Pentito di mafia ex braccio destro di Matteo Messina Denaro e custode dei gioielli di Riina
Il suo contributo come collaboratore di giustizia fondamentale per ricostruire alcuni progetti d’attentato dell’ala stragista di Cosa nostra
È stato, al tempo delle stragi mafiose del ’92-93 il più fidato uomo del boss Matteo Messina Denaro. Francesco Geraci, ex gioielliere di Castelvetrano arrestato nel 1994 e due anni dopo diventato collaboratore di giustizia, è morto nelle scorse ore in una clinica di Milano. Aveva 59 anni e i medici hanno fatto di tutto per sconfiggere un tumore al colon, la stessa patologia di cui soffre il boss trapanese.
Alla fine degli anni ’80, Geraci si avvicinò a Messina Denaro e da allora prese a ruotare intorno al boss. Era stato il custode dei gioielli di famiglia del capo di Cosa nostra Toto’ Riina, tanto che i monili vennero sequestrati su sua indicazione in una cassetta nascosta sotto al pavimento in un appartamento a Castelvetrano: collier, orecchini, Cartier, crocifissi tempestati di brillanti, diamanti, sterline e lingotti d’ oro per oltre due miliardi di lire.
Il suo contributo come collaboratore di giustizia è stato fondamentale per ricostruire le fasi preparatorie di alcuni progetti d’attentato che l’ala stragista di Cosa nostra stava architettando contro politici e giornalisti. Ma ha anche rivelato il piano della mafia per uccidere l’allora vice capo della squadra Mobile di Palermo Francesco Misiti.
Gli attentati, secondo il collaboratore «avrebbero dovuto costringere lo Stato a trattare». Geraci aveva riferito che il primo a parlargli del progetto stragista, fu, ancor prima della sentenza di Cassazione sul maxiprocesso, il boss Matteo Messina Denaro.
«Cosa ne pensi – gli chiese – di attentati a Baudo, Costanzo, Martelli, Santoro ed altre personalità di rilievo per destabilizzare lo Stato italiano e farlo scendere a compromessi?».
Qualche tempo dopo lo stesso Geraci partecipò a una riunione con Messina Denaro e i mafiosi Salvatore Biondino, Lorenzo Tinnirello, ”Fifetto”, Giuseppe Graviano e Vincenzo Sinacori, nel corso della quale il «progetto» passò alla fase esecutiva.
Il gruppo si trasferì a Roma nel febbraio del ’92, i suoi componenti si incontrarono a Fontana di Trevi e furono assegnati i singoli compiti. Geraci e Sinacori iniziarono i pedinamenti di Maurizio Costanzo. Per motivi a lui sconosciuti, comunque, il gruppo fece ritorno in Sicilia senza agire.
Successivamente Geraci venne ricontattato da Messina Denaro che gli chiese che cosa ne pensasse «di attentati da compiere contro monumenti antichi, con il solito fine di destabilizzare lo Stato e costringerlo a scendere a compromessi».
Denaro tornò sull’ argomento con il pentito dopo l’ arresto di Riina dicendo che azioni terroristiche contro persone e monumenti avrebbero costretto «qualcuno a trattare con Riina». di Cesare Giuzzi Corriere della Sera 5.2.2023
Dall’amicizia con Messina Denaro alla “missione romana”: chi era Francesco Geraci
I dettagli del rapporto di Francesco Geraci, collaboratore di giustizia, con Matteo Messina Denaro, Totò Riina e i maggiori esponenti di Cosa nostra.
È morto il collaboratore di giustizia Francesco Geraci, l’ex gioielliere di Castelvetrano che custodì il “tesoro” di Riina e svelò agli inquirenti la gioventù del padrino di Castelvetrano Matteo Messina Denaro trascorsa tra locali alla moda e belle donne ma anche i dettagli della cosiddetta “trasferta romana” organizzata da Totò Riina per uccidere Giovanni Falcone.
