MATTEO VA ALLA GUERRA

Dal libro “Matteo va alla guerra”, di Giacomo di Girolamo

 

Matteo va alla guerra, la mafia vista dalla parte della mafia

E’ tutta una questione di prospettiva. Nella vita, negli incontri, negli amori, nella morte. E anche nella mafia. La storia stessa è una questione di prospettiva. La puoi interpretare dalla parte dei vincitori o da quella dei perdenti, da quella dei buoni o da quella dei cattivi. Resta comunque una questione di prospettiva: ti siedi da una parte e hai una certa visione, ti siedi dall’altra e la realtà sembra cambiare totalmente.
Non deve essere stato semplice per Giacomo Di Girolamo, bravo e coraggioso giornalista trapanese da sempre impegnato sul fronte giusto – o meglio, dalla parte giusta della prospettiva – accomodarsi per una volta là dove stanno i nemici della sua terra, i mafiosi stragisti, l’inafferrabile Matteo Messina Denaro, capo incontrastato della mafia trapanese, l’ultimo grande latitante sfuggito alle mani dello Stato.
Matteo va alla guerra, il libro di Giacomo Di Girolamo che racconta la mafia e le stragi del ’92 a partire dall’inizio (Zolfo Editore, 282 pagine, 18 euro) è un’operazione complessa ma sicuramente riuscita. L’autore fa raccontare l’intera vicenda, con tanti particolari rimasti ancora nell’ombra, a una voce narrante che altri non è che un fedelissimo del boss. E noi che l’attacco al cuore dello Stato di trent’anni fa, culminato con le stragi di Capaci e via D’Amelio, l’abbiamo sempre visto dall’altra parte della barricata, ci troviamo improvvisamente catapultati tra capibastone e gregari, killer e favoreggiatori, mammasantissima e colletti bianchi.
Non dev’essere stato semplice mettersi nei panni dei cattivi. E raccontare di quella che fu una vera e propria guerra allo Stato, ideata con il contributo di una mafia segreta e intoccabile. Non solo, attraverso il racconto dal “di dentro” scopriamo che la strategia stragista di Cosa nostra servì al giovane boss Matteo Messina Denaro, figlio prediletto di don Ciccio, il capomafia storico di Trapani, per attuare un ricambio generazionale e prendere il comando dell’organizzazione. Con Matteo ‘u siccu o Diabolik o L’invisibile com’è stato più volte soprannominato, Messina Denaro jr. fece compiere un salto di qualità a Cosa nostra, trasformandola in maniera profonda con conseguenze che riusciamo a capire solo oggi. 
Matteo va alla guerra non è la biografia di Totò Riina o Messina Denaro, né un libro di storia, non si parla di depistaggi, di accordi indicibili. Di Girolamo piuttosto individua un preciso momento storico, i primi anni Novanta, un preciso luogo, la Sicilia occidentale, e lì scava in profondità per capire e raccontare – per la prima volta – il punto cieco in cui nasce una delle pagine più nere della nostra storia recente.
“Penso che si scrive “con gli occhi” – spiega Di Girolamo – bisogna far vedere le cose. E per farlo ho deciso di ribaltare il punto di vista: facciamo parlare il male. Mettiamoci dalla parte del torto. La scrittura è anche questo: immergersi nei corpi e nelle contraddizioni dell’altro, anche nelle zone d’ombra. Aiuta molto a capire, a comprendere. Ovviamente, comprendere non significa giustificare”.
Matteo va alla guerra non si sottrae alla domanda che da trent’anni continuiamo a farci senza risposte. O meglio, senza risposte giudiziarie. E’ proprio il narratore mafioso del libro che, di fatto, ci risponde: “Abbiamo fatto tutto da soli? La risposta è semplice: noi abbiamo fatto quello che andava fatto. E soli non siamo stati, mai…”.
Qualcuno – è la tesi dell’autore – ha armato Cosa nostra, l’ha quasi spinta a fare una guerra eliminando personaggi scomodi sia per la mafia che per lo Stato. Falcone e Borsellino, dunque, ma anche poliziotti, giornalisti, uomini delle istituzioni. Un piano concordato, insomma, quasi una “trattativa”, se non fosse che un processo ha recentemente stabilito che quella trattativa non c’è mai stata. Verità giudiziarie, appunto, verità da rispettare anche tenendosi i propri legittimi dubbi.

Matteo Messina Denaro

Per trent’anni è stato il latitante più ricercato d’Italia. Un fantasma. E simbolo di una mafia, quella corleonese, morta da tempo. Naturalmente il suo arresto ha fatto scalpore in tutto il mondo. Per le circostanze che l’hanno preceduto qualcuno ha ipotizzato che Matteo Messina Denaro si sia consegnato o sia stato venduto, qualcun altro l’ha “profetizzato” con parole doppie.

Comunque sia andata, l’hanno preso a Palermo il 16 gennaio del 2023 i carabinieri del Raggruppamento operativo speciale. Sapremo dettagli più precisi sulla sua cattura – speriamo – prossimamente.
Con quel nome altisonante e con quell’identikit assai somigliante al vero ltitante era diventato una figura quasi “familiare”. L’avevano avvistato un po’ dappertutto. In Toscana e in Veneto, in Spagna e in Tunisia, in Olanda e in Venezuela, perfino in tribuna d’onore allo stadio della Favorita durante una partita del Palermo.
In realtà si sa ancora poco di dove si sia nascosto prima di vederlo, rassegnato, uscire da una clinica palermitana.
È il primo grande latitante arrestato nell’epoca dei social. E il popolo dei meme non ha tardato a scatenare la propria ironia, prendendo in giro il look del boss, con quegli occhiali da sole a coprire l’occhio “guasto” e il giubbotto di montone firmato.
Ma si sono sollevate anche perplessità su uno stato incapace di trovarlo per tre decenni. E poi l’hanno catturato così facilmente, senza tensione. E ancora tutti quei suoi covi vista piazza a Campobello di Mazara.
L’indagine dei carabinieri e dei magistrati è stata sicuramente un’eccellente indagine, però qualche piccolo grande mistero resta sulla fine della latitanza di Matteo Messina Denaro. 

 

 

Le prime indagini di Paolo Borsellino sul clan dei Messina Denaro

Noi eravamo la roccia, e per questo ci sentivamo una sorta di élite della criminalità, e Riina per noi era lo stato, come gli disse una volta Giuseppe Ferro. Noi, mandamenti di Mazara e Castelvetrano, Mazara e Trapani. La roccia. Lui, lo stato. E qui c’erano i suoi alleati più fedeli, come Francesco Messina Denaro, il padre di Matteo, capo provincia che aveva preso il posto di Cola Buccellato.

Don Ciccio, pace all’anima sua, era saggio e astuto. Aveva attraversato tutta la vita senza mai avere problemi; ogni tanto capitava che lo fermavano, lo interrogavano, ma lui, picciotti, sempre tranquillissimo era.

Aveva tre nipoti sbirri, cose da pazzi, uno alla finanza, due che erano poliziotti. E per un omicidio, quello del notaio Craparotta, riuscì a ingannare anche il dottore Falcone. È stato il dottore Borsellino a cominciare a indagare un po’ di più su Don Ciccio, a fargli fare un po’ più di vai e vieni dalle caserme, tanto che lui, che non aveva paura di nessuno, una volta glielo ha detto anche, a quelli che lo interrogavano: il paese è piccolo, e voi fate male, ed è come infilare degli aghi sotto le unghie.

Ma il suo capolavoro è proprio quando il dottore Borsellino chiese per lui non l’arresto, ma quanto meno l’obbligo di soggiorno, la libertà vigilata, insomma, qualcosa per fargli capire che aveva il fiato sul collo.

Messina Denaro non dovette fare nulla, fece tutto il tribunale che, nel 1991, scrisse che «le notizie dei rapporti di Messina Denaro con appartenenti a consorterie mafiose si sono rivelate, per alcuni versi, incontrollabili», che «non ci sono prove», e che anzi, la figlia Rosalia aveva sposato un Guttadauro, Filippo, «sulla cui trasparente personalità non si solleva alcuna ombra di dubbio».

Ci guidava con mano ferma e poche parole, se ci diceva che lo scecco vola, noi rispondevamo: sì, è vero, lo scecco vola. Quello che diceva lui era vangelo. Ma era anche molto malato, povero cristiano, e Matteo era stato cresciuto per questo, per diventare un uomo, per diventare il capo.

E non ci ricordiamo quando accadde, perché per noi era sempre stato a così, ma a un certo punto fu chiaro a tutti che ogni decisione che si prendeva in provincia di Trapani doveva passare per un cenno della testa d’u Zi Ciccio, certo, ma soprattutto per il volere del figlio. Senza nessuna investitura, senza riti, santine, sangue, spilloni, minchiate, tutto in automatico, liscio come l’olio di Nocellara appena spremuto, come fosse già scritto.

Anche perché Mariano Agate, che Riina aveva voluto capo del mandamento di Mazara del Vallo, non rappresentava mica tutta la provincia, e poi era sempre in carcere, e non c’erano altre figure di riferimento. C’era Salvatore Tumbarello, sì, c’era Mastro Ciccio Messina. Ma erano reggenti, facenti funzione, insomma.

E anche lì Matteo ci aveva visto giusto e alla prima occasione era riuscito a piazzare Vincenzo Sinacori, che era amico suo, era giovane, era dei nostri. Ad Alcamo, pure, ci abbiamo messo a Vincenzo Milazzo, che poi purtroppo lo abbiamo dovuto uccidere per quel fattaccio brutto che successe proprio nell’estate nel ’92, che si era messo in testa di fare la guerra a Salvatore Riina, tra una strage e l’altra, e Zi Totò gli disse a Matteo: capisco che è amico vostro, ma dovete eliminarlo, è di ostacolo alla nostra, di guerra.

E Matteo in quel periodo aveva proprio questo compito importante: sparare ai disertori. Organizzammo una riunione a Mazara. E così fu fatto, e con lui la fidanzata Antonella. E furono gli ultimi eliminati di una fila lunghissima, che noi oggi non riusciamo neanche a contarli i morti per mano nostra, la cui unica colpa era di non essere schierati con Riina, di volersi vedere la partita, come dicemmo all’anziano Cola Buccellato prima di eliminarlo.

Perché loro non lo capivano, ma noi eravamo sacerdoti di una nuova fede, e nel nuovo ordine che stavamo costruendo non c’era spazio per tentennamenti, dubbi, finzioni. E così dai Buccellato, Rimi, Minore, si passò a noi, e agli Agate, ai Virga. E ai Messina Denaro.

La guerra di mafia nel trapanese

Gli anni Ottanta, insomma, erano arrivati pure per noi. Eravamo diventati pop, e quei vecchi babbiuna non ci rappresentavano più. C’era una nuova Italia che avanzava, e ci volevamo essere noi, in prima fila. Chissà se i Corleonesi lo capivano; ma comunque a noi, tutto il loro casino, servì a farci strada.

A Cola Buccellato gli abbiamo ammazzato il figlio e il cugino, che erano venuti come ambasciatori. L’ambasciata per la pacificazione, la chiamavano, quando si annunciavano. E noi abbiamo fatto la pacificazione a modo nostro.

Li abbiamo uccisi, così eravamo tutti più tranquilli, no? E ogni tanto – nell’attesa dei carichi di droga che entravano dal Belice, passavano poi le campagne di Alcamo, venivano preparati e puliti e partivano da Castellammare del Golfo –, mentre da Palermo ci arrivavano i complimenti per la silenziosa efficienza e l’organizzazione, scherzando tra di noi, ci facevamo anche dell’ironia: se fosse il caos, dicevamo, che criminalità organizzata sarebbe? Sarebbe roba da spara polli, pisci ri ghiotta.

E poi dicevamo che Riina e Provenzano avrebbero meritato la cittadinanza trapanese, perché per noi erano una cosa sola, e non davamo del voi ai Corleonesi, davamo del noi. E se loro erano diventati così potenti, alla fine, era grazie a questa provincia di Trapani, che i signori magistrati un giorno sono arrivati finalmente a capire cos’era, in tre aggettivi: fidata, sicura e invulnerabile.

Ma l’hanno capito quando era già troppo tardi. Ed eravamo impenetrabili. Nessuno sapeva della villa di Riina a Mazara del Vallo, o della sua casa nelle campagne di Castelvetrano, dove i suoi figli scorrazzavano felici tra pirrere e ulivi, o di tutti i suoi acquisti, perché gli piaceva davvero la nostra zona a Totò, ci diceva sempre: «Picciotti, qui sì che c’è pace».

E noi gli dicevamo di sì, Zi Totò, e se serviva qualcosa chiamasse, anche se lui non aveva bisogno di chiedere, tanto eravamo veloci noi ad anticipare ogni sua esigenza: un’uscita in barca, un po’ di olio fresco di frantoio, una riunione da organizzare. E facevamo a gara perché sapevamo che tra noi c’era qualcuno che spiava e riferiva; come avveniva ad Alcamo, dove c’era Giuseppe Ferro che faceva la spia.

Un giorno, che era il 15 gennaio dell’89, a Partinico, Riina organizzò una riunione con quattro della famiglia di Alcamo. Loro arrivarono. Morirono tutti strangolati. E così si faceva a Castellammare, a Trapani, e il gruppo di fuoco partiva sempre da qui, con Matteo in testa che andava – come quando fu per Mommo ’u Nano, nell’86 a Paceco. […]


La mafia trapanese contro i giudici Falcone e Borsellino

Perché voi non sapete. Non sapete quanto siamo precisi. La precisione è tutto. Quando si parla, quando si spara. Noi mica diciamo «Capaci», «Via D’Amelio». Che è, il gioco del Monopoli? Noi non diciamo nemmeno «la strage di Falcone», «la strage di Borsellino», o insieme, come dice qualcuno: «la strage di Falcone e Borsellino». Noi non parliamo dell’attentatuni, che piaceva solo a Totò Riina come nome, né della «disgrazia di Capaci», come dice invece la mamma di quel frariciume di Giovanni Brusca. Noi siamo precisi.

E se proprio dobbiamo, ci piace ricordare tutto come fosse un dispaccio. Non ci vuole molto. È una paginetta esatta, pulita (precisa, appunto) che abbiamo mandato giù a memoria. Ce la ripetiamo come fosse un mantra, un percorso di meditazione.

Ci incoraggia nei momenti di sconforto, quasi sembra indicarci la via, la ripetiamo con piacere alla mamma, quando ce lo chiede. Ed è paradossale, no?, che gli unici che alla fine ricordano bene le cose siamo noi. Noi che abbiamo fatto la storia, che raccontiamo quei fatti come una pagina di un manuale.

Le stragi del 1992

Poche righe, dunque. E fanno così: Alle 18 circa del 23 maggio 1992 nell’autostrada che dall’aeroporto conduce a Palermo, in località Capaci, una violenta esplosione provocava la morte dei magistrati Dott. Giovanni Falcone e della moglie Dott.ssa Francesca Morvillo, degli agenti di polizia Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, nonché il ferimento degli agenti di polizia Paolo Capuzza, Gaspare Cervello, e Angelo Corbo, e ancora il ferimento di Giuseppe Costanza (autista del dott. Falcone) e il ferimento di alcuni occasionali presenti (Pietra Ienna Spanò, Oronzo Mastrolia, Vincenzo Ferro) e di due cittadini austriaci (Eberhard Gabriel ed Eva Gabriel).

