I giudici: “La trattativa non influì sulla strage di via D’Amelio, sbagliata l’idea di un’accelerazione”

Nelle motivazioni della sentenza d’appello smontata la tesi di primo grado, piena di “palesi aporie e forzature”. Errato ritenere che i contatti tra il Ros e Vito Ciancimino modificarono i piani di Totò Riina: “Li rafforzarono e in un contesto di guerra occorreva non dare respiro allo Stato: perché il boss avrebbe dovuto aspettare più di due mesi dopo Capaci?”

Non solo l’idea che sia stata la trattativa ad accelerare la strage di via D’Amelio, come ha fatto la Corte d’Assise nella sentenza di primo grado , “appare frutto di una chiara forzatura di tutti i dati disponibili”, prima di tutto per una questione temporale, ma i giudici d’appello mettono proprio in discussione l’ipotesi che vi sia stata un’accelerazione nella decisione di eliminare, a 57 giorni dalla strage di Capaci, anche Paolo Borsellino. Ponendo così la questione – ed è una chiave di lettura inedita – non ci sarebbe più neppure da arrovellarsi sul fatto preciso – la scoperta della trattativa piuttosto che il dossier Mafia e appalti (sul quale i giudici si soffermano a lungo e che ritengono comunque, a differenza dei colleghi di primo grado, un’ipotesi più che fondata) – che la determinò, inserendola invece nel contesto più vasto dell’attacco frontale e senza precedenti mosso da Totò Riina allo Stato, che non necessariamente avrebbe avuto “una tabella di marcia”.

“Errato ipotizzare un’accelerazione della strage”

Quello sulla strage di via D’Amelio è un altro dei temi che vengono affrontati nelle quasi 3 mila pagine di motivazione della sentenza d’appello sulla trattativa, emessa a settembre scorso, e depositate venerdì sera. “E’ tempo di chiedersi se non sia sbagliato interrogarsi sulle cause della presunta accelerazione della strage; l’errore, cioè, prima che nelle diverse risposte che sono state date, si anniderebbe già nella domanda”, dice infatti la Corte presieduta da Angelo Pellino (a latere Vittorio Anania). Che con sarcasmo rimarca poi: “Come se esistesse un prontuario delle stragi (mafiose) che insegni quale sia il tempo canonico che è opportuno far passare tra una strage e l’altra”.

“In un contesto di guerra gli attacchi devono susseguirsi”

La verità, per i giudici, è che in un contesto di guerra come quello “è più che plausibile che gli attentati si susseguissero nel più breve tempo possibile, senza dare respiro al ‘nemico’, senza dare tempo allo Stato di riorganizzarsi”. E, a sostegno di questa tesi, sottolineano come la strage di Capaci sia avvenuta a 72 giorni dall’omicidio di Salvo Lima, ma anche come a 59 giorni da via D’Amelio fu eliminato Ignazio Salvo, oppure come, a dividere le stragi di Roma e Milano da quella di Firenze, vi siano solo 61 giorni, e pure come quest’ultimo attentato segua solo di 13 giorni quello di via Fauro.

“Palesi aporie e forzature nella sentenza di primo grado”

Sicuramente la Corte ravvisa “incertezze interne e palesi aporie o forzature nella ricostruzione sposata in primo grado dalla Corte d’Assise”, presieduta da Alfredo Montalto, secondo cui fu la trattativa ad accelerare l’eliminazione di Borsellino. Non combacerebbero i tempi, infatti. “Nell’ultima decade di giugno 1992” va collocato “l’inizio dell’iter esecutivo della strage” di via D’Amelio, ma “l’interlocuzione dei carabinieri del Ros (cioè degli imputati Mario Mori e Giuseppe De Donno, assolti proprio in appello dopo pesanti condanne in primo grado, ndr) con Vito Ciancimimo, ammesso che fosse a sua volta iniziata – dicono i giudici – doveva essere ancora in fase embrionale, tanto da potersi escludere che i carabinieri avessero già scoperto le carte e detto chiaramente a Ciancimino che volevano si facesse da tramite con i vertici di Cosa nostra”. E neppure “può credersi che Ciancimino avesse avuto già il tempo di informarne prima Antonino Cinà (condannato anche in appello, ndr)” che si sarebbe pure inizialmente rifiutato di far a sua volta da tramite.

