La strage di via D’Amelio, e tutto quello che venne dopo

La storia dell’attentato che trent’anni fa uccise Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta, e delle lunghe e controverse indagini

L’autobomba che uccise il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta esplose alle 16.58 e venti secondi del 19 luglio 1992, trent’anni fa, all’altezza del numero 21 di via D’Amelio a Palermo, dove abitava sua madre. Era una domenica. Borsellino quel giorno era stato con la famiglia nella casa al mare di Villagrazia di Carini, aveva pranzato e poi aveva visto in televisione parte della tappa del Tour de France, dal Sestriere all’Alpe d’Huez. Dopo, come faceva spesso la domenica, era andato a trovare la madre.

Alle 16.52, un mafioso della famiglia del mandamento di San Lorenzo, Giovanni Battista Ferrante, appostato in una traversa di viale della Regione Siciliana, aveva telefonato da una cabina telefonica avvertendo gli attentatori presenti in via D’Amelio di stare pronti, perché erano appena passate le tre auto blindate a bordo delle quali c’erano il magistrato e la sua scorta.

Sceso dall’auto, Borsellino si accese una sigaretta, arrivò al cancello del palazzo e suonò il citofono. Fu in quel momento che il telecomando diede l’impulso che fece esplodere i 90 chilogrammi di esplosivo al plastico Semtex-H all’interno di un’auto rubata, una Fiat 126 rossa targata PA 878659.

Morirono, oltre a Borsellino, che all’epoca aveva 52 anni ed era procuratore aggiunto a Palermo, gli agenti di scorta Agostino Catalano, 43 anni, Vincenzo Li Muli, 22, Walter Eddie Cosina, 30, Claudio Traina, 26, ed Emanuela Loi, 24, la prima donna della polizia di Stato a essere uccisa in servizio. Si salvò un agente, Antonio Vullo, che nel momento in cui venne azionata la bomba stava tornando indietro dal fondo della strada per parcheggiare una delle auto della scorta. L’esplosione fu così potente che resti umani e di auto furono trovati dietro il palazzo di via D’Amelio.

Il primo lancio dell’agenzia Ansa arrivò alle 17.16:

PALERMO, 19 LUGLIO 2022    Un attentato dinamitardo è stato compiuto a Palermo. Vi sono coinvolte numerose automobili e sono molti i feriti. Sul luogo dell’ esplosione che è stata avvertita ad alcuni chilometri di distanza, sono confluite tutte le pattuglie volanti della polizia e dei carabinieri. Sono state richieste autoambulanze da tutti gli ospedali. Secondo le prime indicazioni della polizia, un magistrato sarebbe rimasto coinvolto nell’attentato.

La strage di via D’Amelio avvenne 57 giorni dopo che la mafia aveva assassinato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. In via D’Amelio le auto potevano parcheggiare: nessuno aveva pensato a rendere quella strada più sicura. Eppure la mafia aveva già ucciso con il metodo delle autobombe: era accaduto il 29 luglio 1983 in via Pipitone Federico a Palermo, quando un’auto con 75 kg di esplosivo scoppiò mentre il magistrato Rocco Chinnici stava uscendo dal portone di casa. Anche in quel caso l’esplosivo era in una Fiat 126. Dopo la strage di Capaci era evidente che Borsellino poteva essere un nuovo obiettivo della mafia.

L’attentato del 19 luglio 1992 fu una delle peggiori stragi di mafia avvenute in Italia. Provocò anche, però, una potente reazione dello stato che quella notte stessa rese operativa l’applicazione del 41 bis (la disposizione dell’ordinamento penitenziario che prevede un regime carcerario con pesanti restrizioni) a carico di 300 detenuti per reati di mafia, sia già condannati che in attesa di giudizio. Quella notte stessa i 300 detenuti furono trasferiti nelle carceri speciali dell’Asinara e di Pianosa.

La notte del 19 luglio 1992 segnò una svolta nella lotta alla mafia: molti boss da quel momento in poi vennero sottoposti a un regime di detenzione estremamente duro che aveva come primo obiettivo quello di impedire qualsiasi contatto tra chi era detenuto e chi si trovava all’esterno del carcere. I capi mafia furono messi in condizione di non poter più dare ordini all’esterno.

