una stima di questo tempo e dice: “Complessivamente, pertanto, rimasi sul posto circa un’ora, forse anche meno”.
TESTE AYALA G. – Un’ora?
P.M. Dott. LUCIANI – E questa è la verbalizzazione.
TESTE AYALA G. – Ma questo è un errore clamoroso, bisogna leggere i verbali prima di firmarli. Ma quale un’ora? (…) Questo è un errore di verbalizzazione clamoroso.
P.M. Dott. LUCIANI – Siccome…
TESTE AYALA G. – E nel verbale del 2005 che cosa ho detto?
P.M. Dott. LUCIANI – No, no, in effetti, poi, nel verbale del 2005 lei dichiara di essere rimasto sul posto (…). Io l’ho segnato, che è quello del settembre del 2005, lei dice per non più di venti minuti.
TESTE AYALA G. – Che già sono troppi. Va beh, forse dall’inizio, da quando sono entrato nella strada, ho camminato. Venti sono… venti sono molti. Quelli che… adesso credo che ai fini, diciamo, del mio esame sia più rilevante stabilire che dal momento in cui ho capito che era Paolo, al momento in cui apprendo la notizia e c’è questa assoluta priorità dei miei figli, saranno passati due minuti; dal momento in cui ho questa notizia, altri due e me ne sono andato. Poi complessivamente magari sarà stato un quarto d’ora da quando sono arrivato in via D’Amelio.
AVV. REPICI – Senta, a proposito del frangente in cui le passa la borsa in mano, la borsa del dottor Borsellino, lei ricorda se la borsa passò anche nella mano del dottor Felice Cavallaro?
TESTE AYALA G. – Non credo. Eravamo accanto proprio, a me mi sembra che… che sia stata… era soltanto nella mia mano; forse Cavallaro era accanto, non glielo so dire. Ma insomma, è stata una cosa molto breve, perché subito mi è sembrato ‘sto ufficiale dei Carabinieri e gliel’ho data. Vede, anche qui vale il discorso ex post. Era un oggetto… cioè era un reperto ai miei occhi insignificante, perché…
AVV. REPICI – Eh!
TESTE AYALA G. – No, e lo sapevo che lei faceva questo gesto, perché oggi sappiamo che probabilmente dentro c’era la…
AVV. REPICI – No, ma è stato lei che l’ha affidata ad un ufficiale dei Carabinieri, quindi un qualche rilievo gliel’avrà dato pure, gliel’avrà pure dato.
TESTE AYALA G. – Era un reperto. Allora, io diciamo che sono intervenuto come Sostituto Procuratore della Repubblica, non so, in occasione di un centinaio perlomeno di omicidi ed è un classico della nostra professionalità, il reperto lo affidi all’ufficiale di Polizia Giudiziaria. (…) Non ho visto mai un magistrato che si porta il reperto.
AVV. REPICI – In quanto reperto.
TESTE AYALA G. – In quanto reperto, poi la Polizia Giudiziaria vede che cos’è.
AVV. REPICI – In quanto reperto astrattamente utile.
TESTE AYALA G. – Allora, lei pensa che una borsa che presumibilmente era di un mio collega, io… me la tengo in mano io, che non avevo nessun titolo?
AVV. REPICI – No.
TESTE AYALA G. – L’affido ad un ufficiale dei Carabinieri.
AVV. REPICI – Giusto.
TESTE AYALA G. – Ma non avendo idea del significato che poi – sennò non staremmo qui a parlarne – la cosa ha avuto, perché non sapevo che c’era dentro questa… questo delicato oggetto, chiamiamolo così, né potevo saperlo.
AVV. REPICI – Nel senso che lei, ex ante, pensava che qualunque cosa ci fosse nella borsa del dottor Borsellino, doveva essere cosa di nessuna rilevanza?
TESTE AYALA G. – Guardi…
PRESIDENTE – No, no, la domanda in questi termini è troppo riferita ad uno stato soggettivo, non la possiamo ammettere in questi termini. (…)
[…]
PRESIDENTE – Un chiarimento (…) su una risposta di questa mattina. (…) Per quanto riguarda la consegna della borsa. Lei ricorda come fosse vestita la persona a cui lei l’ha consegnata?