La devastante esplosione ebbe a danneggiare diverse autovetture dello stato e di privati cittadini, nonché le strutture murarie di diverse abitazioni in prossimità del luogo dell’eccidio. Nel tratto di autostrada in questione si formò un cratere di oltre 10 metri di lunghezza e di 4 metri di profondità.

Che ve ne pare? Poi solitamente facciamo una pausa, più o meno lunga e drammatica, dipende dal pubblico, dal sentimento del momento, dall’ispirazione, e continuiamo.

Così. Cinquantasette giorni dopo la strage di Capaci, avvenne un altro gravissimo attentato finalizzato a uccidere il Procuratore aggiunto della Repubblica di Palermo, il Dottor Paolo Borsellino. Il pomeriggio di domenica 19 luglio 1992, il giudice Borsellino si era recato in Via D’Amelio per andare a fare visita all’anziana madre.

Era appena giunto davanti al portone dello stabile in cui abitava la madre, quando un enorme deflagrazione devastò l’intera strada. L’ordigno fu di tale potenza che l’esplosione, alle ore 16:58, fu registrata dall’osservatorio geosismico.

Nella circostanza morirono: il giudice Borsellino, gli agenti di polizia Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina ed Emanuela Loi. Rimase invece solamente ferito l’autista Antonino Vullo, l’altro appartenente alla polizia di stato addetto alla scorta del magistrato, che si era allontanato di qualche decina di metri per fare inversione di marcia con la vettura da lui condotta.

L’esplosione determinò, altresì, il ferimento di numerose persone che si trovavano nel raggio d’azione dell’ordigno esplosivo e una vera e propria devastazione della zona circostante, con gravissimi danni agli edifici prospicienti di quel tratto di strada ed alle auto che vi si trovavano parcheggiate. Amen. Com’è?

Permetteteci due precisazioni, a ogni modo. Innanzitutto, i luoghi. È Isola delle Femmine, non Capaci. Il luogo della prima strage è Isola delle Femmine, il territorio di quel comune lì, dove passa quel pezzo di autostrada chiamata A29. Solo che siccome c’era il cartello verde con la scritta bianca Capaci e la freccia che indicava l’uscita a destra, allora è diventata la strage di Capaci. E vabbè. E poi un’altra cosa. Falcone non era Falcone e Borsellino non era Borsellino, né Giovanni, né Paolo.

Per noi erano il dottore Falcone e il dottore Borsellino. Per i nemici ci vuole rispetto. Voi non sapete chi siamo. Siamo Cosa nostra, sì, la mafia, certo, siamo il vostro incubo, quattro caproni o un esercito. Ma siamo soprattutto i figli della mamma. La mamma allarga le sue cosce e ci genera, un piede a Castellammare e il suo golfo, un altro piede poggiato nel Belice dei templi e dell’olio buono. La mamma, la nostra mamma dal cuore tenero e dalla voce che sembra un tuono, è l’origine del mondo.

Del nostro mondo. Noi siamo i figli di questa mamma, di questa terra, che ci ha trasmesso l’amore come l’odio. Qui è l’origine di tutto, non lo capite? In questa terra inondata di luce c’è l’origine della nostra forza. Noi siamo i figli di questa mamma, e fratelli tra noi e fratelli di Matteo Messina Denaro, il nostro imprendibile capo. Eravamo con lui quando decise di fare la guerra.

Abbiamo valutato, studiato, organizzato. Abbiamo fatto le prove. Ci siamo fatti consigliare. Abbiamo obbedito. Tutto è nato qui, in provincia di Trapani; non a Palermo, non a Roma, ma in questo pittuso d’Italia, dal lato sbagliato dei vostri tramonti da cartolina. E tutto ci è servito a compiere un ricambio generazionale, e un salto di qualità, che è la storia meno raccontata e che voi non sapete. Noi abbiamo deciso, noi abbiamo organizzato, noi abbiamo ucciso.

Non da soli, ovviamente. E non solo nel nostro interesse. E voi questo neanche lo sapete. Forse non lo saprete mai.


Don Ciccio, padre di Matteo, capomafia e latitante di lungo corso pure lui

Francesco Messina Denaro era diventato il capo della provincia in una riunione, nel 1982, nella cantina messa gentilmente a disposizione dai cugini Salvo, a Salemi. Ed è stato un capo all’altezza della nostra fama e della nostra storia perché di lui non si è saputo nulla o quasi, fino alla morte; solo sospetti, solo si dice, solo qualche indagine. Figuratevi poi se qualcuno aveva il coraggio di andare a far mettere a verbale che Messina Denaro Francesco era capomafia.

Un maresciallo lo sentì un giorno, per capire cosa ci fosse di vero in quelle voci di paese, a Castelvetrano, e gli chiese: ma lei come vive? E lui: faccio il campiere, sono un pensionato. Altre volte andavano a cercarlo, e non lo trovavano. E siccome noi non avevamo paura di niente e di nessuno, ma solo un po’ di fastidio, perché tutti quei bussare a casa delle persone perbene, magari mentre stanno inghiottendo un poco di veleno o nella notte, sono cose che non si fanno, Matteo – che è stato sempre una bella penna, eh – scrive al comandante dei carabinieri di Castelvetrano per dirgli che è inutile che vengono a casa, o che convocano in caserma suo padre, perché è fuori per motivi di lavoro. Ai carabinieri tanto bastava.

Non sapevano che il padre era invece in casa, e aveva un nascondiglio. Si stava lì buono buono, quando lo cercavano. E non era neanche latitante. Avrebbe potuto assicutarli, carabinieri, poliziotti, e anche guardia di finanza, ma gli piaceva molto l’idea di non prenderli in giro. E poi, si sa, un nascondiglio fatto bene è anche un buon posto per riflettere.

A conoscerlo invece erano i tantissimi disperati che ogni giorno allungavano la fila davanti casa perché accontentasse i loro desideri: un figlio che non doveva partire militare, perché erano sue le uniche braccia del raccolto, un’altra figlia zita con uno che non si decideva a maritarla, un travaglio per un cugino fuori, un padre di famiglia che era troppo che stava in carcere.

Nell’85, poi, spuntò a Castelvetrano quel crasto di commissario, Calogero Germanà, che poi nel ’92 Matteo cercò di ammazzarlo. E gli fece lo sgarbo, a Don Ciccio: la perquisizione a casa. E poi aggiunse una spiata e fece due più due sulla troppa droga che girava dalle nostre parti – e che in effetti era così tanta che i nostri giri ormai avvenivano alla luce del sole. E alla fine, nel 1989, scrisse questo rapporto in cui arrivò alla conclusione che Francesco Messina Denaro era il capomafia della provincia di Trapani e il figlio Matteo «lo supporta nella sua azione criminale».

Non solo, capì pure che, quando avevamo fatta la guerra a Partanna, c’era Matteo a guidarci. Ma non bastò, perché quando nel ‘90 il dottore Borsellino chiese una misura di prevenzione per Messina Denaro, magari la libertà vigilata, un obbligo di firma, il Tribunale di Trapani decise con le quattro parole più belle che un mafioso possa sentirsi dire: «Non luogo a procedere».

La condanna per mafia è arrivata solo a Natale del ’92, quando tutto era già stato compiuto, e Don Ciccio era già latitante da un po’. Arrivò poi il battaglione dei pentiti, Di Maggio, Brusca, Di Matteo, La Barbera, Patti, Sinacori, Ferro, Milazzo, e chi ne ha più ne metta. Mutolo: «Francesco Messina Denaro era la persona più fidata di Riina». Brusca: «Mi ricordo le sue riunioni con i catanesi». Di Carlo: «Era il capo della provincia di Trapani». Le loro parole servivano non a dare giustizia, ma a costruire la leggenda.

Nel frattempo Don Ciccio si dette alla latitanza, se poi latitanza si può definire il fatto che stai nella casa accanto a quella dove stavi prima, nel tuo letto di malato, senza nessuno che ti viene a cercare, per ozio, per complicità, per rispetto.

Quando morì, avremmo voluto scrivere qualche elogio funebre, come fecero i familiari di Calogero Vizzini: «Nemico di tutte le ingiustizie, umile con gli umili, grande con i più grandi, dimostrò con le parole e con le opere che la mafia sua non fu delinquenza ma rispetto alla legge e difesa di ogni diritto e grandezza d’animo. Fu amore». Ma, ormai lo avete capito, a noi le pupiate non ci piacevano, per i vivi come per i morti. La megghiu parola e chiddra ca ’un si rice, e vale anche per gli elogi funebri.

E più di mille parole valse per noi la beffa finale, di fare trovare il corpo di Don Ciccio agli sbirri, già morto, freddo, muto e pronto per il suo funerale. Valeva più di tutto.


Una provincia sconosciuta con la Cosa nostra più potente

Perché noi siamo una provincia importante, in Cosa nostra lo sapevano tutti. A Palermo c’erano gli interessi e i proprietari, la plebe e i capitali, sì, ma la mamma era qui, qui era la luna rossa gonfia di attese, qui era l’abbondanza che ci raccontavamo sin nei nostri cunti di bambini, seduti in giro la sera, al chiano.

Noi ad esempio eravamo quelli che sapevano raffinare la droga e la portavano fino all’America, come se mandassimo baci alle bocche dei nostri cugini dall’altre parte dell’oceano. Ed era anche per questo, perché avevamo la storia e le riverenze, i santi e l’intelligenza, sapevamo le preghiere e come esaudirle. Ed era anche per la luna e per i baci, per la mamma e la sua potenza rigeneratrice, che i palermitani per primi sapevano che era questa la provincia con la quale bisognava comunque fare i conti.

Per i santi e per i loro miracoli, che a noi quello che piaceva più di tutti in realtà era un angelo, San Michele Arcangelo, che non a caso è l’unico santo con la spada. Sapeva il fatto suo, Michele nostro. E noi rispettavamo i santini e la chiesa, perché la chiesa rispettava noi, ci accoglieva e capiva che eravamo gente d’onore. Gente che sapeva – e sa – qual è il valore delle regole.

Lo stesso zio Ciccio, il padre di Matteo, non era stato per un periodo latitante in una canonica? Ma lui, a differenza di altri, non teneva in mano libretti di salmi e rosari, né si faceva il segno della croce prima di uccidere qualcuno.

Noi sapevamo dosare per bene il cemento e le pallottole, i segnali e soprattutto le parole. Ci tenevamo alla larga dagli scandali. Ed era proprio una delle prime cose che i Messina Denaro ci avevano insegnato: non si deve parlare di noi. Non ci piace. Dobbiamo essere furbi, intelligenti – ci diceva Matteo. La gente deve pensare che siamo ladri di polli.

A voi non deve interessare come vi vedono, ma chi siete. E lo sapete, chi siete. Lo sapevano i vostri padri, e prima di loro i vostri nanni, lo sappiamo da più di cento anni. Eravamo quelli che lavoravano nel fango dei campi, che si spezzavano la schiena per raccogliere l’uva, e adesso voliamo in business class e i locali fanno a gara per averci come clienti.

Abbiamo passato due guerre mondiali, venti anni di fascismo, il pentapartito, il terrorismo, Mori e Dalla chiesa, la Dc. E siamo pronti a tutto. Lo sapevano anche i Corleonesi, spietati, che fecero la guerra di mafia, e dall’aprile di quell’anno 1981 cominciarono sistematicamente a sopprimere le famiglie palermitane: Badalamenti, Bontate, e poi chi?, ah, Riccobono, Inzerillo, e i parenti, gli alleati, gli amici.

Non si capiva più nulla. I soldi della droga avevano trasformato tutto. Noi stavamo a guardare: le alleanze, i complotti, i tradimenti, le esecuzioni. Le cose tinte. La mamma ci diceva: state attenti figli miei, nascondetevi qui, sotto la mia sottana, è come la puntura del dottore: fa un po’ male, ma ti fa passare la bua.

A farsi male dalle nostre parti furono i perdenti: i Buccellato, come i Rimi, i Minore. Diavolo di un Salvatore Riina; sembrava avesse un’orchestra che al posto degli strumenti ci avevano le lupare e le corde, le pistole e l’esplosivo, e quella cosa che lui chiamava Pocket Coffee, l’attacco fatto con furia cieca e colpi di kalashnikov.

E vennero anche da noi, a fare la guerra. In tre anni, dal 1981 al 1984, ci fu un repulisti di tutti coloro che non si erano schierati con i Corleonesi. E qui ci dovete scusare, ma ci vuole una parentesi, una parentesi di quelle importanti, per un senso di giustizia che si deve anche dentro Cosa nostra: non è vero che noi ci siamo schierati con i Corleonesi per sopravvivere, no.

È un po’ come quando giocate con il vostro gatto. Se pensate con la testa del gatto, è lui che gioca con voi. Ecco, e se pensate con la nostra testa, vi può apparire chiaro che in realtà noi li seducemmo, quelli di là, sì, fu una specie di corteggiamento. Prima regola: mai chiamare per primi, come in amore. Farsi desiderare.

Ci vennero a cercare, e ci negammo, all’inizio, per aumentare il desiderio. E così combinammo la zitata. E poi approfittammo dei Corleonesi per fare pulizia, come quando la mamma ti rimprovera che hai la camera in disordine (e questa strategia Matteo la stava già imparando, eccome se l’ha imparata, sono stati gli stessi Corleonesi a farne le spese…).

Una provincia “sconosciuta”

Perché poi noi avevamo un grande vantaggio: eravamo sconosciuti. Di noi non parlava nessuno, non facevamo notizia, non si conosceva nulla, non ci venivano a cercare. Solo qualche sbirro, con qualche confidente, che quelli ci sono sempre – se no che sapore c’è nelle cose? – aveva fatto dei rapporti, aveva alzato un sopracciglio. Ma niente, tutto veniva insabbiato.

I cani rimanevano attaccati, come dicevano i palermitani quando parlavano di noi, non senza una punta di invidia, dato che provenivano da una città, Palermo, che – come ricordavano tra noi quelli più studiosi – era la città più espugnata della storia; prima dai fenici, poi dai romani, e dai cartaginesi, e dagli arabi, dagli spagnoli, e dai napoletani, e da Garibaldi, e dai Savoia, e dagli americani… Da noi, invece, tutto tranquillo.

Già: i cani rimanevano attaccati alle loro catene, accontentandosi di qualche osso, qualche polpetta di carne, a volte anche avvelenata. E non per volontà. Non avevamo bisogno, come gli altri, di avere amici a Roma, a Palermo, e corrompere giudici, avvocati, minacciare sbirri.

Tutto avveniva in modo – diciamo così – naturale, quasi che la regola del silenzio, la nostra regola, fosse in realtà un modo di vivere, in questa provincia nostra. Anche perché non avevamo pentiti. Buscetta, Contorno, Calderone, Marino Mannoia, tutti quei grandi nemici di Cosa nostra, che avevano consumato famiglie e cristiani, che cosa sapevano di noi? Nulla.