Alla strage di via D’Amelio seguirono scelte investigative che si dimostrarono con il tempo del tutto sbagliate. Ancora oggi non si sa se si sia trattato di un’operazione di depistaggio preordinata, come molti sostengono, oppure di imperizia, errori, superficialità da parte di chi svolse le indagini. Pochi giorni fa si è concluso con due prescrizioni e un’assoluzione un processo contro alcuni poliziotti che la procura di Caltanissetta accusava di aver concorso a mettere in atto quel depistaggio.

Quando fu ucciso, Borsellino era da poco tornato alla procura di Palermo. Era entrato in magistratura nel 1963: era allora il magistrato più giovane d’Italia. Fu pretore a Mazara del Vallo e poi a Monreale, nel 1975 fu trasferito al tribunale di Palermo e negli anni Ottanta iniziò a occuparsi di indagini sulla mafia entrando a far parte del pool creato da Rocco Chinnici e poi diretto, dal 1983, da Antonino Caponnetto. Nel 1986 fu nominato procuratore della Repubblica a Marsala. Tornò a Palermo nel marzo del 1992. 

Falcone era stato chiamato qualche mese prima a Roma per dirigere la sezione Affari penali del ministero della Giustizia. Dopo la morte di Falcone, Borsellino era rimasto il magistrato antimafia più in vista e ritenuto dalla mafia più pericoloso. In pochi però potevano immaginare che Cosa Nostra sarebbe tornata a colpire a così breve distanza dalla strage di Capaci.

Un pentito, Francesco Paolo Anzelmo, ha detto, come ricorda Giovanni Bianconi nel libro Un pessimo affare, che «la morte del dottor Borsellino e del dottor Falcone è tutta unica, era la situazione che… non davano tregua. E poi c’era il fatto del maxiprocesso, tutto da lì parte. Quella era la motivazione, per quello si dovevano uccidere. Anche negli anni precedenti se ne parlava. Mi ricordo che c’erano dei progetti, certe volte si parlava e si doveva fare con un lanciamissile, con un bazooka. C’erano progetti omicidiari sia ai danni del dottor Falcone che del dottor Borsellino, ma da anni prima…».

Il maxiprocesso fu il più grande processo svoltosi in Italia contro la mafia. Dal 1986 fino al 30 gennaio 1992, data della sentenza della Corte di Cassazione, furono giudicati 460 presunti appartenenti alle cosche mafiose. Al termine del processo di primo grado, che si tenne in un’aula bunker costruita al fianco del carcere dell’Ucciardone, vennero decisi 19 ergastoli e pene detentive per 2.665 anni di reclusione. Tra gli ergastoli ci furono quelli di Totò Riina e di tutti i boss del gruppo dei corleonesi, la cosca vincente che in quegli anni indirizzava le decisioni di tutte le famiglie mafiose palermitane e anche di altre province.

Quando la Corte di Cassazione confermò le condanne Riina e i corleonesi, che fino all’ultimo avevano atteso un intervento “politico”, e cioè l’annullamento delle condanne da parte della Cassazione, decisero di colpire politici, giudici, giornalisti. Ci furono numerose riunioni di quella che all’interno di Cosa Nostra veniva chiamata commissione provinciale, e cioè il gruppo ristretto di capi delle varie famiglie palermitane: furono decisi gli obiettivi e assegnati gli incarichi per la preparazione degli attentati. Il primo a essere ucciso fu Salvo Lima, assassinato il 12 marzo 1992: massimo dirigente democristiano in Sicilia, era stato per anni, secondo sentenze processuali, il referente politico della mafia. 

