Francesco Di Carlo (Altofonte, 18 febbraio 1941) collaboratore di giustizia italiano in qualità di appartenente a Cosa Nostra. È stato accusato di essere l’assassino di Roberto Calvi. Di Carlo è entrato in relazione con la famiglia mafiosa di Altofonte negli anni 60 grazie al boss Salvatore La Barbera (da non confondere con il Salvatore La Barbera che è stato ucciso nel 1963).[1] Divenne capo famiglia a metà degli anni 1970. Altofonte era parte del mandamento di San Giuseppe Jato, guidato da Antonio Salamone e Bernardo Brusca. Secondo il pentito Giuseppe Marchese, Di Carlo era un mafioso influente e un trafficante di droga connesso con i Corleonesi. Il 24 aprile 2014 è apparso, a volto coperto, per la prima volta in televisione, intervistato a Servizio Pubblico Più da Sandro Ruotolo sui rapporti con Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.[2]
L’espulsione da Cosa Nostra Di Carlo è stato espulso da Cosa Nostra per un conflitto riguardo ad un carico di eroina perduto o una consegna di hashish non pagata. Grazie ai suoi utili servizi alla mafia non è stato ucciso, ma ha dovuto lasciare l’Italia. Si è trasferito a Londra. Suo fratello Andrea Di Carlo lo sostituì a capo della famiglia mafiosa e divenne un membro della Commissione. Secondo Di Carlo è stato espulso nel 1982 perché si era rifiutato di tradire alcuni membri del clan Cuntrera-Caruana (Pasquale Cuntrera e Alfonso Caruana) durante la guerra di mafia nella provincia di Agrigento.
Traffico di droga Nel Regno Unito Di Carlo ha trafficato hashish ed eroina. Ha comprato una villa a Woking, Surrey, e si è alleato ad Alfonso Caruana. Ha comprato un hotel, agenzie di viaggio e compagnie import-export per agevolare il contrabbando.[3] Nel giugno del 1985 la polizia trovò 58 chili di eroina in una consegna. Venne arrestato insieme ad altre tre persone. Nel marzo del 1987 è stato condannato a 25 anni di prigione per traffico di eroina.[4] Il fratello di Alfonso Caruana, Gerlando Caruana venne condannato in Canada.
Il pentimento Nel giugno del 1996 Di Carlo decise di collaborare con le autorità italiane. Venne trasferito dalla sua prigione del Regno Unito a Roma. Venne considerato come il “nuovo Tommaso Buscetta“. Di Carlo fece i nomi di molti politici come membri di Cosa Nostra, tra gli altri: Bernardo Mattarella, il precedente presidente della Sicilia Giovanni Provenzano e Giovanni Musotto, padre di Francesco Musotto, il precedente presidente della provincia di Palermo che era stato accusato di associazione mafiosa.[5] Testimoniò anche a proposito dell’omicidio del giornalista Mauro De Mauro, che era stato rapito e ucciso dalla mafia nel 1970. Nel 2001 disse che era stato ucciso perché aveva appreso che uno dei suoi vecchi amici, il principe Junio Valerio Borghese, stava pianificando un colpo di Stato (il cosiddetto Golpe Borghese ) per fermare quella che era considerata la svolta a sinistra dell’Italia.[6][7][8]
Coinvolgimento nell’omicidio di Roberto Calvi Nel luglio del 1991 il pentito Francesco Marino Mannoia affermò che Di Carlo aveva ucciso Roberto Calvi, soprannominato “il banchiere di Dio” per il suo incarico al Banco Ambrosiano[9]. Calvi sarebbe stato ucciso perché avrebbe perso i fondi della mafia quando il Banco Ambrosiano era collassato. L’ordine di uccidere Calvi sarebbe provenuto dal boss mafioso Giuseppe Calò. Quando Di Carlo divenne un testimone nel giugno del 1996 negò di essere l’assassino, ma ammise che Calò gli aveva chiesto di uccidere Calvi. Comunque, Di Carlo non poteva essere raggiunto in tempo, e quando successivamente chiamò Calò, quest’ultimo gli disse che si erano già organizzati diversamente. Secondo Di Carlo, gli assassini erano Vincenzo Casillo e Sergio Vaccari, che apparteneva alla Camorra di Napoli ed era stato ucciso.[10][11]
- Sentenza nei confronti di Dell’Utri Marcello e Cinà Gaetano Archiviato il 28 settembre 2007 in Internet Archive. December 11, 2004
- Quando Dell’Utri mi portò da Berlusconi”, serviziopubblico.it
- The Rothschilds of the Mafia on Aruba, by Tom Blickman, Transnational Organized Crime, Vol. 3, No. 2, Summer 1997.