Francesco Geraci fu arrestato il 29/6/94 per l’omicidio di Antonella Bonomo, fidanzata del boss alcamese Vincenzo Milazzo e ha iniziato a collaborare con la giustizia nel corso del settembre ’96, fornendo uno straordinario contributo alla compiuta ricostruzione di una lunga catena di fatti delittuosi, riconducibili in particolare alla famiglia di Castelvetrano, delineando per primo gli stretti rapporti intercorrenti tra Messina Denaro e uno dei fratelli Graviano, i quali trascorsero nel 1992 parte della loro latitanza a Triscina, località marina sita nei pressi di Castelvetrano.
Francesco Geraci e l’infanzia “vicino” a Matteo Messina Denaro
Nel corso dell’interrogatorio del 14 settembre 1996, Francesco Geraci dichiarò “Conosco Matteo Messina Denaro sin dall’infanzia; con lo stesso ho intrattenuto un rapporto di amicizia. Sono stato da lui coinvolto infatti criminosi quando per ottenere una protezione all’attività commerciale della mia famiglia gli dissi che ero a disposizione. Ricordo, in particolare, che temendo di subire delle rapine a opera di tale Giurintano che avevo visto circolare con insistenza nei pressi della mia gioielleria, incontrandolo al circolo Pirandello esposi a Matteo le mie preoccupazioni dicendogli che io ero a disposizione per ogni evenienza. Sino a quel momento avevo intrattenuto soltanto un cordiale rapporto di amicizia”.
A fronte di questa sua disponibilità, nel 1989 Francesco Geraci fu cooptato e coinvolto in una serie di gravissimi fatti delittuosi, ben 7 episodi di natura omicidiaria oltre al tentato omicidio del dottor Rino Germanà, tutti commessi nell’ambito delle strategie e dei percorsi criminosi elaborati e seguiti da Messina Denaro, nuovo reggente della provincia di Trapani oltre che del mandamento di Castelvetrano e, conquistata la fiducia del giovane boss, gli fu venne affidato anche il delicato compito di gestire la “cassa” della famiglia di Castelvetrano che egli per anni amministrò, custodendo il danaro nel caveau della propria gioielleria.
Il rapporto con Totò Riina (e non solo)
Man mano che il rapporto fiduciario ebbe a consolidarsi Messina Denaro decise di fare pieno affidamento sull’amico gioielliere al punto da organizzare “summit” di mafia all’interno del suo negozio alla presenza di Totò Riina e dei rappresentanti della provincia di Agrigento. A tal proposito, sempre nel corso dell’interrogatorio del 14 settembre 1996, Geraci dichiarò: “Ho conosciuto Totò Riina che Matteo Messina Denaro ha accompagnato in tre occasioni nel mio negozio; nella prima erano solo loro due; nella seconda occasione oltre I predetti vi erano Peppe Capizzi di Ribera, Peppe La Rocca di Montevago e Totò Gangi di Sciacca”.
L’ulteriore passaggio nell’evoluzione di tale rapporto fu l’affidamento a Geraci di numerosi lingotti d’oro e di una valigia piena di monili e oggetti preziosi, beni tutti appartenenti a Totò Riina, consegnati da Geraci agli inquirenti all’atto dell’inizio della sua collaborazione, come risulta dalla sentenza emessa dal Tribunale di Marsala del 1 maggio 199 all’esito del processo “Selinus” contro Agate Giuseppe+3 nel corso del quale dichiarò che: “Nella terza occasione, Riina si presentò nel negozio accompagnato da Matteo, con la moglie e le due figlie affidandomi una borsa con i gioielli della famiglia perché li custodissi; si trattava di orecchini, monili e altro che io ho occultato in un nascondiglio segreto nella mia abitazione unitamente ai lingotti d’oro che in un’altra occasione mi aveva portato Matteo dicendomi che erano di Riina. A proposito di Riina ricordo che per due estati in due occasioni ho fatto fare insieme a Matteo delle gite in barca a tutti e quattro i suoi figli, unitamente alle figlie di Pietro Giambalvo e di tale ‘Vartuliddu’ di Corleone, entrambi all’epoca dimoranti a Triscina. Aggiungo ancora che una volta Messina Denaro regalò un rolex modello Daytone in oro e acciaio a figlio di Totò Riina di nome Gianni e nell’occasione anche io volli donare un identico orologio all’altro figlio di nome Salvatore”.
