Ci sono due date nei prossimi giorni che non potranno essere dimenticate: il 19 luglio, perché saranno trent’anni da quando è stato assassinato Paolo Borsellino, e il 12 luglio, perché una sentenza potrebbe produrre un pezzetto di giustizia sul più grande depistaggio di Stato, la costruzione del falso pentito Vincenzo Scarantino. È tornata alla carica in questi giorni Fiammetta,combattiva figlia del magistrato vittima della mafia, che ha le idee molto chiare sulle responsabilità, ed è chiaro che quando parla di “uomini che lavorano per allontanare la verità sulla strage di via D’Amelio”, il suo pensiero non va a quei tre poliziotti, di cui due ormai in pensione, che rischiano la condanna per calunnia nell’aula del tribunale di Caltanissetta.
La famiglia Borsellino non andrà alle celebrazioni ufficiali. Ci asterremo, ha detto Fiammetta in occasione della presentazione di un libro su suo padre, “…fino a quando lo Stato non ci spiegherà cosa è accaduto davvero, non ci dirà la verità: nonostante tutte queste celebrazioni si è fatto un lavoro diametralmente opposto su questo barbaro eccidio”. Non salva nessuno, la figlia del magistrato, anche se la catena è lunga. Non assolve nemmeno l’ex pm “antimafia” Ilda Boccassini, la prima tra i magistrati che operarono in quegli anni in Sicilia (fu applicata per due anni a Caltanissetta, dopo le stragi di mafia, dal 1992 al 1994) ad avanzare dubbi sulla genuinità delle parole di Scarantino. Aveva lasciato una relazione scritta al procuratore capo Tinebra, prima di tornare a Milano. A Fiammetta Borsellino questo non basta: “Io dico che se la Boccassini aveva qualche dubbio sul falso pentito Scarantino doveva fare una denuncia pubblica, così è troppo comodo. La Boccassini è quello stesso magistrato che ha autorizzato dieci colloqui investigativi di Scarantino a Pianosa e poi si è saputo che servivano a fare dire il falso a Scarantino con torture e minacce…”. La ex pm, conclude la figlia del magistrato, non avrebbe dovuto limitarsi a una “letterina”. Perché avrebbe potuto far esplodere il caso. Forse. O forse no, visti i tempi.
Già, i tempi. La fila delle responsabilità è lunga, dovrebbe partire da quegli agenti di polizia penitenziaria che fisicamente furono addosso tra il 1992 e il 1993 ai detenuti, mafiosi e non, deportati nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara. E poi quegli altri che tramite i colloqui investigativi si attivavano per costruire il “pentitificio” che avrebbe consentito a questori, capi di polizia, magistrati e governi di risolvere i “casi” delle stragi di Cosa Nostra. Le uccisioni di Falcone e Borsellino e tutte le altre, in modo da chiudere in bellezza (si fa per dire) un’intera storia. Con le leggi speciali, i colloqui investigativi senza controlli e qualche capro espiatorio da tenere in galera a vita. Non Totò Riina e gli altri boss, perché erano tutti latitanti. Se il 12 luglio prossimo Mario Bò, l’ex capo del gruppo di indagine Falcone- Borsellino e gli ispettori in pensioneFabrizio Mattei e Michele Ribaudo, imputati a Caltanissetta per calunnia aggravata, dovessero essere condannati, forse si sarebbe raggiunto un pezzetto di giustizia. Il pubblico ministero Stefano Luciani ha usato parole durissime, prima di chiedere le condanne rispettivamente a undici anni a dieci mesi al primo e nove anni e mezzo agli altri due.
Non saremo noi a chiedere per loro più carcere, per una severità che somiglia tanto alle famose lacrime di coccodrillo. Perché, anche a voler partire dalla coda, dovremmo chiamare a processo dei fantasmi, prima di tutto. Cioè coloro che, obbedendo a ordini o a “suggerimenti”, ha messo le mani su quei corpi reclusi, ha picchiato e torturato, ha messo vermi e pezzetti di vetro nelle minestre ed è arrivato a terrorizzare eseguendo persino le finte esecuzioni. Nessuno è sul banco degli imputati per questi reati, quelli che, attraverso i colloqui investigativi, hanno costruito il falso pentito. Ci sono solo le calunnie, dopo che un “pentito” vero, Gaspare Spatuzza nel 2017 ha dato una verità più credibile sulla strage di via D’Amelio, facendo anche liberare otto innocenti dopo quindici anni di carcere ingiusto. Ma dovrebbero esserci anche ben altre responsabilità. Risalendo nella piramide, troviamo il questore di PalermoArnaldo La Barbera, che fece una brillante carriera dopo aver collaborato a “risolvere” il tragico caso della morte di Borsellino.
