“L’ultima sentenza sulle stragi? Un punto di partenza per nuove indagini”.  Parla il pm Gabriele Paci

 

 

 

a 24 ore dalla pronuncia dell’ergastolo contro il latitante Matteo Messina Denaro per le stragi Falcone e Borsellino

22 ottobre 2020

“L’ultima sentenza sulle stragi? Un punto di partenza per nuove indagini”.  Parla il pm Gabriele Paci a 24 ore dalla pronuncia dell’ergastolo contro il latitante Matteo Messina Denaro per le stragi Falcone e Borsellino 

“Non esistono sentenze scontate nel nostro ordinamento giudiziario e certamente non era scontata questa sentenza sol perché imputato. è stato un conclamato capo mafia assassino, ergastolano. A questa pronuncia siamo giunti dopo tre anni di processo, numerose udienze, tanti testimoni sentiti”.

A parlare è il procuratore aggiunto della Dda di Caltanissetta Gabriele Paci, pm nel processo che nella notte di martedì si è concluso con la lettura da parte della presidente della Corte di Assise Roberta Serio, del dispositivo di condanna all’ergastolo contro il boss castelvetranese Matteo Messina Denaro, mandante delle stragi Falcone e Borsellino. Una pronuncia che arriva a ventotto anni dalle stragi, ma è importante, spiega il pm Paci da noi intervistato.

Partiamo da qui dottore Paci, Lei ha detto non era e non poteva essere una sentenza scontata, ma siamo dinanzi ad una ennesima condanna all’ergastolo di un mafioso latitante, Matteo Messina Denaro, ricercato da 27 anni.

“La sentenza è importante perché intanto la Giustizia non può lasciare, non deve lasciare, soggetti rei non puniti. E Matteo Messina Denaro per le stragi del 1992 non era mai stato imputato. E’ una sentenza importante perché non è nostra intenzione prendere questa sentenza, con le sue motivazioni quando saranno depositate, e consegnarla agli archivi della Giustizia. Come magistratura non abbiamo finito. La condanna all’ergastolo è punto di partenza per una serie di indagini, serve mettere insieme tutto il patrimonio raccolto dalle Procure che hanno indagato su Cosa nostra e sulle stragi mafiose, bisogna capitalizzare le conoscenze.”

Ci spieghi.  “Questa è una sentenza importante perché intanto ci consegna che vicino a Totò Riina in quella stagione stragista c’erano tre boss mafiosi su tutti, Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano e Leoluca Bagarella. Tre boss mafiosi (il primo assolutamente libero di muoversi negli anni della stragi, il primo ordine di arresto fu del giugno 1993 ndr) che devono essere visti come un’unica pericolosa entità. Protagonisti di una stagione ricca di depistaggi, false piste che sono servite per non far rendere giustizia e verità e per rendere più forte Cosa nostra, la cui potenza militare è stata colpita, ma non del tutto quella economica e delle connessioni”.

Sarà interessante leggere le motivazioni di questa pronuncia, solo per il materiale raccolto sotto i profili da Lei appena detti. “Certo, in questo processo abbiamo sentito persone che in questi vent’anni e passa o non sono stati sentiti o alle quali non sono state fatte le domande giuste”.

Ci sono responsabilità personali? A chi si riferisce?  “Penso che come Procura di Caltanissetta abbiamo dimostrato durante questo processo che il depistaggio non ci fu nel momento stesso in cui venne fatta esplodere la Fiat 126 in via D’Amelio, in quel 19 Luglio del 1992, ma dobbiamo semmai parlare di depistaggi e ancora prima della strage di Capaci. Quando nelle Procure, in periodi certamente antecedenti alle stragi, ma eravamo in tempi successivi al maxi processo di Palermo, vennero portati collaboratori di giustizia che fuori dai Palazzi di Giustizia erano stati creati a tavolino, nel processo contro Messina Denaro alcuni li abbiamo indicati come gli inquinatori dei pozzi. Pentiti ai quali sarà stato fatto dire ciò che proveniva da fonti confidenziali, qualcuno ha aggiunto cose con tanto di fantasia, ma  loro hanno provocato altre collaborazioni autentiche e importanti dei veri uomini d’onore”.