Geraci e l’ordinanza di custodia cautelare di Messina Denaro del 2016
La storica alleanza tra i corleonesi e i trapanesi si concretizzò, scrive il giudice Alessandra Bonaventura nell’ordinanza di custodia cautelare emessa il 22 gennaio 2016 nei confronti di Matteo Messina Denaro, “nella creazione di un modulo operativo voluto e controllato direttamente da Totò Riina, il quale lo gestì direttamente improntandone l’azione all’insegna della più rigida compartimentazione, coinvolgendo in tale avventura (…) il reggente della provincia di Trapani nonché alcuni dei capi mandamenti palermitani a lui più vicini oltre ai rispettivi uomini di fiducia”.
Nella citata ordinanza, a proposito di Francesco Geraci, si legge: “Francesco Geraci, amico d’infanzia di Matteo Messina Denaro, soggetto che, pur non essendo mai stato ritualmente affiliato a Cosa nostra, ha fatto parte della ristretta cerchia di persone che godevano dell’assoluta fiducia di Matteo Messina Denaro al punto da arrivare a gestire in prima persona la “cassa” della famiglia di Castelvetrano oltre che a fungere da prestanome di Riina, custode dei beni di quest’ultimo. Pur essendo sempre stato Geraci, in ossequio alle regole di Cosa nostra, ‘tenuto lontano’ da qualsiasi coinvolgimento in discorsi di natura ‘politico- strategica’, è stato anch’egli coinvolto nella trasferta romana e, a sua insaputa, inserito da Messina Denaro tra i componenti della ‘Supercosa’”.
La “missione” a Roma contro Falcone e Martelli
La “missione romana” si svolse dal 24 febbraio al 5 marzo 1992 e vide il gruppo composto dai pretoriani di Totò Riina, uno dei due gruppi in cui era articolata la cosiddetta “Supercosa” composto da Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Fifetto Cannella, Lorenzo Tinnirello, Vincenzo Sinacori e Francesco Geraci, impegnato nell’organizzazione ed esecuzione di un attentato ai danni di Giovanni Falcone e Claudio Martelli ma anche, in via subordinata, di personaggi in vista del mondo del giornalismo e dello spettacolo quali Maurizio Costanzo, Enzo Biagi, Andrea Barbato. Michele Santoro, Pippo Baudo e altri.
“In particolare la ‘missione romana’ risulta essere stata dettagliatamente ricostruita attraverso l’analisi di autonome e qualificate fonti dichiarative (le dichiarazioni dei collaboratori Vincenzo Sinacori, Antonio Scarano e Francesco Geraci, tutti coinvolti, a vario titolo, nella vicenda), accreditate dall’unanime giudizio di elevatissima attendibilità emesso dalla Corti di merito che ebbero ad esaminarli, peraltro corroborato un elenco pletorico di minuziosi riscontri acquisiti nel corso delle lunghe indagini svolte a suo tempo da vari organismi investigative”.