- Britain Sentences 4 in Mafia, The New York Times, March 12, 1987
- ‘Vi dico i nomi dei padri della mafia’, La Repubblica, October 11, 1996
- “De Mauro venne ucciso perché sapeva del golpe”, La Repubblica, January 26, 2001
- Revealed: how story of Mafia plot to launch coup cost reporter his life, The Independent on Sunday, June 19, 2005
- De Mauro ucciso per uno scoop: scoprì il patto tra boss e golpisti
- Through the Looking Glass: Vatican Politics, the Calvi Murder and Beyond…
- Mafia wanted me to kill Calvi, says jailed gangster, Daily Telegraph, December 10, 2005
- Mafia hitman reveals he was hired to kill God’s banker Roberto Calvi , The Sunday Mirror, May 12, 2012
“Vennero in tre. Uno di questi, lo scoprii anni dopo, era La Barbera” “Alla fine degli anni Ottanta in carcere vengo raggiunto da tre soggetti. Uno di questi si presentò come Giovanni, dicendomi che portava i saluti di Mario, un altro soggetto che già conoscevo come appartenente dei servizi segreti vicino al generale Santovito. Aggiunse anche che mi aveva visto ad una riunione al Circeo qualche anno prima. Un altro parlava inglese, si chiamava Nigel e avevo capito che lavorava per i servizi inglesi. Il terzo non lo conoscevo. Solo anni dopo ho saputo chi fosse da una fotografia: era Arnaldo La Barbera“. A parlare dell’incontro è il pentito Francesco Di Carlo, sentito oggi al processo sul depistaggio di via d’Amelio che vede imputati i tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. Protetto dal paravento, di fronte al collegio del tribunale di Caltanissetta, presieduto da Francesco D’Arrigo, così come aveva già fatto al processo trattativa Stato-mafia il collaboratore di giustizia è tornato a fare il nome dell’ex Questore inserendolo all’interno di quei soggetti che lo andarono a cercare nel carcere di Full Sutton, mentre era detenuto in Inghilterra. Rispondendo alle domande del procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci ha confermato come quell’incontro sarebbe stato da ricollegare ad un progetto più ampio mirato all’indebolimento del giudice Falcone, che qualche tempo dopo sarebbe stato oggetto del fallito attentato all’Addaura.“Furono annunciati come degli amici – ha ricordato – loro volevano un contatto con Cosa nostra che continuava a macinare omicidi. C’era stato l’attentato a Chinnici. Noi vogliamo una mano per mandare via da Palermo il dottor Falcone e quelli che a lui erano più vicini. In primo luogo Borsellino. I motivi? Falcone si era fatto una squadra di Polizia giovane con De Gennaro e Manganelli che non faceva più sapere niente ai superiori. Poi già Falcone pensava di mettere in piedi la Dia, come una Fbi in Italia. C’era anche l’idea della Procura nazionale antimafia. E insisteva che con questi magistrati noi saremmo stati finiti”. Francesco Di Carlo è uno che ne ha passate tante, dentro e fuori Cosa nostra. Una