I 57 giorni che cambiarono la storia d’Italia

 

 

RAI NEWS 

 


23 Maggio 1992

Capaci è un rettilineo di automobili e di asfalto. Sta a metà dell’autostrada A29 che corre per 25 chilometri tra l’aeroporto di Punta Raisi e i primi casermoni di Palermo, attraverso i fondali verdi delle colline.
In questo punto l’autostrada esplose.
In questo punto grondò polvere e macerie, quando tre minuti prima delle sei del pomeriggio del 23 maggio 1992 si accese e si spense il boato dei 500 chili di tritolo sull’Italia di eterna emergenza, eterna ipocrisia che lascia morire i suoi figli migliori per poi celebrarli con le bandiere della retorica e gli occhi umidi per la commozione. Trenta volte da trent’anni.
Giovanni Falcone aveva 53 anni. Sua moglie Francesca Morvillo 46. Gli agenti della scorta Antonio Montinaro e Rocco Dicillo 30, Vito Schifani 27. Al loro posto, ora c’è un monolite di mattoni rossi. Ci sono i nomi, la data, i fiori finti, un fico d’india, i sassi: un luogo abbandonato al vento trecentosessantaquattro giorni all’anno, tranne quello della ricorrenza, quando arrivano le giacche blu con le auto blu, le corone di fiori bianchi, le fanfare, i discorsi, la bandiera.
A fine celebrazione, scappano tutti. Il luogo resta vuoto, torna il silenzio, interrotto dalle automobili in transito. E tornano i ricordi.
Un alto monumento rosso è stato eretto nel 2012 in memoria della bomba di 500 chilogrammi che uccise Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre guardie del corpo sull’autostrada dall’aeroporto al centro, a Palermo (Polizia di Stato)
Giacca mimetica color sabbia, occhiali scuri, jeans, mani in tasca. Sergio De Caprio, ex capitano Ultimo, l’uomo che arrestò Totò Riina, il macellaio di Capaci, resta immobile quando ricorda e racconta: «Il giorno della strage, sono sceso da Milano a Palermo, insieme con Ilda Boccassini, il magistrato, ultimo volo Alitalia, classe economica. C’era la luce rossa del tramonto lungo il tragitto. Nessun pensiero, troppi pensieri. Troppo rancore. Tutti sapevano che Falcone doveva morire e molti se lo auguravano. Siamo atterrati alle undici di sera. Ci aspettavano due macchine, siamo corsi all’obitorio. La prima cosa che ho visto, entrando, è il sacco coi vestiti dei tre poliziotti morti. E accanto al sacco, sul pavimento, le scarpe spaiate.
Poi c’era la porta metallica e dietro la porta, la tavola d’acciaio con Giovanni Falcone, coperto per metà da un lenzuolo. Sembrava dormisse. Volevo piangere, ma non ci sono riuscito. Volevo gridare, ma sono rimasto in silenzio. Quello è il mio primo ricordo, il giorno di Capaci».
Così De Caprio raccontava quella sua prima notte dopo la strage. Che cambiò l’Italia per sempre. E la sua vita. Ingaggiato, dopo il boato, con la sua squadra di cacciatori per scendere nei labirinti di Palermo e catturare Salvatore Riina, il Capo dei Capi, 23 anni di latitanza, una sola fotografia, scattata quarant’anni prima per la carta d’identità. Nessun indizio. Salvo che aveva sterminato tutte le famiglie di mafia concorrenti, un migliaio di morti tra il 1981 e il 1984, uscendone vincitore: il Capo dei Capi. Nessuna notizia attendibile sulla sua vita. A parte l’anagrafico che diceva: nato a Corleone, il “cuore di mandorla”, nell’anno 1930. Secondo di sei figli. Detto ‘U Curtu, perché alto 1 metro e 58. Una moglie, quattro figli. Prima condanna per omicidio a 19 anni. Fino a quella definitiva al Maxiprocesso di Palermo, quello istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E che entrambi pagheranno con la morte.

