Stefano Calzetta (Palermo, 1º giugno 1939 – Palermo, 15 febbraio 1992) è stato un mafioso e collaboratore di giustizia italiano. Fu uno dei collaboratori di giustizia protagonisti del primo maxiprocesso a Cosa nostra e fu fra i primi a raccontare agli investigatori la Seconda guerra di mafia. Nel 1982 Calzetta andò in un pronto soccorso di Palermo dicendo di essere stato avvelenato e iniziò a collaborare con la giustizia ascoltato dal vicequestore Ninni Cassarà. Finì così anche accusato di fare parte di Cosa nostra. Da pentito diventò decisivo nella ricostruzione degli omicidi ordinati dalla Famiglia di Corso dei Mille. Partecipò al maxiprocesso sia in veste di collaboratore di giustizia che in quella di imputato ma fu assolto dall’accusa di associazione per delinquere di tipo mafioso e subito dopo la sentenza tornò in libertà, rimanendo però in una località segreta. Negli ultimi anni, per timore di essere ucciso o di vendette trasversali si finse pazzo e iniziò a dormire nel giardino pubblico
PENTITO ANTIMAFIA VIVE COME UN BARBONE
PALERMO Un pentito chiave, il numero tre nella gerarchia dei grandi accusatori di Cosa Nostra, dopo don Masino Buscetta è Totuccio Contorno. Ha svelato i misteri delle feroci e potenti famiglie della zona di Corso dei Mille, una lunga confessione cominciata davanti al commissario Cassarà e conclusa nell’ aula-bunker del maxiprocesso. Un teste prezioso, da proteggere, anche se poi la pressione della piovra lo ha fatto in parte ritrattare. Eccolo, oggi, Stefano Calzetta, 51 anni, che ha tradito la mafia per collaborare con la giustizia: un barbone, uno che vive per strada, di elemosine. Senza un tetto né una lira in casa. Cacciato dalla sua famiglia preoccupata e stanca per quel figlio pentito, ed abbandonato dallo Stato. Dimenticato, insomma, da tutti. Altro che sussidi e scorte. Calzetta vive, da mesi ormai, sul marciapiede proprio davanti la Squadra mobile di Palermo, quasi accampato, un sacchetto di plastica per gli avanzi di cibo e una bottiglia di acqua. Fino a qualche tempo fa il programma di protezione comprendeva anche lui, si muoveva con gli agenti accanto. Ora potrebbe essere un bersaglio facilissimo, ma non teme la vendetta di Cosa Nostra, forse perfino le cosche ormai si disinteressano dell’ ex pentito numero tre. Non è la paura che fa tremare Calzetta, piuttosto è la rabbia: Nessuno mi protegge più ma i miei familiari continuano ad avere una scorta. Per me, per il pentito che ha parlato con i giudici Chinnici, Falcone, Geraci, Di Pisa, non c’ è più nulla…. Una vicenda incredibile, un caso sul quale adesso il prefetto Jovine ha disposto degli accertamenti. In quegli uffici della Mobile il pentito mise piede, per la prima volta, una sera di marzo di sette anni fa, deciso a svelare nuovi capitoli del libro nero: la storia dei clan Zanca, Vernengo, Marchese, delitti scellerati e camere della morte. Questa stessa piazza Vittoria, oggi, è diventata la casa di Calzetta, dal mattino presto fino a sera. Per la notte c’ è un letto nell’ ospizio comunale, a due passi da qui. Da quando i suoi familiari lo hanno cacciato via il suo rifugio è questo centro di ospitalità di via Biscottari. Gli agenti e i funzionari ormai lo conoscono bene. Un saluto ciao Stefano, e mani pietose allungano qualche biglietto da diecimila. Lui, in jeans e scarpe di tela, barba lunga ma ben curata, ringrazia sorridendo: Ho fatto amicizia con i poliziotti, qui in qualche modo mi sento al sicuro. Finora, con le belle giornate, non ho avuto problemi. Ma dove andrò adesso che si avvicina l’ inverno?. Parla della sua vita di randagio ma non una parola sul passato, la sua storia di uomo d’ onore, la decisione di seguire l’ esempio poi di Buscetta e di Contorno. Fino ad arrivare alle ultime tappe della sua carriera di pentito, quando la vendetta di Cosa nostra comincia a farsi sentire. Salta in aria la fabbrica del fratello Vincenzo, il messaggio è fin troppo chiaro. Così una mattina, esattamente il 27 gennaio scorso, entrando nell’ aula dove si celebra il maxi-processo di appello, Calzetta si presenta con lo sguardo fisso e un discorso delirante: Sono nostro signore Gesù Cristo, dov’ è Ponzio Pilato?. Calzetta cerca di farsi passare per matto, si contraddice, dimentica date e nomi, non conferma le dichiarazioni: in una parola rende inutilizzabili, le confessioni rese nel primo processone. Al maxi-uno il pubblico ministero ne aveva chiesto la condanna a cinque anni di carcere per associazione mafiosa, la Corte però lo aveva assolto. Per la piovra Calzetta non è più un pentito pericoloso, e forse per lo Stato diventa un pentito deludente. di UMBERTO ROSSO 8.9.1990 LA REPUBBLICA