TESTE AYALA G. – Se io ho dato per certo che era l’identità di ufficiale dei Carabinieri, penso che avesse la divisa. Sicuramente non era ufficiale dei Carabinieri, perché lo conoscevo e magari era in borghese; avrà avuto la divisa sicuramente. (…) Perché sono andato a colpo sicuro proprio.
PRESIDENTE – E invece la persona da cui lei ha ricevuto la borsa si ricorda se indossava la divisa…
TESTE AYALA G. – Secondo me era in borghese.
PRESIDENTE – …o era in abiti civili?
TESTE AYALA G. – Secondo me era… no, era in abiti civili.
PRESIDENTE – Era in abiti civili, secondo…
TESTE AYALA G. – Però… mi fa piacere fare capire, la borsa era qua, io ero qua, questa persona era lì, non è che l’ho guardata; manco in faccia l’ho guardata, credo. Mi sono trovato ‘sta cosa che mi veniva consegnata. Forse… forse anche Cavallaro ci mise mano pure lui, dopodiché ho trovato ‘sto ufficiale dei Carabinieri. Ora, vede, il punto è questo, ecco perché dico il discorso ex ante ed ex post. Quando un… Io non ero magistrato in quel momento, ma insomma, avevo fatto molti anni. Quando consegni un reperto ad un ufficiale dei Carabinieri sei sicuro che l’hai messo nelle mani migliori, quindi anche in forza di questo, io non… sommato all’assoluta ignoranza da parte mia del contenuto della borsa, questo fa capire proprio che è stato un atto, quasi un automatismo: va beh, questa la diamo ai Carabinieri e siamo a posto. Poi i Carabinieri faranno… non certamente con me, che ero in Parlamento, con i miei colleghi, faranno il loro verbale, la relazione di servizio, tutti quegli atti di Polizia Giudiziaria. Quindi… Poi, se invece dobbiamo ricostruire tutto, c’era l’agenda, nell’agenda c’erano annotazioni… (pagg 841- 877)
Il capitano con la borsa in mano
Appare pure molto grave il comportamento tenuto dal Capitano Giovanni Arcangioli del Nucleo Operativo Provinciale dei Carabinieri di Palermo, immortalato nell’atto di allontanarsi dal luogo della strage, il pomeriggio del 19 luglio 1992, in direzione di via dell’Autonomia Siciliana, con in mano proprio la borsa del Magistrato.
L’ufficiale dei Carabinieri, sotto impegno testimoniale, ammetteva la circostanza appena riportata, senza fornire alcuna spiegazione plausibile del suo comportamento, poco chiaro, limitandosi a dichiarare (in maniera assai poco convincente) che la borsa in questione -dal suo punto di vista- in quel momento, era un oggetto di scarsa o nulla rilevanza investigativa e che non ricordava alcunché. Detta affermazione, tuttavia, oltre che scarsamente credibile è anche in palese contraddizione con la circostanza che il teste, in quel contesto così caotico e drammatico, si premurava di prelevare la borsa dalla blindata, guardando all’interno della stessa.
La deposizione dell’ufficiale dei Carabinieri (al netto del suo evidente timore -palesato in diversi passaggi della testimonianza- di rendere dichiarazioni autoincriminanti), pare ben poco convincente, tanto più considerando le sue pregresse dichiarazioni, con le quali il teste spiegava (nel maggio 2005) che veniva informato, dal dottor Ayala oppure dal dottor Teresi (più probabilmente dal primo dei due) del fatto che esisteva un’agenda tenuta dal dottor Paolo Borsellino e che, su specifica richiesta, andava a controllare all’interno dell’automobile blindata, dove effettivamente rinveniva la borsa in pelle di color marrone, sul pianale dietro al sedile del conducente.
Dopo aver prelevato la borsa dall’automobile blindata, portandola dove stavano in attesa i dottori Ayala e Teresi, “uno dei due predetti magistrati aprì la borsa”, dentro la quale non vi era alcuna agenda, ma soltanto dei fogli di carta. Dopo detta verifica, l’ufficiale dei Carabinieri incaricava uno dei propri sottoposti di mettere la borsa nella macchina di servizio di uno dei due Magistrati predetti. Si riporta qui di seguito il relativo stralcio del verbale dibattimentale, con anche la contestazione delle precedenti dichiarazioni rese da Arcangioli in fase d’indagine preliminare:
P.M. Dott. LARI – Sì, questa foto la ritrae in possesso di quella che è la borsa, diciamo, del dottor Borsellino. Lei si riconosce in quella fotografia?