L’Italia del 1992

Quel giorno del 1992 c’è uno strano vento sulle macerie di Capaci. Odore della terra esplosa. Disordine da terremoto. Tre auto sepolte. Polvere sulla superficie di tutte le cose. Niente sangue visibile.
Giovanni Falcone non è morto sul colpo e nemmeno sua moglie, Francesca Morvillo. Avranno ancora trenta minuti di vita e di respiro dentro all’abitacolo. La loro Croma bianca blindata ha tamponato l’onda d’urto a 150 chilometri orari. Un istante prima l’automobile che li precede di cinquanta metri è stata sollevata da terra ed è sparita nell’altra corsia. La loro si è schiantata contro il muro d’aria, si è prima accartocciata e poi si è aperta a metà. La terza auto è volata sulla scia, rotolando dentro al boato.
Poi è iniziata la pioggia di polvere e macerie. Tutti i rumori sono stati assorbiti. Nel silenzio si è alzato il vento.
La ricostruzione dell’esplosione di Capaci è avvenuta in un bosco della Toscana grazie agli esperti artificieri dell’esercito e della Polizia Scientifica della Polizia di Stato. Si è ricostruito un tratto di autostrada, che ricalcava le stesse dimensioni e le stesse caratteristiche del punto in cui è stato sistemato l’esplosivo vicino allo svincolo di Capaci. Gli artificieri hanno piazzato 600 chili di esplosivo. Seguendo tutte le procedure per attivare la grande quantità di tritolo. Poi il grande botto. Le telecamere della polizia scientifica hanno filmato l’esplosione (Polizia di Stato)
In quel preciso istante, sull’altura di Nord Ovest, 600 metri in linea d’aria, coperti da una centralina Enel, Giovanni Brusca e i suoi soldati spengono le sigarette e il telecomando, disattivano i cellulari clonati, danno l’ultima occhiata a quel mezzo chilometro di autostrada sbriciolata che hanno sottratto per sempre alla geografia, precipitandola nella nostra storia.
Storia che si è rimessa in viaggio già agli esordi di quel 1992 lungo altre traiettorie, altri terremoti a Milano e Roma con l’inizio di Mani Pulite, il trionfo elettorale della Lega, il crollo dei partiti tradizionali, il completo dissesto dell’economia. Onde sismiche che si sono propagate con velocità inaudita in un Paese che dal dopoguerra ha conosciuto gli anni delle stragi politiche e gli anni del terrorismo, gli assalti della criminalità organizzata al Sud, e quelle delle recessioni al Nord, ma nessun mutamento politico se non millimetrico, al quadro istituzionale congelato dai tempi di Yalta, il mondo diviso in due dopo il bagno di sangue della Seconda guerra mondiale.
Stavolta i cardini della Repubblica, liberati dal crollo del Muro di Berlino, cigolano davvero, le porte sbattono. Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga ha chiuso in anticipo il suo mandato al Quirinale, dimissioni in diretta tv il 25 aprile, al cospetto di un Parlamento già smarrito nei labirinti della sua propria corruzione e reso fragile dalle molte accelerazioni giudiziarie moltiplicate dai furori dell’opinione pubblica e (finalmente) dalla stagione più libera della stampa italiana.
Ma è in quella stessa instabilità, dai suoi fondali più neri, che la mafia vincente dei corleonesi condannata per la prima volta nel Maxiprocesso, con ergastoli confermati dalla Cassazione il 30 gennaio 1992, ha progettato l’impensabile, vendicarsi contro lo Stato che “li ha traditi”.

Gli attentati

Lo fa cominciando dalla mattina del 12 marzo 1992, marciapiede di Mondello, tre colpi di pistola contro Salvo Lima, l’ex sindaco democristiano di Palermo negli anni del sacco edilizio, il plenipotenziario di Giulio Andreotti in Sicilia. Esibizione di forza e anche di sfida. Perfezionata in modo clamoroso con il boato di Capaci, due mesi più tardi, poi con l’eliminazione di Paolo Borsellino, 57 giorni dopo, 19 luglio 1992, autobomba in via D’Amelio, per poi farsi terrorismo e strage, a Roma, Firenze, Milano, anno 1993. In tutto 21 morti, 57 feriti. E in coda il fallito attentato allo stadio Olimpico, 23 gennaio 1994, una Lancia Thema imbottita con 400 chili di tritolo che sarebbe dovuta esplodere durante l’uscita dei tifosi della partita Lazio-Udinese, e che fallì per un guasto al telecomando. Pretendendo, a colpi di esplosivo, di smantellare le leggi sul carcere duro, il 41 bis appena approvato, di cancellare il sequestro dei patrimoni mafiosi autorizzato dalla legge Rognoni-La Torre, e quella sui collaboratori di giustizia, “gli infami”, che acquisiscono il diritto a sconti di pena. Per imboccare, con tutta Cosa nostra, la strada che conduce alla voragine della guerra aperta, rompendo la prima regola della sua sopravvivenza che un vecchio boss, intercettato un giorno nel braccio di massima sicurezza dell’Ucciardone, il carcere di Palermo, spiegava così al suo picciotto: «Perché ricordati, da quando esiste il mondo, lo Stato non si tocca. Prenditela con chiunque, ma lo Stato non si tocca».