Lui non c’è più, ma anche se fosse sopravvissuto al disvelamento di questo scandalo, difficilmente si troverebbe sul banco degli imputati. Perché avrebbe trascinato con sé un bel po’ di persone. A meno che non vogliamo pensare che un questore e un po’ di poliziotti abbiano potuto costruire il più grande depistaggio della storia degli ultimi trent’anni, quasi un colpo di Stato, all’insaputa della magistratura. Qui entra in scena un altro personaggio, ormai deceduto da vent’anni, il procuratore capo di Caltanissetta, il regista delle indagini sulle morti di Falcone e Borsellino, Giovanni Tinebra. Di lui Ilda Boccassini dice che le avrebbe impedito di prolungare la sua permanenza in Sicilia per poter smascherare le falsità di Scarantino. Certo è che, come dice la figlia del magistrato Fiammetta, forse la pm avrebbe potuto insistere, denunciare, strillare. Lo ha fatto con molto ritardo, da testimone al processo contro i poliziotti nel 2020, raccontando anche che il falso pentito si chiudeva per ore nell’ufficio del procuratore Tinebra, prima o dopo gli interrogatori. Che venivano svolti dai pm di Caltanissetta Annamaria Palma, Carmelo Petralia e il giovane Nino Di Matteo.
Tutti usciti (il giovincello non è stato mai neppure indagato, avendo svolto un ruolo minore) freschi e puliti dalle indagini con le archiviazioni perché, disse il giudice di Messina, non c’erano le prove che avessero partecipato o diretto il depistaggio. Una storia da far scoppiare il cervello. È mai possibile che un ragazzotto tossicodipendente e frequentatore di prostitute trans fosse il tipo più affidabile per i boss di Cosa Nostra, tanto da essere incaricato di procurare un’auto e imbottirla di tritolo per uccidere il nemico numero uno della mafia?Enzino della Guadagna, lo ricorda ancora Fiammetta Borsellino, non era neanche capace di aprire la porta di quel garage dove diceva di aver tenuto l’auto. E poi, nessuno tra i capi e neanche i livelli intermedi dell’organizzazione mafiosa lo conosceva. Possibile, possibile che quei magistrati fossero tutti cretini, oltre che ingenui e sprovveduti?
Ma c’è dell’altro. Perché, dopo che era stata resa pubblica la lettera in cui la moglie di Scarantino accusava esplicitamente Arnaldo La Barbera di far torturare suo marito per trasformarlo in “pentito”, si mossero alti vertici dello Stato a costruire un bel cordone sanitario intorno al questore. Ma anche intorno al falso pentito. Fu Giancarlo Caselli, procuratore di Palermo, a prendere l’iniziativa di una conferenza stampa, accompagnato dal procuratore generale e dal prefetto. Le massime autorità di Palermo in quell’occasione difesero l’onore di La Barbera, ma anche l’autenticità di Scarantino. Disinformati in buona fede? Mah. Ciliegina sulla torta, nella piramide delle responsabilità, quando meno politiche, l’ex procuratore generale della cassazione Riccardo Fuzio, cui le figlie di Paolo Borsellino avevano scritto una lettera in cui venivano circostanziati fatti e misfatti degli uomini delle istituzioni e che tenne lo scritto nel cassetto per un anno, lamentando poi ipocritamente di non poter fare niente solo alla vigilia delle sue forzose anticipate dimissioni dopo il “caso Palamara”.
Il Csm infine, come raccontato proprio dall’ex capo delle spartizioni di carriera tra le toghe nel suo secondo libro. Il Consiglio superiore della magistratura(cui si era rivolta Fiammetta Borsellino), che finse di impegnare i suoi migliori uomini della prima commissione, quella che tratta le azioni disciplinari, sulle responsabilità di qualche magistrato. Ce ne siamo infischiati, dice con sincerità Luca Palamara, abbiamo “fatto ammuina”. Non interessava sapere se qualche toga avesse sbagliato. Ecco perché le eventuali celebrazioni di Borsellino del 19 luglio, cui la famiglia giustamente non parteciperà, saranno solo una presa in giro. E l’eventuale condanna di tre poliziotti per calunnia, sarebbe solo un pezzetto di giustizia. Tiziana Maiolo IL RIFORMISTA 8.7.2022