TESTE ARCANGIOLI G. – Eh, certo, sono io.
P.M. Dott. LARI – Ecco, quindi allora a questa domanda risponde positivamente. Ecco, lei ci può, diciamo, ricostruire oggi le ragioni, le modalità che la portarono ad entrare in possesso di questa borsa?
TESTE ARCANGIOLI G. – Allora, Signor Presidente, anche in questo caso questa domanda mi è già stata rivolta (…). La ringrazio, ma nonostante la lettura dell’art. 63, la risposta a questa domanda molto probabilmente può contenere, diciamo così, elementi autoaccusatori, perché questa domanda mi è stata fatta in passato e l’esito è stato che sono stato accusato. Allora, anche tornando… quindi… anche tornando, diciamo così, alla premessa che ho fatto, io non me lo ricordo com’è andata a finire, cioè com’è iniziata che io avessi questa borsa e che fine ha fatto questa borsa, non me lo ricordo. E’ quello che dicevo prima, che ho provato a ricostruire con l’ufficio di Procura quello che poteva essere accaduto e la conseguenza è stata che sono stato indagato in un processo e indagato e imputato in un secondo processo. Quindi non me lo ricordo.
P.M. Dott. LARI – Presidente, forse potrei, per aiutare la memoria del teste, potrei leggere quello che nel 2005 egli ebbe a dichiarare all’ufficio del Pubblico Ministero, esattamente il 5 maggio del 2005, quando, e ci tengo a precisarlo, non vi era alcun indizio nei suoi confronti di essere il responsabile del furto dell’agenda, perché quegli elementi indiziari nei suoi confronti vennero fuori soltanto nel 2006, quando il giornalista Baldo di Antimafia 2000 portò in Procura… anzi, portò presso la DIA la fotografia che oggi abbiamo mostrato al teste, quindi allora venne sentito…
TESTE ARCANGIOLI G. – No, la foto era già presente nel 2005, signor Procuratore.
P.M. Dott. LARI – Nel 2005 alla DIA, scusi, nel 2005. Comunque questo primo verbale sicuramente, diciamo, è un verbale in cui egli venne sentito come persona informata sui fatti.
TESTE ARCANGIOLI G. – Anche nel secondo sono stato sentito come persona informata…
P.M. Dott. LARI – Ma io sto parlando del primo. Lei mi deve fare la cortesia, colonnello, di non interrompermi mentre parlo, è una questione di rispetto. E allora, lei ha dichiarato: “Non ricordo se il dottor Ayala o il dottor Teresi, ma più probabilmente il primo dei due e sicuramente non il dottor Di Pisa, mi informarono del fatto che doveva esistere un’agenda tenuta dal dottor Borsellino e mi chiesero di controllare se per caso all’interno della vettura di fosse una tale agenda, eventualmente all’interno di una borsa. Se non ricordo male, aprii lo sportello posteriore sinistro e, posata sul pianale dove si poggiano di solito i piedi, rinvenni una borsa, credo di color marrone in pelle, che prelevai e portai dove stavano in attesa il dottor Ayala e il dottor Teresi. Uno dei due predetti magistrati aprì
la borsa e constatammo che non vi era all’interno alcuna agenda, ma soltanto dei fogli di carta. Verificato ciò, non ricordo esattamente lo svolgersi dei fatti, per quanto posso ricordare, incaricai uno dei miei collaboratori, di cui non ricordo il nome, di depositare la borsa nella macchina di servizio di uno dei due magistrati di cui ho detto. Si tratta di un ricordo molto labile e potrebbe essere impreciso”. Ecco, questa sua dichiarazione poi lei, successivamente, l’ha modificata nel successivo verbale del 2006. Ecco, serve a ricordarle qualcosa questa dichiarazione? Che sono due parole quelle che io ho letto.