E ancora “con lui Messina Denaro. pur non lasciandosi mai andare avere e proprie rivelazioni, ebbe un atteggiamento di maggiore disponibilità, dettato peraltro dall’antica amicizia che lo legava sin dagli anni dell’infanzia all’ex gioielliere di Castelvetrano. Tali timide aperture non arrivarono mai a tradursi in esplicite confidenze, al punto che, ad esempio, lo stesso Geraci, pur partecipando attivamente alla missione romana, non ebbe mai consapevolezza di essere stato cooptato nell’esercito personale di Totò Riina riconducibile alla ‘Supercosa’ né ebbe mai sentore di una scala di priorità tra gli obiettivi da colpire a Roma (…) Prima di partire per Roma le armi ‘fucili, kalashnikov e alcuni revolver’ vennero poi provate da Matteo Messina Denaro, Sinacori e da Francesco Geraci (che ha confermato la circostanza) nei pressi di una casa diroccata, ubicata in una campagna non distante dalla proprietà di Consiglio, come confermato da Sinacori, collaborante, nel corso dell’esame nella Corte d’Assise d’Appello di Firenze nel corso dell’udienza del 25 settembre 1997 in cui dichiarò che ‘provammo le armi nella campagna di Battista Consiglio insieme a Matteo e Geraci, quindi Consiglio si incaricò del trasporto delle armi e dell’esplosivo a Roma. Mi disse si sarebbe fatto accompagnare da uno dei figli… Battista Consiglio non sapeva a cosa servivano le armi su Roma… L’esplosivo fu procurato da Virga e veniva dalle cave di Custonaci”.
Geraci ha dichiarato di essersi inizialmente messo a disposizione del suo amico Matteo quando questi gli comunicò l’esistenza di un progetto volto a destabilizzare lo Stato e indurlo a “scendere a compromessi” attraverso il compimento di una serie di attentati. Dichiarò che “un pomeriggio Matteo Messina Denaro mi venne a trovare nella mia abitazione chiedendomi cosa ne pensassi circa un progetto di attentati da effettuare nei confronti di personaggi famosi quale Baudo, Costanzo, Martelli, Santoro e altre personalità di rilievo, per destabilizzare lo Stato italiano e farlo scendere a compromessi. Da parte mia risposi ‘buono è’. Non potevo d’altronde dire diversamente. Matteo mi disse che da lì a poco ci saremmo dovuti trasferire a Roma e iniziare a frequentare locali alla moda, invitandomi a predisporre un abbigliamento ‘adeguato’”.
I pagamenti, i noleggi
Sempre nella già citata ordinanza si legge che “Geraci, che era il responsabile della cassa della famiglia di Castelvetrano, fu innanzitutto delegato al pagamento dei vari acquisti effettuati dai membri del commando nel corso della trasferta romana (vari capi di abbigliamento nei più esclusivi negozi di via Condotti, il noleggio della Y10 utilizzata per i vari spostamenti in città). Peraltro proprio l’uso frequente fatto della sua carta di credito durante il soggiorno romano diventerà, unitamente ai biglietti aerei acquistati da Sinacori, momento fondamentale per collocare nel tempo la vicenda, ricostruire gli spostamenti e gli acquisti effettuati per conto del gruppo, oltre che per riscontrare in generale l’attendibilità delle sue dichiarazioni, nonché quelle rese da Sinacori e da Scarano”.
“Sotto il profilo operativo, Geraci partecipò anche lui ai vari pedinamenti” e “nel corso del soggiorno romano, sentì Sinacori e Messina Denaro discutere sulle modalità di un possibile attentato a Costanzo. I due prospettarono l’eventualità di ‘piazzare’ una bomba dentro un bidone della spazzatura sulla strada che Costanzo percorreva per recarsi ai Parioli, in una delle stradine strette che si intrecciano nei pressi del teatro. Sotto il profilo operativo Geraci partecipò anche lui ai vari pedinamenti. Egli ha ad esempio ricordato che lui e Sinacori concentrarono la loro attenzione su Maurizio Costanzo. Gli altri si divisero in due gruppi di due persone ciascuno per individuare gli altri possibili obiettivi: il ministro Martelli e il giudice Falcone”.