Molti collaboratori di giustizia, tra cui Nino Giuffrè, legato a un altro capo dei corleonesi, Bernardo Provenzano, hanno sostenuto durante le loro dichiarazioni davanti ai magistrati che nelle settimane prima della strage di via D’Amelio Riina avesse parlato con «persone importanti». Se davvero ci furono questi incontri e chi fossero le “persone importanti” non è mai stato accertato. Tutti i collaboratori di giustizia sono sempre stati concordi comunque nel sostenere che Riina decise di colpire Borsellino per vendetta, in seguito alle sentenze del maxiprocesso, ma anche perché lo riteneva, dopo Falcone, il magistrato più pericoloso. 

Il collaboratore di giustizia Giuffrè ha però aggiunto un altro elemento. Ecco cosa disse nel corso di un processo, riguardo all’attentato: 

«C’è stato un certo anticipo (dell’omicidio di Borsellino, ndr) dovuto anche al fatto, per quel poco che sono riuscito a capire poi, che hanno avuto notizie che il dottore Borsellino forse, addirittura stava diventando più pericoloso di quello che si era pensato. E in modo particolare per quanto riguarda il discorso sugli appalti. Mi permetto di aggiungere un altro piccolo particolare, penso noto. Che il dottore Falcone mirava a dirigere la procura antimafia nazionale e che poi forse dopo l’uccisione del dottore Falcone si è avuta notizia che il dottore Borsellino poteva prendere quel posto (…) Un motivo è da ricercarsi, per quello che so io, sempre nel discorso degli appalti».

Giuffrè si riferiva a un dossier su mafia e appalti a Palermo presentato dal Ros dei Carabinieri (Raggruppamento operativo speciale) al quale Borsellino pare fosse molto interessato.

Non è mai stato realmente chiarito perché Riina e i corleonesi decisero di agire a così breve distanza dalla strage di Capaci. E non è chiaro nemmeno molto di ciò che accadde nelle ore subito dopo l’esplosione dell’autobomba in via D’Amelio e di ciò che accadde nei mesi successivi, durante le indagini.

Pochi minuti dopo l’attentato il sovrintende di polizia Francesco Paolo Maggi, arrivato sul posto insieme a decine di poliziotti e personale di soccorso, si fece consegnare da un vigile del fuoco una borsa di pelle che era sul sedile posteriore dell’auto su cui viaggiava Borsellino. Un funzionario gli disse di portare la borsa in questura. Lì Maggi la consegnò all’autista di Arnaldo La Barbera, dirigente della squadra mobile, futuro questore di Palermo ed ex collaboratore del Sisde, il servizio segreto (Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica). Quella borsa venne data ai magistrati di Caltanissetta solo cinque mesi dopo. L’inchiesta fu affidata alla procura di Caltanissetta perché Borsellino lavorava alla procura di Palermo e le indagini che riguardano un magistrato devono essere condotte da un ufficio diverso da quello di appartenenza. 

Le indagini furono coordinate dal procuratore capo Giovanni Tinebra e dai sostituti procuratori Ilda Boccassini e Fausto Cardella. Boccassini si era fatta assegnare da Milano, dove lavorava, a Caltanissetta per contribuire alle indagini sull’attentato a Falcone. Nella borsa di Paolo Borsellino non c’era, secondo gli investigatori, nulla di interessante: venne restituita alla famiglia. Mancava però un’agenda rossa, sulla quale, disse la moglie del magistrato Agnese Piraino Leto, suo marito scriveva appunti. Ecco cosa ricordò Lucia Borsellino, figlia del giudice:

Nell’aprirla (la borsa, ndr) mi accorsi che mancavano alcuni oggetti che ricordavo fossero presenti. Ricordo di aver visto in quella circostanza soltanto il costume, le chiavi di casa, il pacchetto di Dunhill e ricordo che ci fu consegnata anche l’agenda marrone. Mi lamentai subito della mancanza di quella rossa e ricordo di aver avuto una reazione piuttosto scomposta. 

Quell’agenda non è mai stata trovata. La figlia Lucia disse che ricordava per certo di aver visto il padre metterla nella borsa la mattina del 19 luglio. Si seppe poi che Paolo Borsellino stava collaborando alle indagini sull’attentato di Capaci e che proprio nella settimana successiva alla sua morte avrebbe dovuto avere incontri in procura a Caltanissetta.