TESTE ARCANGIOLI G. – Allora, Signor Presidente, la fotografia già esisteva ai tempi del verbale del 2005, era già nella… diciamo così, ce l’aveva già l’ufficio di Procura. Quel verbale come… quell’audizione come teste, come la successiva, purtroppo non sono stati registrati; se ci fossero le registrazioni oggi saremmo in ben altra situazione. Il “non ricordo” all’inizio della frase, e questi sono i miei timori che Le anticipavo prima, mi è già stata fatta la contestazione nel verbale del febbraio del 2006. Allora, quel “non ricordo” all’inizio della frase significa: non ricordo quello che poi viene detto successivamente. Quindi non ricordo tutto quello che ha letto il signor Procuratore della Repubblica, non lo ricordo. Come… sennò ricado nello stesso errore. Allora se è una ricostruzione, posso provare a farla con grandissimi limiti e dicendo che è una ricostruzione; se è un ricordo, come ho scritto lì, è non ricordo quello che avviene successivamente. Non si può togliere il “non ricordo” e prendere per una positività quello che viene dopo. Non lo ricordo, poi…
P.M. Dott. LARI – Il “non ricordo” si riferisce se il dottor Ayala o il dottor Teresi.
TESTE ARCANGIOLI G. – No, il “non ricordo”, visto che l’ho firmato io, si riferisce a tutta la frase. Certo, come si redige un verbale, e anch’io ho la mia esperienza, non è che metto “non ricordo se si riferisce ad Ayala o Teresi, non ricordo…” Mette “non ricordo” all’inizio, è quello che segue che non ricordo, non è…
P.M. Dott. LARI – Allora, Presidente, io lo rileggo per chiarezza anche dei Giudici della Corte d’Assise: “Non ricordo se il dottor Ayala o il dottor Teresi, ma più probabilmente il primo dei due, mi informarono del fatto che doveva esistere un’agenda”. Quindi l’affermazione su informato del fatto che vi era un’agenda, “non ricordo se ad informarmi fu il dottor Ayala o il dottor Teresi, ma più probabilmente il primo dei due”, questa è la dichiarazione.
TESTE ARCANGIOLI G. – No, il… no, il “non ricordo” vale per tutta la frase, tant’è che all’ultimo insistii per mettere quell’altro periodo, fortunatamente, che lei ha letto poco fa, dove dice che il ricordo è molto labile. Insistii per mettere questo periodo a suggello del “non ricordo” iniziale.
P.M. Dott. LARI – Comunque la mia domanda è: avendole letto io questa frase, al di là dell’interpretazione autentica del suo pensiero, se questo serve a rinfrescare la sua memoria.
TESTE ARCANGIOLI G. – Eh, Signor Presidente, io non me lo ricordo quando…
P.M. Dott. LARI – Quindi lei oggi, essendole mostrata una foto in cui lei viene ritratto con la borsa di Paolo Borsellino, lei risponde: “Non mi ricordo come sono venuto in possesso di questa borsa”?
TESTE ARCANGIOLI G. – E’ la veri… è la verità, è la verità, con tutti i limiti che essa può essere, con tutte le fallacità che essa può contenere, ma non me lo ricordo come ne sono venuto in possesso. Era una borsa… non… non me lo ricordo.
P.M. Dott. LARI – Lei è stato anche fotografato con questa borsa mentre si allontanava, tra l’altro, dal luogo, diciamo, dove la borsa era custodita, cioè la macchina del dottore Borsellino, ad una distanza di circa… è stato fotografato anche a circa settanta – ottanta metri, sessanta – settanta metri, in direzione della via Autonomia Siciliana; vi sono immagini, appunto, che la ritraggono con questa borsa in mano dapprima nella parte opposta dell’abitazione della madre del dottor Borsellino ed in seguito quasi all’imbocco della via Autonomia Siciliana. Vi sono diversi fotogrammi, non è soltanto questo che le è stato mostrato. Adesso glieli mostriamo un attimo. Possiamo, Presidente?
P.M. Dott. LARI – Sì. Allora, l’altra domanda è: lei non ricorda, ha detto, come sia venuto in possesso della borsa, ma ricorda di avere aperto la borsa e avervi guardato dentro? Le abbiamo letto la sua dichiarazione, che lei ha aperto e ha guardato dentro.
TESTE ARCANGIOLI G. – Sì, io ricordo di aver guardato dentro quella borsa; se le dovessi dire esattamente dove, non sono in grado di stabilirlo, non sono in grado di… forse dalla parte opposta, diciamo così, da dove si trovava l’abitazione del Giudice. C’ho guardato dentro, non mi ricordo di aver visto alcunché che potesse attirare l’attenzione. Ho invece un ricordo, perché.. di quello che c’era dentro, ed era un crest dei Carabinieri. Eh, il mio… la mia mente lì si è fermata, perché il Giudice dentro la sua borsa teneva un crest dei Carabinieri.
