LO STATO SI È ARRESO: DEL POOL ANTIMAFIA SONO RIMASTE MACERIE – Intervista rilasciate da Paolo Borsellino ad Attilio Bolzoni de “La Repubblica” 20 Luglio 1988
“VOGLIONO SMANTELLARE L’ANTIMAFIA” di Saverio Lodato, giornalista de “L’Unità”, intervista Paolo Borsellino 20 Luglio 1988
Verbale CSM Audizione dottor Borsellino – 31 luglio 1988
“Così la maggioranza del Csm voleva bloccare Falcone e Borsellino”
E’ la domanda più importante, perché consente a Paolo Borsellino di lanciare il suo monito, che ancora oggi è di grandissima attualità: «Sono convinto che il momento giudiziario delle indagini sulla criminalità organizzata è di per sé soltanto un momento e forse neanche il più importante». D’Ambrosio incalza, è ormai l’avvocato difensore di Borsellino e vuole che non restino dubbi sul valore civile di quella denuncia pubblica sul pool: «Quindi lei è convinto che l’opinione pubblica debba essere il più possibile informata?». Borsellino dice: «Secondo me è indispensabile. Io sono vissuto in una società in cui quando avevo 15 anni un mio compagno di scuola si vantava di essere figlio o nipote del capo mafia del suo paese e io lo invidiavo. Oggi, le indagini hanno avuto di riflesso una valenza culturale, ma purtroppo c’è sempre, ed è estremamente diffusa, la voglia di convivenza col fenomeno mafioso».
Parole che più attuali non potrebbero essere. «Borsellino era consapevole del suo destino – dice oggi Vito D’Ambrosio – ricordo che dopo il funerale di Falcone mi riaccompagnò all’aeroporto, gli dissi “Paolo ora stai attento perché il prossimo obiettivo sei tu”; mi rispose: “Vito, io posso stare attento quanto voglio, ma se loro hanno deciso lo faranno, mi ammazzeranno». Quell’interrogatorio al Csm fu davvero una pagina nera. «Qualche tempo prima, a Falcone era stato preferito come consigliere istruttore capo Antonino Meli. Con quell’intervista, Borsellino presentava il conto al Consiglio. E in quel momento, il Csm è nudo. Alcuni componenti non potevano stare a guardare, Borsellino doveva essere stroncato». D’Ambrosio fa una pausa e aggiunge: «Io non ho le prove, ma credo che ci fosse una strategia ben precisa per smantellare il pool di Palermo. Prima Falcone, poi Borsellino».
Fu la seduta della vergogna, quella. «Decisi che era necessario impostare una vera e propria linea difensiva», prosegue l’ex magistrato, che rappresentò poi la pubblica accusa in Cassazione per il primo maxiprocesso. Le immagini di quegli anni sono tante. «Con Giovanni Falcone c’era una grande amicizia – dice D’Ambrosio – ricordo un momento sereno con lui, un aperitivo in un locale. Fumava tanto, mia moglie glielo fece notare, lui rispose, col suo solito sorriso: “Di sicuro non morirò per le sigarette”».
“Avete fermato Falcone” L’accusa di Borsellino processato dal Csm
Continuavano a chiedergli: «Non le sembra di aver fatto una denuncia un tantino avventata? ». E poi, insistendo: «Perché ha parlato con un giornalista e non con il Consiglio superiore della magistratura?». Quattro ore di domande, quattro ore di umiliazioni. Processato, l’unico colpevole. Povero Paolo Borsellino, mortificato e offeso solo per avere detto la verità: «Il giudice Falcone non è più il titolare delle grandi inchieste che sono cominciate con il maxiprocesso, la polizia non sa più nulla dei movimenti dentro Cosa nostra, stiamo tornando indietro di dieci, vent’anni». Atto di accusa durissimo che adesso affiora dagli archivi segreti di Palazzo dei Marescialli. Un’intervista rilasciata il 20 luglio del 1988 a Repubblica e all’Unità dopo che tre mesi prima il Csm — quello stesso che lo stava “processando” — aveva preferito Antonino Meli al posto di Falcone come consigliere istruttore, scelta che aveva cancellato tutto il lavoro del pool antimafia. Ma sotto inchiesta per avere “parlato” era finito solo lui, il procuratore capo di Marsala Paolo Borsellino.