La trattativa

Oggi che la mafia è tornata silenziosa, che traffica invisibile gli appalti su tutto il territorio nazionale, code velenose di quella guerra ancora lampeggiano nei molti seguiti del suo epilogo.
A cominciare da quello più clamoroso, il processo per la trattativa Stato-Mafia – finito con l’assoluzione in appello dei tre carabinieri imputati, il generale Antonio Subranni, il generale Mario Mori, il capitano Giuseppe De Donno – che secondo i magistrati di Palermo, titolari dell’inchiesta, ha attraversato i sotterranei della Repubblica in quei mesi cupi, da quando il tritolo era brillato a Capaci. E altre stragi si temevano, visto che l’allora capo della polizia, Vincenzo Parisi, aveva appena scritto una informativa urgente al governo, nella quale rivelava che esistevano concrete minacce di morte per Giulio Andreotti, 7 volte presidente del Consiglio, e i ministri siciliani Calogero Mannino e Carlo Vizzini.
È subito dopo i boati di Capaci e di via D’Amelio che Mori e De Donno decidono di incontrare Vito Ciancimino, nella sua casa romana accanto a piazza di Spagna, per sondare un uomo interno ai vertici della mafia e trovare una luce, una strada per contrastare la deriva sanguinaria che rischia di continuare.
Trattativa illegittima, secondo i magistrati che metteranno sotto accusa i vertici dei carabinieri. E invece approccio utile, magari ai margini del consentito, ma funzionale al contrasto della mafia, secondo Mario Mori che applica le consuete strategie degli investigatori, quando si muovono in quella zona grigia, spinti dall’emergenza della battaglia in corso.
È già accaduto tante volte nel nero della cronaca italiana. Per esempio al tempo del terrorismo, per liberare Aldo Moro, prigioniero delle Brigate Rosse. Poi durante il sequestro di Ciro Cirillo, assessore democristiano a Napoli, liberato con un riscatto pagato in parte alla Camorra in parte ai terroristi. O quando si consentì a un assassino come Marco Barbone, che sparò alle spalle di Walter Tobagi, di uscire indenne dal carcere, oltre a un salvacondotto per la sua donna, Caterina Rosenzweig, in cambio dei centocinquanta nomi, che Barbone dettò in una sola notte di interrogatorio al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Ed è noto che i nostri Servizi abbiano sempre trattato in dollari la liberazione dei cittadini italiani rapiti in zone di guerra, anche quando gli accordi internazionali lo vietavano, come è accaduto con le due Simone e con Giuliana Sgrena sequestrate in Iraq. Trattative mai ammesse, proprio come quelle intavolate dal governo statunitense con la mafia italoamericana di Lucky Luciano, ai tempi dello sbarco in Sicilia del 1943, o dai governi democristiani per la cattura, vivo o morto, del bandito Salvatore Giuliano, anno 1950, in cambio, allora sì, della pax mafiosa.