P.M. Dott. LARI – E soltanto un crest? Lei ha parlato…
TESTE ARCANGIOLI G. – Il mio ricordo si ferma al crest, poi forse probabilmente c’era anche altro, però il mio ricordo è il crest; era un crest dei Carabinieri, per questo ha colpito la mia memoria, il mio ricordo.
P.M. Dott. LARI – E lei ricorda se quando ha guardato all’interno della borsa, ha guardato da solo o era in compagnia di un magistrato? Ed eventualmente chi era questo magistrato?
TESTE ARCANGIOLI G. – Sono domande che la Corte non conosce, ma mi sono già state ovviamente rivolte e sono in atti. Io non ho la certezza, non ho un ricordo nitido con chi ho guardato all’interno della borsa. Anche all’epoca, come dico oggi, mi sembra, ma rimane un “mi sembra”, che ci fosse anche il dottor Ayala, ma rimane un “mi sembra”, non è un ricordo nitido, non è un’affermazione che posso fare sotto giuramento.
Le predette dichiarazioni, contestate a Giovanni Arcangioli, venivano confermate dal suo superiore gerarchico, dell’epoca, al Nucleo Operativo Provinciale dei Carabinieri di Palermo, il Colonnello Marco Minicucci, che giungeva in via D’Amelio circa mezz’ora dopo lo scoppio dell’autobomba e si recava con il dott. Giuseppe Ayala a riconoscere i resti di Paolo Borsellino. Il teste, infatti, vedeva Giovanni Arcangioli in via D’Amelio ed il sottoposto -che non faceva alcuna relazione di servizio- gli riferiva, il giorno stesso oppure l’indomani, che, su disposizione di un Magistrato, prelevava la borsa del dottor Paolo Borsellino dall’automobile blindata, guardandoci dentro. Si riporta, qui di seguito, un breve stralcio della relativa deposizione:
P.M. Dott. GOZZO – Il 19 di luglio del 1992 lei ricorda se ebbe modo di recarsi in via D’Amelio e quando, soprattutto?
TESTE MINICUCCI M. – Mah, io sono arrivato a via D’Amelio… ho sentito da Carini lo scoppio, sono arrivato a via D’Amelio praticamente subito dopo insieme a tante altre persone; sul posto ho visto c’erano Vigili del Fuoco, Polizia e Carabinieri; diciamo che sono arrivato intorno
alle 17.25 – 17.30.
P.M. Dott. GOZZO – Quindi dopo una mezz’oretta dai fatti. (…) All’incirca. Lei ricorda chi vi era sui luoghi al momento del suo arrivo? Cioè chi era presente, come altre Forze di Polizia, nella fattispecie, chiaramente.
TESTE MINICUCCI M. – Beh, ricordare tutti è impossibile, considerato che in quel luogo c’era veramente di tutto e poi, man mano, sono aumentate le persone; riguardandolo dopo vent’anni ci accorgiamo che eravamo veramente tanti sulla scena del delitto, era impressionante, riguardando i filmati dell’epoca. Ricordo che con me è arrivato contestual… quasi contestualmente, ancorché da località diversa, il comandante della prima Sezione del Nucleo, il capitano Arcangioli; ricordo che sul posto ho visto il dottor Ayala. C’erano tante altre persone, adesso fare l’elenco sarebbe per me difficile in questo momento.
P.M. Dott. GOZZO – Altri magistrati non ne ricorda?
TESTE MINICUCCI M. – No.
P.M. Dott. GOZZO – Senta, a proposito proprio del dottor Ayala, lei ricorda se ebbe modo, insieme al dottor Ayala, di fare qualcosa in via D’Amelio?
TESTE MINICUCCI M. – Ma io ricordo, e ce l’ho ben chiaro, che insieme al dottor Ayala andammo a vedere il cadavere di quello che poi è risultato essere il dottor Borsellino, quindi all’interno del… del cortile dal quale poi si accedeva al palazzo dove abitava la mamma, e quindi
guardammo, ovviamente riconoscendo il magistrato che tutti noi avevamo avuto modo di… con il quale avevamo avuto modo di collaborare. Quindi questo è un atto che io ho fatto e che avevo a fianco il dottor Ayala, questo lo ricordo bene.
P.M. Dott. GOZZO – Senta, lei successivamente, cioè in quella occasione, diciamo, quando si è trovato là o successivamente ai fatti, ebbe mai modo di parlare o di vedere, diciamo, della borsa del dottore Borsellino con il capitano Arcangioli?