militanza all’interno dell’organizzazione criminale che lo ha visto attivo, dagli anni ’70 sino al 1996, quando decise di pentirsi e collaborare con i magistrati. Un percorso in cui ha vissuto più fasi, arrivando anche a “dimettersi” da capo della famiglia di Altofonte, uscendo così dalle gerarchie “ordinarie”, dopo il rifiuto ad eseguire l’ordine di eliminare “due cari amici” con i quali aveva stretto un profondo legame, i cugini Cuntrera e Caruana che si erano trasferiti in Canada e in Sud America. Un’azione che gli costò l’allontanamento da Cosa nostra anche se il suo ruolo veniva comunque riconosciuto dai vertici di Cosa nostra (“Riina e Michele Greco mi dissero adesso te ne vai ma presto rientrerai”). Ed anche da collaboratore di giustizia è stato tra i primi a parlare dei cosiddetti mandanti occulti a Cosa nostra nelle stragi. Del resto è stato lui a raccontare del famoso incontro tra Stefano Bontade e l’allora imprenditore Silvio Berlusconi, ed anche oggi si è detto convinto che con la strage di via d’Amelio “Cosa nostra ci ha fatto un bel regalo alle istituzioni e allo Stato”. “Così abbiamo commentato con Nigel in altri incontri che abbiamo avuto – ha aggiunto l’ex boss di Altofonte – Del resto avevano paura che si scoprivano tantissime cose”.
Così riconobbi La Barbera Ovvio che il tema più caldo nel processo sul depistaggio riguarda il nome dell’ex capo della Squadra mobile, Arnaldo La Barbera. Un nome che non è stato fatto subito nel corso dell’udienza in quanto, secondo quanto raccontato da Di Carlo, “in un primo momento non conoscevo il nome della terza persona che era venuta in carcere assieme a Giovanni e Nigel“. “Qualche tempo dopo lo riconobbi in fotografia sul giornale – ha ancora aggiunto sollecitato dalle domande del pm – Si parlava della notizia che questo La Barbera aveva ucciso ad uno durante una rapina“. Ma la storia non è finita qui. Infatti, nel corso dell’esame, Di Carlo ha anche raccontato che nei mesi dopo il suo arresto i magistrati Ayala e Di Lello andarono ad interrogarlo nell’ambito delle accuse che lo vedevano indagato per associazione mafiosa a Palermo: “Ad un certo punto Ayala mi dice che fuori c’era anche un poliziotto che però non era voluto entrare. Quando ne parlai con altri carcerati mi dissero che da loro, invece, il poliziotto era entrato. Anni dopo, quando vidi la foto di La Barbera, chiesi a queste persone se fosse stato quello il poliziotto che era andato assieme ad Ayala e Di Lello e mi risposero di sì“. Quando Paci ha poi domandato se fosse a conoscenza di un progetto di attentato nei confronti dello stesso La Barbera, Di Carlo ha risposto con la logica, ricordando l’episodio dell’omicidio del rapinatore: “Il regolamento di Cosa nostra vuole che solo lei può uccidere qualcuno. E’ normale, dunque, che lo si deve ammazzare. A meno che non ha rapporti con Cosa nostra“.