Quasi un senso di rivalsa contro i falsi pentiti? “Ci sono state nel tempo molteplici false indicazioni fatte arrivare sui tavoli dei magistrati”.

Come indicare capo assoluto della mafia trapanese il mazarese Mariano Agate? “Attenzione Agate fu indubbiamente un autorevole uomo di Cosa nostra, ma non ne era il capo, a guidare la cupola trapanese era don Ciccio Messina Denaro e dopo di lui il figlio, Matteo. Ecco in quegli anni ’90 ci fu consegnata enfatizzata la figura di Mariano Agate, mentre si taceva sui Messina Denaro. Così come accadeva nel mandamento di Trapani. Non dimentico quel 1992, quando le bombe a Palermo erano state fatte scoppiare, o meglio erano cominciate a scoppiare ancora prima, nel 1985 a Pizzolungo, e gli investigatori davano la caccia ad un latitante morto nel 1982, il capo mafia di Trapani Totò Minore. E per scoprire che al suo posto c’era Vincenzo Virga c’è voluta una indagine contro una banda di estortori, criminalità comune, che in un dialogo si lasciarono sfuggire il nome di Virga. La sua oreficeria aveva subito una rapina, e il capo banda se la prese a male con chi aveva fatto quel colpo, ignaro che era andato a rubare a casa del padrino di Trapani che intanto faceva l’imprenditore, parlava con la politica e per avere una sua foto siamo dovuti andare a recuperare le foto del matrimonio del figlio. Non c’era nemmeno la foto segnaletica. Sta qui nel sapere nascondersi la scaltrezza della mafia trapanese”.

Depistaggi e pentiti istruiti, un unicum?  “La scena c’è, ma quando affermiamo che la sentenza di martedì notte è una sentenza importante, è perché c’è un nuovo lavoro inquirente che possiamo far partire”.

Ne possiamo parlare?  “Penso per esempio ad un grave episodio gravemente sottovalutato, il tentativo di uccidere a Mazara il vice questore Rino Germanà, era il 14 settembre 1992. Poco fa ho fatto tre nomi, Messina Denaro, Graviano e Bagarella, furono loro a tentare di uccidere Germanà che si salvò perché bravo e lesto e quel giorno non usò la moto come era solito fare ma guidava un’auto e potè scorgere della micidiale arma che da dietro, da un’altra auto, gli era stata puntata contro. Ma penso anche all’omicidio del capo mafia di Alcamo Vincenzo Milazzo e della sua compagna Antonella Bonomo, massacrati alla vigilia dell’attentato contro Borsellino, alla presenza della massoneria deviata a Trapani, ai rapporti economici stretti da Cosa nostra sull’isola di Malta, del tentativo della mafia di acquistare un isolotto a Malta, l’isola di Manuel, con la mediazione di un notaio massone di Castelvetrano, Pietro Ferraro. Ognuno di questi episodi è stato liquidato in modo troppo semplice, lì dentro si nascondono i depistaggi che come le dicevo non sono cominciati il 19 luglio del 1992”.

Lei ha lavorato per molti anni a Trapani, ha conosciuto da magistrato quella mafia cosiddetta di provincia che resta lo zoccolo duro anche in questo secolo come nel precedente, quando ancora non c’era la Procura distrettuale e poi da pm della Dda di Palermo fu pm nel maxi processo Omega quello che ricostruì quasi 30 anni di Cosa nostra trapanese. Ha coordinato le indagini sul mandamento di Alcamo, ha seguito la collaborazione con la giustizia degli alcamesi Ferro, Giuseppe e Vincenzo, padre e figlio, il primo per anni si era finto demente, mentre andava in giro e partecipava ai summit di mafia anche quelli sulle stragi. Una esperienza che abbiamo capito seguendo processo e requisitoria che per intero ha portato nel dibattimento contro Messina Denaro qui a Caltanissetta.