“Nessuno colloca la fase culminante della trattativa tra le due stragi”

Secondo la disamina della Corte d’Assise d’Appello, nessuno, soprattutto tra i tanti pentiti, colloca la fase culminante della trattativa – quella in cui i carabinieri avrebbero fatto la loro “proposta indecente ed irricevibile” a Cosa nostra, ovvero la consegna dei latitanti – tra Capaci e via D’Amelio. “E’ possibile, ma solo possibile – dicono i giudici – che sia avvenuto già prima della strage di via D’Amelio ma non si può affatto escludere che sia accaduto invece solo dopo le due stragi”. 

“Disarmante la mancanza di verifica sui tempi nella prima sentenza”

“Disarmante – stigmatizza poi la Corte – è però la disinvoltura con cui la sentenza appellata, dando atto dell’impossibilità di un’esatta collocazione temporale degli sviluppi fattuali dei contatti intrapresi dagli ufficiali del Ros con Ciancimino, perviene all’inopinata conclusione che tutto sommato non importa ricostruire con certezza i tempi di svolgimento di quei contatti. Ciò che conta, in questa nuova – e inattesa – prospettiva, è che risulti provato – ma non lo è affatto – che Riina venne informato da Ciancimino fin dal primo approccio che questi aveva avuto con De Donno e Mori”. E a quel punto, se si dà per buona l’idea di un’influenza della trattativa su via D’Amelio occorre supporre che “Riina avesse avuto la capacità divinatoria di intuire dove andasse a parare il primo approccio”.

“La trattativa non fece cambiare i piani al boss, li rafforzò”

“E’ possibile ma non è provato che Riina sia stato informato poco prima della strage di via D’Amelio dell’invito proveniente da emissari istituzionali, ma anche se così non fosse l’operazione Borsellino era già in itinere – si legge nella sentenza d’appello – ed allora si può concedere che l’essere venuto a conoscenza che uomini dello Stato si erano fatti sotto per negoziare non ebbe l’effetto di dare la precedenza all’attentato a Borsellino, sconvolgendo un’ipotetica diversa scaletta del suo programma criminoso: più semplicemente non fece cambiare di una virgola a Riina i suoi piani. Anzi, egli ne trasse un incoraggiamento ad andare avanti, non perché non fosse interessato alla proposta di avviare un negoziato, ma perché, pur volendo raccogliere tale sollecitazione, ritenne, del tutto irragionevolmente, che una nuova terrificante dimostrazione di (onni)potenza distruttiva da parte di Cosa nostra avrebbe giovato alla sua causa, consentendogli di trattare da una posizione di forza e fiaccando ogni residua velleità dello Stato di opporsi alle sue pretese”

“Riina capì che la strategia delle bombe pagava”

Ma “è possibile, ed anzi assai più probabile, che Riina sia stato edotto dell’iniziativa del Ros soltanto dopo che la strage di via D’Amelio era stata commessa. Ebbene anche in tale evenienza egli ne avrebbe tratto un incoraggiamento a persistere nei suoi piani, perché, se uomini dello Stato si erano fatti avanti per trattare, dopo una seconda terrificante strage, ciò voleva dire che la strategia ‘pagava’, nel senso che era un metodo efficace per ottenere che lo Stato si piegasse alle richieste di Cosa nostra. E non era impensabile avanzare allora richieste altrimenti irricevibili, essendo tali richieste presidiate da una minaccia terribile e divenuta ancora più credibile di quanto non fosse già in precedenza”.

“Non convincente scartare il dossier Mafia e appalti”

Per la Corte presieduta da Angelo Pellino “la strage di Capaci aveva segnato un punto di non ritorno nell’offensiva” mafiosa e “il primo ad esserne convinto, tanto di sentire di avere i giorni, se non le ore, contati, era proprio Paolo Borsellino”. Inoltre “gli argomenti che inducono il giudice di prime cure ad escludere che l’interesse di Borsellino per l’indagine Mafia e appalti e la sua determinazione a riprendere e approfondire quel tema abbiano avuto una concreta incidenza nell’accelerazione della strage di via D’Amelio appaiono tutt’altro che irresistibili e convincenti”, si legge ancora nella sentenza, che confuta l’ipotesi che alla base della strage ci sia stata la trattativa.