TESTE MINICUCCI M. – Io sono stato sentito… sono stato sentito sull’argomento nel 2006, se non erro, e ho ricostruito quello che ricordavo e quindi che con Arcangioli… Arcangioli mi riferì di aver prelevato la borsa e mi raccontò che all’interno aveva visto un crest e quindi questo era il particolare che mi riferì Arcangioli, e come ho avuto modo di dire qualche anno fa, non ricordo se me lo disse nella stessa giornata o qualche giorno dopo. Sicuramente mi parlò di aver prelevato la borsa.
P.M. Dott. GOZZO – Le disse anche perché aveva prelevato la borsa?
TESTE MINICUCCI M. – Mi disse che gliel’aveva detto un magistrato di prelevare la borsa, questa era l’informazione che lui mi aveva dato; informazione che lui mi dava perché ero il suo superiore gerarchico, quindi (…) ovviamente era il suo dovere quello anche di… di raccontare quello che stava facendo in quel momento. Se è stato lo stesso giorno o se è stato il giorno dopo, ripeto, questo non… non lo ricordavo nel 2006, quando ho rilasciato le mie dichiarazioni, e non lo ricordo ora.
(…)
P.M. Dott. GOZZO – Sì. Le fece una relazione di servizio relativamente a questi fatti?
TESTE MINICUCCI M. – No, non ho… io non ho fatto relazione di servizio, e così come mi è stato modo di… mi è stato detto quando fui sentito dalla DIA a Roma, non la fece neanche, da quello che ricordo, neanche Arcangioli questa relazione di servizio, quindi… E io non gli ho fatto neanche nessun rilievo, perché mi fu contestato di non aver fatto un rilievo ad Arcangioli per avere omesso una relazione di servizio. Non fu fatta, in quel caso di questo non se n’è…
P.M. Dott. GOZZO – Però possiamo convenire sul fatto che effettivamente, diciamo (…) normalmente una relazione di servizio…
TESTE MINICUCCI M. – Convengo, convengo su tutto.
P.M. Dott. GOZZO – Ecco, soprattutto se lei mi dice…
TESTE MINICUCCI M. – Convengo su tutto.
P.M. Dott. GOZZO – …che la borsa è stata aperta, perché se lei mi dice che dentro c’era un crest (…) evidentemente è stata aperta.
TESTE MINICUCCI M. – No, no, no, ma sicuramente, io convengo sul fatto che la relazione andava sicuramente fatta e io… lei era a Palermo, ricordo solo quello che era via D’Amelio il 19 luglio del ’92.
(…)
P.M. Dott. GOZZO – Dico, e lei non ricorda che Arcangioli sia venuto in qualche modo o da lei o da altre persone con la borsa in mano per sapere cosa fare? Ecco.(…) Per prendere disposizioni.
TESTE MINICUCCI M. – No, onestamente no.
P.M. Dott. GOZZO – No. Arcangioli le disse, comunque, cosa fece con la borsa dopo averla ricevuta?
TESTE MINICUCCI M. – No, lui mi disse che l’aveva presa, che aveva visto l’interno, ma non mi ha detto poi che cosa ne ha fatto.
P.M. Dott. GOZZO – Non le disse che l’aveva…?
TESTE MINICUCCI M. – No, no.
P.M. Dott. GOZZO – Le disse se poi, successivamente, aveva deciso di riposizionare la borsa dove l’aveva presa?
TESTE MINICUCCI M. – No, no, no, lui mi ha detto che l’aveva aperta su disposizione del magistrato, il contenuto all’interno e mi ricordo che parlò del crest, ma poi non ho più saputo, né ho approfondito in quella circostanza sulla borsa, perché probabilmente non ho dato il peso alla questione, quindi non… (…)
P.M. Dott. GOZZO – Un attimo solo. Quando Arcangioli le disse di avere visto che dentro la borsa vi era un crest araldico, le disse anche, cioè, se aveva aperto la borsa su disposizione di un magistrato o se lo aveva fatto di sua iniziativa?