Quel contatto con Ignazio Salvo e l’attentato all’Addaura Tornando a parlare dell’incontro avuto con Giovanni, Nigel e La Barbera Di Carlo ha riferito che dopo quell’incontro mise in contatto il primo con Ignazio Salvo, uno dei due noti cugini delle esattorie. “Avuto l’ok da Riina io gli dissi di andare nell’ufficio di Lima a Roma. Tempo dopo lo stesso Giovanni mi disse che l’incontro ci fu. Erano molto contenti. Mi disse anche che non si sarebbe scordato di me“. I risultati di quei contatti, a detta del collaboratore di giustizia, non sarebbero tardati ad arrivare tanto che “in poco tempo iniziò una vera propaganda contro Falcone. C’erano le lettere (quello era il tempo del Corvo, ndr) e poi il discorso dell’Addaura. Si mise in giro la voce che la bomba se l’era messa da solo“. “Per quel che si parlava – ha aggiunto Di Carlo rispondendo ad una domanda dell’avvocato Fabio Repici – tutto andò come doveva essere. Tutto era stato programmato per non essere ucciso. Di Falcone se ne volevano liberare così“. Di queste cose avrebbe parlato anche qualche tempo dopo con il cugino, Nino Gioè, a cui diede il contatto con questi soggetti. Caso vuole che nell’estate 1993 morirà suicida in carcere in circostanze piuttosto misteriose. Proprio la morte del cugino è uno di quegli episodi che Di Carlo ha descritto come “casi di persone che avevano suicidato“. “Questo era avvenuto per mio cugino Nino, ma credo anche per Mario, l’uomo dei servizi che per la prima volta conobbi con Santovito. Tempo dopo scoprirò che di cognome faceva Ferraro e che si era suicidato“. Proprio le morti di queste persone, a cui si aggiungono anche diversi avvertimenti e intimidazioni, ha spiegato poi alla corte rispondendo alle domande del pm, sarebbero alcuni dei motivi che per tanti anni lo hanno fatto restare in silenzio su questi contatti con soggetti dei servizi di sicurezza, o nel riferire nomi come quello dello stesso La Barbera. “Tutti quelli che sapevano certe storie li hanno eliminati. Ero rimasto solo io che sapevo qualcosa. Ci provarono pure ad eliminarmi e fu Nigel a salvarmi la vita. Volevano farmi scappare con un elicottero e poi buttarmi a mare ma lui, mi disse tempo dopo, trovò il modo di farmi sistemare in un altro carcere“. Tra i fatti che lo hanno convinto a compiere un nuovo passo ed aprirsi ulteriormente nel raccontare i fatti a sua conoscenza la lettera letta il 19 luglio 2012 dal Procuratore generale Roberto Scarpinato sul palco di via d’Amelio, in occasione delle commemorazioni della strage. “Capii che si stavano aprendo dei nuovi spiragli. Che c’era chi voleva capire. E al processo Stato-mafia ho parlato. Un altro che capiva negli anni precedenti era Tescaroli“.
Dall’omicidio del colonnello Russo a quello Agostino Durante l’esame il teste ha anche parlato dell’omicidio del colonnello Russo, avvenuto a Ficuzza in una frazione di Corleone dando una motivazione nuova sul delitto: “Fu ammazzato perché quando era capitano aveva fatto accollare di un omicidio ad uno che non c’entrava nulla. Volevano incastrare ad uno che faceva estorsioni ad Altavilla Milicia ed era l’imbrunire. Ad un certo punto può ci fu condizione e il capitano sbagliò ammazzando il suo collega. Ma la colpa fu data all’altro“. Altro caso spigoloso è quello dell’omicidio del poliziotto Antonino Agostino, ucciso nell’estate del 1989 assieme alla moglie incinta, Ida Castelluccio. “Questo episodio – ha ricordato – fu commentato con Nigel. Non si capiva cosa stavano combinando. Gli chiesi se lo conosceva e lui mi fece capire che lo avevano usato e si preoccupavano che parlasse. Può anche darsi che aveva capito quello che avevano fatto prima. E’ un po’ come accade in Cosa nostra che uno si porta il giovane per sparare ma questo non vuole più commettere l’omicidio e si ritira. Prima o poi questo la vita la perde, perché è uno che sa e si deve azzittire“. Durante la sua lunga deposizione, così come aveva già fatto in altre occasioni, l’ex boss di Altofonte ha raccontato anche delle sue frequentazioni di altissimo livello come il generale Vito Miceli (ex capo del Sid dell’epoca) e anche il colonnello Santovito (ex direttore del Sismi). In un’occasione accompagnò addirittura quest’ultimo ad una riunione in una villa, nel 1980: “C’erano dieci, dodici persone. Eravamo a Roma, nella zona del Circeo. C’erano tra gli altri Salvo Lima, il generale, ed anche l’avvocato Guarrasi. E’ lì che Giovanni ha detto di avermi visto per la prima volta. Di che si parlò? Io non partecipai ma sulla via del ritorno mi dissero che ancora c’erano quelle idee di fare il colpo di Stato come nel ’70“. Poi ancora ha riferito della “trattativa Cirillo” e della “disponibilità data a Santovito per rintracciare Moro“. “Fu Michele Greco a dirmi di dare questa disponibilità – ha detto rivolgendosi alla Corte. Santovito, che conosceva Greco quanto me, mi rispose: ‘Me lo ringrazi ma la cosa è un po’ più complicata’. E la cosa si chiuse lì“.
