Pentito Leonardo Messina, il 17 luglio Borsellino mi disse che era arrivata la sua ora

Il 17 luglio 1992, cioe’ appena 48 ore prima della strage di via D’Amelio, il giudice Paolo Borsellino, alla fine dell’interrogatorio, saluto’ il pentito Leonardo Messina dicendogli che si sarebbero piu’ rivisti, perche’ lo avrebbero ucciso. A rivelarlo in aula e’ lo stesso collaboratore di giustizia, durante l’udienza del processo per l trattativa tra Stato e mafia, in corso all’aula bunker Ucciardone di Palermo. “Quel giorno – racconta Messina – il dottore Borsellino era molto nervoso, fumava in continuazione. Accese un’altra sigaretta e prima di andare via mi disse: ‘signor Messina, e’ arrivata la mia ora. Non c’e’ piu’ tempo, la saluto. E non l’ho piu’ visto. Avevo incontrato Borsellino dall’1 al 17 luglio 1992”. Appena due giorni dopo, la domenica 19 luglio, il giudice Borsellino e’ stato ucciso da un’autobomba fatta esplodere in via D’Amelio. Insieme con il magistrato sono stati uccisi cinque agenti della scorta.

ADNKRONOS  5 dicembre 2021 


Pubblicazione dell’audio integrale relativo al resoconto stenografico dell’audizione del collaboratore di giustizia Leonardo MESSINA del 4 dicembre 1992 – Commissione Antimafia XI Legislatura

Commissione d’inchiesta sul fenomeno delle mafie

XVIII Legislatura

(dal 23 marzo 2018)

  • Pubblicazione dell’audio integrale relativo al resoconto stenografico dell’audizione del collaboratore di giustizia Leonardo MESSINA del 4 dicembre 1992 – Commissione Antimafia XI Legislatura
  • Nel corso del ciclo delle audizioni svolte in plenaria dalla Commissione Parlamentare Antimafia, in ambito della XI Legislatura, Presidente onorevole Luciano Violante, il 4 dicembre, viene audito il collaboratore di giustizia Leonardo MESSINA
  • Una deposizione storica dinanzi alla Commissione Antimafia del pentito che il 30 giugno 1992, iniziava la collaborazione con il giudice Paolo Borsellino, interrotta pochi giorni dopo a seguito della strage di via d’Amelio.L’uomo d’onore della famiglia mafiosa di San Cataldo si sofferma sui legami tra mafia e politica e sui rapporti da lui intrattenuti con il SISDE a partire dal 1986, con particolare riferimento alle indicazioni che dichiara di aver fornito su come catturare gli esponenti della “Commissione mondiale di Cosa Nostra riunita”, ovvero i vertici di Cosa nostra e di alcune sue ramificazioni a livello internazionale.
  • L’audizione in Commissione Antimafia riprende in qualche modo, nelle forme proprie dell’inchiesta parlamentare, il filo interrotto della collaborazione con l’Autorità Giudiziaria.
  • File audio estratto resoconto

VERBALE AUDIZIONE


«La ‘ndrangheta è un nomignolo, esiste una sola mafia». Il verbale shock dopo la morte di Falcone e Borsellino

La «commissione mondiale», «Cosa Nostra parallela» e l’idea di creare «uno Stato tutto per sé»: parole che anticipano di 30 anni le indagini

LAMEZIA TERME È il 4 dicembre 1992: Giovanni Falcone è morto da poco più di sei mesi, Paolo Borsellino da meno di cinque. Cosa Nostra – dopo le stragi – è un’emergenza nazionale, la ‘ndrangheta invece cresce nell’ombra. Questa è la storia che racconterebbe chiunque fosse interrogato su quegli anni. Alle 9,35 di quella mattina, invece, davanti alla Commissione parlamentare antimafia presieduta da Luciano Violante, un collaboratore di giustizia siciliano pronuncia parole che all’epoca suonano così sconvolgenti da finire per essere sottovalutate, quasi riposte in un cassetto per anni, prima che le nuove evidenze investigative ne svelassero la fondatezza. Il collaboratore è Leonardo Messina, prima soldato e poi sottocapo della “famiglia” di San Cataldo, provincia di Caltanissetta. È un mafioso rispettato, ha contatti con i vertici di Cosa Nostra; quando decide di cambiare vita è arrivato abbastanza in alto nelle gerarchie mafiose da raccontare verità che, a quell’epoca, sono scioccanti.