Sì, qualche riunione, qualche incontro, e la droga, ma poi arrivati al busillis del loro racconto la memoria in qualche modo si perdeva, come una specie di buco nero che inghiotte ogni reminiscenza.

Con orgoglio, qui ci piace ricordare una cosa che dimostra che in Cosa nostra la reputazione non sempre coincide con la posizione effettiva di un uomo all’interno dell’organizzazione. Negli anni Cinquanta c’era Calogero Vizzini, Don Calò, che era considerato il capo dell’intera Sicilia. E invece il capo della Commissione regionale, ai suoi tempi, era Andrea Fazio, che nessuno conosceva.

Certo, era di Trapani! Solo dal 1993 in poi ci fu la nostra scoperta, che fu un po’ come quando si gioca a carte a Natale ed esce il re: cucù! E arrivarono nuovi pentiti: Di Maggio, Di Matteo, La Barbera, con memorie più fresche, perché erano stati molto dalle nostre parti e cominciarono a riempire pagine sulle «vicende mafiose trapanesi» – come scrivevano i giudici – o ancora su «organigrammi e dinamiche criminali della provincia trapanese». Ma ormai era già tardi.

Quello che doveva essere fatto era fatto, agnello e sugo e finiu ’u vattiu, come diciamo noi, Matteo Messina Denaro era già latitante. Amen. Noi eravamo di più di una provincia importante; eravamo la roccia dei Corleonesi, come dicevano alcuni boss amici nostri. La roccia.

Talmente alta, robusta, fiera, che era davanti agli occhi di tutti… e nessuno se ne accorgeva. Perché qui Bernardo Provenzano e Totò Riina erano come a casa loro, perché come diceva Giovanni Brusca: «Tra Riina e i trapanesi era tutta una persona». […]

A disposizione dello “zio Totò”, così i Messina Denaro vanno alla guerra

A settembre gli amici romani ci avevano confermato quello che i più scaltri tra noi avevano già intuito: la decisione del ministro Martelli e del dottore Falcone. E cioè che anche per i processi in Cassazione ci doveva essere la rotazione dei giudici, e che non avremmo avuto sicuramente quel giudice, il dottore Carnevale, che per noi era giusto come papa Giovanni.

Qualcuno ci consigliava: dovete fare come quegli albanesi, prendete una nave e scappate. Oppure restate e fate finta che siete albanesi in Italia. I palermitani erano inferociti. Non possiamo permettere che tutto questo accada: noi siamo il governo più forte del governo.

Fissammo una riunione a Castelvetrano a fine ottobre del 1991. Lì decidemmo: bisognava ammazzare Giovanni Falcone. Ma bisognava anche ammazzare Claudio Martelli. E Maurizio Costanzo, quello del Maurizio Costanzo Show. E allora a un certo punto pare tipo quando c’era il juke box al chiosco del lido di Triscina, e ognuno voleva mettere la sua canzone, e Matteo aveva sempre gettoni per tutti. Ognuno diceva un nome, e Matteo faceva: oh! Come per dire: ecco.

Era seduto alla destra di Totò Riina, come sempre, e c’erano i fratelli Graviano, da Palermo. Tutti parlavano e si lamentavano e facevano nomi, anche di sconosciuti: un secondino vastaso, un commerciante che stava sulle palle. Oppure dicevano: bisogna sterminare i pentiti fino alla ventesima generazione! ’U Zi Totò non riusciva a tenere a bada tutti. Finché Matteo fece di nuovo: oh! Come per dire: calma. E tutti ci calmammo.

Ci vuole tempo, disse allora, ci vuole pazienza, stare accorti, muoversi nell’ombra. Era scuro in volto, Riina, sapeva qualcosa che non ci voleva dire, perché fosse per noi li avremmo ammazzati tutti e subito, quelli della lista. E invece era come se ci fosse un altro tavolo, da qualche altra parte, oltre il sipario di quella commedia che noi stavamo portando in scena, e a quel tavolo ’u Zi Totò non era neanche a capotavola a dare ordini, come dire, ma a fianco di qualcuno. E magari gli ordini li prendeva. Poi disse: va bene. Va bene cosa? Potete andare, ci rivediamo.

Mentre i catanesi erano un po’ timidi, noi, in provincia di Trapani, subito mettemmo a disposizione la nostra forza militare e logistica, gli uomini migliori, le armi, i covi, e tutto quello che potevamo. La mamma era pronta ad apparecchiare un posto in tavola in più, se c’era bisogno, a cunzare il letto per qualche amico, prendere i soldi dal barattolo che stava nascosto sulla mensola alta dello stipo, i risparmi per le emergenze. La mamma, la nostra mamma, ha un cuore grande.

Riunioni e “avvertimenti”

E ci rivedemmo a Palermo, a casa di Salvatore Biondino. Riina ci disse che aveva una lista, e che gli obiettivi fuori dalla lista dovevano essere concordati con lui. E che bisognava partire per Roma. A Roma infatti c’era Giovanni Falcone, che si era trasferito lì, al ministero della Giustizia guidato da Claudio Martelli, a dirigere gli Affari penali.

E il dottore Falcone aveva convinto il ministro a riportare in carcere quaranta imputati del Maxiprocesso che erano usciti a febbraio per decorrenza dei termini, in attesa del verdetto della Cassazione. Ecco che a tutti noi venne fretta.

Falcone a Roma era pericoloso peggio che a Palermo, per questo bisognava partire. E poi ci avevano detto che aveva tra le mani un altro rapporto, che si chiamava «Mafia e Appalti» e c’erano dentro troppe cose. Angelo Siino aveva nel frattempo parlato di nuovo con Salvo Lima: voleva garanzie dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti. E Lima era stato sprezzante, in un modo che non ci meritavamo, dopo tutto quello che avevamo fatto per lui e il suo partito.

Aveva detto a Siino: «Ma cosa gli pareva a questi quattro pecorai, che il presidente Andreotti si sarebbe dimenticato dello sgarbo che gli hanno fatto alle elezioni quando in Sicilia hanno fatto votare il Psi?».

Nell’86, infatti, era successo che per la prima volta avevamo deciso di voltare le spalle alla Democrazia cristiana. Riina ci aveva detto: «Si cambia cavallo, si vota socialista». Binnu Provenzano non era d’accordo, ma poi si era convinto.

Era per dare una lezione alla Dc. Solo a Palermo eravamo riusciti a fare raddoppiare i voti ai socialisti. Quattro pecorari. Ce lo eravamo segnato.

Storie di successioni mancate, di donne conquistate e di uomini ammazzati

E a proposito di miti. Non ci ricordiamo il periodo esatto in cui le condizioni di Don Ciccio si aggravarono. Era stanco, era vecchio, era malato. Ma già c’era un capo, che gli anziani stavano forgiando come in certe leggende nordiche, o come quell’altro mito della dea partorita dalla testa di Zeus.

Perché dalle cosce della mamma, certo, dal seme fertile della nostra storia, anche, e dalla lingua di pietra dei nostri padri era venuto fuori Matteo; ma soprattutto era venuto fuori dalla testa del signor Riina, che in lui vedeva non un capo qualsiasi, ma il capo, l’erede, quello che avrebbe affrontato la prova più dura ed esaltante di tutte: l’attacco allo Stato, la resa dei conti. E di tutti i segreti che custodivamo questo era quello più potente, tanto che, paradossalmente, di Matteo Messina Denaro si è cominciato a parlare solo molto tardi, solo con la sua latitanza.

È dovuto scomparire per farsi notare, diavolo di un Siccu. Forte e dritto come un palo del telegrafo, lo avevamo visto iniziare con i primi omicidi, poi con la guerra di Partanna, aveva fatto da paciere ad Agrigento, e in un vìriri e svìriri, in men che non si dica, a un certo punto Riina non ecideva nulla senza averne prima parlato con Matteo, e quasi nessuno ricordava più che fine avesse fatto Don Ciccio; a noi interessava solo di Diabolik, perché non c’era cosa che non si muoveva se lui non diceva ai o bai.

E anche Mariano Agate, il boss di Mazara del Vallo, a un certo punto capì l’antifona; chissà, magari pensava che, con la malattia di Don Ciccio, il capo sarebbe stato lui – gli toccava per anzianità – e non il giovin Messina Denaro.

Ma si sbagliava, perché noi abbiamo sempre saputo scegliere le competenze, privilegiare il ricambio generazionale, e lo facciamo in maniera veloce e silenziosa, e Agate fece il giusto passo indietro. Poi faceva trasi e nesci dal carcere, e se non era in carcere aveva comunque la libertà vigilata, e quindi si levò di mezzo da solo, e avvenne senza cerimonie e giuramenti e sacramenti e chiamate di santi.

Non aveva bisogno di punciute, Matteo (che poi, a dire la verità, a noi il sangue ha sempre fatto impressione), né di baci, abbracci, padrini, formule da recitare, santine in mano. Era nel suo destino diventare boss, la sua infanzia alla fine era stata questa: ingannare il tempo, nell’attesa di diventare il capo.

Anche nel rapporto con le donne sembrava prematuro, Matteo. Mentre noi sognavamo amplessi clandestini in macchina con le ragazze dalle cosce color madreperla dei nostri paesi – cosce sempre chiuse per noi come le porte della chiesa di padre parroco quando ci veniva l’ansia della confessione – lui aveva un giro tutto suo, addirittura fino a Palermo, con il nostro amico Lillo Santangelo, che lì studiava Medicina.

Era un tipo scialuso Lilluzzo, e lo chiamava sempre a Matteo: vieni qua a Palermo, che ci sono le fimmine vere, ti spiego io come si fa, e lui, Matteo, correva. E molte avventure gli fece passare, prima di essere ammazzato su ordine di Don Ciccio, che era anche suo padrino.

Perché se c’era qualche sgarro da riparare, Don Ciccio non guardava in faccia a nessuno, neanche all’amico di suo figlio, neanche al suo figlioccio, e Lillo Santangelo era stato trovato morto, solo come un cane, sparato da Giovanni Brusca una mattina presto, vicino all’università; che Brusca manco sapeva come si chiamava, era venuto zio Ciccio in persona da Castelvetrano, un giorno, a indicarglielo da lontano. E a dire: iddru.

E a Palermo c’erano queste signore favolose, ci raccontava Matteo, tutte mature, pettinate, pulite, che avevano accenti perbene, e ci dicevano: da dove venite? Castelvetrano? Grazioso come paese. Ma per noi mica era paese, Castelvetrano, era città, come Marsala, Mazara, Trapani. Paesi erano Partanna, Santa Ninfa, Vita.

Manco Salemi era paese, va’, però per loro se non era Palermo era paese, e se non era brutto era grazioso, e stop; poi non ricordiamo altro, perché finalmente si ficcava e ciao. E poi Matteo fu anche quello che ci insegnò i segreti delle straniere, perché lui andava la sera a Selinunte, che d’estate c’era sempre pilu, e le acchiappava; anche se non sapeva le lingue, bastava guardarle.

E noi a chiedergli: Mattè, ma è vero che le francesi ce l’hanno rasata? E le tedesche? È vero che ci hanno le ascelle pelose? E le spagnole come lo fanno? Poi anche questo giro era finito, perché lui si era innamorato di una tedesca – che poi era austriaca, ma per noi era tedesca –, una ragazza che lavorava alla reception del Paradise Beach Hotel di Selinunte, e anche lì c’è scappato il morto, questa volta per gelosia, caso unico nella storia di Cosa nostra: il vicedirettore, Consales si chiamava, che era pure lui innamorato della zita di Matteo e che una volta aveva osato cacciarci dal suo albergo dove la sera andavamo a fare i nostri giochi senza frontiere dell’acchiappo.

A scuola di mafia a Corleone da Totò Riina, Matteo era la sua “creatura”

Che poi Salvatore Riina lo diceva sempre: Matteo era una sua creatura. Sin da quando era ragazzino avevano avuto un legame particolare: in pratica, Matteo andava a scuola da Riina. Ed era una classe speciale, quella del maestro Totò: c’era il meglio dei rampolli di Cosa nostra; i predestinati, quelli che avrebbero tramandato sangue e mafiosità e che avrebbero gestito la nostra macchina fabbricapiccioli, dato che facevamo soldi ovunque e comunque.

Era una scuola d’élite, e infatti non tutti ne facevano parte, ma solo pochi eletti: Madonia, Graviano, questo gruppo qua, insomma. Con la differenza che tutti erano già noti alle forze dell’ordine. Graviano, per dire, era ricercato dal 1984.

Matteo, invece, era l’unico che ancora era invisibile pure per gli sbirri. E come sempre accade nella nostra storia, questa alta scuola di formazione e specializzazione in mafia & affini del maestro Riina non era solo un gesto filantropico, ma aveva dell’altro.

Perché i ragazzi dotati come Matteo avevano bisogno della saggezza di Riina per sapere sfruttare meglio il loro prestigio, è vero – perché quello che vale per l’Uomo Ragno vale anche per noi: da un grande potere derivano sempre grandi responsabilità –, ma Riina aveva anche bisogno di farsi degli amici, magari giovani, fidati, sempre per l’ossessione che aveva di spiare tutti e tutto controllare.

E se mettere qualche osservatore, diciamo così, in un mandamento era cosa facile, crescere delle spie in casa, far fare ai figli le spie nei confronti dei padri, be’, questo, bisogna riconoscerlo, era un’idea geniale. E quindi il signor Totuccio voleva una classe di uomini eccezionali e fedeli come carabinieri, se ci potete perdonare l’audace paragone, ma il senso è quello.

Tanto che, più in là, quando ha avvertito, con il sesto senso che hanno i cani di mànnara, che la sua ora era giunta e che qualcuno era pronto a tradirlo come Giuda, e a consegnarlo, ci ha preso in disparte e ci ha detto: se mi succede qualcosa… ci sono i picciotti… Matteo e i Graviano sanno.

Ogni dettaglio, ogni progetto, ogni strategia. Sanno. E dispiace un po’ che poi, in quelle intercettazioni fatte in carcere, mentre passeggiava con questo Alberto Lorusso (il capo dei capi ridotto a fare confidenze a un pregiudicato pugliese, che triste fine…), Riina non si sia lasciato andare alla malinconia dei ricordi, del maestro che si vanta di avere avuto l’allievo diventato famoso, il migliore dei suoi diplomati (ma già si capiva, ah, sapesse, che testa, che sagacia, e giù magari a raccontare aneddoti e storielle… quando mai!), ma anzi, preso dall’aterosclerosi e dal rancore stupido dei vecchi, ha buttato veleno su Matteo e lo ha in pratica rinnegato: so padri bonarmuzza era un bravo cristiano, mi duna ’stu figghiu pi farini chiddru c’aviva a fari… stette quattro, cinc’anni cu mia… andava bene. Minchia, poi si mise a fare pala d’a luci, pala d’a luci a tutti i banni…

E poi un’altra volta, sempre su Matteo: l’unico ragazzo che avrebbe potuto fare qualcosa perché era dritto… ’u patri bono l’aveva avuto, bono era, il ragazzo aveva avuto questa scuola che ci fici io… minchia. E ci siamo tanto interrogati su queste parole amare di Riina del 2013. E c’erano quelli tra noi che erano disgustati, come quando ti capita la mennula, la mandorla acre in bocca, sia per la trappola in cui era caduto colui che si riteneva il più furbo di tutti, sia per il modo in cui aveva trattato Matteo e un po’ tutti noi, come se con l’affare delle pale eoliche non avessimo pagato anche un po’ i suoi avvocati… E c’erano quegli altri che dicevano che si trattava alla fine di un vecchio rincoglionito, che avrebbe anche potuto raccontare tutto a un ladro di polli nell’ora d’aria di un carcere milanese, ma tanto non gli avrebbe creduto nessuno; ormai la sua testa era andata, si poteva anche avvelenare, che da noi poi il veleno ha il sapore della mandorla amara.