I contatti con i servizi arabi Nel corso della sua vita Di Carlo non ha avuto solo contatti con il mondo dei servizi di sicurezza italiani. Infatti, durante la sua detenzione, l’ex capomafia di Altofonte trascorreva le sue giornate con Nizzar Hindawi, un soggetto di origine palestinese che aveva lavorato nei servizi segreti siriani, coinvolto nell’attentato all’aereo di linea caduto in Gran Bretagna che provocò la morte di circa 300 persone con il quale, ha spiegato, aveva stretto un’intima amicizia. “Con lui – ha detto il teste – parlai di molte cose: della strage di Bologna, quella di Ustica. Molte cose che ho saputo de relato su quest’ultima sono state poi riscontrate dal giudice Priore. Spesso lo venivano a trovare anche alcuni suoi amici che capii erano membri dei servizi. Loro mi chiedevano sempre se avessi bisogno di qualcosa e si offrirono anche di togliere la vita a Falcone“. Di Carlo ha anche detto che successivamente passò il contatto a suo cugino, Nino Gioè: “Lui era l’unico di cui mi potevo fidare. Ovvio che anche Riina lo sapeva ma a mio cugino dissi di stare attento perché queste erano persone capaci di usarti ma anche di farti male“. In un’altra occasione ad avvicinare Di Carlo sarebbero stati anche gli americani: “Loro avrebbero voluto che dicessi qualcosa sull’omicidio Calvi. Volevano sapere se ero stato io. C’era chi voleva che fosse un omicidio e chi un suicidio“. Oggi Di Carlo però, nonostante i “tanti consigli ricevuti a rimanere zitto“, è tornato a parlare e sotto i riflettori tornano quegli “apparati di Stato” che tra stragi e trattative hanno avuto più di un torbido ruolo. Ieri, invece, ad essere sentito al processo è stato il falso pentito Francesco Andriotta. Per protesta aveva chiesto di deporre, dal luogo protetto in cui si trova, con le manette ai polsi “a scopo dimostrativo”. Il Presidente del Tribunale però lo ha invitato a desistere: “Se ha qualcosa da dire la dica, ma senza le manette”. A quel punto, Andriotta è entrato con il capo coperto nella salette dal sito protetto in cui si trova. Anche nel controsame Andriotta, condannato per calunnia al Borsellino quater, nonostante qualche “non ricordo” è tornato ad accusare i poliziotti: “Non era Scarantino a dirmi i fatti ma sono stati questi poliziotti che mi hanno fatto accusare persone innocenti facendomi credere che erano colpevoli”. E ancora una volta ha ribadito che gli sarebbero stati consegnati dei ‘manoscritti’ prima degli interrogatori: “Servivano a rinfrescarmi la memoria. Erano scritti a mano che dattiloscritti, e c’era scritto cosa dovevo fare. Me li consegnarono al carcere Pagliarelli“. Alla prossima udienza del processo, il 7 marzo, a salire sul pretorio dovrebbe essere l’ex capo della Mobile e numero tre del Sisde, Bruno Contrada. di Aaron Pettinari antimafia duemila
FRANCESCO DI CARLO Era inserito dalla metà degli anni Sessanta nella “famiglia” di COSA NOSTRA di Altofonte, dal 1972 era stato consigliere, poco dopo sottocapo e dal 1976 al 1978 aveva ricoperto la carica di rappresentante della medesima. Il 5 giugno del 1978, a seguito dell’uccisione del precedente rappresentante della “famiglia” LA BARBERA Salvatore, che era stato destituito per contrasti con il suo capomandamento BRUSCA Bernardo, il DI CARLO si era dimesso dalla carica, ritenendo che fosse stata violata la promessa di non attentare alla vita del LA BARBERA ed anche perché mal sopportava le ingerenze che sulla sua “famiglia” esercitavano i corleonesi tramite il BAGARELLA. Nel 1982 era stato espulso dall’organizzazione