In via D’Amelio il pomeriggio del 19 luglio c’erano moltissime persone. Maggi e un altro funzionario di polizia, Giuseppe Garofalo, parlarono durante il processo della presenza di sconosciuti che, secondo loro, potevano appartenere ai servizi segreti. Bruno Contrada, dirigente del Sisde, fu tra i primi ad arrivare sul luogo della strage. Disse che, con il suo amico e assistente Lorenzo Narracci, era in barca di fronte al porto al momento dello scoppio. Contrada cinque mesi più tardi fu arrestato perché accusato di collusione con la mafia: venne in seguito condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. La Corte europea dei diritti dell’uomo, a cui si era rivolto, riconobbe nel 2015 che l’ex agente del Sisde non avrebbe dovuto essere condannato perché «il reato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso è il risultato di un’evoluzione della giurisprudenza italiana posteriore all’epoca in cui lui avrebbe commesso i fatti per cui è stato condannato».

Ad agosto, dopo una serie di intercettazioni telefoniche effettuate sulla linea fissa di Pietrina Valenti, la donna a cui era stata rubata la Fiat 126 rossa usata per l’attentato, fu arrestato un piccolo criminale, Vincenzo Scarantino. Valenti, in una telefonata, aveva accusato un certo Salvatore Candura di averle rubato l’auto. Interrogato dagli uomini di La Barbera, e cioè dal cosiddetto gruppo Falcone-Borsellino che indagò sulla strage, Candura ammise il furto e disse che gli era stato commissionato da Scarantino dietro compenso di 500mila lire. Sia Scarantino che Candura avevano precedenti per spaccio di droga, violenza sessuale e furto.

Scarantino, che negò tutto, non era un affiliato di Cosa Nostra, ma chi indagava si convinse che fosse coinvolto nella strage. Quando Scarantino era in carcere da un anno venne messo in cella con lui un ladro, collaboratore e confidente della questura palermitana, sperando che riuscisse a estorcere informazioni utili. Dopo qualche settimana, il confidente disse a La Barbera che secondo lui Scarantino non c’entrava assolutamente nulla con la strage di via D’Amelio. Fu un altro detenuto però ad accusare Scarantino: Francesco Andriotta. Disse che Scarantino gli aveva confidato di essere stato lui a commissionare il furto della 126.

Il 24 giugno 1994 Scarantino alla fine confessò. Disse di aver ricevuto l’ordine di procurare la Fiat 126 dal cognato, Salvatore Profeta. E disse anche di aver partecipato alla riunione in cui Riina diede l’ordine di uccidere Borsellino. Boccassini espresse perplessità sull’attendibilità del pentito: non era possibile, secondo lei, che un piccolo delinquente non affiliato a Cosa Nostra avesse addirittura partecipato a una riunione con Riina. Inoltre, ma questo si seppe solo anni più tardi, nessuno aveva fatto verifiche banali che avrebbero dovuto essere compiute: per esempio, nessuno chiese alla proprietaria della Fiat 126 quale fosse il punto esatto in cui l’auto le era stata rubata, controllando così se corrispondesse a quello indicato da Candura. 

Scarantino fece alcuni nomi di partecipanti alla strage di via D’Amelio. Nomi di pentiti, rei confessi per la strage di Capaci che però negarono di aver avuto parte a quella di via D’Amelio. Scarantino allora disse che non era in effetti sicuro della loro partecipazione alla strage. Nel 1994, prima di lasciare Caltanissetta per tornare a Milano, Boccassini scrisse una nota:

L’inattendibilità delle dichiarazioni rese da Scarantino in ordine alla partecipazione alla strage di via D’Amelio, prima affermata come certa poi come possibile, di Salvatore Cancemi, Gioacchino La Barbera e Santo Mario Di Matteo, suggerisce di riconsiderare il tema dell’attendibilità generale di tale collaboratore.