Ma c’era infine chi ci spiegava: non lo capite? Non lo capite che lo fa apposta? Per difendere Matteo, per mettere distanza, per riconoscere il segno compiuto di un passaggio? Ma non lo capite che è una dichiarazione d’amore? Il maestro dice addio alla sua creatura, al suo terribile successore, e lo fa a modo suo.

Ci sta dicendo che adesso è pronto a mollare tutto e a dimenticare tutto, altroché, a morire nelle sue stelle buie. E altro che mandorle amare, ci sta lasciando con la promessa che tutto muore e rinasce sempre, come ci insegna a ogni fine gelata di febbraio il mandorlo in fiore.

Non solo ammazzatine, la mafia trapanese tra droga e logge segrete 

Ci davamo anche alla bella vita, perché avevamo i soldi, tanti, della droga, davvero tantissimi, che con i nostri amici americani venivano facili facili. E noi eravamo bravi nella logistica, come quando ci fu il fatto del Big John, un vecchio mercantile che arrivò da noi con un carico di 500 chili e rotti di cocaina – il prezzo: ventimila dollari al chilo – per essere poi lavorata e inviata in tutta Europa, perché avevamo noi l’esclusiva.

Era la notte dell’Epifania e anziché arrivare i Re Magi arrivò questo dono, questa nave cilena battente bandiera panamense, che era partita per noi dai Caraibi. Il più grande accordo criminale di fine secolo: il patto tra Cosa nostra e il cartello di Medellín. Eravamo capaci di tutto.

Il ricordo del traffico delle bionde, che dovevamo gestire con i napoletani, era sbiadito. Avevamo cominciato così, nascondendo l’eroina nei barattoli dei pomodori pelati, ed eravamo arrivati in poco tempo a gestire l’intero ciclo di produzione e vendita della droga, con una raffineria che era un gioiello, messa su nell’84 ad Alcamo.

Un impianto modernissimo, il più grande in Sicilia, una villa e tre capannoni, in Contrada Virgini, nascosto tra le bottiglie di salsa di pomodoro e i topi, dove lavoravamo febbricitanti a turno, senza soste, improvvisando artifizi chimici, grammo su grammo, da vendere poi al dettaglio alle file interminabili di disperati che dipendevano dalla nostra roba, o all’ingrosso nei mercati raggiunti dalle navi che ci aspettavano fuori dal porto.

Se ci avessero intercettati, ci avrebbero sentiti parlare di tropeina e benzoile, di cristallizzazione e di punti di fusione. Altro che Breaking Bad! E poi avevamo gli appalti, e le società, dalla pesca all’edilizia. E pure il contrabbando di sigarette, perché eravamo anche un po’ nostalgici. E il fiore all’occhiello era «Stella d’Oriente», la società ittica di Mazara del Vallo, con Pino Mandalari, uomo di Riina, commercialista e massone.

La massoneria

Ah, questa cosa della massoneria. Quante ne abbiamo lette. Quante analisi, quante supposizioni. I massoni per noi andavano bene, soprattutto se c’era da aggiustare i processi.

Ma gli anziani, che avevano il pudore del denaro, e non sapevano né leggere né scrivere, avevano comunque da insegnarci: con i massoni bisogna prendere e non dare. E quindi non c’era da fare giuramenti, adesioni, aprire logge; non ne avevamo bisogno, noi di fratellanza ne avevamo una, e ci bastava, ma ci interessava far qualcosa insieme, sì.

Prendere senza dare, appunto, era la regola. I massoni andavano tutelati, perché ci potevano servire. Si diceva che il capofamiglia di Mazara, Mariano Agate, era massone, ma per gli altri non c’era nulla di male, purché rispettasse sempre la regola: prendere senza dare. Anche perché i massoni millantavano amicizie influenti, e quindi potevano essere utili.

Per esempio per la strage di Pizzolungo a Trapani, nell’85, quella della mamma e dei gemellini, eh, lì per esempio ci provammo ad avvicinare i giudici con qualche massone; o per il processo per l’omicidio del sindaco di Castelvetrano, Vito Lipari.

Ma in realtà anche questi agganci a noi ci servivano a poco. E sapete perché? Perché eravamo dentro le aule di giustizia da tempo, lo siamo sempre stati, con garbo, senza disturbare più di tanto, suggerendo e orientando procuratori, pretori, giudici, giudici a latere, giudici popolari, giudici di pace, anche, certo; e giudici amministrativi, consiglieri di stato, magistrati delle acque, dell’infanzia, della minchia, tutti, e lo facevamo da quando gli avevamo fatto capire, noi, crasti, che quella scritta, la legge è uguale per tutti, quella che campeggia bella italica e fiera nelle aule di giustizia, era rivolta al popolo, agli avvocati, agli imputati, all’uditorio. Ma mica era rivolta a loro.

Loro non ce l’avevano mica davanti, non potevano leggerla. E andava bene così. Come in quel canto popolare siciliano di fine Ottocento: «Chi vuole la giustizia se la faccia, nessuno più oramai la farà per te!». E noi avevamo imparato a farla, la giustizia, e a farci amici i giudici.

Eravamo sempre innocenti, con tutte le prove contrarie. Perché avvicinavamo, parlavamo, aggiustavamo. E perché spiegavamo che dalla nostra innocenza, alla fine, dipendeva anche la loro. I nostri avvocati erano i principi del foro, compravano e vendevano le libertà provvisorie e le buone condotte, le assoluzioni e le perizie mediche.

Rocco Chinnici e Giovanni Falcone, quando la mafia comincia ad avere paura

Voi non ci credete, ma i più sinceri e precisi biografi del dottore Falcone eravamo noi. Noi eravamo gli unici ad appuntare i suoi avanzamenti di carriera e i suoi successi, senza invidia, senza ragionare sul personaggio, concentrandoci su quello che faceva, perché per noi era la prima regola, come la mamma ci aveva insegnato: bisogna conoscere il nemico, poi bisogna dargli un prezzo, perché tutti hanno un prezzo, poi, infine, comprarlo.

E se non si può comprare, allora bisogna conoscerlo meglio, perché i primi a essere in vendita sono quelli che ti dicono che «la libertà non ha prezzo», eccetera, e tutti hanno un prezzo, perché tutti, semplicemente, desiderano; e a chi non gli piacciono le femmine gli piacciono gli uomini, o magari gli animali, o magari giocare a carte la sera e mangiarsi lo stipendio e il villino a Mondello.

Non dovete pensare che era difficile, anzi, era pure economico. Perché noi lo avevamo capito da subito: corrompere un giudice può costare caro la prima volta. Dalla seconda in poi, è gratis.

E quindi Falcone lo seguivamo, quasi gli facevamo la corte, da quando si unì al gruppo voluto dal dottore Rocco Chinnici a Palermo, per fare il pool antimafia – come lo chiamavano. E poi dopo che a Chinnici i palermitani gli hanno messo la bomba, ecco spuntare Antonino Caponnetto, e il dottore Falcone sempre lì. Questa cosa del pool a noi aveva cominciato a preoccupare, sempre per quel fatto che noi come Cosa nostra eravamo prima di tutto criminalità organizzata, e in questo aggettivo c’era tutto.

La magistratura, invece, era disorganizzata, per usare un eufemismo. Ognuno che si faceva i cazzi suoi, colleghi che si odiavano, magistrati che si imboscavano, o che pensavano a sistemare le amanti. Quelli, invece, quelli del pool, avevano cominciato a ragionare come… la criminalità organizzata! Si davano i compiti, condividevano le informazioni, mettevano insieme le carte. E così, mettendo insieme i fatti, arrivarono a capire che non c’erano bande in sciàrria, a Palermo, ma famiglie unite, con un capo, un quartiere o un paese, e i capifamiglia, e i capiprovincia.

Ci hanno fatto i raggi X, quelli del pool. Adesso anche loro giocavano di squadra come noi. E studiavano i fatti di prima, e i fatti di dopo, e le minchiatine come le cose serie. Cominciarono a occuparsi meno degli omicidi e più dei soldi, e a fare vai e vieni dalla Svizzera, come dall’America.

E si arrivò a questo rapporto di carabinieri e polizia, anche loro insieme, del 12 luglio 1982, con la storia di Michele Greco e di altre 160 persone, con gli omicidi, la droga, le estorsioni. Tutto messo insieme.

Masino Buscetta il “tragediatore”

L’Italia festeggiava la Coppa del mondo che avevamo vinto il giorno prima ai Mondiali in Spagna, contro la Germania. E loro anziché scendere in piazza e fare casino, che ogni tanto per finire e firmare quell’inchiesta. E poi ci furono altri rapporti, altre indagini; ci si mise pure la Finanza a fare accertamenti. Ecco perché i palermitani decisero che era il caso di uccidere il dottore Chinnici. Ma non servì a nulla.

Anzi, quelli continuavano più di prima: arrivavano alla Spagna, ai gruppi napoletani, ricostruirono omicidi, scoprirono la camera della morte, come la chiamarono i giornali, che poi era il posto dove interrogavamo e poi torturavamo le persone.

E i giornali cominciarono a parlare degli incaprettamenti, che prima si strozzavano le persone, e dopo gli si faceva passare la corda attorno al collo e gli si piegavano le gambe, a tirare, che lui, pure magari se era ancora vivo, non poteva muoversi. E poi si misero addosso ai cugini Salvo, quelli di Salemi, e per un attimo ci tremarono le gambe, che se la cavalleria entrava nella nostra provincia, in quel momento, ci trovava tutti impreparati.

Ma noi non interessavamo, per fortuna: è come a Monopoli, quando ti fermi su un terreno e non lo compri, poi magari ti penti perché scopri che era invece strategico per la vittoria… E quindi ci fu «Pizza connection», che fu un terremoto per le famiglie americane, e le indagini si spostarono sui catanesi e il giro di droga dal medioriente. E se tutto questo sembrava tanto, il peggio doveva ancora arrivare. E arrivò con un aereo.

Il 14 luglio 1984. Non era l’aereo che negli stessi giorni aveva portato Diego Armando Maradona da Barcellona a Napoli, nel tripudio della città intera. Questo aereo veniva dal Brasile. Portava uno dei nostri che era stato arrestato, e che aveva deciso di parlare.

Si chiamava Masino Buscetta. Due giorni dopo già riempiva verbali. Su Cosa nostra, la guerra, i Corleonesi. Un tragediatore. Anche qui, dobbiamo precisare una cosa. Buscetta non era il primo che cantava. È diventato il più famoso, certo, ma come lui, tragediatori, ce n’erano stati a decine, prima. Altri uomini che avevano tradito gli amici, la loro famiglia e se stessi cantando con la polizia.

Non c’era stato ad esempio Giuseppe Di Cristina, che pareva che non trovava pace se non fermava i Corleonesi, e aveva cantato tutto a un carabiniere, nel ’78? Gli aveva spiegato per filo e per segno cosa avevano intenzione di fare, quanto erano diversi: oggi la definiremmo una «variante più aggressiva di Cosa nostra». Ma non fu ascoltato.

La vera novità, adesso, è che per la prima volta c’erano orecchie intente ad ascoltare, c’era qualcuno che verbalizzava non per cestinare od occultare, non per riempire di omissis o depistare, ma, davvero, per prendere appunti, capire, cercando una sintonia. Fino al mandato di cattura del 29 settembre 1984: Abbate Giovanni + 365. In pratica uno per ogni giorno dell’anno.

Lo chiamarono «blitz di San Michele», perché era la festa di San Michele Arcangelo, quello con la spada, che era un po’ il nostro protettore, e invece giusto giusto andò a capitare quel giorno. Noleggiarono anche un aereo, un Dc-9, per portare gli arrestati in carcere. Ai tempi lo Stato era capace anche di quello. Oggi invece neanche c’è la benzina per le volanti, altro che aerei. […]

MAXIPROCESSO 

Perché di noi in tanti sapevano già a fine dell’Ottocento; c’erano stati importanti investigatori che ci avevano visto giusto. Al procuratore del re, nel 1898, il funzionario di polizia di Palermo, Ermanno Sangiorgi, aveva inviato in poco tempo 31 rapporti che descrivevano la mafia e quello che oggi chiamate «Mondo di mezzo». Rimasero lì.

Nell’anno 1900 tondo tondo Luigi Sturzo aveva scritto pure un dramma teatrale, La mafia, perché non c’era ancora la tv e il teatro era il modo per arrivare a tutti. E a un certo punto uno degli attori dice: «La mafia serve per domani essere servita, protegge per essere protetta, ha i piedi in Sicilia ma afferra anche a Roma, penetra nei gabinetti ministeriali, nei corridoi di Montecitorio, viola segreti, sottrae documenti…». Nel 1900! E poi c’erano stati Cesare Mori, e Dalla Chiesa che, ancora prima di essere prefetto a Palermo, aveva scritto un rapporto investigativo, chiamato «dei 114», nel 1971, dopo l’omicidio del procuratore Scaglione. E noi come sempre avevamo scelto il tempo dell’attesa, con il nostro mantra, l’autodifesa: calati juncu. E la piena passò.

Perché ancora una volta il caso prevalse sull’ordine e sull’organizzazione, le invidie e le gelosie come fiumi carsici tornarono a esplodere in superficie e furono violente. Povero dottore Falcone, sperava di prendere il posto di Caponnetto alla guida dell’Ufficio Istruzione di Palermo; gli preferirono un altro, Antonino Meli. Il pool venne smantellato. E loro tornarono a essere tutti come piaceva a noi: disorientati.

Il dottore Paolo Borsellino se ne andò a fare il procuratore a Marsala, e questo non lo avevamo messo in conto e fu, scusate l’eufemismo, come avere infilato un dito nel culo. Schivi la granata, e ti colpisce la scheggia. E qui dobbiamo dire che Borsellino a Marsala si era messo a fare indagini, a curiosare, a chiedere, e per la prima volta avevamo il nemico in casa.

E noi pensammo a come farlo fuori, solo che ogni volta che eravamo convinti il piano saltava in aria, un po’ perché i palermitani volevano che si facesse una cosa discreta, un po’ perché qualcuno si buttava pentito, un’altra volta perché ci dissero: statevi buoni, che prima dobbiamo aggiustare ’sta cosa del Maxiprocesso.