ed era andato a vivere in Inghilterra, ove era stato tratto in arresto nel giugno del 1985, riportando una condanna a venticinque anni di reclusione per traffico internazionale di droga. Estradato in Italia, nel giugno del 1996 iniziava a collaborare con l’A.G.. La volontà di collaborazione del DI CARLO non appare ricollegabile, almeno in via principale, all’intento di ottenere delle consistenti riduzioni di pena, tenuto conto dell’entità della carcerazione già sofferta e della sua ragionevole aspettativa di beneficiare comunque in Inghilterra della liberazione anticipata in tempi brevi. Il comportamento del DI CARLO appare piuttosto quello di chi, dopo aver sperimentato a proprie spese la concreta possibilità per gli affiliati di COSA NOSTRA di essere uccisi per mano dei consociati, in dispregio dell’ostentazione ufficiale del principio solidaristico che dovrebbe animare la vita dell’organizzazione, e dopo aver avuto il tempo di meditare a lungo nel periodo di detenzione sulle atrocità dei delitti posti in essere con ritmo sempre più incalzante dal gruppo criminale di cui era stato un componente, avverte l’impossibilità di continuare a condividere i principi ispiratori della sottocultura mafiosa ai quali si era conformato anche dopo l’allontanamento da COSA NOSTRA, primo tra tutti quello della complicità omertosa. Nel presente processo sono state anche acquisite ex art.238 c.p.p. le dichiarazioni rese dal DI CARLO nelle udienze del ventuno e del ventitré dicembre 1996 nel giudizio di primo grado per la strage di Capaci. Tali dichiarazioni, che attengono essenzialmente alle conoscenze dirette del DI CARLO sul funzionamento degli organismi di vertice di COSA NOSTRA, sia per quanto attiene alla commissione provinciale di Palermo che a quella regionale, nel periodo in cui il collaboratore ancora militava in quel sodalizio criminale, appaiono pienamente adeguate all’importanza del ruolo dallo stesso ricoperto ed alla lunga durata di tale militanza. Nessun dubbio sussiste in ordine alla piena autonomia delle sue dichiarazioni e non sono emersi intenti extraprocessuali che possano inquinarne l’attendibilità, tenuto anche conto del lungo periodo in cui il DI CARLO era rimasto lontano da ruoli operativi nell’ambito di COSA NOSTRA, nel cui ambito non aveva quindi più alcun interesse.
Coronavirus, morto il boss Francesco Di Carlo: fu il pentito che raccontò gli incontri tra Berlusconi, Dell’Utri e Bontade Il boss di Altofonte, storico narcotrafficante di Cosa nostra, per anni è stato detenuto in Inghilterra dove, dietro il paravento di una società di import-export, gestiva traffici di cocaina per miliardi di sterline. Da pentito è stato tra i principali accusatori dell’ex senatore di Forza Italia
Per vent’anni è sopravvissuto alle vendette dei suoi ex sodali, ma non al coronavirus. L’epidemia uccide anche Francesco Di Carlo, importante boss di Cosa nostra, da circa 25 anni collaboratore di giustizia. A dare notizia della morte – avvenuta per una polmonite causata dal Covid 19 – è l’agenzia Ansa. Di Carlo era un pentito importante: fu il primo a parlare degli incontri tra Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri e Stefano Bontade, all’epoca al vertice della mafia siciliana e poi assassinato dai corleonesi di Totò Riina. Non un racconto de relato: Di Carlo fu testimone oculare di quel faccia a faccia tra il padrino Cosa nostra e l’imprenditore di Arcore nel 1974. Era l’unico sopravvissuto, a parte Berlusconi e Dell’Utri e la corte d’appello di Palermo gli ha creduto.