«Il vertice della ‘ndrangheta è Cosa Nostra»

Messina è il primo pentito a svelare l’esistenza del sistema mafia come “cosa” unica, con legami e camere di compensazione a livello mondiale. Giuseppe Lombardo, procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, ha rievocato alcuni passaggi della testimonianza di Messina in un recente dibattito. Dal testo completo dell’audizione è possibile rileggere quelle parole. I commissari chiedono a Messina se sappia dell’esistenza di strutture di Cosa Nostra in Basilicata. «Non ne sono a conoscenza», risponde. Poi passano alla Calabria. E la risposta li lascia senza parole: «Il vertice della ‘ndrangheta è Cosa Nostra». «Cioè, gli ‘ndranghetisti che comandano in Calabria sono affiliati a Cosa Nostra?», domanda Violante. «Il vertice è Cosa Nostra», ribadisce il pentito. E gli altri? «I soldati – spiega Messina – non sanno che appartengono tutti a un’unica organizzazione. Lo sa il vertice. Altrimenti uno come me che girava l’Italia avrebbe conosciuto tutti e invece non deve essere così. È il vertice che deve conoscere». In Calabria «uno dei vertici è – parliamo sempre del 1992 – Ciccio Mazzaferro». E poi «D’Agostino, Furfaro e altri sono uomini di Cosa Nostra».

«La ‘ndrangheta è solo un nome

In questo unico sistema la classificazione geografica delle mafie storiche perde di senso: sono soltanto etichette della “Cosa unica”. Il collaboratore di giustizia di San Cataldo ribadisce ciò che per lui è ovvio. Lo fa anche nel brano di audizione che riguarda le morti eccellenti dei giudici. La Commissione affronta l’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, chiedendo a Messina se ne sappia qualcosa. «Posso dire quello che si diceva dopo l’uccisione di Falcone – risponde –. Si pensava che quell’incarico sarebbe diventato di Cordova. Si diceva “come è stato ucciso Scopelliti i calabresi uccideranno pure lui”». Il nome di Agostino Cordova, magistrato autore di una storica inchiesta sugli addentellati della massoneria deviata nel sistema mafioso e oltre, era in effetti stato avvicinato alla super procura antimafia. Per Messina, se quella nomina fosse arrivata i calabresi si sarebbero mossi. Violante chiede: «Quindi Scopelliti sarebbe stato ucciso da calabresi appartenenti a Cosa Nostra?». «Sì – dice il collaboratore di giustizia –. La ‘ndrangheta è solo un nome. La struttura è tutta Cosa Nostra».

La commissione mondiale: si decide «secondo l’interesse di un’unica organizzazione»

Messina racconta ai commissari dell’esistenza di una «commissione mondiale» chiamata a decidere sulle strategie globali del “sistema mondiale”. «Siamo sempre appartenuti a un contesto mondiale. Ma Cosa Nostra, nella persona di Salvatore Riina, da novembre ne è il rappresentante», spiega.