“Cosa nostra aveva da temere da quell’indagine”

Ed è semplice capire perché: “Cosa nostra aveva senz’altro da temere da quell’indagine”, che Borsellino aveva ereditato da Falcone, perché riguardava la “progressiva penetrazione di Cosa nostra nei circuiti dell’ecomomia legale e negli ambienti dell’alta finanza e della grande impresa. Un’evoluzione che, a partire dall’esigenza di riciclare e far fruttare gli ingenti capitali proventi di traffici illeciti e accumulati dalla seconda metà degli anni Settanta, aveva marciato lungo traiettorie che, nella prospettiva di una valenza non più soltanto predatoria o parassitaria dell’ingerenza di Cosa nostra nel sistema di illecita spartizione e gestione degli appalti, andavano ad incrociare le indagini sulle vicende di corruzione e concussione in tutto il Paese” che, dopo Mani Pulite, “investivano pezzi importanti della nomenklatura politica fino ad allora dominante e non risparmiavano i più grossi gruppi imprenditoriali interessati ad aggiudicarsi lucrosi appalti anche in Sicilia”. 

“L’idea dell’accelerazione rischia di inquinare il ragionamento”

A Mafia e appalti, inchiesta che è stata appena riaperta – a 30 anni dalla sua archiviazione – dalla Procura di Caltanissetta, ma anche all’esistenza della così detta “doppia informativa”, i giudici dedicano un capitolo molto corposo, ma alla fine ritengono pericolosa, se non errata, l’idea stessa di ipotizzare una “accelerazione” per la strage di via D’Amelio. In questa ipotesi, affermano, c’è “il rischio che si annidi una suggestione psicologica collettiva del tutto legittima, ben inteso, ma che può inquinare il ragionamento”, perché si dà per scontato che “l’offensiva stragista avesse un tabella di marcia”.

“Perché Cosa nostra avrebbe dovuto aspettare più di due mesi?”

I “57 giorni” tra le due stragi finiscono per apparire un tempo troppo esiguo “per non pensare all’intervento di uno o più fatti nuovi che abbiano imposto di abbreviare i tempi”. Ma non si capisce perché – è il ragionamento della Corte – “pur disponendo dei mezzi, degli uomini, delle capacità organizzative e tecnico-logistiche, nonché del potenziale bellico necessari all’impresa, Cosa nostra avrebbe dovuto attendere più di due mesi (ma quanto di più, naturalmente, nessuno dei convinti assertori dell’accelerazione lo dice), prima di replicare un delitto altrettanto eclatante della strage di Capaci”.

“La mafia in quell’estate giocava non in difesa, ma in attacco”

Nella sentenza si mette in evidenza come “Riina aveva elevato a livelli mai visti lo scontro con le istituzioni, in una logica di tipo militare, quale è quella che si conviene ad una vera e propria guerra, ed era più che plausibile che gli attentati si susseguissero nel più breve tempo possibile, senza dare respiro al ‘nemico’, senza dare allo Stato il tempo di riorganizzarsi”. Certo, secondo qualcuno questa strategia avrebbe portato solo ad una reazione ancora più stringente dello Stato e, dunque, sarebbe stata (come in effetti è stata) fallimentare. Ma rimarcano ancora i giudici: “Cosa nostra nell’estate del 1992 non giocava in difesa ma in attacco e l’obiettivo prioritario non era quello di scongiurare il rischio di un ulteriore inasprimento della legislazione antimafia, quello era un contraccolpo da mettersi in conto, come effetto immediato; l’obiettivo finale era costringere lo Stato, a forza di bombe, a prendere atto che inasprire le misure repressive contro la mafia sarebbe servito solo a provocare ritorsioni sempre più violente da parte di Cosa nostra”.   PALERMO TODAY Sandra Figliuolo 7.8.2022