TESTE MINICUCCI M. – No, io ricordo che lui l’aveva presa su disposizione del magistrato; non ricordo se il magistrato gli aveva detto di aprirla. Probabilmente l’apertura è una cosa che poteva essere anche… che possa avvenire anche dall’appartenente alle Forze di Polizia per controllare quello che c’è dentro, poteva esserci un’arma, poteva esserci di tutto, dico, non… Però, dico, non mi ricordo materialmente chi; se mi raccontò: “Mi ha detto di prenderla e aprirla”. Che il
magistrato gli disse di prenderla, questo mi ricordo che lui me lo disse.
Calvi: “La mia ultima intervista a Borsellino”
di Stefania Limiti
Come un ‘sali e scendi’ senza sosta lungo una scala tortuosa, le vicende legate alle stragi del ’92 tornano sempre di attualità. Normale, in un paese dove la verità è imprigionata. Sembra che anche i fatti conosciuti possano ancora parlare e svelare.
È il caso della famosa intervista a Paolo Borsellino, fatta nella sua casa palermitana nel maggio di quell’anno terribile, subito dopo la strage di Capaci.
“Sai che era la prima volta che mettevo piedi nella sua casa?”.
Parte da quel ricordo Fabrizio Calvi, il giornalista francese che lo intervistò insieme a Jean Pierre Moscardo, scomparso nel 2010, per un documentario commissionato dalla tv francese. Lo raggiungo al telefono dopo aver letto sul Il fatto che la Procura di Caltanissetta presto avvierà una rogatoria per ascoltarlo come testimone. Calvi – che in questo momento non può viaggiare con facilità a causa dei postumi di un grosso intervento chirurgico – apprende la notizia dalla nostra conversazione.
Tra i fondatori del quotidiano Liberation, conosce molto bene l’Italia e i suoi intrighi, non solo quelli mafiosi. Fu il primo a raccontare nel 1997, con Frederic Laurent, la rete di agenti atlantici, scoperta dall’inchiesta del giudice milanese Guido Salvini, che vigilava e manipolava i neofascisti di Ordine Nuovo responsabili dello stragismo nero.
“Devo proprio a Borsellino il mio primo best seller, La vita quotidiana della mafia dal 1950 ai nostri giorni, scritto nel 1986. Lo conoscevo da molto tempo, me lo aveva presentato il giudice Chinnici, purtroppo ammazzato pure lui nel luglio del 1983. Andavo spesso in Sicilia e ogni volta passavo molto tempo con Borsellino: avevamo lunghissime conversazioni, spesso accese, se toccavamo la politica, io piuttosto di sinistra, lui affatto, direi monarchico. Ci incontravamo nei ristoranti, in macchina o in Procura, anche quando era a Marsala. Ma mai ero stato a casa sua. Solo quella volta mi invitò ad andare, probabilmente non si sentiva tranquillo nel Palazzo di Giustizia, era diffidente. Mi disse subito sì, quando gli chiesi l’intervista, ma aggiunse ’non qui’. E ne riparlammo fuori. In effetti, ricordo il silenzio pesantissimo che regnava in quei giorni in un luogo in genere pieno di gente e di movimento”.
Nel 2002 la Procura di Palermo avrebbe voluto ascoltare la testimonianza di Calvi durante il processo a Marcello Dell’Utri ma rinunciò per problemi di carattere economico (<>, cit. Ansa, 4 novembre 2002).
<>.
La messa in onda dell’intervista, circa cinquanta minuti di registrazione, venne bloccata dai tragici eventi e la sua esistenza fu svelata da L’espresso nel 1994. Borsellino, tramite voi, volle rendere nota la figura di Vittorio Mangano, lo stalliere, è esatto?
<>.
Davvero si può escludere che l’intervista sia stata la causa dell’urgenza con cui Cosa nostra e i suoi concorrenti esterni deciso di anticipare i tempi della strage?
“Tante volte mi sono fatto questa domanda, come puoi immaginare. Ad essere sincero tenderei ad escluderlo. Berlusconi in quel momento, in fondo, era uno dei tanti industriali che potevano orbitare nel mondo mafioso”.
Però Borsellino vi diede dei documenti, chiedendovi di tenere riservato il suo gesto.
“Si è tutto registrato e noi scegliemmo di non tagliare nulla, per non alterare l’affidabilità del documento. Si trattava in realtà dell’elenco di tutti i casi giudiziari nei quali era invischiato Berlusconi, tutti documenti giudiziari pubblici. Quando andai a cercarli mi resi conto che li avevo già quasi tutti nel mio archivio. Fu un gesto di cortesia e di fiducia che ancora mi commuove”.
Blog Repubblica