Boss di Altofonte, storico narcotrafficante di Cosa nostra, per anni è stato detenuto in Inghilterra dove, dietro il paravento di una società di import-export, gestiva traffici di cocaina per miliardi di sterline. Un uomo in chiaroscuro e dai molteplici misteri: aveva, per sua stessa ammissione, rapporti coi servizi segreti di mezzo mondo, e secondo un altro pentito, Francesco Marino Mannoia, sarebbe stato lui a uccidere il banchiere Roberto Calvi. L’ultima intervista l’ha rilasciata il 9 febbraio al Fatto Quotidiano per commentare le dichiarazioni in aula di Giuseppe Graviano: quelle in cui il boss di Brancaccio fa per la prima volta il nome dell’ex presidente del consiglio. “Lui ricostruisce 25 anni di rapporti con Berlusconi e non c’è mai una volta che avrebbe partecipato Dell’Utri? Mai Cinà? E poi non mi torna nemmeno il ruolo del nonno e del cugino Salvatore, mai sentiti in Cosa nostra. In questo racconto si capisce che lui vuol far trasparire qualcosa che sa, però non torna una cosa: non fa mai il nome di Marcello Dell’Utri”, è l’analisi che Di Carlo ha fatto della deposizione di Graviano.
Intelligente, brillante, ma anche a tratti feroce persino soltanto con lo sguardo, negli anni ’70 Di Carlo è uno dei pochi a godere della fiducia di entrambi gli schieramenti interni a Cosa nostra: amico fin dalla tenera età di Bontate, che lui chiama “il barone“, era anche legato ai corleonesi, che nel 1976 lo fanno promuovere capofamiglia. Poi nel 1996 decide di “farsi” un pentito. Per i pm diventa una sorta di enciclopedia, visto che fornisce dettagli sugli omicidi dei carabinieri Emanuele Basile e Giuseppe Russo, dei giudici Cesare Terranova, Gaetano Costa e Pietro Scaglione, dei giornalisti Mauro De Mauro e Mario Francese, ma anche di Piersanti Mattarella, presidente della Regione e fratelo dell’attuale capo dello Stato.
Ma soprattutto Di Carlo diventa uno dei testimoni chiave dei processi a Dell’Utri, l’ex senatore di Forza Italia condannato in via definitiva a sette anni per concorso esterno a Cosa nostra. È il boss di Altofonte che racconta ai magistrati l’ormai noto incontro tra Bontate e Berlusconi nel capoluogo lombardo nel 1974: “Ero a Milano con Bontate, Teresi e Cinà. Siamo andati nell’ufficio di Martello in via Larga, vicino al Duomo, che era una specie di ufficio di Cosa nostra. Guidava Nino Grado perché conosceva Milano bene. Dopo la riunione con Martello, Stefano Bontate mi disse che dovevano incontrare un industriale, un certo Berlusconi: a quel tempo il nome non mi diceva niente”. Non era una novità: “Bontate ha sempre trattato con politici, Teresi era un grosso costruttore, per cui non mi impressionavo che andassero a trattare con vari industriali. A quei tempi era una cosa normale: ognuno, industriale o qualcuno, si rivolgeva a Cosa nostra o per mettere a posto un’azienda o per garantirsi”.