“Sta nella consapevolezza giudiziaria acquisita in quegli anni l’aver potuto sostenere in questi tre anni di processo, dei depistaggi”. Mi permetta di dire che i depistaggi hanno segnato la storia quanto forse ancora il presente, della nostra terra, almeno per via di rapporti rimasti nascosti non scoperti, certi protagonisti sono ancora in vita. Vicende che poi restano sotto la tutela di certe logge massoniche che hanno la sfrontatezza di non celarsi come un tempo.

“E’ per questo che serve fare nuove indagini, oggi la capacità di lettura di certi avvenimenti nel tempo è certamente diversa, penso che possiamo ottenere importanti risultati”.

Le accennavo alla massoneria. “E’ quella parte che ancora ci manca, sappiamo, proprio grazie a indagini condotte a Trapani, la Iside 2, che ci sono stati legami tra mafia e massoneria, così come indagini tra Trapani e Palermo ci svelano rapporti con i servizi, ma sono conoscenze superficiali, bisogna andare fino in fondo”.

Messina Denaro condannato per le stragi Falcone e Borsellino: ha appoggiato Riina  I giudici di Caltanissetta hanno inflitto l’ergastolo a U siccu, boss di Trapani, latitante dal 1993, perché accusato di essere il mandante degli attentati a Palermo del 1992 per il quale non era stato mai processato Il latitante Matteo Messina Denareo, “ù siccu”, è stragista e affarista, come lo definiva negli ultimi anni Salvatore Riina, prima di finire i suoi giorni in carcere. Negli ultimi venticinque anni il capo della mafia trapanese ha smesso i panni dell’assassino ed ha indossato quelli dell’uomo d’affari. Coperto dalla sua invisibilità iniziata nel 1993, oggi è il latitante più ricercato d’Europa e il mafioso più ricco di Cosa nostra. I giudici di Caltanissetta adesso lo hanno condannato all’ergastolo perché ritenuto uno dei mandanti delle stragi del 1992, quelle in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per questi fatti il latitante trapanese non era stato mai processato. Questo processo, sostenuto in aula dal pm Gabriele Paci, è diverso dagli altri che si sono svolti in passato e che riguardavano i mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Per portare sotto inchiesta il capo della mafia di Trapani in questi ultimi anni sono stati raccolti nuovi temi d’indagine, e nuove rivelazioni di collaboratori di giustizia, quindi nuove prove che al tempo degli altri processi non c’erano. Durante il dibattimento l’imputato è stato ben difeso da un avvocato d’ufficio, e sono stati analizzati dall’accusa tanti aspetti del latitante, che è stato descritto come l’ombra di Salvatore Riina.   

«La mafia trapanese» ha spiegato ai magistrati l’ex capomafia Antonino Giuffrè «è la più forte, ed è un punto di incontro tra i Paesi arabi, l’America e la massoneria».  L’inizio della stagione stragista dei primi anni Novanta, che ha drammaticamente segnato la nostra storia, è stato deciso anche grazie al benestare di Matteo Messina Denaro, che non ha ostacolato la linea di Riina, appoggiandolo nelle sue scelte terroristiche, e restando a lungo nell’ombra. In questo modo ha pure evitato in passato di essere annoverato tra i mandanti degli attentati del 1992. Di questo mosaico mafioso mancava infatti il pezzo più importante, e cioè il ruolo del boss trapanese che ha detto sempre di sì a Riina. Uno “yes man” che ha appoggiato tutte le follie del capo di Cosa nostra, compresa l’organizzazione che ha messo in ginocchio l’Italia per oltre un ventennio. Era la guerra allo Stato e Matteo Messina Denaro conosceva ogni piano, ogni azione, ogni segreto. Perché il mafioso trapanese è cresciuto sulle ginocchia di Riina, tanto da diventare uno dei “corleonesi” più fidati. E oggi, che continua a essere un mafioso libero di circolare, porta con sé i segreti del capo dei capi.
“U siccu” non si è opposto alle uccisioni di Falcone e Borsellino e non ha ostacolato le bombe che sono arrivate nel 1993 nel continente, dove personalmente si è attivato per farle piazzare ai suoi “picciotti”. Ha fatto parte di un unico progetto che, alle vittime degli attentati di Palermo, legava i morti e le distruzioni di Firenze, Roma e Milano. Oggi si può dire che proprio la prospettiva di Matteo Messina Denaro ci permette di avere una visione più ampia e matura di quegli accadimenti.
Giuffrè ha raccontato di una riunione della commissione provinciale palermitana di Cosa nostra a dicembre del 1991, finalizzata, tra l’altro, allo scambio degli auguri di Natale tra i mafiosi. È l’occasione in cui viene dato il via al programma stragista. E si deve alla testimonianza dei collaboratori di giustizia Sinacori, Brusca, Geraci e La Barbera il riferimento al ruolo dei trapanesi nella fase deliberativa, organizzativa ed esecutiva. Grazie a questi collaboratori solo adesso sappiamo che all’interno dell’organizzazione esisteva una «Cosa nostra nella Cosa nostra» o, come la chiamava Riina, la «Supercosa». Si trattava di uno zoccolo duro alle dirette dipendenze del capo dei capi che ne supportava ogni decisione o strategia. E di questo cerchio magico della “supercosa” faceva parte “u siccu”.
Nella riunione in questione Riina esordì dicendo: «Ora è arrivato il momento in cui ognuno di noi si deve assumere le sue responsabilità». Non c’era altro da aggiungere, i presenti conoscevano benissimo il tragico significato di quelle parole. Racconta Giuffrè che calò il gelo nella stanza e che nessuno osò profferire parola in quanto «eravamo arrivati al capolinea, cioè ci doveva essere la resa dei conti».
La sentenza della Cassazione sul maxiprocesso non era ancora stata emessa, ma i boss ne avevano percepito l’esito infausto, che non solo minava le basi dell’esistenza stessa di Cosa nostra (la quale vedeva i suoi vertici condannati all’ergastolo e costretti, per evitare il carcere, a darsi alla latitanza), ma suonava anche come uno schiaffo alla strategia di Riina, che aveva sino ad allora sostenuto che la situazione era sotto controllo. L’onta da lavare, per il capo dei capi, era così grande da non temere le drastiche reazioni dello Stato per i suoi uomini colpiti e le vittime innocenti: «Chiddu chi veni nì pigghiamu». Quello che viene ci prendiamo. Erano pronti a tutto.
E così nel piano stragista corleonese, Matteo Messina Denaro ha avuto un ruolo importante: prima è stato al fianco di Riina, appoggiando la tattica degli attentati del 1992, e poi, dopo l’arresto del capo dei capi, ha tenuto una linea dura e aggressiva. È stato lui a spiegare a Sinacori che le stragi di Palermo rientravano in un progetto unitario, mentre diversi erano gli obiettivi per le bombe del 1993: «La strategia degli attentati era finalizzata a far scendere a patti lo Stato, ma non so dire se fossero state intavolate trattative di alcun genere. So soltanto che Matteo si rendeva perfettamente conto che non vi era futuro e che erano stati trascinati in una sorta di vicolo cieco da Riina».