E quel 31 luglio, a nemmeno due settimane dallo sfogo del magistrato che aveva fatto intervenire il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, a Borsellino non era rimasto che allargare le braccia: «Mi rimetto alle decisioni di chi dovrà giudicare questo mio comportamento». Ventiquattro ore prima il giudice Falcone aveva preso la clamorosa decisione di dimettersi dal pool dell’ufficio istruzione ma i consiglieri del Csm — più che ad allarmarsi per le parole di Borsellino — erano interessati a “punirlo”. Oggi, venticinque anni dopo l’uccisione del procuratore, il verbale di quell'”interrogatorio” è stato desecretato, insieme a tutti gli altri atti di quell’ignobile processo. Sono le scuse ufficiali dello Stato a un magistrato che ha spezzato un’omertà governativa e denunciato trame e inconfessabili patti. Domani mattina, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, presiederà una seduta solenne del Plenum del Csm, ci sarà anche Lucia, una delle figlie del procuratore assassinato.
«Le parole di Borsellino ci dicono oggi dell’importanza della denuncia dei magistrati e del contributo che possono dare alla vita pubblica», spiega il consigliere Piergiorgio Morosini, che ha fatto parte del gruppo di lavoro che ha recuperato i documenti.
Eccole le carte della vergogna. Borsellino viene convocato davanti a quello che ha tutta l’aria di essere un vero e proprio tribunale. Ad aprire la raffica di domande è il consigliere Franco Morozzo Della Rocca: «Questa è una notizia che ha avuto dai suoi colleghi?». Risponde Borsellino: «L’ho avuta dai miei colleghi e l’ho verificata personalmente». Il consigliere Morozzo prova a buttarla sul pettegolezzo: «Quindi, se ho capito bene, c’era un certo disappunto dei colleghi del pool perché il consigliere capo si era preso il processo 1817/85».
Meli aveva smantellato il pool e tolto a Falcone tutte le indagini, Borsellino reagisce: «Non è che i colleghi del pool si mostrassero in disappunto. Trattandosi di un processo di due milioni di pagine, ritenevano opportuno che la direzione del processo fosse mantenuta nelle mani di chi conosceva tutto il materiale ».
L’altro affondo è del consigliere Gianfranco Tatozzi, che comincia con una domanda maliziosa: «Il presidente della Corte d’Appello Conti ha parlato di rapporti poco buoni tra Falcone e Chinnici». Borsellino non fa passare neanche questa: «No, la questione non sta in questi termini… Quando io arrivai all’ufficio istruzione non sapevo affatto quello che faceva il giudice della porta accanto. Il consigliere Chinnici si poneva il problema di favorire lo scambio di conoscenze fra di noi». Il consigliere Tatozzi torna alla carica: «Ma non ha ritenuto opportuno ad esempio parlare di queste cose con il comitato antimafia del Csm?». Ancora Borsellino: «Non vedo perché l’opinione pubblica non debba essere interessata a questi problemi».
Quel giorno, al Csm, c’è anche chi esprime prima «ammirazione per il collega» ma poi arriva a bollare come «un tantino sproporzionata» la sua denuncia. È il consigliere Umberto Marconi: «Non le pare forse che sia stato un tantino avventata? ». Marconi lo incalza: «La mia seconda domanda vuole essere involontariamente un po’ più cattiva». L’audizione è un tiro incrociato.
Ma è il consigliere Loris D’Ambrosio — il magistrato che diventerà poi consigliere del Presidente Napolitano e che morirà di crepacuore nel 2012 nel mezzo della polemica sulle telefonate con la voce del Capo dello Stato intercettata — che prova a neutralizzare le aggressioni contro il procuratore. A Palazzo dei Marescialli D’Ambrosio si trasforma nell’avvocato difensore di Borsellino.
Il procuratore “imputato”. Un «pre-disciplinare» che non ebbe conseguenze per lui solo perché l’ispettore nominato dal ministro della Giustizia Sebastiano Vassalli — quel galantuomo di Vincenzo Rovello — scrisse senza mezzi termini nella sua relazione che Borsellino aveva ragione: con la nomina di Meli all’ufficio istruzione le indagini si erano fermate.
“Perché ha parlato con i giornali?” “Perché l’opinione pubblica deve sapere”
Attilio Bolzoni E Salvo Palazzolo
27 giugno 1992 L’ ATTO D’ ACCUSA DI BORSELLINO
Paolo Borsellino accusa. Prima il Csm che contrastò la nomina di Falcone a consigliere istruttore, poi il “giuda” che in quell’ occasione lo tradì. Accusa la Cassazione che “continua ad ucciderlo”. Conferma che la “fuga” di Falcone da Palermo avvenne perché in Procura “non poteva più lavorare”. Borsellino parla per venti minuti tra applausi e lacrime di rabbia. E dopo le accuse la conferma: i “cosiddetti diari” pubblicati dal Sole 24 Ore, sono autentici. Scritti da Falcone e letti da Borsellino mentre il magistrato era ancora in vita: “Sono proprio gli appunti di Giovanni”. L’ occasione dello sfogo di Borsellino è il dibattito organizzato dalla rivista Micromega dal significativo titolo “E’ solo mafia?”. Con Borsellino ci sono anche Leoluca Orlando e Nando Dalla Chiesa. Orlando rivela fatti inediti. Il 3 agosto 1988, mentre era sindaco di Palermo, convocò un’ improvvisa e drammatica conferenza stampa: “Quella mattina Falcone mi aveva chiamato dicendomi che temeva di essere ucciso. Ai giornalisti dissi che la mafia aveva il volto delle istituzioni ed evitai un funerale di Stato”. Poi Orlando aggiunge che qualche mese dopo il fallito attentato dell’ Addaura incontrò Giovanni Falcone e quando gli disse che probabilmente non era stata solo la mafia ad organizzarlo, il giudice rispose: “Ma che dici? Che dici? E’ stato Madonia”. “Ma – ha commentato Orlando – non aveva per nulla l’ aria di crederci”. La parola passa a Borsellino. Parla di “Giovanni” sottolineando di non volersi imbarcare “in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per stabilire chi era più suo amico”. Ma il magistrato non dice tutto quello che sa. Prima vuole parlare con i magistrati che indagano sulla strage. #”gli unici in grado di valutare quanto queste cose che io so possano essere utili alla ricostruzione dell’ evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone”. Poi parla della lunga “agonia” del suo amico. Borsellino dà ragione a Caponnetto: Falcone “cominciò a morire nel 1988”, anche se – precisa – “con ciò non intendo dire che la strage sia stata il naturale epilogo di questo processo di morte”. “Oggi tutti ci rendiamo conto di quale sia stata la statura di Falcone e ci accorgiamo – dice – come il paese, lo Stato, la magistratura, che forse ha più colpe di chiunque altro, cominciarono a farlo morire proprio nel gennaio ‘ 88, se non addirittura l’ anno prima, quando Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera bollò me come un professionista dell’ antimafia e l’ amico Leoluca Orlando professionista dell’ antimafia nella politica”. L’ inizio di questo “processo di morte” fu lo scontro tra Falcone e Meli per la carica di consigliere istruttore. “E quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua candidatura alla successione di Antonino Caponnetto, qualche giuda si impegnò subito a prenderlo in giro. E Poi il giorno del mio compleanno – aggiunge Borsellino – il Csm, con motivazioni risibili, il Csm gli preferì Antonino Meli”. Ma nonostante “lo schiaffo” del Csm “Giovanni che aveva un altissimo senso delle istituzioni continuò con impegno nel suo lavoro”. Borsellino intuì che “nel giro di pochi mesi Falcone sarebbe stato distrutto, e ciò che più mi addolorava è il fatto che sarebbe morto professionalmente senza che nessuno se ne accorgesse”. Fu proprio per questa ragione che a quell’ epoca Borsellino quella drammatica intervista concessa a Repubblica e all’ Unità lanciò l’ allarme: il pool antimafia era stato smantellato e le indagini antimafia si erano bloccate. “Per aver denunciato queste verità rischiai conseguenze professionali gravissime ma quel che è peggio intuii – afferma il magistrato – che l’ iniziativa nei miei confronti aveva come obiettivo l’ eliminazione di Giovanni Falcone.allora mi dissi: se deve essere eliminato, l’ opinione pubblica lo deve sapere. Il pool antimafia deve morire davanti a tutti”. Ma la reazione deve sapere. Il pool antimafia deve morire davanti a tutti”. Ma la reazione dell’ opinione pubblica “fece il miracolo”: il pool, “seppur zoppicante”, venne rimesso in piedi. Eppure “la protervia di Antonino Meli e l’ intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e proseguito fino a ieri, continuarono ad uccidere Giovanni Falcone”. L’ ultimo capitolo delle accuse di Borsellino è dedicato alla Superprocura e alla “fuga” da Palermo, a causa del difficile rapporto con Pietro Giammanco. “Falcone approdò in Procura dove a un certo punto ritenne di non poter continuare a lavorare al meglio; andò al ministero di Grazia e giustizia, non per avere un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, di Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne da uomo delle istituzioni di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante. E quando era ad un passo dalla direzione della Superprocura, alla quale anch’ io, a caldo, ho espresso perplessità, la mafia preparò e attuò l’ attentato per impedirgli di continuare a fare il magistrato, perché era questo che faceva paura”. LA REPUBBLICA