Perché hanno ucciso Giovanni Falcone

Nei suoi ultimi 10 anni, Giovanni Falcone ha sbaragliato gli architravi della mafia con il Maxiprocesso, 19 ergastoli, quasi 400 condanne, 2 mila anni di carcere. È stato l’anima del pool, insieme con Paolo Borsellino, l’altro magistrato palermitano che si sente “destinatario di un compito e di un dolore”.Ha gestito tutti i principali pentiti, cominciando da Tommaso Buscetta, il boss dei due mondi. Di Buscetta ha detto: «È stato come un professore che ti permette di andare dai turchi senza dover parlare a gesti». Con il vocabolario in mano, Falcone ha cercato altri nomi. Quelli di chi ha ucciso Boris Giuliano, capo della Mobile di Palermo, che indagando sui miliardi di mafia era arrivato a un finanziere di nome Michele Sindona e a un banchiere che si chiamava Roberto Calvi. Di chi ha ucciso il procuratore capo di Palermo, Gaetano Costa, e il capo ufficio istruzione Rocco Chinnici che indagava dentro ai sacri templi delle banche. Di chi ha ucciso il segretario provinciale della Dc, Michele Reina, e il presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella. Di chi ha ucciso il deputato del Pci Pio La Torre che ha presentato in Parlamento la legge per il sequestro dei beni dei mafiosi. Di chi ha ucciso il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, appena nominato prefetto di Palermo e poi lasciato solo, “davanti a telefoni che non squillano mai”, come raccontò a Giorgio Bocca nella sua ultima intervista. Di chi ha ucciso Salvo Lima, l’uomo in Sicilia di Giulio Andreotti, il garante delle tante connivenze al tramonto, inseguito e freddato davanti al cancello di casa, il vero esordio della guerra in corso. Dirà uno degli investigatori: «Riina, da un punto di vista militare, aveva due nemici: Falcone e Borsellino. Degli altri magistrati non aveva motivo di preoccuparsene troppo. Anche perché in quel momento il pool antimafia creato da Antonino Caponnetto era stato indebolito, quasi del tutto smantellato».
Giovanni Falcone è nato e cresciuto nella Kalsa, quartiere popolare di Palermo. È siciliano e conosce il suo destino. Dice in un’intervista: «Il mio conto con Cosa nostra resta aperto. Lo salderò con la mia morte, naturale o meno. Tommaso Buscetta, quando iniziò a collaborare, mi aveva messo in guardia: prima cercheranno di uccidere me, ma poi verrà il suo turno. Fino a quando ci riusciranno».
Falcone scampa all’attentato dell’Addaura. Ma non ai veleni del tribunale di Palermo, dove ormai quasi nessuno dei colleghi lo saluta, considerato troppo zelante, troppo narcisista, troppo autonomo dalle gerarchie. E dove insinuano che “l’attentato se lo è fatto da solo” per mettersi in luce.
Claudio Martelli, ministro di Grazia e Giustizia, numero due del partito socialista, gli offre la via d’uscita, un posto al Ministero. Falcone vola a Roma. Disegna la Dna, la Direzione nazionale antimafia, e la Dia, la Direzione investigativa antimafia. Costruisce gli strumenti per indagare “la struttura globale della mafia”, le tecniche, il suo linguaggio, il suo codice. Prima di lui la mafia è solo “aria che cammina”, comanda e uccide. È prudente per tutti tenersene alla larga. Con lui diventa una mappa in chiaro con nomi, organigrammi, gruppi di fuoco, flusso di capitali, protezioni politiche, investimenti, connivenze.
Per questo Giovanni Falcone deve morire per primo. Per questo l’autostrada è stata imbottita di tritolo. Per questo, dopo la telefonata che avverte il commando dei suoi spostamenti romani verso l’aeroporto di Ciampino, intorno a lui inizia la danza dei fantasmi.

Cronaca di una morte annunciata

Il primo fantasma, a Palermo, è dentro alla macelleria della famiglia Ganci, tiene sotto controllo il garage dove viene parcheggiata l’auto blindata di Falcone. La Croma si muove solo quando il magistrato è in arrivo a Palermo e ora sta sgommando verso l’aeroporto.
Il secondo fantasma controlla l’atterraggio di Punta Raisi. Il terzo inquadra le tre auto che lasciano il parcheggio dell’aeroporto. Il quarto, in moto, si infila in autostrada per precederle. Il quinto fantasma le segue e poi si ferma, quando è confermata la traiettoria del corteo.
Sulla collinetta, 600 metri in linea d’aria dalla trappola che dorme sotto l’asfalto, Giovanni Brusca e i suoi aspettano. Mancano meno di 5 minuti.
Giovanni Falcone viaggia con 7 uomini di scorta, la moglie, tre Croma: le prime due blindate, la terza no. Dirà Giuseppe Costanza, l’autista sopravvissuto: «Quando scese dall’aereo era di buon umore. Voleva andare a vedere la mattanza dei tonni a Favignana e aveva voglia di guidare. Mi chiese le chiavi. Così io mi sistemai dietro. Lui e la moglie davanti».
Le auto, secondo le procedure di sicurezza, corrono sulla corsia di sorpasso tra i 150 e i 170 chilometri orari. Proibito rallentare. Una grossa moto li affianca, accelera, se ne va. È la staffetta, l’ultima cosa viva che passa sulla linea del fuoco della Trapani-Palermo, località Capaci. Sono le 17:56.
In quel preciso istante, dopo il boato, l’onda si irradia. Diventa, nell’Italia intera, un’annunciazione capovolta, destino di strage che si compie. Sui terminali compaiono le prime agenzie di stampa che crescono come una febbre.
“Esplosione sull’autostrada”.
“Un attentato”.
“Forse un giudice”.
“Forse il giudice Giovanni Falcone”.
“Il giudice Giovanni Falcone è ferito”.
“Il giudice Giovanni Falcone è morto”.
Si fermano i giornali. Si accendono tutte le televisioni. Si alzano in volo gli elicotteri. E tutti i telefoni d’Italia si mettono a trillare.