I giornalisti chiesero al procuratore Tinebra come fosse possibile che Cosa Nostra si fosse affidata a un criminale comune per compiere la strage: «non ci siamo posti la domanda. I fatti, secondo noi, si sono svolti in un certo modo. Scarantino non è uomo di manovalanza», rispose Tinebra. Scarantino venne quindi messo a confronto con Salvatore Cancemi, mafioso della cosca palermitana di Porta Nuova. 

  • Cancemi: Io non ti ho mai visto, sei un uomo d’onore?
  • Scarantino: Uomo d’onore?
  • Cancemi: Rispondi, non pensare. Che significa uomo d’onore?
  • Scarantino: Uomo d’onore.
  • Cancemi: Tu non lo sai che significa, tu non hai mai fatto parte di Cosa nostra, assolutamente.

Il primo processo per la strage di via D’Amelio si concluse nel 2000 con la condanna di Scarantino a 18 anni di carcere e all’ergastolo per Salvatore Profeta, l’uomo che secondo il pentito gli aveva ordinato di rubare l’auto. Nel frattempo era iniziato il cosiddetto processo Borsellino bis, contro i presunti mandanti della strage: tra gli altri Totò Riina, Giuseppe Graviano, Pietro Aglieri. 

Nel 2003 il processo Borsellino bis si concluse con le condanne dei mandanti ma anche con la condanna all’ergastolo di sei persone che Scarantino aveva accusato nelle prime fasi delle sue dichiarazioni: Gaetano Scotto, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Giuseppe Urso, Gaetano Murano. Tutti e sei avevano sempre negato ogni accusa. Nel processo Borsellino ter, e cioè il terzo, furono giudicati e condannati altri membri della cupola mafiosa, cioè del ristretto cerchio di boss che prendeva le decisioni: Bernardo Provenzano, Pippo Calò e Giovanni Brusca. C’erano quindi state in tutto nove sentenze. 

Nel 2008, 16 anni dopo la strage, al nuovo procuratore della repubblica di Caltanissetta Sergio Lari, che aveva sostituito Tinebra, arrivò però una comunicazione dal procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso che trasmetteva il verbale di un colloquio con il mafioso Gaspare Spatuzza, il quale «forniva una ricostruzione dei fatti relativi alla strage di via D’Amelio totalmente confliggente con quella emersa dai processi».

Spatuzza, detto u tignusu, era in carcere da undici anni. Prima dell’arresto era ricercato come uno degli esponenti più sanguinari di Cosa Nostra. Era stato condannato per l’omicidio di don Pino Puglisi, assassinato il 15 settembre 1993.

Spatuzza disse ai magistrati: «Ciò che mi ha spinto a collaborare con l’autorità giudiziaria è stata una profonda riflessione che ho fatto sui miei trascorsi criminali che mi ha indotto ad abbracciare in maniera più convinta la religione cattolica».

Spatuzza disse essere stato incaricato di rubare un’auto 126 e che quando gli venne dato l’incarico pensò subito «alla strage di Chinnici». Disse di aver rubato la 126 insieme a un altro mafioso, Vittorio Tutino, e descrisse perfettamente l’auto e il luogo esatto dove l’aveva rubata. Spiegò che portò l’auto in un magazzino di corso dei Mille. Disse anche che aggiustò i freni dell’auto che non erano a posto e che si fece aiutare dal titolare di un’autofficina.

All’inizio il procuratore Lari e gli altri magistrati di Caltanissetta furono piuttosto sospettosi riguardo alla confessione di Spatuzza. Disse Lari: «Ovviamente il mio ufficio di fronte a sentenze passate ciascuna al vaglio di tre gradi di giudizio e dopo indagini fatte allora da investigatori di grande rilievo, ha assunto in un primo momento una linea di prudenza». Poi però vennero fatti alcuni riscontri. In un deposito del ministero dell’Interno vennero recuperati i resti della Fiat 126 e venne scoperto che ganasce e tamburi dei freni erano effettivamente nuovi.