C’è un’altra riunione decisiva per comprendere come sono andate le cose. Si svolse il primo aprile 1993 all’ombra dell’Hotel Zagarella a Bagheria, e ce ne parla ancora Sinacori. Da questo incontro appare chiaro che Cosa nostra aveva due anime, quella moderata che faceva capo a Giovanni Brusca, contraria al proseguimento della stagione stragista, e quella più aggressiva capitanata da Bagarella, Graviano e Messina Denaro, che si dichiaravano oltranzisti e credevano che la strategia degli attentati fosse «l’unica che poteva mantenere alta la dignità dei corleonesi». Binu Provenzano, dopo aver incontrato Bagarella, sposò la linea dura, «a condizione che gli attentati fossero fatti al Nord e diede il via». E il cognato di Riina, in modo sprezzante, gli rispose: «Se vossia non è d’accordo, se ne vada in giro con un bel cartello al collo con la scritta: io con le stragi non c’entro». U zu Binu, a quel tempo, aveva dovuto incassare: non poteva certo competere con la potenza militare degli «altri» corleonesi.
La morte di Riina a novembre 2017 non ha avuto come conseguenza un’evidente successione al trono di Cosa nostra, che appare sempre più un’organizzazione criminale segreta con due anime. Una conservatrice, radicata nei paesi della provincia, che assicurano la forza della tradizione, e un’altra più «moderna», insediata nelle città capoluogo come Palermo, Catania, Trapani e Messina, che rappresentano un modello più avanzato, in linea con le mafie moderne. Due anime diverse, dunque, che convivono e permettono che il richiamo al rassicurante e solido passato coesista con la necessità di stare al passo con il futuro. E Matteo Messina Denaro, in questo scenario, interpreta il ruolo di boss in modo nuovo. Il suo è un modello evolutivo, in cui i vertici si allontanano dagli affari «piccoli e sporchi» della base per avvicinarsi ai grandi interessi dell’economia nazionale.
Chi protegge Matteo Messina Denaro Il diffuso sentimento di fedeltà nei suoi confronti da parte di molti mafiosi si contrappone a segnali di insofferenza da parte di alcuni affiliati trapanesi a Cosa nostra, preoccupati per una gestione della catena di comando difficoltosa a causa della latitanza. Visto che “u siccu” non assume ufficialmente il ruolo di capo della nuova cupola mafiosa – anzi, come svelano le intercettazioni, non vuole alcuna responsabilità di vertice nella gerarchia interna all’organizzazione e per questo se ne sta distante – conviene, per analizzare meglio come è strutturata Cosa nostra dopo la morte di Riina, guardare dentro il carcere, analizzare i movimenti dei detenuti rinchiusi nelle sezioni di alta sicurezza o in quelle riservate ai 41 bis, osservare da vicino la vita carceraria, quali tipi di rapporti si sono creati.In base ai loro movimenti, ai loro saluti, ai segnali che si scambiano, è possibile ridisegnare la mappa delle famiglie che stanno fuori. Perché le carceri sono lo specchio della mafia che opera all’esterno. Pur essendo un ambiente intrinsecamente chiuso, infatti, la prigione non è affatto impermeabile alle dinamiche che determinano il corso degli eventi al di fuori delle loro mura: direttive politiche, quindi, ma anche cambi di ruolo ai vertici delle organizzazioni criminali. Tutto si riverbera all’interno delle mura del carcere. E oggi il 41bis sembra non essere più così impermeabile come sulla carta dovrebbe esserlo. Dal carcere trapelano gli ordini dei boss e i boss approfittano di molte insenature giuridiche che via via si sono create per ottenere benefici e far scivolare all’esterno messaggi e segnali che hanno un solo obiettivo: quello di trasmettere la loro potenza.  Oggi per fermare Matteo Messina Denaro, il boss che da stragista si è trasformato in affarista, occorre conoscerlo, capire come opera, quali reti politiche, imprenditoriali, criminali lavorano per lui o con lui. Occorre ricomporre il mosaico che raffigura u Siccu, l’ultimo dei corleonesi, il latitante più ricercato d’Europa, per comprendere come questo mafioso è oggi molto pericoloso, non solo perché è un assassino, ma perché è nelle condizioni finanziarie di inquinare l’economia legale del nostro Paese e distruggere mercati e affari, favorendo solo le sue casse, con denaro sporco. Per questo è necessario che venga arrestato il prima possibile. LIRIO ABBATE 21 ottobre 2020 L’ESPRESSO