Il ricordo di capitano Ultimo

Quando il suo telefono comincia a trillare, il capitano Ultimo è seduto dietro alla sua scrivania, al secondo piano della caserma di via Moscova, comando territoriale dei carabinieri, a Milano. Al telefono c’è Ilda Boccassini, nome in codice Nikita. Dice solo: «Lo hanno ucciso. Dobbiamo partire».
Nella luce passano un sacco di immagini, Falcone che si sistema la giacca, che dice accidenti come brucia ‘sto caffè, che si volta e ride, che mi stringe la mano e mi dice alla prossima volta, capitano… Penso: come no, la prossima volta è adesso».
Continua: «Prendo con me i due vecchi della Duomo Connection, Nello e Barbaro, andiamo a prendere la Boccassini e mentre stiamo correndo verso Linate, gli uffici ci prenotano tre posti sull’ultimo volo di linea. No, non c’erano aerei speciali, né scorte, né niente».
Palermo è nel completo disordine. Sirene, allarmi, fucili sguainati, vigilanza, anche se non serve più.
A Roma tutti i Palazzi della politica – impegnati da dieci giorni a eleggere il nuovo presidente della Repubblica, dopo l’addio di Cossiga – sono in fibrillazione. L’onda sismica di Capaci sbriciola la candidatura di Giulio Andreotti al Quirinale, troppo compromesso con i misteri e il sangue di Palermo. La Repubblica è sotto attacco. L’opinione pubblica disorientata. I giornali scrivono: fate presto. E stavolta basteranno 48 ore a candidare ed eleggere Oscar Luigi Scalfaro.
Racconta ancora Ultimo: «La mattina dopo la strage, siamo sulla scena dell’esplosione. Ci sono almeno dieci auto di traverso, e poi il cratere. Guerra pura. Facciamo il primo sopralluogo sulla collina da dove è partito l’impulso per la detonazione. C’è un mandorlo con i rami segati per ampliare la visuale. Fotografiamo tutto. Ci sono 53 mozziconi di sigaretta. Ilda Boccassini si installa nel tribunale di Caltanissetta per coordinare le indagini. Noi rientriamo. Mario Mori, il mio capo nei Reparti operativi speciali dei carabinieri, mi incarica di formare una squadra per una missione segreta a Palermo. A fine giugno siamo pronti. Mando Arciere, Vichingo, Omar, per conoscere le strade di Palermo, per guardare e ascoltare. Le poche giacche blu che conoscono il progetto ci dicono che lavorare a Palermo è impossibile.
«Ci dicono: verrete individuati, isolati, uccisi».

Via D’Amelio: l’attentato e il depistaggio

Mentre si preparano, la deriva sanguinaria della mafia assesta il secondo colpo. Il 19 luglio, 57 giorni dopo Falcone, tocca a Paolo Borsellino, la seconda anima del pool, l’altro giudice siciliano che ha “un conto in sospeso da saldare”, che conosce il cuore spaccato della mafia, e il proprio destino.
I poliziotti caduti nell’attentato di via D’Amelio: Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina (Polizia di Stato)
Per uccidere lui e i 5 agenti della sua scorta usano una Fiat 126 imbottita con 90 candelotti di tritolo, parcheggiata sotto casa della madre del giudice, in via D’Amelio.
Fiamme, fumo e macerie irrompono di nuovo dentro ai telegiornali. È la seconda morte annunciata. Due informative del Ros dei Carabinieri davano per imminente l’attentato. Una terza segnalava che “negli ambienti carcerari si dà il dottor Borsellino per morto”. Segue un nuovo allarme dei Servizi sull’esplosivo che sarebbe arrivato a Palermo. È lo stesso Borsellino che ne parla con gli uomini della sua scorta:
«Sono turbato. Sono preoccupato per voi perché so che è arrivato il tritolo per me e non voglio coinvolgervi».
Due volte la scorta chiede alla prefettura di bonificare i luoghi abitualmente frequentati dal giudice, in particolare la rimozione delle auto parcheggiate in via D’Amelio, sotto casa della madre, dove va almeno una volta alla settimana. Nessuno fa nulla.
L’autobomba, parcheggiata davanti al numero 21, esplode alle 16:55, nel momento in cui Borsellino schiaccia il citofono per chiamare la madre. L’esplosione distrugge tutto quello che incontra in un raggio di 150 metri. I corpi di Borsellino e degli agenti vengono fatti a pezzi, una trentina di auto ridotte a carcasse. Vanno in frantumi tutte le vetrate della strada e tremano i palazzi intorno all’esplosione.
Giovanni Falcone fu oltraggiato da vivo. Paolo Borsellino da morto, deviando da subito le indagini verso false piste, falsi pentiti, false prove. E un colpevole, a portata di mano, da arrestare ed esibire a reti unificate.
L’operazione inizia subito, mentre stanno ancora bruciando le automobili in via D’Amelio. Sparisce dalla borsa di Borsellino l’agenda rossa sulla quale il giudice annotava i riassunti delle indagini, i sospetti, gli indizi, gli incontri riservati. Tutti dettagli che potevano contenere la via per la verità, magari in contrasto con quella che si voleva costruire. Volatilizzata per sempre nei minuti in cui gli uomini di Arnaldo La Barbera, superpoliziotto con doppio incarico nei Servizi, perlustrano per primi la scena dell’esplosione.
Da quel momento le indagini imboccano la via del depistaggio. Un depistaggio clamoroso che durerà 16 anni, assecondato dalla complicità di molti, dalla incompetenza e dalla superficialità della macchina giudiziaria per 9 gradi di giudizio e dalla cecità di almeno 80 giudici.
Il giudice Paolo Borsellino durante la celebrazione della Festa della Repubblica. Palermo, 2 giugno 1992 (Giuseppe Gerbasi/Contrasto)