I tentati attentati contro Costanzo, Martelli e Falcone: la testimonianza di Geraci
La sua testimonianza: “Ci dividevamo in gruppi per vedere se s’incontrava qualche persona di questo… questi che cercavamo noi. Una volta si portarono tutti nei pressi del Ministero di Grazia e Giustizia alla ricerca del ministro MARTELLI senza riuscire a notare nulla di rilevante. La sera il gruppo si riuniva per fare il bilancio delle attività svolte nel corso della giornata e ha rammentato che venivano scelti ristoranti alla moda (…) Alla fine non si realizzò nulla e Matteo MESSINA DENARO gli disse che era giunto il momento di tornare in Sicilia: “Poi, dopo non ricordo, dopo 8-10 giorni non si è fatto più nulla. Matteo mi disse che ce ne dovevamo andare. E ricordo che poi sono andato via io, Matteo e Fifetto. Abbiamo preso il traghetto a Napoli, siamo andati a Palermo. Di Giuseppe Graviano non lo ricordo, e Tinnirello come sono andati via e anche il Sinacori, non lo ricordo».
I collaboranti Geraci, Scarano e Sinacori hanno illustrato “con dovizia di particolari, ‘il cursus honorum’ che accompagnò la rapida ascesa del giovane Matteo Messina Denaro al vertice della provinciale trapanese. Dopo il battesimo del fuoco avvenuto nell’82 (omicidio di Vincenzo Denaro), Matteo Messina Denaro ebbe a partecipare a vari eventi omicidiari connessi alla guerra di mafia scatenata da Riina contro le famiglie dei perdenti. In particolare oltre alla ricordata soppressione dei quattro uomini d’onore alcamesi Filippo Melodia, Damiano Costantino, Giuseppe Colletta e Vito Varvaro, sciolti nell’acido nelle campagne di Partinico nel corso dell’89, egli partecipò all’uccisione del campobellesse L’Ala Natale (1989), di Nicola Consales, Gaspare Lombardo e Nicolò Tripoli (1991-1992). Negli anni 89/90 assunse un ruolo di primo piano nell’ambito della cosiddetta guerra di mafia di Partanna contro il clan Ingoglia (omicidi di Giuseppe Piazza, Rosario Sciacca). Partecipò alla faida contro il clan Greco che insanguinò le strade di Alcamo nel corso del ’91″.
“Quel che è certo – si legge nell’ordinanza – è che Matteo Messina Denaro venne certamente notiziato dei preparativi della strage di Capaci, come concordemente riferito da vari collaboratori a cominciare dal suo uomo di fiducia, Francesco Geraci, con cui al tempo Messina Denaro, non ancora latitante, aveva una frequentazione pressoché quotidiana: “Lui una volta mi disse a me, mi disse: ‘non andare — dice – più a Palermo’. Ecco, questo sì, lo ricordo perfettamente, come faccio a dimenticarlo questo? Mi disse: “Non andare più a Palermo”. Ora con il mio lavoro che io facevo, che avevo clienti su Palermo, che andavo e venivo tutti i giorni dall’autostrada, mi fa: ‘Non andare a Palermo’ (…) ‘e vuoi andare a Trapani, fino a Trapani ci puoi andare però lo svincolo di Trapani non lo superare’. Io parto da Castelvetrano per andare a Trapani… non ricordo se sono stati dieci o quindici giorni ed è successo l’attentato del dottore Falcone. Quando ho visto l’attentato, che ne ho sentito parlare in televisione, dalle cronache e tutto ho pensato che lui mi disse di non andare a Palermo perché… di questo attentato”. ROBERTO GRECO SOLE 24ORE 6.2.2023
Capaci bis, il pentito Geraci: “Messina Denaro trascorse parte della latitanza a Brancaccio”
Il collaboratore di giustizia parla al processo collegato in videoconferenza dal luogo segreto dove vive. Rivela anche dettagli della missione romana voluta da Riina: “Dovevano fare saltare in aria Costanzo, Baudo e Falcone”
“Quando il boss Messina Denaro diventò latitante ricordo che trascorse del tempo anche nella zona di Brancaccio, dove sono andato almeno due volte”. A raccontarlo, collegato in videoconferenza da un luogo segreto dove vive, è il collaboratore di giustizia Francesco Geraci nel processo Capaci bis che si celebrava davanti alla Corte d’assise d’Appello di Caltanissetta. Secondo il pentito – come riporta l’Adnkronos – la latitanza a Brancaccio sarebbe stata organizzata dai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. “Ricordo anche – continua Geraci – che Matteo trovava delle villette a Giuseppe Graviano in estate, quando i Graviano venivano al mare a Selinunte”.