Ma la cosa che convinse il procuratore Lari fu soprattutto un’altra: «la cosa che più mi ha colpito tra quelle non fatte nelle prime indagini, per me incomprensibile, è la mancata individuazione del luogo dove è stata rubata la 126 di Pietra Valenti usata per l’attentato». Valenti fu interrogata, e indicò il luogo dove aveva subito il furto. Quindi Spatuzza venne portato in elicottero nella zona palermitana di Brancaccio. Ecco cosa ricordò Lari: «Benché i luoghi fossero cambiati egli indicò in un posto dove c’erano delle fioriere e in cui stavano facendo dei lavori, il luogo dove era stata parcheggiata la 126. Che corrispondeva perfettamente al metro, ma direi al centimetro, a quello indicato dalla Valenti».

I magistrati convocarono nuovamente Scarantino e Candura. Quest’ultimo ammise subito: «Io quella 126 non l’ho mai rubata… io sono stato suggerito a dire queste cose il giorno in cui mi hanno arrestato per violenza carnale». Ritrattò anche Andriotta, il detenuto che sostenne di aver avuto da Scarantino le confidenze sulla strage.

Il 28 settembre 2009 anche Scarantino ammise di aver mentito: «Sino a ora non ho ritrattato per paura ma ciò che ho dichiarato riguardo alla strage di via D’Amelio è assolutamente falso». Sia Scarantino che Candura dissero che era stato il capo della Mobile, Arnaldo La Barbera, a spingerli a dire quelle cose sulla strage. Disse Scarantino: «La Barbera mi diceva che dovevo diventare un Buscetta», riferendosi a uno dei più famosi collaboratori di giustizia di quegli anni. 

Nel 2011 la procura di Caltanissetta chiese la sospensione della pena e la revisione del processo per le persone che erano state condannate in seguito alle dichiarazioni di Scarantino. 

«Se lo Spatuzza ha detto la verità, bisogna comprendere se la diversa versione dei fatti fosse stata il frutto di un clamoroso errore investigativo prima e giudiziario poi, magari determinato dall’ansia di dare una pronta risposta all’opinione pubblica allarmata e disorientata dall’escalation stragista, oppure il risultato di un vero e proprio depistaggio».

Gli ergastoli per Salvatore Profeta, Gaetano Scotto, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Giuseppe Urso e Gaetano Murana, tutte persone accusate da Scarantino, furono cancellati da un processo di revisione. 

Spatuzza raccontò con precisione la preparazione dell’attentato di via D’Amelio. Disse che oltre all’auto rubò anche le targhe da montare sulla 126. Le consegnò a Giuseppe Graviano, boss della famiglia di Brancaccio e incaricato dalla commissione provinciale di Cosa Nostra di organizzare l’attentato, incontrandolo in un maneggio appartenente a Salvatore Vitale, affiliato della mafia, che viveva allora al piano terra di via D’Amelio 21.

Secondo i pubblici ministeri fu Vitale a fornire ai mafiosi tutte le indicazioni sulle abitudini di Paolo Borsellino. Il giorno della strage era via con tutta la famiglia. Nessuno mai, prima della confessione di Spatuzza, aveva associato il suo nome alla mafia, né erano state fatte verifiche sugli abitanti di via D’Amelio 21. Poco più di un anno dopo la strage, nel maneggio di Vitale, la Palermitana Equitazione Salto a Ostacoli, fu sequestrato il tredicenne Giuseppe Di Matteo, rapito dai corleonesi per spingere il padre, Santino, divenuto collaboratore di giustizia, a ritrattare le sue dichiarazioni. Giuseppe Di Matteo fu tenuto prigioniero dai suoi sequestratori per oltre due anni: fu ucciso da Giovanni Brusca l’11 gennaio 1996 e il suo corpo sciolto nell’acido. Per il concorso nel rapimento e nell’omicidio di Giuseppe Di Matteo, Vitale fu condannato all’ergastolo. Scarcerato per motivi di salute, morì nella sua casa di via D’Amelio 21 nell’ottobre del 2012.