Il capro espiatorio

Sparita l’agenda, sparisce anche l’ultima intervista che Borsellino registra il 21 maggio – due giorni prima di Capaci, due mesi prima di via D’Amelio – con due giornalisti francesi di Canal Plus, durante la quale parla dei legami tra il boss mafioso Vittorio Mangano, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi.
Intervista che verrà trasmessa in parte solo otto anni dopo, nel 2000 da Rai News24 e in forma integrale nel 2009 dal Fatto quotidiano. Intervista dove si intravedono ombre sul nuovo padrone d’Italia e sul suo braccio destro, i loro legami con la famiglia Graviano, reggenti del quartiere Brancaccio, mandanti dell’omicidio di don Puglisi, che solo molti anni dopo verranno individuati come gli organizzatori delle bombe di Palermo e di quelle del ’93.
In due mesi il colpevole della strage di via D’Amelio è pronto per le telecamere. Si chiama Vincenzo Scarantino, 27 anni, tossicodipendente, viene dal sottobosco di Palermo, mafioso di terza fila, semianalfabeta, “uno che fa fatica a leggere il giornale” e che ruba auto per campare. Possibile che la mafia gli abbia affidato un omicidio così importante? A parte Ilda Boccassini che lo considera “inattendibile, fasullo”, tutti i magistrati gli credono. “Vari e convergenti indizi lo incastrano” dicono gli inquirenti. E Giovanni Tinebra, procuratore di Caltanissetta, esalta “il lavoro meticoloso e di gruppo che ha consentito l’arresto di uno dei colpevoli”.
Scarantino asseconda e si pente: ha ideato l’attentato, ha rubato la 126, l’ha imbottita di tritolo e Semtex, l’ha parcheggiata in via D’Amelio, l’ha fatta brillare al momento giusto. Indica sei complici. I giudici credono a tutto, anche se dopo le prime condanne lo stesso Scarantino ritratta, dice che è stato picchiato e obbligato a imparare a memoria la confessione. Il pm Nino Di Matteo, astro nascente dell’antimafia, scrive nella sua requisitoria «che le ritrattazioni di Scarantino fanno parte delle tecniche di Cosa nostra. E che avvalorano ancora di più le sue precedenti dichiarazioni».
Il castello di carte crolla il 15 ottobre 2008, quando diventa ufficiale il pentimento di Gaspare Spatuzza, soldato di mafia, killer dei fratelli Graviano. Dice che è stato lui a rubare la 126, lui a fare l’attentato. E confessa che il basista che lo ha aiutato abita al piano terra del palazzo di via D’Amelio, un vicino di casa della madre di Borsellino, che nessuno, in 16 anni di “indagini meticolose”, processi, celebrazioni con corone di fiori e bandiere, ha mai interrogato.
È un’altra verità provvisoria o è la verità definitiva? Scriverà Enrico Deaglio nel suo libro sui misteri di via D’Amelio: «È stato Scarantino. No. Spatuzza. È stato Riina; no i fratelli Graviano. La polizia ha imbeccato Scarantino per proteggere i veri colpevoli. È come piazza Fontana. È stato lo Stato, lo Stato mafia, la mafia Stato, il doppio Stato.
È stato Berlusconi o perlomeno Dell’Utri. Sono stati i Servizi. Deviati. No, quelli ufficiali. Sono stati Ciancimino e Provenzano. Sono stati gli industriali del Nord. È stato il ministro Mancino. Sono stati i carabinieri. (…) La sua morte era necessaria alla trattativa. Anzi era l’essenza della trattativa».

