16 luglio 2019
Dagli archivi finora segreti della commissione parlamentare antimafia emerge la voce di Paolo Borsellino, che l’8 maggio 1984 racconta le difficoltà del pool antimafia che in quel periodo sta già lavorando al maxi-processo a Cosa nostra
«Desidero affrontare la gravità dei problemi, soprattutto di natura pratica, che noi dobbiamo continuare ad affrontare ogni giorno». Dagli archivi finora segreti della commissione parlamentare antimafia emerge la voce di Paolo Borsellino, che l’8 maggio 1984 racconta le difficoltà del pool antimafia che in quel periodo sta già lavorando al maxi-processo a Cosa nostra. Un’indagine riservatissima, che di lì a poche settimane potrà contare sulla collaborazione di Tommaso Buscetta, e consentirà di portare alla sbarra, per la prima volta, la Cupola con l’accusa di associazione mafiosa. Dopo il consigliere istruttore Antonino Caponnetto parlano i giudici istruttori Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ed è proprio quest’ultimo a rivelare che quel manipolo di magistrati (insieme ai poliziotti della Squadra mobile di Palermo guidati da Ninni Cassarà, che sarà trucidato dai killer di Cosa nostra l’anno successivo, alla vigilia della richiesta di rinvio a giudizio) sta conducendo «processi di mole incredibile, ognuno dei quali è composto da centinaia di volumi che riempiono intere stanze».
Carte non più segrete
L’audizione del 1984 è la prima delle sei in cui prende la parola Borsellino che la commissione antimafia guidata dal senatore Nicola Morra ha deciso di desegretare insieme a gran parte degli atti ancora riservati, diffuse nella ricorrenza del 19 luglio, ventisettesimo anniversario dell’omicidio del magistrato saltato in aria insieme agli agenti di scorta Agostino Catalano, Water Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina. Ora sono pubbliche sia le trascrizioni che gli audio, e ancora oggi fa impressione ascoltare la voce del giudice assassinato qualche anno più tardi raccontare come lui e gli altri colleghi debbano arrangiarsi e escogitare soluzioni pionieristiche per poter svolgere un lavoro di cui dovrebbe essere già chiara l’importanza e la pericolosità: il precedente consigliere istruttore, Rocco Chinnici, era stato ucciso da un’autobomba nemmeno un anno prima, il 29 luglio 1983.
Il computer che non funziona
Per la piega che ha preso il lavoro del pool, avverte Borsellino, è diventato indispensabile l’uso di un computer finalmente arrivato a Palermo, ma che «purtroppo non sarà operativo se non tra qualche mese perché sembra che i problemi della sua installazione siano estremamente gravi, anche se non si riesce a capire perché». Le dimensioni dell’indagine, spiega il magistrato, non consentono di andare avanti «con le nostre semplici rubrichette artigianali», e oltre al computer appena arrivato ma non ancora funzionante, servirebbero segretari e dattilografi, che non possono fare straordinari. Risultato: «Il giudice che è costretto a lavorare, come nel processo attualmente in corso, per 16 o 18 ore al giorno rimane, per buona parte della giornata, solo con se stesso, con tutto l’aggravio di lavoro che ne deriva».
La scorta solo di giorno
Non solo. Borsellino lancia l’allarme sicurezza, lasciandosi andare a un amaro sarcasmo quando spiega che per i giudici antimafia la burocrazia prevede la scorta solo al mattino: «Buona parte di noi non può essere accompagnata in ufficio di pomeriggio da macchine blindate, come avviene la mattina, perché il pomeriggio è disponibile solo una blindata, che evidentemente non può andare a raccogliere quattro colleghi. Pertanto io, sistematicamente, il pomeriggio mi reco in ufficio con la mia automobile e ritorno a casa alle 21 o alle 22. Magari con ciò riacquisto la mia libertà, però non capisco che senso abbia farmi perdere la libertà la mattina per essere poi, libero di essere ucciso la sera».
Due anni e mezzo più tardi Borsellino è di nuovo davanti all’Antimafia, stavolta in qualità di procuratore di Marsala dove è andato per proseguire il lavoro di contrasto alla mafia, ma ugualmente si trova con scarsi mezzi a disposizione. E’ lì che l’11 dicembre 1986 il giudice parla di una «Procura smobilitata» e se la prende con il Consiglio superiore della magistratura che tarda a mandare pubblici ministeri in una Procura di frontiera come quella, preferendo risolvere prima i problemi del tribunale di Mondovì. Ma il territorio dov’è andato a lavorare, denuncia Borsellino, è «un santuario» dove potrebbero trovare rifugio e appoggi latitanti ultradecennali come Totò Riina e Bernardo Provenzano.
Denunce continue
Nell’incontro con la commissione parlamentare del 3 novembre 1988 Borsellino torna a parlare dello smantellamento del pool antimafia di Palermo dopo la mancata nomina a consigliere istruttore di Giovanni Falcone, che lui stesso aveva denunciato pubblicamente in estate. Tra il 1989 e il 1991 Borsellino tornerà in altre tre occasioni davanti all’Antimafia (l’ultima il 24 settembre ’91), sottolineando ogni volta i problemi e le difficoltà pratiche che i magistrati impegnati nel contrasto a Cosa nostra continuavano a incontrare. Un compito al quale il magistrato assassinato 27 anni fa non s’è mai sottratto, fino al momento il cui la mafia ha deciso di toglierlo di mezzo. Anche per questo, la desecretazione delle sue parole finora inedite decisa dalla nuova commissione rappresenta un omaggio alla figura di Borsellino, oltre che un monito per non tornare mai più ai tempi in cui inquirenti in prima linea debbano spiegare a deputati e senatori di non essere in condizione di lavorare come dovrebbero.
Le parole di Caterina Chinnici
«Le parole di Paolo Borsellino contenute nell’audio diffuso – dice Caterina Chinnici – toccano nel vivo chi, come me, ha vissuto sia quegli anni che quelli precedenti. Sono parole che esprimono tutta la solitudine nella quale per lungo tempo i magistrati antimafia si trovarono a lavorare, privi dell’assistenza che il loro compito gravoso avrebbe richiesto e la cui assoluta necessità, forse, allora non fu del tutto compresa dalle istituzioni».