Per Cosa Nostra, il pentito siciliano intende il sistema criminale nel suo complesso. «Non esistono altre organizzazioni in Italia al di fuori di Cosa Nostra. Tutte le altre sono diciture, ma la struttura è sempre quella di Cosa Nostra: si chiamino Sacra Corona Unita, ‘ndrangheta, camorra e così via, si tratta di nomignoli, ma la struttura è Cosa Nostra. (…) Le regioni eleggono il loro rappresentante nazionale, che è il contatto con le altre organizzazioni, da non confondere con le decine che le varie famiglie hanno sparse per il mondo, che sono altre organizzazioni, altre mafie che non sono Cosa nostra». Gli organismi mondiali e nazionali si riuniscono «quando ci sono particolari affari» e «anche per l’interesse che possono avere in processi importanti, nei quali possono essere coinvolti propri uomini». E «l’interesse è solo uno: quello di un’unica organizzazione, non di cinque organizzazioni». Che Cosa Nostra sia, in quel momento storico, ai vertici di questa Spectre del crimine mondiale, Messina lo ha scoperto «a novembre» del 1992. «Una sera – dice – ero a Pietraperzia, in provincia di Enna, e c’erano tantissimi pacchi di scarpe. Ho chiesto: cosa c’è, una festa? Mi hanno risposto: no, devi essere contento perché il tuo principale è stato eletto sottocapo mondiale. Da ieri, la rappresentanza mondiale di tutte le organizzazioni è di Salvatore Riina e Giuseppe Madonia».

La creazione di una Cosa Nostra parallela

In questo (per l’epoca) sconvolgente quadro, Messina sottolinea un altro passaggio in corso. Dice, infatti, che Cosa Nostra sta «scomparendo e sta venendo fuori un’altra cosa» (la sintesi appartiene a Violante). «Non è la prima volta che Cosa nostra cambia nome e pelle. I corleonesi si debbono spogliare di tutti gli uomini. Quando sono arrivato come collaboratore ho detto che c’era qualcosa che stava cambiando: sta cambiando il sistema, si stanno rigenerando, non sarà più Cosa nostra, si chiamerà … lo hanno fatto anche in passato. Si spoglierà di tutti gli uomini d’onore, un po’ perché sono carcere e carcere, un po’ perché con la repressione li arresteranno. In un certo senso le stiamo facendo un favore». Era in corso la creazione di quella che il collaboratore chiama «una struttura di non presentazione. Già ci sono uomini sia sul palermitano – qualcuno lo conosco – sia nel nisseno che non presentano a nessuno, pur facendo i loro affari. È una Cosa nostra parallela».

«La mafia vuole uno Stato tutto per sé» e si rivolge a «forze politiche nuove»

È un passaggio preliminare al grande progetto autonomista del “sistema mafia”. Un piano pensato in una riunione in provincia di Enna dove i vertici «avevano fatto la nuova strategia e avevano deciso i nuovi agganci politici, perché si stanno spogliando anche di quelli vecchi». Cosa significa? «Cosa nostra sta rinnovando il sogno di diventare indipendente, di diventare padrona di un’ala dell’Italia, uno Stato loro, nostro». Un obiettivo in cui la mafia «non è sola, ma è aiutata dalla massoneria»; per portarlo a termine, Cosa Nostra si sta rivolgendo a «forze nuove», «formazioni politiche nuove» che «non vengono dalla Sicilia» ma «da fuori». Nel 1992 quelle forze «si stanno creando» e si uniscono ai contatti con «personaggi tradizionali della politica».
La regia, comunque è nelle logge deviate. «Molti degli uomini d’onore, cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso di quello punitivo che ha Cosa nostra». È nella massoneria deviata che sorge l’idea del separatismo. Messina parla non alla luce di deduzioni ma «per conoscenza diretta». E le sue parole anticipano di quasi trent’anni le ricostruzioni investigative sull’appoggio offerto dalle mafie ai movimenti separatisti meridionali.

L’identikit degli “invisibili”. «In Cosa Nostra strutture segrete per chi riveste cariche pubbliche»