L’indicibile accordo

Già perché dentro la coda insanguinata della strage di via D’Amelio si apre un’altra delle porte girevoli che conducono agli eterni misteri di Palermo, oppure depistano e li allontanano.
Stavolta tocca alla Trattativa, cioè al cosiddetto patto tra Mafia e Stato per interrompere la scia di sangue che allarma l’Italia e terrorizza i Palazzi. Protagonisti “dell’indicibile accordo” i carabinieri guidati da Mario Mori, per conto dello Stato, e il mafioso Vito Ciancimino, per conto di Riina, anzi del suo successore Bernardo Provenzano. Fonte di questo filone, il pentito Giovanni Brusca, detto “u verru”, il porco, condannato per una quarantina di omicidi, compreso quello di Giuseppe Di Matteo, 13 anni, strangolato e sciolto nell’acido. E Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, che si rivelerà completamente inattendibile, e poi verrà condannato per calunnia, riciclaggio, tentata estorsione, associazione mafiosa, detenzione di esplosivo.
Il Pm Nino Di Matteo, che aveva creduto a Scarantino, ora crede a Massimo Ciancimino e a Brusca e dichiara che Borsellino fu ucciso «per proteggere la Trattativa dal pericolo che, venutone a conoscenza, ne denunciasse pubblicamente l’esistenza». L’inchiesta, condotta insieme con Antonio Ingroia, che si dimetterà dalla magistratura per fondare un partito, candidarsi alle elezioni e perderle, durerà una decina di anni, processo iniziato il 27 maggio del 2013. Condanna in primo grado per tutti gli imputati nel 2018. Tre anni dopo assoluzione al processo di Appello. Confermando la sentenza del processo Borsellino Quater – l’ultimo, quello che condanna Spatuzza, dopo i depistaggi – dove si afferma che Borsellino venne ucciso perché si stava occupando della inchiesta “Mafia e appalti”, insieme con i carabinieri di Mario Mori, e non perché si fosse opposto alla trattativa.
La quale trattativa – a parte il milione di parole usate per descriverla e tramandarla nei dettagli – è stata cancellata dalla sentenza d’Appello del tribunale di Palermo e non è mai stata provata nei fatti accaduti dopo Capaci, dopo via D’Amelio, dopo le bombe del ‘93. Ma è stata alimentata da un pool di magistrati, che si sono concentrati molto di più sui retroscena della guerra alla mafia che sulla scena vera e propria dei delitti e delle indagini.
Si cominciò con la “mancata perquisizione” della villa dove abitava Riina a Palermo. Inquisiti per una decina di anni il Capitano Ultimo e i suoi uomini. Cioè gli stessi che Riina lo avevano catturato la mattina del 15 gennaio 1993, scoprendo che fino alle loro indagini nessuno aveva davvero cercato Riina visto che sua moglie Ninetta, in quei vent’anni di latitanza del marito, aveva partorito 4 volte nella migliore clinica di Palermo, mai sotto falso nome, senza che a nessuno fosse venuto in mente di seguirla per scoprire dove viveva.
«Dopo averci detto che era impossibile catturarlo – racconterà Sergio De Caprio durante il processo che lo assolse da tutte le accuse – insinuarono il dubbio che era stata la mafia di Provenzano a consegnarcelo. Barattandolo con il salvacondotto per continuare indisturbato la propria latitanza».
Poi li accusarono di non aver perquisito la villa non per scelta investigativa – analizzata e confermata nel processo – ma per connivenza e convenienza, anche se il responsabile gerarchico di quella mancata perquisizione era Gian Carlo Caselli, appena nominato procuratore generale a Palermo.
Poi dissero che le bombe a Firenze, Roma a Milano erano finalizzate alla trattativa in corso. Cioè che Provenzano, dopo essersi disfatto di Riina ormai ingestibile perché diventato pericoloso e stragista, lo era diventato anche lui.
«Mentre i fatti – continua De Caprio – dicono che Riina e Provenzano avevano la stessa strategia, erano in guerra con lo Stato e volevano vendicarsi. In tanti anni ho imparato che la mafia non tratta e non fa accordi. La mafia ordina. E se non ubbidisci ti uccide. L’unica strategia possibile è distruggerla. Quindi di cosa stiamo parlando? Riina è stato catturato. E Provenzano, dopo di lui, non ha fatto nessuna comoda latitanza, ma è stato arrestato dalla Catturandi di Palermo, in un casolare di campagna dove viveva da fuggiasco, mangiando cicoria e formaggio. Tutti e due sono morti in carcere. Come mai se avevano tanti segreti da barattare non li hanno mai usati? Come mai la moglie di Riina, se aveva anche lei dei segreti o dei documenti compromettenti per lo Stato non li ha usati in cambio di vantaggi per lei, per la famiglia, per il marito detenuto?».
Secondo il capitano Ultimo enfatizzare la “Trattativa” fa grande la mafia e piccolo lo Stato: «Il generale Mori andò a sondare Ciancimino per scoprire la strategia mafiosa, ottenere qualche informazione utile sulle intenzioni di Riina, e contemporaneamente mandò me e i miei uomini a Palermo per catturarlo. Sondare la zona grigia per trovare una chiave d’accesso a Cosa nostra e nello stesso tempo preparare le armi per distruggerla sono due momenti nella stessa strategia. È così che si combatte la mafia».
E ancora: «La Trattativa costruita nel processo a Palermo serve a dire che le bombe a Firenze, Roma, Milano, sono esplose per colpa dello Stato e non della mafia. Alla fine la storia della Trattativa, indebolendo lo Stato che ha vinto, contribuisce a rafforzare l’immagine di Cosa nostra che invece ha perso».
E poi: sminuire i successi di quelli che hanno indagato, processato e vinto la battaglia contro i corleonesi, serve a coprire chi in tanti anni non li ha combattuti. Per viltà, per collusione, per quieto vivere. Il veleno del sospetto è una risorsa che cova sotto la cenere degli infinti labirinti palermitani e può venire buono per seminare dubbi, e intanto allestire una indagine più comoda – che non comporta troppi pericoli, ma assicura molte attenzioni mediatiche – magari proprio contro i carabinieri che da eroi possono diventare i protagonisti di una cospirazione. Chi la istruisce non ha catturato Riina, ma è pronto a catturare i carabinieri. E ci proverà per 29 anni di inchieste e processi, finiti nel nulla.