Ma le rivelazioni di Geraci non finiscono qui. Il collaboratore di giustizia parla poi della “missione romana” decisa dal boss Riina per progettare l’uccisione del giudice Giovanni Falcone nei primi mesi del ’92. “Nel febbraio del 1992, prima della strage di Capaci, Matteo Messina Denaro, con alcuni ‘picciotti’ di Cosa nostra si era trasferito per nove giorni a Roma per fare saltare in aria Maurizio Costanzo. Ma cercavamo anche Pippo Baudo ed Enzo Biagi. E persino il giudice Giovanni Falcone”. Costanzo era finito nel mirino della mafia in seguito a una serie di iniziative particolarmente pesanti contro la criminalità organizzata. In particolare nel settembre 1991 aveva organizzato una trasmissione a reti unificate con Michele Santoro per commemorare Libero Grassi, l’imprenditore ucciso dopo aver detto in tv che non avrebbe mai pagato il pizzo.
“C’era una lista di persona – prosegue Francesco Geraci – da uccidere. Cercavamo anche Falcone che andava al Ministero. Avevamo compiti differenti io e Vincenzo Sinacori”.
Il collaboratore racconta di un incontro avvenuto a Palermo prima di andare nella Capitale.
“Andammo a Palermo, con Matteo Messina Denaro, a una riunione, alla quale non mi fecero prendere parte, credo perché non contavo niente. C’erano Matteo Messina Denaro, Renzo Tinnirello, i fratelli Graviano, Enzo Sinacori, Salvatore Biondo, e lì si è deciso che si doveva andare a Roma.
Nella Capitale eravamo io Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano, Renzo Tinnirello, Enzo Sinacori, e un’altra persona. Mi portarono a Roma perché avevo la carta di credito. E lì presi una macchina a noleggio”.
Il compenso? “Cinque milioni di vecchie lire a testa”. “Matteo Messina Denaro era con Renzo Tinnirello – dichiara ancora Geraci – e cercavano dei giornalisti”.
Anche loro da uccidere, secondo quanto racconta il collaboratore di giustizia. A Roma, Cosa Nostra aveva nel mirino Giovanni Falcone ma anche personaggi “in vista” del mondo del giornalismo e dello spettacolo come Maurizio Costanzo, Andrea Barbato, Michele Santoro e Pippo Baudo.
Per il boss Totò Riina, come hanno raccontato diversi collaboratori di giustizia, erano tutti da condannare perché “rei” di aver “avviato una sistematica campagna mediatica volta a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle atrocità commesse da Cosa nostra e dalle altre organizzazioni criminali di stampo mafioso”.
“Andammo anche davanti al Teatro Parioli dove lavorava Costanzo – dice Geraci – e si parlava di mettere del tritolò in un cassonetto dell’inno dia”.
L’attentato a Maurizio Costanzo fu fatto poi dopo un anno, il 14 maggio 1993. Maurizio Costanzo e Maria De Filippi si salvarono solo perché i killer furono traditi da un cambio di auto: il solito autista, che usava una Alfa Romeo 164, quella sera stava male e chiese il cambio a un collega che usava la Mercedes. Fonte: AdnKronos 10.2.2020