Tra il 2019 e il 2020 la procura di Messina ha messo sotto inchiesta due dei pubblici ministeri titolari della prima inchiesta sulla strage. Vennero riscontrate diverse anomalie senza tuttavia, fu scritto nella richiesta di archiviazione, arrivare alla conclusione che i magistrati «abbiano posto in essere reali e consapevoli condotte volte a inquinare le dichiarazioni, certamente false, rese da Scarantino». La Barbera era morto nel 2002; Tinebra morì nel 2017.

Nel 2018 la procura di Caltanissetta chiese e ottenne il rinvio a giudizio per il funzionario di polizia Mario Bo e gli ispettori Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei: tutti e tre avevano fatto parte del gruppo Falcone-Borsellino, quello che aveva condotto le indagini sulla strage. Secondo la procura i tre poliziotti avevano indotto Scarantino a rendere false dichiarazioni sottoponendolo a minacce, pressioni e maltrattamenti. Il 12 luglio 2022 Ribaudo è stato assolto perché il fatto non sussiste mentre per Bo e Mattei i reati sono stati dichiarati prescritti. Non lo sarebbero stati se i giudici avessero accolto la richiesta dei pubblici ministeri di aggiungere al reato di calunnia l’aggravante mafiosa.

Altri collaboratori di giustizia, in seguito, hanno confermato le dichiarazioni di Spatuzza. Secondo Sergio Lari «fu Giusepe Graviano quasi certamente a pigiare il telecomando che fece esplodere la 126 in via D’Amelio». Il pentito Fabio Tranchina, ex autista di Graviano, disse ai magistrati: «Ricordo che via D’Amelio era una strada chiusa, alla cui estremità vi era un muro che delimitava un giardino ove, per quel che mi disse il Graviano, probabilmente egli si era collocato il giorno dell’attentato».

Nelle sue dichiarazioni, Spatuzza disse che il 18 luglio 1992, nel garage dove effettuò la consegna della Fiat 126, vide il mafioso Renzino Tinnirello, vice capo della famiglia di corso dei Mille, in compagnia di uno sconosciuto, secondo Spatuzza probabilmente estraneo a Cosa Nostra. Disse Spatuzza: «Io sono convinto che non sia una persona riconducibile a Cosa Nostra… Mi dispiace moltissimo fino a quando non si sarà chiarito questo mistero è un problema serio per tutto quello che riguarda la mia sicurezza, perché a questo punto io avrei più interesse a vedere questa persona in carcere che trovarmela fuori…». Spatuzza in carcere si è iscritto alla facoltà di teologia. Ad aprile ha chiesto che gli sia concessa la libertà condizionale. Il tribunale di sorveglianza ha respinto la domanda, ma su indicazione della Corte di Cassazione verrà rivalutata.

La presenza di quella persona sconosciuta, indicata da Spatuzza, ha consolidato le convinzioni di coloro che credono che l’omicidio Borsellino sia stato eseguito da Cosa Nostra ma deciso anche da altri, insieme alla mafia. E che i depistaggi che seguirono, nonché la sparizione dell’agenda, furono messi in atto per nascondere il ruolo avuto dai servizi segreti nella strage.

Dopo che, qualche mese fa, fu avanzata l’ipotesi che l’agenda rossa fosse nelle mani del capo attuale di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro, Salvatore Borsellino, fratello del giudice assassinato, ha detto: «È lo Stato, e in particolare le sue parti deviate, che avevano tutto l’interesse a farla sparire. L’agenda rossa di Paolo è sicuramente nelle mani dei servizi segreti e non dei mafiosi». Secondo Salvatore Borsellino il fratello venne assassinato perché aveva elementi concreti che indicavano che fosse in atto la presunta trattativa tra lo Stato e la mafia, e cioè contatti tra membri delle istituzioni e boss di Cosa Nostra iniziati dopo l’omicidio di Salvo Lima. 

Il sostituto procuratore di Caltanissetta, Carmelo Petralia, disse, a proposito della strage di via D’Amelio:

«C’era da chiedersi perché Cosa Nostra avesse potuto fare una cosa così folle, sostanzialmente un autogol, per mettere lo stato con le spalle al muro e far attuare il 41 bis la notte del 19 luglio che ancora i capi mafia se la ricordano».