La deposizione di Di Carlo ha fatto la storia giudiziaria del processo all’ex senatore di Forza Italia: “Era il 1974, poteva essere primavera o autunno, ricordo che non avevamo cappotti: io avevo giacca e cravatta… Siamo andati in un palazzo di inizio Novecento, non una villa. Qui ci viene incontro Dell’Utri, che io avevo già visto con Tanino Cinà. Con gli altri, compreso Bontate, Dell’Utri si è salutato con il bacio, a me con una stretta di mano. Con Grado già si conoscevano, perché avevano battute di scherzo e si davano del tu. Quindi siamo entrati in una grande stanza, con scrivania, sedie e mi sembra qualche divano, e dopo mezz’ora è spuntato questo signore sui trenta e rotti anni, che ci è stato presentato come il dottore Berlusconi. Dell’Utri era in giacca e cravatta, Berlusconi con un maglioncino a girocollo e la camicia sotto. Dopo il caffè cominciarono i discorsi seri”. Quello che il pentito mise a verbale è il racconto in presa diretta dal faccia a faccia tra l’imprenditore di Arcore e il capomafia di Villagrazia: “Teresi disse che stava facendo due palazzi a Palermo, Berlusconi rispose che lui stava costruendo una città intera e che amministrativamente non c’è molta differenza: ci ha fatto una specie di lezione economica. Poi sono andati nel discorso di garanzia, che Milano oggi è preoccupante perché succedono un sacco di rapimenti… Io sapevo che Luciano Leggio, quando era ancora libero, diceva che voleva portarsi tutti i soldi del Nord a Corleone… Stefano Bontate aveva la parola, perché era il capomandamento, io c’ero solo per l’intimità con lui. Berlusconi ha spiegato che aveva dei bambini e non stava tranquillo, per cui avrebbe voluto una garanzia, e qua gli dice: Marcello mi ha detto che lei è una persona che mi può garantire questo e altro. Allora Stefano Bontate fa il modesto, ma poi lo rassicura: Può stare tranquillo, deve dormire tranquillo, perché lei avrà vicino delle persone che qualsiasi cosa chiede avrà fatto. Poi lei ha Marcello qua vicino, per qualsiasi cosa si rivolge a Marcello.… E poi aggiunge: Le mando qualcuno”. Quel qualcuno altri non è che Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore.
Di Carlo ha spiegato anche il motivo dell’arrivo di Mangano ad Arcore: “Ci voleva qualcuno di Cosa nostra” perché Dell’Utri non era affiliato come uomo d’onore. Appena Bontate ha pronunciato quelle parole, “Cinà e Dell’Utri si sono guardati”. Una volta usciti dagli uffici di Berlusconi, ha continuato il pentito, “Cinà ha detto a Bontate e Teresi: Ma qui c’è già Vittorio Mangano, che è amico anche di Dell’Utri”. Di Carlo ha ricordato che “Stefano non ci teneva particolarmente, però Mangano era della famiglia di Porta nuova con a capo Pippo Calò, quindi era nel mandamento di Bontate. Per cui Bontate ha detto: “Ah, lasciateci Vittorio”. “Ci hanno messo vicino Vittorio Mangano certamente non come stalliere, perché, non offendiamo il signor Mangano, Cosa nostra non pulisce stalle a nessuno”, ha spiegato Di Carlo. “Ci hanno messo uno ad abitare là, a Milano: Mangano trafficava e nello stesso tempo Berlusconi faceva la figura che aveva vicino qualcuno di Cosa nostra… Basta questo in Cosa nostra, perché qualunque delinquente voglia fare qualche azione, si prendono subito provvedimenti”. Quella “cortesia” non era gratuita. E a raccontarlo è stato sempre il boss di Altofonte: “Tanino Cinà mi dice: Sono imbarazzato, perché subito mi hanno detto di chiedergli 100 milioni di lire… Mi pare malo. E io gli dissi: Ma tu chi ti ’na fari? Tanto sono ricchi… E poi ci hanno voluto”. di Giuseppe Pipitone | 16 APRILE 2020 IL FATTO QUOTIDIANO
a cura di Claudio Ramaccini, Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF