Il giudizio emesso dalla Corte esclude che la “trattativa stato-mafia”, oggetto di altro procedimento il cui appello è in corso, abbia aperto nuovi scenari e che, quindi sia stata la motivazione e, soprattutto, l’accelerante della strage di via d’Amelio.
Si è chiuso l’appello del “Borsellino quater”, il procedimento sulla strage di via d’Amelio, quella che vide morire il dottor Paolo Borsellino e gli agenti del servizio di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e anche prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
La sentenza dell’appello del procedimento “Borsellino quater” fa il punto sul lungo iter processuale relativo alla strage di via d’Amelio, iter costellato da depistaggi e falsi pentiti.
Sulla base, però, dei precedenti procedimenti e anche delle ulteriori acquisizioni documentali, fa chiarezza sul movente, sulla dinamica della strage,sulla paternità della stessa.
“Le emergenze probatorie acquisite nell’odierno procedimento costituiscono singoli pezzi di un mosaico che, nel suo complesso, continua a rimanere in ombra in alcune sue parti. Basti pensare alla ‘scomparsa misteriosa’ dell’agenda rossa del magistrato (cristallizzata nella ripresa fotografica riprodotta nella stessa impugnata sentenza, nella quale risulta immortalato il capitano Arcangioli nell’atto di allontanarsi dalla scena del delitto con in mano la borsa del magistrato) e alla ricomparsa della stessa in circostanze non chiarite nell’ufficio del dottor Arnaldo La Barbera; alla presenza di uomini “sconosciuti” sul luogo del delitto e nell’immediatezza dello stesso (individuati come ‘appartenenti ai servizi’ da parte di due degli agenti sentiti come testimoni) e di un uomo ‘estraneo a Cosa Nostra’ al momento della consegna della Fiat 126 da parte di Spatuzza Gaspare, agli uomini incaricati di provvedere al successivo caricamento della stessa di esplosivo; alla vicenda Mutolo e all’interruzione del suo interrogatorio ed al successivo incontra da parte del giudice Borsellino con il dottore Bruno Contrada, all’anomalia del coinvolgimento del SISDE nelle indagini; alla vicenda del falso pentito Scarantino Vincenzo e del falso strumentale delle dichiarazioni di Francesco Andriotta, altri odierni imputati.
Non si hanno, tuttavia, elementi in grado di adombrare profili di erroneità nella ricostruzione del momento deliberativo della strage e nella configurazione della ‘paternità mafiosa’ della stessa.
La strage di via d’Amelio rappresenta indubbiamente un tragico delitto di mafia, dovuto ad una ben precisa strategia del terrore adottata da Cosa Nostra, in quanto stretta dalla paura e da fondati timori per la sua sopravvivenza a causa della risposta giudiziaria data dallo Stato attraverso il Maxiprocesso (nato anche, si ripete, da una felice intuizione die giudici Falcone e Borsellino).
E ancora: “Ogni tentativo della difesa di attribuire una diversa paternità a tale insana scelta di morte e di terrore non può trovare accoglimento, potendo, al più, le emergenze probatorie sopraindicate – in parte già acquisite al preesistente patrimonio conoscitivo e in parte disvelate da presente procedimento – indurre a ritenere che possano esservi stati anche altri soggetti, o gruppi di potere, interessati alla eliminazione del magistrato e degli uomini della sua scorta. Ma tutto ciò non esclude la responsabilità principale degli uomini di vertice dell’organizzazione mafiosa che, attraverso il loro consenso tacito in seno agli organismi deliberativi della medesima organizzazione, hanno dato causa agli eventi di cui si discute”.
Il giudizio emesso dalla Corte esclude che la “trattativa stato-mafia”, oggetto di altro procedimento il cui appello è in corso, abbia aperto nuovi scenari e che, quindi sia stata la motivazione e, soprattutto, l’accelerante della strage di via d’Amelio.
“Ed anche in questa sede non può che ribadirsi la sostanziale neutralità di tali fatti ai fini dell’accertamento dei responsabili della strage di via D’Amelio (imputati nel presente procedimento) dovendosi ancora una volta ribadire la matrice mafiosa della stessa. Non può condividersi, sul punto, l’assunto difensivo secondo cui la “trattativa Stato-mafia” avrebbe aperto “nuovi scenari” in relazione alla “crisi dei rapporti di Cosa Nostra con i referenti politici tradizionali” e al possibile collegamento fra “la stagione degli atti di violenza” e l’occasione di “incidere sul quadro politico italiano” con riferimento a coloro che “si accingevano a completare la guida del paese nella tornata di elezioni politiche del 1992”
Invero, gli elementi acquisiti nel presente procedimento consentono di affermare che l’uccisione del giudice Paolo Borsellino, inserita nell’ambito di una più articolata “strategia stragista” unitaria, sia stata determinata da Cosa Nostra per finalità di vendetta e di cautela preventiva. Ed è anche logico affermare che vi sia stata una finalità di “destabilizzazione” intesa ad esercitare una pressione sulla compagine politica e governativa che aveva fino a quel momento attuato una drastica politica di contrasto all’espansione del crimine organizzato mafioso”.
E ancora: “Deve essere ritenuta ancora attuale la valutazione espressa dai Giudici Supremi in seno alla prima sentenza emessa nel procedimento Borsellino ter relativamente alla incidenza che la cd. “trattativa Stato-mafia” avrebbe avuto sulla deliberazione della strage di via D’Amelio anche alla luce delle ulteriori acquisizioni probatorie cristallizzate nel presente procedimento. Deve dunque escludersi la sussistenza di elementi probatori idonei a fare ritenere che vi sarebbe stata, per la sola strage di via D’Amelio, una sorta di “novazione” della deliberazione di morte, tale da avere determinato una soluzione di continuità rispetto alla precedente deliberazione stragista risalente alla riunione degli ‘auguri di fine anno 1991’”.
La sentenza, chiaramente, determina che la causale della strage è di matrice mafiosa.
“Allo stato, comunque, il quadro probatorio appare immutato rispetto a quello già considerato dalla Suprema Corte di Cassazione nella richiamata pronuncia del 2003, non sussistendo altri elementi probatori per dire che la strage di via D’Amelio abbia avuto una causale diversa dalla matrice mafìosa o che la stessa sia ascrivibile ad un contesto deliberativo diverso da quello accertato nel corso del presente procedimento, nel quale si inscrive il protagonismo dell’imputato appellante”.
E ancora: “E’ possibile che la decisione di morte assunta dai vertici mafiosi nella corale riunione degli auguri di fine anno 1991 della Commissione Provinciale, e nelle precedenti riunioni della Commissione Regionale, abbia intersecato convergenti interessi di altri soggetti o gruppi di potere estranei a Cosa Nostra. Ma ciò non può equivalere a mettere in ombra la paternità della terribile decisione di morte compiuta da Cosa Nostra né condurre ad escludere la responsabilità penale di coloro che ebbero a partecipare alle riunioni deliberative.”
In chiusura vengono rigettati tutti gli appelli presentati.
“Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, l’impugnata sentenza deve essere pertanto confermata con riguardo a tutte le posizioni, stante l’infondatezza degli appelli proposti”.
Breve cronistoria dei procedimenti relativi alla strage di via d’Amelio Il procedimento “Borsellino uno” veniva concluso, in primo grado, con la sentenza pronunciata dalla Corte d’Assise di Caltanissetta il 27 gennaio 1996 e riconosceva colpevoli del delitto di strage Vincenzo Scarantino, Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto, condannando il primo a 18 anni di reclusione e gli altri tre all’ergastolo per aver partecipato a vario titolo alle fasi esecutive dell’attentato e della decisione deliberativa.
Determinanti, per il giudizio di condanna, risultarono le dichiarazioni rese dai tre “collaboratori” Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Salvatore Condura.
All’esito del giudizio d’appello, la Corte di Assise di Appello di Caltanissetta, con sentenza del 23 gennaio 1999, assolveva Pietro Scotto (per non aver commesso il fatto) e riqualificava la condotta (di strage) ascritta a Orofino come favoreggiamento, aggravato dalla circostanza di cui all’art. 7 delle legge 203 del 1991, condannandolo a alla pena di nove anni di reclusione. Rimaneva confermata la condanna all’ergastolo nei confronti di Salvatore Profeta.
La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 18 dicembre 2000, confermava la sentenza impugnata. Il procedimento “Borsellino bis” vedeva come imputati sia alcuni dei mandanti che taluni esecutori materiali della strage, fra i quali anche quelli chiamati in correità da Scarantino, e precisamente Gaetano Scotto, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Giuseppe Urso e Gaetano Murara, oltre a Riina Salvatore, Aglieri Pietro, Greco Carlo, Graviano Giuseppe, Biondino Salvatore e altri, questi ultimi per aver preso parte al momento deliberativo della strage. In primo grado, la Corte di Assise di Caltanissetta, con sentenza del 13 febbraio 1999, confermava sostanzialmente, quanto agli imputati chiamati in correità da Scarantino, i risultati della sentenza di secondo grado del “Borsellino uno”, assolvendo quindi gli imputati chiamati in correità esclusivamente da Scarantino, ritenendo le dichiarazioni di quest’ultimo prive di riscontri.
Riportavano condanna Riina Salvatore, Pietro Aglieri e Carlo Greco, quali esponenti della famiglia della Guadagna, Giuseppe Graziano per il mandamento di Brancaccio, Salvatore Biondino per il mandamento San Lorenzo e Tagliavia Francesco con l’accusa di essere stati i mandanti della strage di via d’Amelio, per aver preso parte alla deliberazione della stessa, in quanto componenti la Commissione Provinciale “intorno al mese di marzo 1992”, dopo la sentenza del Maxiprocesso, oltre che per aver preso parte al progetto esecutivo.
Veniva confermata la natura mafiosa del movente della strage, pur non escludendosi la sussistenza di “estranei interessi distinti da quelli specifici della suddetta organizzazione mafiosa, che in un dato momento storico possono aver assunto una posizione convergente per questi ultimi”.
La conclusione era, comunque, quella di ritenere che eventuali, occulti, interessi estranei a Cosa Nostra non avrebbero mai potuto porsi “in antitesi con l’interesse fondamentale di eliminazione fisica del dott. Borsellino da tempo coltivato dall’organizzazione mafiosa Cosa Nostra”.
La Corte di Assise di Appello di Caltanissetta, con sentenza del 18 marzo 2002, ribaltava in parte le conclusioni del giudice di primo grado, rivalutando integralmente le dichiarazioni accusatorie di Scarantino e Andriotta, condannando per strage anche quegli imputati che erano stati assolti in primo grado da tale imputazione (Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Urso Giuseppe, Vernengo Cosimo, Tinirello Lorenzo e Murana Gaetano).
La Suprema Corte confermava la sentenza in appello, con propria decisione del 3 luglio 2003, affermando – in punto di competenza della Commissione Provinciale e di prova del concorso morale – che “la strage è stata deliberata in seno alla commissione provinciale di Palermo, organismo di vertice che governa sul territorio delle singole province costituito dai capi mandamento e dai loro sostituti in caso di impedimento dei primi”.
Intanto, nell’estate del 1996, durante la pendenza dei primi due procedimenti avviati, il “Borsellino uno” e il “Borsellino bis”, le indagini sulla strage di via d’Amelio subivano un’ulteriore svolta a seguito della cattura e della decisione di collaborare di diversi “uomini d’onore” direttamente implicati negli avvenimenti.
Si tratta di Ganci Calogero, capomandamento della Noce e fedelissimo di Riina il 7 giugno 1996, di Anzelmo Francesco Paolo e Galliano Antonino il 19 luglio 1996, entrambi nipoti dello stesso Ganci, Ferrante Giovanbattista il 12 luglio 1996, Brusa Giovanni dai primi dell’agosto 1996, Cangemi Salvatore il 29 luglio 1996 e Siino Angelo dal luglio 1997.
I racconti dei nuovi collaboratori permettevano di delineare in modo più nitido la fase esecutiva della strage e di risalire ad ulteriori mandanti della stessa, in aggiunta a quelli che già erano stati imputati nei due precedenti processi, attraverso una ulteriore definizione del ruolo della commissione provinciale.
Si arrivava, così, alla celebrazione di un “Borsellino ter”.
A conclusione di tale processo, la Corte d’Assise di Caltanissetta, con sentenza del 9 dicembre 1999, condannava quali mandanti, nella qualità di componenti della commissione provinciale, Brusca Bernardo, Calò Giuseppe, Farinella Giuseppe, Giuffrè Antonino, Graviano Filippo, La Barbera Michelangelo, Montalto Giuseppe, Montalto Salvatore, Motisi Matteo e Provenzano Bernardo. Tale ultima sentenza ribadiva che la strage di via d’Amelio non potesse essere intesa come un fatto isolato, costituendo bensì espressione di una “strategia stragista”, comprendente l’eliminazione dell’on. Lima ucciso il 12 marzo 1992, dei giudici Falcone e Borsellino uccisi il 23 maggio e il 19 luglio 1992, di Ignazio Salvo ucciso il 17 settembre 1992, nonché una serie successiva di stragi a Firenze, Milano e Roma che “si prefiggeva non solo lo scopo immediato di uccidere le persone specificatamente individuate ma anche di mettere in discussione la capacità della compagine governativa che, sino ad allora, aveva adottato le misure antimafia, di mantenere l’ordine pubblico, in modo da provocarne la destabilizzazione e da ottenere da coloro che avessero avuto l’intento di prenderne il posto sostanziose concessioni pur di ripristinare un clima di sicurezza generale”.
La sentenza veniva, poi, parzialmente modificata dalla Corte di Assise di Appello di Caltanissetta, del 7 febbraio 2002, con l’affermazione di penale responsabilità degli imputati Madonia Francesco e Biondo Salvatore (cl. 1956) ritenuti responsabili anche di concorso nel reato di strage, in accoglimento dell’appello proposto dal Procuratore Generale.
La Corte di Cassazione, con sentenza del 17 gennaio 2003, annullava in parte la sentenza di appello e in particolare le assoluzioni di Benedetto Santapaola, Antonino Giuffrè, Giuseppe Farinella e Salvatore Buscemi, disopnendo il rinvio davanti alla Corte d’Appello di Catania.
Il giudizio veniva concluso con sentenza della Suprema Corte di Cassazione del 18 settembre 2008, con integrale conferma della sentenza emessa dalla Corte di Assise di Appello di Catania, quale giudice di rinvio.
Nel 2008 Gaspare Spatuzza decideva di intraprendere il cammino di collaborazione con la giustizia fornendo una ricostruzione dei fatti diversa da quella precedentemente resa da Scarantino Vincenzo.
Il procedimento “Borsellino quater” presenta, quindi, una singolare genesi, in quanto avviato a seguito di una riapertura delle indagini per le stragi di Capaci e via d’Amelio indotta dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza.
Dalle dichiarazioni del predetto nascevano anche problemi di verifica e tenuta delle precedenti pronunce che avevano definito, in particolare, i procedimenti “Borsellino uno” e “Borsellino bis”, nelle quali il giudizio di penale responsabilità era risultato in modo preponderante, se non esclusivo, fondato sulle dichiarazioni rese da Salvatore Candura, Francesco Andriotta e soprattutto Vincenzo Scarantino, ritenute reciprocamente riscontrate.
Con sentenza del 13 luglio 2017, divenuta definitiva, la Corte di Assise di Appello di Catania, accogliendo l’istanza di revisione, scagionava tutti coloro che erano stati ingiustamente condannati sulla base delle dichiarazioni dei falsi pentiti.
L’intensa attività istruttoria compiuta nel dibattimento di primo grado del “Borsellino quater”, integrata, in alcuni punti, anche nel giudizio di appello da ulteriori acquisizioni documentali, ha consentito di acclarare che le dichiarazioni mendaci rese da Andriotta Francesco e Scarantino Vincenzo oltre che da Condura Salvatore, fin dalla prima fase delle indagini e fino alla conclusione del procedimento “Borsellino bis”, lungi dal costituire il frutto di un isolato intento calunniatore, rappresentano singoli tasselli di una verità costituita che, in quel determinato momento storico, si è voluto accreditare, risultando avvinte da una sorprendente circolarità di contenuti e fondate su frammenti di verità, in ordine ad alcuni dettagli degli eventi, che solo fonti qualificate potevano conoscere.
Non sono state, tuttavia, accertate le finalità del depistaggio, non potendo che trovare conferma l’ipotesi dei primi Giudici secondo cui, ritenuta probabile l’esistenza di una fonte confidenziale “gli inquirenti tanto abbiano creduto a quella fonte, mai resa ostensibile, da avere poi operato una serie di forzatura per darle dignità di prova”.
Rispetto alla strage di via d’Amelio sono stati acquisiti plurimi ulteriori elementi – in ordine alla ricostruzione del contesto e delle motivazioni dello stesso attentato, oltre che in ordine all’accelerazione dello stesso. Rimessi alla valutazione della Corte con la conseguenza di escludere che possa parlarsi per i due processi di identica piattaforma probatoria. WORDNEWS 19.1.2021 ROBERTO GRECO