Messina anticipa un altro filone investigativo che sarebbe diventato d’attualità soltanto diversi anni dopo. Dice, infatti, che in Cosa Nostra esistono strutture segrete. «Ci sono strutture che non comunicano: non è che tutti gli uomini devono sapere. Vi sono uomini che non sanno oltre la propria famiglia, o la propria decina; non tutti gli uomini, cioè, vengono messi al corrente di tutto». Nel “sistema” vi sono persone il cui nome è destinato a restare sconosciuto, «o perché rivestono cariche politiche, o perché sono uomini pubblici e nessuno deve sapere chi sono. Lo sa soltanto qualcuno. Poi ci sono altri che sono “punti”, ai quali non tutti gli uomini si possono rivolgere, perché c’è un passaggio obbligato. Perciò, il contatto è sempre uno per tutti». Pare di leggere l’identikit degli “invisibili”, affiliati ai clan il cui nome resta riservato e noto soltanto ai vertici della criminalità “classica”.
Torna alla mente l’esempio della clessidra utilizzato da Lombardo nel dibattito su mafia e massoneria. La base della ‘ndrangheta, quelli che Messina chiama i soldati, vedono soltanto fino a un certo punto, fino ai vertici delle associazioni criminali. È oltre la strozzatura della clessidra che si trova il “sopramondo”: un’area accessibile soltanto ad alcuni boss, cerniere di raccordo tra le mafie storiche e pezzi di istituzioni (e non solo) che con quelle mafie fanno affari e “governano” interi pezzi di Paesi grazie a una forza economica capace di destabilizzare le democrazie. (p.petrasso@corrierecal.it)  3.6.2022

 

Mafia-appalti, sparito il pentito che parlò a Borsellino del coinvolgimento di Raul Gardini

Testimonianze, prove documentali, sentenze definitive e audizioni del Consiglio superiore della magistratura rese dai magistrati della procura di Palermo tra il 28 e il 31 luglio 1992, provano inequivocabilmente che Paolo Borsellino si interessava, anche se non formalmente visto che ancora non aveva ottenuto la delega, dell’indagine contenuta nel dossier mafia- appalti. Tale informativa, ricordiamo, è scaturita da un’inchiesta condotta, tra la fine degli anni 80 e il 1992, dai carabinieri del Ros guidati dall’allora colonnello Mario Mori e dal capitano Giuseppe De Donno.

Dall’indagine emerse per la prima volta l’esistenza di un comitato d’affari, gestito dalla mafia e con profondi legami con esponenti della politica e dell’imprenditoria di rilievo nazionale, per la spartizione degli appalti pubblici in Sicilia. Il 20 febbraio 1991, i carabinieri del Ros depositarono alla procura di Palermo l’informativa mafia- appalti relativa alla prima parte delle indagini, su esplicita richiesta di Giovanni Falcone, che all’epoca stava passando dalla procura di Palermo alla Direzione degli affari penali del ministero della Giustizia. Lo stesso Falcone, anche pubblicamente durante il famoso convegno del 15 marzo del 1991 al Castel Utveggio di Palermo, disse che quell’indagine era di vitale importanza che non era confinata solamente a una questione “regionale”.

Paolo Borsellino era convinto che la causa della morte di Falcone, ma anche di altri delitti di mafia come l’omicidio dell’ex democristiano Salvo Lima, fosse riconducibile alla questione degli appalti. Lo disse soprattutto allo scrittore e giornalista Luca Rossi durante un’intervista del 2 luglio del 1992. Il nome di Salvo Lima lo ha evocato recentemente anche l’ex pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro durante la sua testimonianza resa al processo d’appello sulla presunta trattativa Stato- mafia. Di Pietro ha spiegato che la conferma del collegamento affari- mafia, l’ha avuta «col riscontro della destinazione della tangente Enimont da Raul Gardini ( capo della Calcestruzzi spa), una provvista da 150 miliardi, una gallina dalle uova d’oro, dovevamo trovare i destinatari: l’ultimo che ebbi modo di riscontrare fu Salvo Lima».

La spiegazione sembra evocare l’intuizione che ebbe Paolo Borsellino molto tempo prima di lui. Ma in realtà è più che una intuizione. Borsellino aveva trovato un pentito che non solo gli aveva confermato la questione dell’importanza degli appalti, ma che anche gli aveva dato un riscontro su quello che effettivamente già risultava ben spiegato nel dossier dei Ros: parliamo del coinvolgimento delle imprese del nord, in particolare della Calcestruzzi Spa di Raul Gardini.

Proprio il giorno prima della sua intervista a Luca Rossi, Borsellino aveva interrogato per la seconda volta consecutiva Leonardo Messina, un pentito ritenuto credibile che, come Tommaso Buscetta, aveva raccontato perfettamente la struttura di Cosa Nostra, escludendo il discorso del “terzo livello”, ma evidenziando come la mafia di Totò Riina riusciva a compenetrare nel tessuto economico e politico attraverso la gestione degli appalti pubblici e privati. Leonardo Messina stesso ne è stato un testimone. Il Dubbio è in grado di rivelare i contenuti dei due verbali di interrogatorio.

Il primo si è svolto il 30 giugno del 1992 con la presenza non solo di Borsellino, ma anche del collega Vittorio Aliquò, oltre che dell’ispettore Enrico Lapi e del dirigente della polizia Antonio Manganelli. Leonardo Messina aveva la veste di indagato per 416 bis dalla procura di Caltanissetta. Lo stesso si è dichia- rato uomo d’onore della famiglia di San Cataldo e ha inteso rendere dichiarazioni sulla struttura di Cosa nostra. Nel primo interrogatorio ha spiegato sostanzialmente come venivano elette le rappresentanze, da quelle locali a quelle regionali, non solo siciliane, fino ad arrivare alle rappresentanze mondiali. Ha approfondito come i corleonesi hanno preso il potere in Cosa nostra.

Interessante la sua spiegazione di come riuscì a finire sotto l’ala del boss Giuseppe Madonia. «A Madonia – ha spiegato il pentito a Borsellino – avevo rilevato di essere stato contattato da elementi del Sisde, i quali mi avevano offerto la somma di 400 milioni perché lo facessi catturare». Madonia, quindi, avendo appreso che Messina non si era fatto indurre a tradirlo, lo prese ancora di più in considerazione. In questo modo ebbe la possibilità di saltare le gerarchie e incontrare personaggi “di calibro” come lo stesso Brusca.

Nell’occasione con Brusca – ha raccontato Messina – «si parlò dell’omicidio del capitano D’Aleo che si vantava di averlo fatto eliminare poiché costui lo aveva schiaffeggiato in occasione di un suo fermo in caserma. Disse che gli avevano tirato una fucilata in faccia!». Il pentito Messina racconta anche di Giovanni Falcone. «Brusca – ha spiegato Messina – pur mostrandosi al corrente dei suoi movimenti, e infatti accennava alle sue frequentazioni presso una pizzeria insieme alla scorta, diceva che in quel momento non era il caso di passare alla sua sentenza di morte».

Leonardo Messina poi affronta nel resto dei suoi due interrogatori– soprattutto nel verbale del primo luglio 1992 – la questione mafia- appalti. A lui stesso Madonia gli ha affidato la questione dell’appalto dei lavori dell’istituto tecnico per geometri di Caltanissetta e lo ha messo in contatto con Angelo Siino, considerato “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina. Il pentito ha spiegato dettagliatamente come funzionava la spartizione degli appalti e ha anche sottolineato come la mafia intimidiva gli imprenditori fino ad ucciderli se non sottostavano alle condizioni dettate. Ha spiegato come i corleonesi curavano che i vari appalti fossero distribuiti equamente fra le ditte interessate, in modo da realizzare congrui guadagni attraverso un sistema predeterminato di tangenti a percentuali sull’importo dei lavori. Percentuali che variavano a seconda del tipo dei lavori da eseguire e secondo se si tratti di appalti pubblici o privati. Fa nomi e cognomi Messina, anche di parlamentari dell’epoca e imprese. Parla anche di Salvo Lima, che aiutò un personaggio di rilievo nel favorire una impresa per introdurla nella miniera Pasquasia. «In tale miniera – ha spiegato Messina – non lavorano solo ditte in mano alla mafia, ma anche singoli dipendenti mafiosi», i quali potevano acquisire con facilità anche del materiale per l’esplosivo.

Leonardo Messina, a quel punto fa una rivelazione scottante. «Totò Riina è il maggiore interessato della Calcestruzzi Spa che agisce in campo nazionale». Messina lo aveva appreso perché si era lamentato che aveva ricevuto pochi soldi per un appalto che valeva miliardi. “L’ambasciatore” di Madonia gli rispose di lasciar perdere, perché c’erano gli interessi di Riina tramite la Calcestruzzi spa di Gardini.

Paolo Borsellino, per la prima volta, trovò un riscontro su quanto aveva già appreso dal dossier mafia- appalti, che aveva ben evidenziato il ruolo dell’azienda del nord. Lo stesso Leonardo Messina, qualche tempo dopo, lo ribadì in un’audizione della commissione Antimafia presieduta da Luciano Violante. Alla domanda se nella gestione mafiosa degli appalti ci fossero ditte nazionali, Messina rispose con un’affermazione inquietante: «La Calcestruzzi Spa di Riina».

Leonardo Messina è un testimone considerato importante da Borsellino, così come, in seguito, da altri magistrati. Il pentito ha ribadito l’importanza della gestione degli appalti anche nel 2013, sentito al processo di primo grado sulla presunta trattativa Stato- mafia. Messina avrebbe dovuto deporre – assieme ad Angelo Siino ( assente per gravi motivi di salute) – a settembre scorso anche nel processo di Caltanissetta relativo al latitante Matteo Messina Denaro, accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Ma il pentito Leonardo Messina non è più reperibile da qualche tempo. È come se fosse scomparso nel buio: gli inquirenti stessi si dicono preoccupati. IL DUBBIO 25 ottobre 2019 – Aliprandi


Mafia, il pentito che disse: “Il Divo è punciutu” non si trova più

Leonardo Messina – Passò dalla parte dello Stato dopo Capaci. Fuori dalla “protezione” da 3 anni, è irreperibile da 3 mesi. Gli inquirenti: “C’è preoccupazione”

 

Narduzzo di San Cataldo non si trova più: è l’ultimo pentito con cui Paolo Borsellino parla, due giorni prima di morire, è l’unico a definire Giulio Andreotti punciutu, affiliato a Cosa nostra.

Leonardo Messina, 64 anni, ex collaboratore di giustizia prezioso per i magistrati che hanno indagato su Cosa nostra, sempre ritenuto attendibile dalle procure di Caltanissetta e Palermo, infame per i boss rinchiusi con cui ha condiviso i crimini fino al ’92, è irreperibile almeno da tre mesi, dall’ultima volta che lo Stato lo ha cercato – al domicilio conosciuto dall’Ufficio centrale per la protezione personale – per convocarlo a testimoniare in un processo per un omicidio di mafia. Messina è uscito dal programma di protezione nel marzo 2016, con una capitalizzazione di circa 50 mila euro per la collaborazione con la Repubblica italiana.

“Andreotti affiliato” e la vigilia di via D’Amelio

E gli investigatori non sarebbero preoccupati se Leonardo Messina non avesse il peso che ha nella storia recente per le dichiarazioni sulle trame oscure che ancora avvolgono il periodo delle Stragi, per le rivelazioni sui rapporti tra Cosa nostra, ’ndrangheta e massoneria deviata, per quanto raccontato su Giulio Andreotti, morto nel 2013, sette volte presidente del Consiglio, riconosciuto colpevole nel 2003 dalla Corte d’appello di Palermo per associazione a delinquere con Cosa nostra fino al 1980, ma “salvato” dalla prescrizione. Il 30 giugno 1992, Narduzzo, agli arresti da due mesi, parla nella sede dello Sco di Roma. Fra le altre cose racconta ai magistrati di Palermo, tra i quali c’è Paolo Borsellino, cose che avrebbe poi ribadito al processo Trattativa Stato-mafia nel 2013: “Lillo Rinaldi, che frequentava Piddu Madonia (oggi 73enne al 41 bis, ma fino a qualche tempo fa ancora influente seppur dal carcere, capo indiscusso della mafia di Caltanissetta, ndr) disse che Andreotti era punciutu, mentre c’era chi diceva che Andreotti fosse il figlio di un Papa. Salvo Lima e Andreotti erano i politici che dovevano garantire che il maxi-processo sarebbe stato assegnato al giudice Corrado Carnevale in Cassazione e non ci sarebbero stati problemi. L’ottimismo cessa quando i politici si allontanano e non riescono a far assegnare il processo al giudice Carnevale. C’è stato un momento in cui in Cosa nostra si decise di non votare per la Democrazia cristiana ma per i socialisti. Io ho ricevuto l’ordine preciso di votare e far votare per i socialisti. L’onorevole Claudio Martelli quando è arrivato al potere, scavalcando l’ala craxiana, non ha mantenuto i patti. Io non partecipavo alle riunioni ma venivo messo a conoscenza delle decisioni prese”. Salvo Lima, referente di Cosa nostra per la Dc in Sicilia, era già stato ucciso il 12 marzo 1992.