30 anni di commemorazioni

Sembra di averla già ascoltata questa cattiva musica che, specialmente a Palermo, suona ogni volta che si è celebrata una vittoria contro la mafia, magari al rischio della vita. Quando Falcone esce vincente dal Maxiprocesso, la cupola per la prima volta condannata, cominciano i rancori e i veleni dei colleghi, l’insinuazione di essere diventato “un professionista dell’antimafia”. Un professionista selettivo, secondo il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, che lo accusò di “tenere dei documenti delle inchieste nel cassetto” per proteggere Salvo Lima e Giulio Andreotti. Non basta. I 58 candelotti pronti a esplodere davanti alla sua casa al mare, all’Addaura, diventa “il finto attentato”: se lo è fatto da solo, dicono i corvi di Palazzo di Giustizia, per la carriera, per i giornali, per la celebrità. E la scorta? Se ne va in giro come un capo di Stato, a sirene spiegate, disturbando la quiete di tutti. Per ognuna di queste accuse, viene isolato dentro e fuori da Palazzo di Giustizia. Vilipeso per il suo rapporto privilegiato con Tommaso Buscetta. Umiliato persino dal Consiglio superiore della magistratura che boccia la sua candidatura alla successione di Antonino Caponnetto, come capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, preferendogli l’anonimo Antonino Meli – 14 voti a favore, 5 astenuti – durante un plenum che passerà alla storia giudiziaria come “la riunione del disonore”.
Gli vengono tolte le inchieste antimafia, dentro a un Palazzo dove “tutti lo evitano”. E che non esiterà ad attaccarlo con tutta l’Associazione nazionale magistrati, quando accetterà il trasferimento a Roma a capo dell’Ufficio Affari Penali, propostogli dal ministro di Giustizia Martelli: si è venduto ai socialisti, si è venduto al potere. Altre insinuazioni, altri veleni. Almeno fino a quando – accertato che stava immobile sul tavolo d’acciaio dell’obitorio – i suoi nemici hanno trasformato quel livore in lacrime, corone di fiori, commemorazioni. Compresa quella in pompa magna davanti al monolite rosso di Capaci, ogni 23 maggio, sempre commossa, sempre commovente, prima di correre tutti a cena. PINO CORRIAS Rai News Interactive Storytelling

 

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