I colloqui con Borsellino continuarono. Narduzzo lo racconta nel 2013: “Il dottore mi disse: ‘A noi serve solo la verità. Non le congetture o i pensieri’. E così ho iniziato a collaborare parlando per ore con lui”. Il 17 luglio 1992 ci fu l’ultimo incontro: “Il dottore era molto nervoso, fumava in continuazione. Accese un’altra sigaretta e prima di andare via mi disse: ‘Signor Messina, non ci vediamo più, è arrivata la mia ora. Non c’è più tempo, la saluto’. Sapeva di morire”. Passano 48 ore e anche via D’Amelio salta in aria. Il 17 novembre 1992 l’operazione Leopardo, generata proprio da quelle chiacchierate tra Messina e Borsellino, porta agli arresti di 200 uomini d’onore in tutta Italia.

La Lega meridionale e la vedova Schifani

Le deposizioni degli anni Novanta di Leonardo Messina sono state di recente inserite anche nell’inchiesta ’ndrangheta stragista della Procura di Reggio Calabria. Messina parlò di un coordinamento tra le mafie siciliana e calabrese nella svolta di tritolo e sangue del ’92, dei legami con la massoneria deviata e con pezzi dello Stato, del ruolo di Licio Gelli nell’idea sostenuta da Leoluca Bagarella di creare una Lega meridionale, Sicilia libera, con lo scopo di una secessione da cui generare un narcostato del Sud gestito dai Corleonesi. “Mi trovai a conversare con Borino Miccichè, il Potente e Giovanni Monachino (arrestato a Pietraperzia meno di un mese fa, ndr). Umberto Bossi era andato a Catania. Io che consideravo Bossi un nemico della Sicilia dissi: ‘Perché un’altra volta che viene qua non l’ammazziamo?’ Il Miccichè rispose: ‘Ma che sei pazzo? Bossi è giusto’. Spiegò che era un pupo di Gianfranco Miglio, espressione di una parte della Dc e della massoneria con a capo Giulio Andreotti e Licio Gelli, che sarebbe nata una Lega del Sud”. Quel progetto fu poi abbandonato, scalzato dall’idea di Forza Italia.

Narduzzo, licenza elementare ma dal buon eloquio, combinato uomo d’onore il 21 aprile 1982 con la famiglia di San Cataldo, amico del feroce Piddu “chiacchiera” Madonia, fu catturato appunto nel 1992 e spiegò così il suo pentimento dopo Capaci: “La mia crisi è di tipo morale. Quando ho sentito in tv la vedova dell’agente di scorta, Vito Schifani, parlare e pregare gli uomini di mafia, le sue parole mi hanno colpito come macigni e ho deciso di uscire dall’organizzazione nell’unico modo possibile, collaborando con la giustizia”. Se Tommaso Buscetta fu il primo a parlare di un’entità che garantiva Cosa nostra, Messina fu il primo a raccontare che il punciutu Andreotti fosse il santo in paradiso dei boss, tanto da essere chiamato anche lo “zio”. Chissà ora dov’è Narduzzo.