E il dottore Falcone? Non lo avevamo perso di vista. Prendeva colpi, ma non perdeva l’ambizione. Voleva diventare procuratore aggiunto. Nel frattempo, quello che chiamavano «il Corvo» spediva lettere ai giornali su certe sue scorrettezze, e chi gli voleva bene cominciò a parlare di «delegittimazione». Scampò per miracolo a un attentato esplosivo tra gli scogli dell’Addaura, dove aveva preso un villino. Divenne procuratore aggiunto, ma il suo capo, Giammanco, non era proprio il migliore dei colleghi, per lui.

L’obiettivo era stato raggiunto: Palermo gli era diventata invivibile. E lui che fa? Cornuto di un giudice, se ne va a Roma, a fare il dirigente degli Affari penali al ministero della Giustizia, su invito del ministro Claudio Martelli. Quelli di noi più ingenui dicevano: bene, ci è finita, se ne va a Roma a fare la bella statuina per il ministro che vuole fare credere che l’Italia sta combattendo davvero la mafia, quando poi a Palermo la mafia vota il suo partito. E invece non sapevano con chi avevano a che fare.

Perché il dottore Falcone cominciò a fare circolari, proposte di legge, di decreti. Un provvedimento, ad esempio, per contrastare il riciclaggio. Un altro, che aggravava le pene per i mafiosi e prevedeva sconti di pena a chi si dissociava. Un altro ancora, per sciogliere i comuni inquinati dalla mafia. E poi un altro per creare un fondo di sostegno a chi denunciava l’estorsione. Minchia, peggio di una retata.

E poi l’istituzione, a novembre del 1991, di una specie di super procura, una polizia speciale, una sigla che abbiamo imparato a vedere spesso nelle pettorine di chi bussa alle prime luci dell’alba per entrarci in casa e fare delle perquisizioni, o portarci in carcere: la Dia, Direzione Investigativa Antimafia. Ma non era meglio che se ne restava a Palermo, il dottore Falcone? Da quella maxi ordinanza del novembre del 1985, che in pratica ricapitolava una specie di storia della mafia, ne nacque un processo, così grande che lo chiamarono Maxi.

Ma non era tanto il numero di imputati a preoccuparci, quanto l’idea di fondo, il teorema che ci vedeva come organizzazione, uniti e definiti. Se si mette nero su bianco ’sta cosa è finita, dicevano gli avvocati. Perché?, gli chiedevamo (mentre bestemmiavamo perché è facile corrompere un giudice quanto è impossibile fare parlare chiaro l’avvocato…).

Perché, rispondevano quelli, mentre preparavano notule di spese per ogni trasferta, colloquio, «studio pratiche» e pure per le «telefonate» – ci mancava solo la voce: spiegazione di come te la stanno mettendo in culo. Perché, ti dicevano, se passa il teorema che noi sappiamo essere infondato, vero? (risatina, noi non ridevamo, l’avvocato si sistemava il riporto e continuava), se passa questa idea, siete fottuti. Ma quale idea? Quella che siete tutti una cosa.

Non capite cosa significa? Che in pratica tutti rispondete di tutto. Perché dietro c’è «l’organizzazione». Ammazzate a uno? E vale per chi lo ammazza, per chi porta la macchina, per chi dà l’ordine… ’U capistivo?! L’avevamo capito. Ed eravamo fottuti.

Le sentenze del “Maxi”

E così arrivò la sentenza della Corte d’assise di Palermo, il 16 dicembre del 1987. Pochi mesi prima, Maradona aveva fatto vincere al Napoli il primo scudetto della sua storia. E il dottore Falcone aveva fatto vincere all’antimafia il suo primo campionato. Come gli aveva detto una volta Michele Greco, il Papa, durante un interrogatorio: «Lei è il Maradona del diritto, quando prende la palla non gliela leva più nessuno».

La sentenza ci aveva letto nelle viscere delle nostre paure, perché condannava tutti i rappresentanti di Cosa nostra a Palermo e provincia, non solo Riina e Provenzano, ma tanti altri, dai soldati semplici ai capi. E il giudice aveva ritenuto che noi eravamo una cosa sola, una Cosa nostra, che funzionava con le famiglie, le commissioni, i mandamenti, la cupola. E ci aveva fatto la fotografia, con la guerra di mafia, gli omicidi, le strategie.

Poi era venuta la sentenza di appello del 12 dicembre del 1990; l’Italia era un po’ più distratta, c’era meno clamore, e così eravamo riusciti ad avere un bel po’ di assoluzioni. Maradona aveva fatto vincere al Napoli il suo secondo scudetto, quelli del pool invece avevano perso punti. Tornavamo in partita. Riina e Provenzano se ne uscivano bene, e se loro erano tranquilli anche noi dovevamo esserlo. Mancava solo la Cassazione, l’ultima aggiustatina.

[…]In Cassazione, con un’interpretazione rigorosa – appunto – della legge, tra un hic et nunc, un ope legis, un ad hoc, un sed etiam, un’interpretazione a trasi e nesci, eravamo riusciti a fare scarcerare 40 boss imputati del Maxiprocesso. E qualcuno strepitava, parlava di «errori plateali», «volontà di liquidazione del lavoro di pm e giudici», ma perché? Non sono giudici anche quelli? Tutto a posto, dunque, tutto in ordine, commentavamo sazi dei brocioloni addentati nei nostri pranzi domenicali.

Senonché ti spuntò bello bello il ministro della Giustizia Martelli che decise, su suggerimento del dottore Giovanni Falcone, di giocarsi la matta. E la matta era la rotazione dei giudici, come in certi film polizieschi, quando scoprono che la giuria è corrotta e la cambiano all’ultimo, no?

Ecco, quei film non hanno inventato nulla. Il 23 ottobre del 1991 il Maxiprocesso venne iscritto in Cassazione. E non era più assegnato al giudice che noi volevamo. Era un altro. La prima udienza si tenne il 9 dicembre del 1991. Erano i giorni in cui era veniva firmato il trattato di scioglimento dell’Unione Sovietica, la dissoluzione di un impero. Ci sembrava un cattivo presagio

Contro i giudici e contro lo stato, ecco la misteriosa “Falange Armata”

Andavamo avanti di riunione in riunione. C’era fretta, era cominciato un conto alla rovescia. A un incontro c’erano tutti i capimafia siciliani, ovviamente anche Matteo. Ormai la guerra allo Stato era decisa. E bastava un’occhiataccia d’u Siccu per zittire quelli che ancora tentavano di capire che fine avessero fatto tutte quelle alleanze che avevamo costruito negli anni, e che furono costruite dai nostri nonni, e che sempre ci portavamo dietro; quel bagaglio di senatori e giudici, eminenze, eccellenze e riverenze, che sono stati sempre al nostro fianco. Dove sono?

Nessuno osava chiedere, nessuno rispondeva. Non funzionano più, si limitò a dire Matteo, beddro spicchio, mentre Zi Totò sembrava un disco rotto, e ripeteva un mantra in continuazione: bisogna fare la guerra per fare la pace, ripeteva. Ma noi eravamo storicamente nemici di ogni forma di guerra e di ogni forma di pace: ci piaceva l’aridità dei sentimenti, se no non saremmo stati Cosa nostra, ma terroristi, banda armata, partito politico, fate voi, ma non certo Cosa nostra.

Ma questo a quanto pare non interessava, dal momento in cui Matteo ci spiegò che avremmo fatto attentati, e per fare attentati bisognava sistemare quel famoso elenco, cominciare a stabilire le priorità. In cima c’era il dottore Falcone, che è già un morto che cammina e non lo sa, ma poi bisognava mettere un po’ tutto in ordine.

A chi volevamo sparare: ai politici, a Salvo Lima, a Ignazio Salvo, a qualche cornuto sbirro, altri magistrati. Scrivevamo. Tipo il gioco nomi-cose-colori-città, scrivevamo di fretta, che le idee buone duravano un attimo. Gli uffici postali. Ottimo! I tralicci dell’Enel. Grande idea! Le questure e le caserme. Giusto! Le sezioni della Democrazia cristiana. Perché no?

Lo vedete che quando volete il cervello vi funziona?, ci esortava Matteo. Continuate! Continuate! Vogliamo il caos. Il rosso e il giallo sono i colori della Sicilia – ci sorprendemmo a immaginare – e diventeranno i nostri colori, rosso come il sangue, come la terra sollevata dall’esplosivo, giallo come il sole che illuminerà la nostra guerra, perché faremo tutto di giorno, senza paura, noi, che in quel momento cominciavamo a sentirci non solo Cosa nostra, ma anche una cosa sola, unica, contro tutto il mondo. Ci sembrava di rendere giustizia a quella visione dello scrittore Leonardo Sciascia: tutta l’Italia che diventava il nostro campo minato, tutta l’Italia che diventava Sicilia.

Sì, ma se chiedono chi è stato, noi che diciamo? Anche per questo ci fu una risposta.

Ci firmeremo Falange Armata. Che significa? Nessuna risposta.

La Falange Armata

[…] Antica la promessa, nuova la sigla. Falange Armata divenne la nostra firma. Per le cose piccole come per le cose grandi, le telefonate e gli attentati, e cioè tutto quel teatrino di cartapesta che stavamo mettendo su. Pronto, chi parla? Falange Armata. Chi ha fatto saltare in aria i giudici? Falange Armata. Chi ha mangiato la torta? Falange Armata. Chi c’è dietro la piovra? Falange Armata.

Tra il 1990 e il 1994 sono stati rivendicati con questa sigla almeno una ventina tra omicidi e attentati. Pure le stragi del ’93. E quando al telegiornale si parlava di questi fatti, e della rivendicazione, noi sorridevamo di contentezza per la nostra spirtizza e di soddisfazione, molta soddisfazione.

Alla fine bastava così poco: mettere la firma di un altro, inventarsi un nome, e quelli avrebbero cercato le Brigate rosse – che in Italia ancora erano di moda –, le Brigate nere, le bande armate, l’estrema destra, i comunisti e gli squadroni. In quanto spirtizza sapevamo che sarebbe durata poco, ma ci avrebbe dato un vantaggio, che per alcuni era il vantaggio della fuga, per altri quello del disorientamento.

E i catanesi, che tanto avevano mostrato resistenza al nostro piano, furono i primi, però, a sperimentare l’utilizzo di quella sigla, come nel caso di una piccola prova che fu fatta a Catania, tanto per fare scruscio. Ed è una cosa che ci dispiace che oggi non ne parla più nessuno, perché fu invece una tappa importante del nostro percorso. E ci riferiamo a un attentato niente di meno che a casa del più popolare presentatore tv italiano, che non era Maurizio Costanzo, ma Pippo Baudo. E il 2 novembre del ’91, giorno dei morti, facemmo esplodere della dinamite nella casa di villeggiatura di Pippo Baudo, a Santa Tecla, sotto la celebre Timpa di Acireale, tra il mare e l’Etna.

Un paesaggio grandioso, ideale per fare ritrovare la calma e la serenità a una persona così famosa come lui. E noi la casa l’avevamo letteralmente distrutta. E avevamo scelto Pippo Baudo perché qualche giorno prima lui, siciliano, aveva parlato male della mafia in tv; aveva chiesto addirittura leggi speciali. Ma perché non pensava a Fantastico, a Sanremo, ai miliardi di piccioli che gli davano la Rai e Berlusconi per contenderselo? E quindi i catanesi avevano deciso che Baudo poteva essere il primo a testare la nostra nuova linea, e la nostra nuova firma. Non era né per soldi, né per estorsione. Solo per questo.

Gli pareva che la notorietà e il successo lo rendevano intoccabile? Erano venuti di notte dal mare, erano entrati segando le barre del cancello, avevano piazzato l’esplosivo a ridosso dei muri portanti. Il botto e il bagliore avevano svegliato mezza città. Firmato: Falange Armata. […].

Quel nome, Falange Armata, ci rendeva intoccabili, quasi dei supereroi; era un viavai di armi ed esplosivi, di apparecchi e di telecomandi. Progettavamo attentati: dal giudice a latere del Maxiprocesso, Piero Grasso, a Di Pietro, quello di Mani Pulite. Facevamo così tante telefonate anonime che a un certo punto non trovavamo più gettoni in tasca da utilizzare nelle cabine, e i giornali cominciarono a chiamarci «i falangisti», tracciando origini storiche («La Spagna di Franco…», per esempio. E chi la doveva conoscere? Per noi l’unico Franco era quello di Franco e Ciccio), esaminando i precedenti, che noi neanche sapevamo.

È ovvio che Falange Armata non era farina del nostro sacco. A noi la parola falange ricordava solo il primo dito che stoccavamo dalla mano di qualcuno quando cominciavamo i nostri famosi interrogatori. Parla, cornuto!, e prendevamo il dito medio e glielo piegavamo all’indietro fino a sentire una specie di crack, puntandogli contro la lama del nostro liccasapune. E quella sigla era arrivata a noi in dote, anche se non sappiamo spiegarvi bene in che modo; forse un giorno anche questa sarebbe una storia da scrivere. […]

La riunione della Cupola a Natale del 1991, così iniziò il gioco di fuoco

Incontro dopo incontro si arrivò alla famosa riunione, quella di Natale dell’anno 1991. Che poi era una tradizione, la facevamo ogni anno. Solo che c’era tanta malinconia nell’aria.

Per quanto ci scambiassimo gli auguri di presenza – riportando quelli di chi non poteva esserci, per opportunità, per latitanza, per malattia o perché era ospite dello Stato –, e ci rallegrassimo della nostra buona salute, non credevamo a una sola parola di quelle bugie di circostanza sulla prospettiva di un felice anno nuovo.

I più sentiti auguri di buon Natale a lei e famiglia, riferisco, e tante care cose, grazie, un bacio per guancia. Era tutta una finzione, perché il rumore del passo zoppo della giustizia cornuta ci inquietava e sembrava annientare il battito del nostro cuore: lenta e inesorabile, davvero quella volta si stava avvicinando a levarci il sonno e il benessere. Ogni capo mandamento passava dieci minuti con la Commissione di Cosa nostra, e poi ci sedevamo tutti al completo.

Non ci consolavano né i dolci di ricotta, né il passito mieloso che mandavamo giù a piccoli sorsi interrotti da sospiri di ansia. Ci davano noia persino le frasi fatte sulla pioggia che mancava, o sui tempi andati. Volevamo arrivare subito al punto. E anche Matteo era inquieto. E Riina nella sonnolenza del dopo pranzo, con gli occhi a passulune, si lasciò dire una frase, che era: dobbiamo chiudere i conti. Ci guardammo tutti per un istante. Di chi sarà il turno adesso, ci chiedevamo, c’è un traditore tra noi? E quindi, ancora una volta, qualcuno dal nostro pranzo non avrebbe fatto ritorno al paese suo. Ma Riina parlava con noi, non parlava di noi. Bisognava chiudere i conti.

Durante quella riunione stavamo muti ad ascoltare zio Totò. Matteo ci controllava a vista. Non voleva esitazione nei nostri sguardi, dubbi nelle nostre smorfie, perplessità nei nostri tic. Con quell’occhio leggermente strabico, sembrava giocare a «Un, due, tre, stella»; se il suo sguardo cadeva su di te, e scorgeva anche un minimo movimento, ti poteva finire male.

I tagliancozzi con il marsala erano acidi nei nostri stomaci, e nel silenzio del malaseno si sentiva il borbottio di qualche succo gastrico, un principio di gastrite. Sussultavamo per il rumore dei rami che ogni tanto graffiavano le imposte, spinti dallo scirocco che rendeva le bocche asciutte.

Qualcuno magari avrebbe voluto parlare, dire qualcosa, ma calò un freddo improvviso nella stanza, un’aria così glaciale che le parole ghiacciavano ancora prima di uscire dalla bocca, e il nostro alito faceva un vapore quasi come un arabesco che condensava tutti i progetti di morte.

Tra noi, Nino Giuffrè fece un gesto, come per dire qualcosa, una mano che stava per alzarsi, un leggero raschio della gola come a mettere ordine alle parole. Raffaele Ganci, accanto a lui, gli diede un colpo con il ginocchio e lo guardò dritto negli occhi. In quello sguardo tutti leggemmo l’avviso: «Statti muto». Riina sapeva che sarebbe finita male ancora prima di quella sentenza della Cassazione.

Doveva andare bene e invece andava male, ripeteva, come un ossesso. Bene, male. Bene, male. E pensare che lui personalmente ci aveva rassicurato che avrebbe aggiustato il processo. E Matteo pure era persuaso: vedrete, vedrete, diceva. E lo stesso Matteo quando poi lo interrogavamo per cercare di capire meglio il senso di quell’oracolo, quel fare la guerra che si profilava all’orizzonte dell’anno nuovo, ci diceva: ognuno si aiuti come può.

“Il gelo nella stanza”

Calò un gelo improvviso nella stanza. Nessuno osava alzarsi, muoversi, interrompere quello che stava facendo. Chi aveva gli occhi a terra, continuava a tenerli, chi, con la testa calata, guardava il signor Totuccio, continuò a fissarlo, chi guardava il muro con gli occhi aperti come la civetta, continuò in quella sua espressione ebete. Una mosca testarda tirava colpi alla finestra.

Prendeva la rincorsa per poi schiantarsi contro il vetro con forza. Matteo con lo sguardo controllava tutti, lentamente spostava la testa, quasi volesse pesare ogni nostro respiro. Qualcuno di noi era come in trance. Nessuno fiatava. Neanche quando ’u cristianeddru, per spezzare quel silenzio, aggiunse: «Siamo al capolinea».

Che lui intendeva la resa dei conti, ma anche Matteo, se avesse parlato, avrebbe utilizzato la stessa espressione, perché vedeva il capolinea, davvero, nel senso del «Signori, si scende» delle ultime corse della notte, per Riina e tutti gli altri. E già pregustava il nuovo corso, quello che sarebbe nato dalle rovine, i nuovi patti silenziosi e pieni, i nuovi affari.

Stiamo parlando del dottore Falcone, minchia, mormorò qualcuno più tardi, stiamo parlando dell’onorevole Lima, buttanalamiseria, stiamo parlando di personaggi di un’importanza notevole. Chiddru chi veni ni pigghiamu, tagliò corto lui. Quello che viene ci prendiamo.

Eravamo di fronte alla grande sconfitta di un capo che era convinto che sarebbe riuscito ad aggiustare le cose, e che invece andava incontro a una disfatta totale, e, come nella storia di Sansone che muore con tutti i filistei, aveva deciso di portarci tutti nel baratro con lui, ma con il nostro assenso. Ma sì, disse il primo, è l’ora della vendetta. Basta nasconderci, aggiunse un secondo.

Facciamo vedere chi siamo, arrivò chiaramente da una voce in penombra. Qualcuno lasciò partire un applauso, qualcuno si alzò in piedi, ad altri ancora si illuminarono gli occhi. Il piano stragista era divenuto il nostro piano. Non temevamo più l’avvicinarsi dei demoni. E a Matteo gli occhi brillavano ancora di più. Qualcun altro, con voce un po’ incerta, quasi avesse timore di interrompere la bella atmosfera che adesso c’era, disse: «Picciotti, se permettete dobbiamo passare a parlare del fatto di Ocello».

Ce ne eravamo dimenticati. Pietro Ocello, capo mandamento, era stato ucciso. Bisognava provvedere, trovare un sostituto, vedere se andava bene il nome di Benedetto Spera. Passammo a parlare di questo, business as usual, avrebbero detto gli inglesi.

Concludemmo con gli auguri di Natale, prima quelli di Riina a ogni capofamiglia, e poi un brindisi finale, esortandoci l’un l’altro a fermarci ancora un po’, altri cinque minuti, senza fretta: «Facciamoci le buone feste come si deve. Siamo persone per bene, manteniamo le tradizioni».

Le manie di grandezza dei boss di Castelvetrano, armati come un esercito

A proposito di armi: quelle per noi non erano un problema, non lo erano mai state. Così come ci sono le guide turistiche che vi consigliano i posti da visitare in Sicilia occidentale – le saline di Trapani, Erice, il Satiro a Mazara, le calette di Favignana –, noi avremmo potuto scrivere una guida su come girare la Sicilia tra un deposito di armi e l’altro, tra un covo pieno di esplosivo e un magazzino rifornito di kalashnikov, che erano utilissimi per colpire quelli che giravano con l’auto blindata. E non dovete pensare solo a magistrati, politici e scorte.

Le auto blindate ce le avevano anche molti di noi, soprattutto quelli che più si scantavano che li facevamo fuori, e allora ricorrevano a una specie di scorta, e all’auto blindata fatta venire da fuori. E a volte accadeva che magari noi non lo sapevamo che dovevamo fare a uno, ma quello cominciava a girare con l’auto blindata e, insomma, si mangiava la polvere – excusatio non petita, come dicono i latini –, e quindi ci toccava ammazzarlo. Nell’indifferenza generale, avevamo trasformato il nostro territorio in una santabarbara. Lo facevamo da tempo.

Accumulavamo armi come facevano i nostri padri e i nostri nonni, o come da ragazzini facevamo razzia di fuochi d’artificio per le masculiate delle feste del santo del paese, e che a noi invece servivano per i nostri primi crudeli esperimenti sui gatti. Perché c’era sempre bisogno di armi, in Sicilia. Per difendersi dallo stato, per attaccare, in caso qualcuno ci avesse dato l’ordine, per fare la rivoluzione o per impedire di farla, non importa.

Avevamo i pezzi. Ed erano pronti all’uso, perché i più giovani, da noi, prima ancora che con gli omicidi, le sparatine, con gli incendi e le ammazzatine, cominciavano la loro carriera in Cosa nostra così, pulendo le armi, mettendo il grasso o il petrolio, per togliere le ossidazioni, levare i residui di polvere da sparo e le incrostazioni.

E poi bisognava fare l’inventario di pallottole e munizioni. E l’inventario era un compito noiosissimo ma fondamentale, come in quel film sul karate dove c’è il giovane che fa «dai la cera e togli la cera» per imparare a combattere. Valeva anche per noi.

Come diventare un “buon mafioso”

Se volevi diventare un buon mafioso, non ti servivano né la punciuta, né la prova del fuoco – quella prima o poi veniva per tutti – ma, semplicemente, dovevi dimostrare di essere in grado di tenere in buone condizioni un fucile, saper passare il grasso su un mitra, contare i sacchi di esplosivo, e tenere il conto delle famiglie alle quali le armi appartenevano, perché tutto era in comune, è vero, ma ogni famiglia a tempo debito poteva anche – per cortesia – reclamare il suo; e se, ad esempio, Matteo voleva quelle pistole a cui lui teneva tanto, perché un giorno gli andava di fare un omicidio così, con un’arma piccola, e ’sta pistola non spuntava fuori, erano dolori, e capace, non stiamo babbiando, che poi la pistola era per te.

Dalle istruzioni per la manutenzione delle armi, passavamo poi a quelle per gli omicidi. Le armi andavano provate, prima. Perché, a meno che uno non nasce imparato, come Matteo, sparare a un uomo non è affatto facile. Poi bisognava capire quante persone dovevano essere a farlo: due con una moto? Una squadra per bloccare la strada? I colpi dovevano essere vicini, certo, ma non troppo, per evitare gli schizzi di sangue, che erano sempre una camurria. Nell’esecuzione da manuale, i colpi erano sempre tre: uno per fare cadere la vittima a terra, il secondo per ferirla, il terzo in testa per finirla. Senza ferocia, senza accanimento: non siamo gente cattiva.

Ma siccome c’erano sempre impirugli, un conto era il manuale, un conto era la realizzazione. Avevamo depositi dappertutto, e senza particolari precauzioni. Non c’erano caveau, né doppifondi segreti. Ci servivamo delle cave tra Mazara e Marsala che non avevamo ancora riempito di rifiuti, ma che utilizzavamo allora come deposito per armi, auto rubate, carcasse, o come alloggio di fortuna – con una brandina e una cassa d’acqua –, per qualche regolamento di conti o come poligono di tiro per le nostre esercitazioni. Avevamo depositi negli impianti di calcestruzzo, nei magazzini dei nostri frantoi, nei garage dei palazzoni alla circonvallazione di Palermo, vicino l’ospedale, in edifici storici abbandonati, nelle cisterne di acqua che assetavano i campi, nelle stalle, nelle cappelle, nei pozzi. […].

Noi avevamo i depositi di armi da apparecchiare come presepi. L’ambaradan è lo stesso, e comprende le lucine degli alberi, magari, i cavi e i cavetti per fare l’effetto dell’acqua che scorre, e il cartone pressato per le montagne; insomma, tutto un corredo di cose, di cavi e detonatori, di mirini e silenziatori. E avevamo anche i telecomandi.

I telecomandi camminavano a coppia, come i carabinieri. Uno era ricevente, l’altro trasmittente. Li mettevamo in sacchetti separati, per non confonderli. A Palermo, in Piazza Maio, in un deposito messo a disposizione dalla famiglia di San Lorenzo, ne avevamo ben cinque coppie.

Una venne utilizzata per la strage di Via D’Amelio. Due vennero distrutte dopo la strage per evitare che fossero trovate. Le altre due le prese Matteo, insieme ad alcuni detonatori. Li nascose nella sua Alfa 164 che faceva invidia a tutti per come l’aveva personalizzata che manco Diabolik.

Aveva una specie di portabagagli segreto, che apriva con un pulsante. E una volta aveva chiesto a un amico suo meccanico di fare quella cosa che si vedeva nei film di 007, con i fari che si giravano e diventavano dei mitra. Ma l’amico suo ci aveva provato e riprovato e non c’era riuscito. E poi era sparito. Si vede che tanto amico non era.

E la mafia trapanese sale a Roma per colpire il giudice Giovanni Falcone

L’assetto di guerra prevedeva alcune conseguenze pratiche nella nostra organizzazione. Perché qui dobbiamo aggiungere, per rendere più chiaro il concetto, un’altra cosa. E cioè che insieme avevamo deciso e deliberato, è vero, ma che non tutti sapevamo tutto.

C’erano una serie di riunioni a gruppetti che ci servivano per le cose spicce, le cose pratiche, e quindi era importante che partecipassero solo i diretti interessati. Per contenere anche il desiderio che molti avevano – per tanti conti in sospeso che costellavano le nostre vite – di farsi giustizia da sé. E per evitare scenate di gelosia che alla mamma mai erano piaciute.

A Giovanni Brusca – così lo capite meglio – fu spiegato per filo e per segno come avremmo fatto saltare in aria l’autostrada dove passava il dottore Falcone, come fare per riconoscere l’auto, quando ammaccare il bottone del telecomando. Ma sull’attentato al dottore Borsellino, Brusca non sapeva nulla, né mai avrebbe saputo.

Era a conoscenza solo dello stretto necessario, appunto, e cioè che l’avremmo fatto. Ma siccome non lo riguardava direttamente, altro non gli era stato detto: il come, il dove, il quando, la chi, la come. Nulla. Lui si doveva occupare solo di Falcone, e in quel modo lì.

Era una strategia molto utile, perché ci metteva al riparo da fughe di notizie, sia al nostro interno, sia nel caso – che poi si sarebbe verificato – che qualcuno, come fecero poi in tanti, si fosse buttato pentito, o magari avvertisse la necessità pressante di vuotare il sacco delle confidenze. Cosa sai? Lo stretto necessario.

C’era anche chi non l’aveva presa bene, quando aveva scoperto che i tavoli erano più di uno, come i circoli e le stanzette, e che insomma alla fine eravamo stati tutti esautorati, chi più, chi meno; minchia, e insomma, un momento così importante, e poi di punto in bianco non contava più la famiglia o la Commissione provinciale?

Non c’era più da dare conto al mandamento o a qualche don ottantenne che si pisciava sui piedi e che però voleva dire ancora la sua?

Un’idea brillante

Il fatto è che Matteo nostro aveva avuto un’idea brillante, di quelle che solo a un capo possono venire, e questa idea era tanto bella… da non avere nome. E non dovete turbarvi, di questa cosa senza nome, perché alla fine la vera conquista di Matteo, in questi anni, se vogliamo mettere già un punto fermo a questo memoriale, è stata quella di aver sottratto la nostra definizione, e di averci trasformato in qualcosa senza nome, che non è la mafia, ma qualcosa di diverso. Cos’è? Boh. Fatta da chi? Boh.

Siamo spariti dal dizionario, grazie a Matteo, ma anche dalle Faq: mentre voi vi raccontate la favola bella delle coppole e dei pizzini, delle lupare e dei don, noi siamo già da un’altra parte. Dove? Boh. E tutto questo è merito di Matteo, ma siamo arrivati a capirlo solo molto dopo; sul momento nessuno di noi capiva la grandezza di idea che era, appunto, la «cosa senza nome» all’interno di Cosa nostra che si era inventata Matteo.

E c’era chi la chiamava Supercosa, la Cosa nostra di Cosa nostra, e tutti ci volevamo entrare, era il privé della mafia. Ma i pass li dava Matteo. E mentre noi ballavamo in pista, sulle rovine dell’Italia e sulle nostre, c’era questo salottino appartato, dove si prendevano le decisioni che contavano davvero e si guardava lo scanazzo. E fu trapanese l’idea della Supercosa.

Perché fu trapanese la deliberazione, l’organizzazione, l’esecuzione del programma dei mesi a venire, di quel ’92 che si annunciava, per usare un eufemismo, un po’ movimentato.

Fu in una di queste riunioni dell’élite di Cosa nostra messa su da Matteo che Riina disse una frase che oggi ci farebbero le magliette e le cartine dei cioccolatini – quelli dentro al tubetto – e la frase era: «È arrivato il momento in cui ognuno di noi si deve assumere le proprie responsabilità», come se fosse un Che Guevara siciliano. Minchia che solennità, sembrava che a parlare era un capo di Stato, un papa, un Rockefeller, Draghi.

E come si abbassò la temperatura nella stanza dopo quelle parole! Tutti sentimmo di nuovo freddo, mentre fumavamo le nostre sigarette; il freddo che avevamo nelle ossa dell’umidità dei rifugi e delle intemperie a cui la vita ci sottoponeva, noi che avevamo in comune con lo zio Totò la sfortuna di essere stati sventurateddri.

Solo Matteo sembrava non battere ciglio: aveva lo sguardo stanco ma concentrato dell’autista di un bus quando vede davanti a sé l’ultimo chilometro, prima del capolinea. E forse per non farci montare la testa, che sembravamo tutti gli ambasciatori di qualche governo di caprari esuli, il signor Totuccio aggiunse una frase in dialetto: «Chiddru chi veni ni pigghiamu».

Ma avrebbe potuto dire anche: «Soccu arrinesce si cunta», il siciliano abbonda di modi di dire e proverbi per commentare la fatalità della vita. Perché di questo si trattava: si navigava a vista, da quel momento. Ricapitolando. ù

Quel piano, che avevamo deliberato con le riunioni della Commissione regionale, e che aveva mosso i primi passi in un incontro organizzativo generale di Castelvetrano, trovò la sua attuazione nelle riunioni operative tra fine 1991 e inizio 1992, quando si cominciò a definire innanzitutto la missione da compiere a Roma per cercare di ammazzare qualcuno dei nostri obiettivi.

Se a Castelvetrano avevamo deciso di fare effettivamente quella spedizione nella Capitale, nei successivi incontri preparammo la cosa. E le regole erano due: armi tradizionali per l’attentato, esplosivo solo con il benestare di Riina. Solo che a un certo punto le riunioni cambiarono forma. E non c’erano più rappresentanti provinciali, inviati da Catania o Caltanissetta. Matteo aveva fatto il suo primo, invisibile, colpetto di Stato all’interno di Cosa nostra.

Dato che eravamo in modalità operativa, non è che potevamo sentire il parere di ognuno pure per decidere con che auto muoversi a Roma, no? Ecco allora che i ritrovi, proprio perché erano operativi, furono composti da un gruppo di mafiosi fedeli a Riina e Matteo. Con loro c’erano infatti Salvatore Biondino, Vincenzo Sinacori, Giuseppe e Filippo Graviano. Eccola, la Supercosa. E anche lì, per fare sentire tutti coinvolti, ognuno il suo compito ce l’aveva.

Matteo aveva dato l’incarico a Vincenzo Virga di trovare l’esplosivo, che proveniva dalle cave di Custonaci e che era arrivato a Roma grazie a un camion messo a disposizione da uno di Mazara del Vallo, un certo Battista Consiglio, che era un uomo di cui noi ne facevamo uso e consumo.

Tanto che a Mazara era venuto Gioacchino Calabrò, uomo d’onore di Castellammare del Golfo, che faceva il carrozziere, e aveva costruito un’intercapedine dentro il camion di Consiglio. A proposito di Mazara, poi, Mariano Agate aveva messo inizialmente a disposizione un suo appartamento che aveva a Roma.

A Vincenzo Sinacori, che era per Matteo proprio un caro amico, e che era nel gruppo di fuoco, pur non rappresentando la famiglia di Mazara, furono dati incarichi delicati: portare a Roma le armi, fucili, pistole, e kalashnikov, e parlare con le famiglie napoletane e con Ciro Nuvoletta, per coinvolgerli nella missione. Francesco Geraci, il giovane gioielliere di Castelvetrano amico di Matteo, era stato già avvisato che avrebbe dovuto partecipare alla missione romana, anche se lui non era uomo d’onore.

Ma Matteo aveva già cominciato a invertire le regole, inventarne di nuove. «Geraci ci serve – ci aveva spiegato – perché è una persona pulita, non lo conosce nessuno come uomo d’onore». E fu in occasione dell’ultimo incontro, prima di partire per Roma – quando Agate doveva darci le chiavi dell’appartamento, e le armi e le munizioni erano nascoste a casa di Antonio Scarano – che Riina e Matteo ci dissero che quello che avevano costituito non era solo un gruppo di lavoro, ma qualcosa di estremamente importante e riservato, e doveva intendersi come una «Supercosa».

Erano le settimane in cui per noi dal dottore Falcone arrivavano notizie una più brutta dell’altra, e l’ultima era che aveva inventato una Super Procura contro la mafia, una specie di crema della crema degli investigatori e dei magistrati. E noi, allo stesso modo, avevamo creato questa Super Cosa, fatta solo da persone scelte da Riina e Matteo che rispondevano solamente a loro, senza il filtro del capo mandamento.

Non volevamo scimmiottare quello che faceva il dottore Falcone, ma su questo Matteo era chiaro: se volevamo sopravvivere, per tutto quello che sarebbe accaduto da lì a breve, non potevamo continuare con le regole di prima, le famiglie, i mandamenti, le mega riunioni e i fine settimana a cacciare lepri e a mangiare ricci. Basta.

Bisognava essere rapidi, silenziosi, fare circolare le informazioni il meno possibile, anche perché in giro c’erano già tanti pentiti, e altri ne sarebbero arrivati. Non c’era bisogno che i capi mandamento sapessero tutto.

Questo gruppo, aveva concluso Matteo, è un gruppo di persone che è meglio che essere uomo d’onore. Un gruppo che organizza pure le gite, tipo agenzia viaggi. La più importante, dicevamo, a Roma. Bisognava partire. E partimmo

La riunione della Cupola a Natale del 1991, così iniziò il gioco di fuoco

Incontro dopo incontro si arrivò alla famosa riunione, quella di Natale dell’anno 1991. Che poi era una tradizione, la facevamo ogni anno. Solo che c’era tanta malinconia nell’aria.

Per quanto ci scambiassimo gli auguri di presenza – riportando quelli di chi non poteva esserci, per opportunità, per latitanza, per malattia o perché era ospite dello Stato –, e ci rallegrassimo della nostra buona salute, non credevamo a una sola parola di quelle bugie di circostanza sulla prospettiva di un felice anno nuovo.

I più sentiti auguri di buon Natale a lei e famiglia, riferisco, e tante care cose, grazie, un bacio per guancia. Era tutta una finzione, perché il rumore del passo zoppo della giustizia cornuta ci inquietava e sembrava annientare il battito del nostro cuore: lenta e inesorabile, davvero quella volta si stava avvicinando a levarci il sonno e il benessere. Ogni capo mandamento passava dieci minuti con la Commissione di Cosa nostra, e poi ci sedevamo tutti al completo.

Non ci consolavano né i dolci di ricotta, né il passito mieloso che mandavamo giù a piccoli sorsi interrotti da sospiri di ansia. Ci davano noia persino le frasi fatte sulla pioggia che mancava, o sui tempi andati. Volevamo arrivare subito al punto. E anche Matteo era inquieto. E Riina nella sonnolenza del dopo pranzo, con gli occhi a passulune, si lasciò dire una frase, che era: dobbiamo chiudere i conti. Ci guardammo tutti per un istante. Di chi sarà il turno adesso, ci chiedevamo, c’è un traditore tra noi? E quindi, ancora una volta, qualcuno dal nostro pranzo non avrebbe fatto ritorno al paese suo. Ma Riina parlava con noi, non parlava di noi. Bisognava chiudere i conti.

Durante quella riunione stavamo muti ad ascoltare zio Totò. Matteo ci controllava a vista. Non voleva esitazione nei nostri sguardi, dubbi nelle nostre smorfie, perplessità nei nostri tic. Con quell’occhio leggermente strabico, sembrava giocare a «Un, due, tre, stella»; se il suo sguardo cadeva su di te, e scorgeva anche un minimo movimento, ti poteva finire male.

I tagliancozzi con il marsala erano acidi nei nostri stomaci, e nel silenzio del malaseno si sentiva il borbottio di qualche succo gastrico, un principio di gastrite. Sussultavamo per il rumore dei rami che ogni tanto graffiavano le imposte, spinti dallo scirocco che rendeva le bocche asciutte.

Qualcuno magari avrebbe voluto parlare, dire qualcosa, ma calò un freddo improvviso nella stanza, un’aria così glaciale che le parole ghiacciavano ancora prima di uscire dalla bocca, e il nostro alito faceva un vapore quasi come un arabesco che condensava tutti i progetti di morte.

Tra noi, Nino Giuffrè fece un gesto, come per dire qualcosa, una mano che stava per alzarsi, un leggero raschio della gola come a mettere ordine alle parole. Raffaele Ganci, accanto a lui, gli diede un colpo con il ginocchio e lo guardò dritto negli occhi. In quello sguardo tutti leggemmo l’avviso: «Statti muto». Riina sapeva che sarebbe finita male ancora prima di quella sentenza della Cassazione.

Doveva andare bene e invece andava male, ripeteva, come un ossesso. Bene, male. Bene, male. E pensare che lui personalmente ci aveva rassicurato che avrebbe aggiustato il processo. E Matteo pure era persuaso: vedrete, vedrete, diceva. E lo stesso Matteo quando poi lo interrogavamo per cercare di capire meglio il senso di quell’oracolo, quel fare la guerra che si profilava all’orizzonte dell’anno nuovo, ci diceva: ognuno si aiuti come può.

“Il gelo nella stanza”

Calò un gelo improvviso nella stanza. Nessuno osava alzarsi, muoversi, interrompere quello che stava facendo. Chi aveva gli occhi a terra, continuava a tenerli, chi, con la testa calata, guardava il signor Totuccio, continuò a fissarlo, chi guardava il muro con gli occhi aperti come la civetta, continuò in quella sua espressione ebete. Una mosca testarda tirava colpi alla finestra.

Prendeva la rincorsa per poi schiantarsi contro il vetro con forza. Matteo con lo sguardo controllava tutti, lentamente spostava la testa, quasi volesse pesare ogni nostro respiro. Qualcuno di noi era come in trance. Nessuno fiatava. Neanche quando ’u cristianeddru, per spezzare quel silenzio, aggiunse: «Siamo al capolinea».

Che lui intendeva la resa dei conti, ma anche Matteo, se avesse parlato, avrebbe utilizzato la stessa espressione, perché vedeva il capolinea, davvero, nel senso del «Signori, si scende» delle ultime corse della notte, per Riina e tutti gli altri. E già pregustava il nuovo corso, quello che sarebbe nato dalle rovine, i nuovi patti silenziosi e pieni, i nuovi affari.

Stiamo parlando del dottore Falcone, minchia, mormorò qualcuno più tardi, stiamo parlando dell’onorevole Lima, buttanalamiseria, stiamo parlando di personaggi di un’importanza notevole. Chiddru chi veni ni pigghiamu, tagliò corto lui. Quello che viene ci prendiamo.

Eravamo di fronte alla grande sconfitta di un capo che era convinto che sarebbe riuscito ad aggiustare le cose, e che invece andava incontro a una disfatta totale, e, come nella storia di Sansone che muore con tutti i filistei, aveva deciso di portarci tutti nel baratro con lui, ma con il nostro assenso. Ma sì, disse il primo, è l’ora della vendetta. Basta nasconderci, aggiunse un secondo.

Facciamo vedere chi siamo, arrivò chiaramente da una voce in penombra. Qualcuno lasciò partire un applauso, qualcuno si alzò in piedi, ad altri ancora si illuminarono gli occhi. Il piano stragista era divenuto il nostro piano. Non temevamo più l’avvicinarsi dei demoni. E a Matteo gli occhi brillavano ancora di più. Qualcun altro, con voce un po’ incerta, quasi avesse timore di interrompere la bella atmosfera che adesso c’era, disse: «Picciotti, se permettete dobbiamo passare a parlare del fatto di Ocello».

Ce ne eravamo dimenticati. Pietro Ocello, capo mandamento, era stato ucciso. Bisognava provvedere, trovare un sostituto, vedere se andava bene il nome di Benedetto Spera. Passammo a parlare di questo, business as usual, avrebbero detto gli inglesi.

Concludemmo con gli auguri di Natale, prima quelli di Riina a ogni capofamiglia, e poi un brindisi finale, esortandoci l’un l’altro a fermarci ancora un po’, altri cinque minuti, senza fretta: «Facciamoci le buone feste come si deve. Siamo persone per bene, manteniamo le tradizioni».

Le manie di grandezza dei boss di Castelvetrano, armati come un esercito

Le auto blindate ce le avevano anche molti di noi, soprattutto quelli che più si scantavano che li facevamo fuori, e allora ricorrevano a una specie di scorta, e all’auto blindata fatta venire da fuori. E a volte accadeva che magari noi non lo sapevamo che dovevamo fare a uno, ma quello cominciava a girare con l’auto blindata e, insomma, si mangiava la polvere – excusatio non petita, come dicono i latini –, e quindi ci toccava ammazzarlo. Nell’indifferenza generale, avevamo trasformato il nostro territorio in una santabarbara. Lo facevamo da tempo.

Accumulavamo armi come facevano i nostri padri e i nostri nonni, o come da ragazzini facevamo razzia di fuochi d’artificio per le masculiate delle feste del santo del paese, e che a noi invece servivano per i nostri primi crudeli esperimenti sui gatti. Perché c’era sempre bisogno di armi, in Sicilia. Per difendersi dallo stato, per attaccare, in caso qualcuno ci avesse dato l’ordine, per fare la rivoluzione o per impedire di farla, non importa.

Avevamo i pezzi. Ed erano pronti all’uso, perché i più giovani, da noi, prima ancora che con gli omicidi, le sparatine, con gli incendi e le ammazzatine, cominciavano la loro carriera in Cosa nostra così, pulendo le armi, mettendo il grasso o il petrolio, per togliere le ossidazioni, levare i residui di polvere da sparo e le incrostazioni.

E poi bisognava fare l’inventario di pallottole e munizioni. E l’inventario era un compito noiosissimo ma fondamentale, come in quel film sul karate dove c’è il giovane che fa «dai la cera e togli la cera» per imparare a combattere. Valeva anche per noi.

Come diventare un “buon mafioso”

Se volevi diventare un buon mafioso, non ti servivano né la punciuta, né la prova del fuoco – quella prima o poi veniva per tutti – ma, semplicemente, dovevi dimostrare di essere in grado di tenere in buone condizioni un fucile, saper passare il grasso su un mitra, contare i sacchi di esplosivo, e tenere il conto delle famiglie alle quali le armi appartenevano, perché tutto era in comune, è vero, ma ogni famiglia a tempo debito poteva anche – per cortesia – reclamare il suo; e se, ad esempio, Matteo voleva quelle pistole a cui lui teneva tanto, perché un giorno gli andava di fare un omicidio così, con un’arma piccola, e ’sta pistola non spuntava fuori, erano dolori, e capace, non stiamo babbiando, che poi la pistola era per te.

Dalle istruzioni per la manutenzione delle armi, passavamo poi a quelle per gli omicidi. Le armi andavano provate, prima. Perché, a meno che uno non nasce imparato, come Matteo, sparare a un uomo non è affatto facile. Poi bisognava capire quante persone dovevano essere a farlo: due con una moto? Una squadra per bloccare la strada? I colpi dovevano essere vicini, certo, ma non troppo, per evitare gli schizzi di sangue, che erano sempre una camurria. Nell’esecuzione da manuale, i colpi erano sempre tre: uno per fare cadere la vittima a terra, il secondo per ferirla, il terzo in testa per finirla. Senza ferocia, senza accanimento: non siamo gente cattiva.

Ma siccome c’erano sempre impirugli, un conto era il manuale, un conto era la realizzazione. Avevamo depositi dappertutto, e senza particolari precauzioni. Non c’erano caveau, né doppifondi segreti. Ci servivamo delle cave tra Mazara e Marsala che non avevamo ancora riempito di rifiuti, ma che utilizzavamo allora come deposito per armi, auto rubate, carcasse, o come alloggio di fortuna – con una brandina e una cassa d’acqua –, per qualche regolamento di conti o come poligono di tiro per le nostre esercitazioni. Avevamo depositi negli impianti di calcestruzzo, nei magazzini dei nostri frantoi, nei garage dei palazzoni alla circonvallazione di Palermo, vicino l’ospedale, in edifici storici abbandonati, nelle cisterne di acqua che assetavano i campi, nelle stalle, nelle cappelle, nei pozzi. […].

Noi avevamo i depositi di armi da apparecchiare come presepi. L’ambaradan è lo stesso, e comprende le lucine degli alberi, magari, i cavi e i cavetti per fare l’effetto dell’acqua che scorre, e il cartone pressato per le montagne; insomma, tutto un corredo di cose, di cavi e detonatori, di mirini e silenziatori. E avevamo anche i telecomandi.

I telecomandi camminavano a coppia, come i carabinieri. Uno era ricevente, l’altro trasmittente. Li mettevamo in sacchetti separati, per non confonderli. A Palermo, in Piazza Maio, in un deposito messo a disposizione dalla famiglia di San Lorenzo, ne avevamo ben cinque coppie.

Una venne utilizzata per la strage di Via D’Amelio. Due vennero distrutte dopo la strage per evitare che fossero trovate. Le altre due le prese Matteo, insieme ad alcuni detonatori. Li nascose nella sua Alfa 164 che faceva invidia a tutti per come l’aveva personalizzata che manco Diabolik.

Aveva una specie di portabagagli segreto, che apriva con un pulsante. E una volta aveva chiesto a un amico suo meccanico di fare quella cosa che si vedeva nei film di 007, con i fari che si giravano e diventavano dei mitra. Ma l’amico suo ci aveva provato e riprovato e non c’era riuscito. E poi era sparito. Si vede che tanto amico non era.

Rocco Chinnici e Giovanni Falcone, quando la mafia comincia ad avere paura

E se non si può comprare, allora bisogna conoscerlo meglio, perché i primi a essere in vendita sono quelli che ti dicono che «la libertà non ha prezzo», eccetera, e tutti hanno un prezzo, perché tutti, semplicemente, desiderano; e a chi non gli piacciono le femmine gli piacciono gli uomini, o magari gli animali, o magari giocare a carte la sera e mangiarsi lo stipendio e il villino a Mondello.

Non dovete pensare che era difficile, anzi, era pure economico. Perché noi lo avevamo capito da subito: corrompere un giudice può costare caro la prima volta. Dalla seconda in poi, è gratis.

E quindi Falcone lo seguivamo, quasi gli facevamo la corte, da quando si unì al gruppo voluto dal dottore Rocco Chinnici a Palermo, per fare il pool antimafia – come lo chiamavano. E poi dopo che a Chinnici i palermitani gli hanno messo la bomba, ecco spuntare Antonino Caponnetto, e il dottore Falcone sempre lì. Questa cosa del pool a noi aveva cominciato a preoccupare, sempre per quel fatto che noi come Cosa nostra eravamo prima di tutto criminalità organizzata, e in questo aggettivo c’era tutto.

La magistratura, invece, era disorganizzata, per usare un eufemismo. Ognuno che si faceva i cazzi suoi, colleghi che si odiavano, magistrati che si imboscavano, o che pensavano a sistemare le amanti. Quelli, invece, quelli del pool, avevano cominciato a ragionare come… la criminalità organizzata! Si davano i compiti, condividevano le informazioni, mettevano insieme le carte. E così, mettendo insieme i fatti, arrivarono a capire che non c’erano bande in sciàrria, a Palermo, ma famiglie unite, con un capo, un quartiere o un paese, e i capifamiglia, e i capiprovincia.

Ci hanno fatto i raggi X, quelli del pool. Adesso anche loro giocavano di squadra come noi. E studiavano i fatti di prima, e i fatti di dopo, e le minchiatine come le cose serie. Cominciarono a occuparsi meno degli omicidi e più dei soldi, e a fare vai e vieni dalla Svizzera, come dall’America.

E si arrivò a questo rapporto di carabinieri e polizia, anche loro insieme, del 12 luglio 1982, con la storia di Michele Greco e di altre 160 persone, con gli omicidi, la droga, le estorsioni. Tutto messo insieme.

Masino Buscetta il “tragediatore”

L’Italia festeggiava la Coppa del mondo che avevamo vinto il giorno prima ai Mondiali in Spagna, contro la Germania. E loro anziché scendere in piazza e fare casino, che ogni tanto per finire e firmare quell’inchiesta. E poi ci furono altri rapporti, altre indagini; ci si mise pure la Finanza a fare accertamenti. Ecco perché i palermitani decisero che era il caso di uccidere il dottore Chinnici. Ma non servì a nulla.

Anzi, quelli continuavano più di prima: arrivavano alla Spagna, ai gruppi napoletani, ricostruirono omicidi, scoprirono la camera della morte, come la chiamarono i giornali, che poi era il posto dove interrogavamo e poi torturavamo le persone.

E i giornali cominciarono a parlare degli incaprettamenti, che prima si strozzavano le persone, e dopo gli si faceva passare la corda attorno al collo e gli si piegavano le gambe, a tirare, che lui, pure magari se era ancora vivo, non poteva muoversi. E poi si misero addosso ai cugini Salvo, quelli di Salemi, e per un attimo ci tremarono le gambe, che se la cavalleria entrava nella nostra provincia, in quel momento, ci trovava tutti impreparati.

Ma noi non interessavamo, per fortuna: è come a Monopoli, quando ti fermi su un terreno e non lo compri, poi magari ti penti perché scopri che era invece strategico per la vittoria… E quindi ci fu «Pizza connection», che fu un terremoto per le famiglie americane, e le indagini si spostarono sui catanesi e il giro di droga dal medioriente. E se tutto questo sembrava tanto, il peggio doveva ancora arrivare. E arrivò con un aereo.

Il 14 luglio 1984. Non era l’aereo che negli stessi giorni aveva portato Diego Armando Maradona da Barcellona a Napoli, nel tripudio della città intera. Questo aereo veniva dal Brasile. Portava uno dei nostri che era stato arrestato, e che aveva deciso di parlare.

Si chiamava Masino Buscetta. Due giorni dopo già riempiva verbali. Su Cosa nostra, la guerra, i Corleonesi. Un tragediatore. Anche qui, dobbiamo precisare una cosa. Buscetta non era il primo che cantava. È diventato il più famoso, certo, ma come lui, tragediatori, ce n’erano stati a decine, prima. Altri uomini che avevano tradito gli amici, la loro famiglia e se stessi cantando con la polizia.

Non c’era stato ad esempio Giuseppe Di Cristina, che pareva che non trovava pace se non fermava i Corleonesi, e aveva cantato tutto a un carabiniere, nel ’78? Gli aveva spiegato per filo e per segno cosa avevano intenzione di fare, quanto erano diversi: oggi la definiremmo una «variante più aggressiva di Cosa nostra». Ma non fu ascoltato.

La vera novità, adesso, è che per la prima volta c’erano orecchie intente ad ascoltare, c’era qualcuno che verbalizzava non per cestinare od occultare, non per riempire di omissis o depistare, ma, davvero, per prendere appunti, capire, cercando una sintonia. Fino al mandato di cattura del 29 settembre 1984: Abbate Giovanni + 365. In pratica uno per ogni giorno dell’anno.

Lo chiamarono «blitz di San Michele», perché era la festa di San Michele Arcangelo, quello con la spada, che era un po’ il nostro protettore, e invece giusto giusto andò a capitare quel giorno. Noleggiarono anche un aereo, un Dc-9, per portare gli arrestati in carcere. Ai tempi lo Stato era capace anche di quello. Oggi invece neanche c’è la benzina per le volanti, altro che aerei. […]

Matteo in missione nella capitale, tra piani di morte e dolce vita

Come dice un vecchio adagio, puoi portare una persona fuori da un luogo, ma non un luogo fuori da una persona. Che avrà in testa il capo – pensammo – noi che siamo bravi solo a sparare, a strangolare, a prendere a lignate; non sono cose che si fanno con il vestito buono della domenica, né con le scarpe marroni: fai uno e basta, finisce lì, anche perché quasi mai è una cosa pulita, e poi i vestiti o sono sporchi di lanzo o di piscio – perché la gente, voi non lo sapete, ma quando la strozzi mica tira l’anima via in un colpo e amen! Quello si muove, si contorce, grida, vucia, e poi se la fa sotto perché, ricordatelo, è intessuto di merda l’animo degli uomini: quella esce, dopo l’ultimo rantolo.

Non l’anima, non il vapore, non la voce degli angeli, ma, semplicemente, merda – oppure se dai fuoco a un’auto, o a una casa, e aspetti che la vampa si accenda e salga – e, cari miei, dipende come tira il vento – i vestiti si impuzzano, che il giorno dopo li puoi andare a buttare.

Però Roma è Roma, ci siamo detti, e capace che nelle città grandi gli omicidi si fanno in abito da sera. Ma in realtà il nostro Matteo aveva un piano – ha avuto sempre un piano – ed era quello di farci fare la bella vita a Roma. Ecco perché ci voleva eleganti.

Perché si andava nei bei locali la sera, e in bei negozi a fare shopping, nelle belle vie a passeggiare e a fare girare la testa alle ragazze; ma solo quello, perché avevamo una missione – elegante, sì, ma pur sempre una missione – tra gli sciacalli e le iene, gli uomini di potere, molti dei quali divenuti tali grazie a noi, che affondavano voraci i loro denti nella carne putrida di quella che chiamavano cosa pubblica.

E c’era anche il nostro amico Francesco Geraci nella banda dei gitanti, il gioielliere, quello che una volta Matteo aveva aiutato per una vicenda di un’estorsione, e da allora gli era rimasto legato e aveva cominciato anche lui a partecipare agli omicidi, alla guerra, alle gite fuori porta. Ed era stato utile alla causa.

Un giorno il signor Riina in persona lo aveva chiamato, e gli aveva detto: so che sei bravo picciotto, e amico di Matteo, e che hai una gioielleria; io ho un po’ di cose da conservare, non è che hai una cassetta di sicurezza, qualcosa per me? E lui gli aveva addirittura fatto costruire, sotto la sua gioielleria, un piccolo caveau, con tanto di ascensore, dove i Riina avevano messo di tutto: i collier della signora Bagarella, gli orecchini di Lucia, gli orologi Cartier, e pure delle spille di Italia ’90 tempestate di diamanti, e Geraci ci aveva confidato che, a occhio e croce, tutto questo bendidio valeva tipo due miliardi di lire.

E un pomeriggio Matteo lo va a trovare e gli racconta del progetto degli attentati ai personaggi famosi. Baudo, Costanzo, Martelli, Santoro, gli dice, in preciso ordine alfabetico, per non fare disparità. E se capita, anche Enzo. Biagi, aggiunge. «E per fare cosa?» gli chiede il gioielliere. E Matteo: «Dobbiamo creare scompiglio, caos, destabilizzare». Francesco sta in silenzio e poi gli dice: «Buono è». Geraci in effetti ci serviva per tantissime cose, ci completava.

Anche questa, se ci pensate, è stata un’idea geniale di Matteo: non portarti, per una missione delicata, un tuo simile, un clone, uno che obbedisce e basta. Portati uno che sa cose che tu non sai, che aggiunge esperienza, know-how, come si direbbe nei corsi moderni dove si parla tutto in inglese. E in effetti ancora prima di partire Geraci ci disse: «Picciotti, io ce l’ho un posto dove possiamo andare a comprare roba buona per il viaggio». E il posto era Alongi, in centro a Palermo. Alta moda, roba fina.

Solo lui spese circa 12 milioni di lire, roba da sticchio e quasette di seta. Oggi al posto di Alongi c’è un negozio che vende i mattoncini per le costruzioni, che costano quanto un abito da sera. Segno dei tempi, certo. […].

Roma, 24 febbraio 1992

E partimmo dunque per Roma, il 24 febbraio del 1992. In quel giorno, pensate, nasce in Italia la Protezione Civile. E noi ci sentivamo un po’ la protezione civile di Cosa nostra, corpi scelti per accorrere dopo un cataclisma, ma con idee più originali del piantare baracche e tende e si salvi chi può.

A Roma non andavamo totalmente impreparati, perché qualche mese prima, in gran segreto, in estate, erano venuti a Roma Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella per seguire i movimenti del dottore Falcone e per capire se si poteva fare qualcosa.

Per Bagarella era anche facile, dato che aveva il soggiorno obbligato proprio in provincia di Roma, a Monterotondo. E avevano scoperto dove il dottore mangiava solitamente la sera e che ogni tanto si faceva qualche passiata da solo, senza scorta. Poi Brusca era tornato, e aveva cominciato a fare altri sopralluoghi: ad esempio per capire a che velocità viaggiava l’auto del dottore Falcone in autostrada, quando dall’aeroporto doveva andare a casa sua a Palermo, in Via Notarbartolo. E un’altra squadra ancora, guidata da Raffaele Ganci e Salvatore Cangemi, stava invece studiando la possibilità di un attentato proprio sotto casa a Palermo, magari con un’autobomba.

Partimmo ognuno con un mezzo diverso, piccoli accorgimenti per non dare nell’occhio. Che poi noi abbiamo sempre contato, oltre che sulla nostra organizzazione, anche sulla pigrizia di chi avrebbe dovuto controllarci. Ma si guardava dappertutto, tranne che in provincia di Trapani. E così Sinacori partì con l’aereo, e il biglietto lo fece un po’ storpiato: Vincenzo Rinacori, con la erre. Tanto bastava.

Matteo, invece, al quale sarebbe bastata come lasciapassare la sua stessa faccia, aveva una carta di identità falsa, a nome Matteo Messina, e sì, si era sprecato anche lui a fantasia, ma ve lo diciamo davvero: nessuno si interessava a noi; era quasi per prendere per il culo tutti che cambiavamo iniziali e consonanti, quasi fosse La pagina della Sfinge della Settimana Enigmistica. Matteo, tra l’altro, venne in auto con Geraci.

Altri ancora in treno. Ogni volta che partiva per il continente, Matteo rifletteva sempre su questo fatto, e cioè che il traghetto che faceva la spola tra la sponda siciliana e quella calabrese si chiamava Caronte. E si chiedeva se quel nome, di quel traghettatore infernale, lo avessero messo apposta o no. E man mano che il traghetto si allontanava dalla Sicilia, lui percepiva come un sipario leggero che si alzava, un fiato di estraneità. L’isola da una parte, e poi il resto del mondo. Anche se all’inizio era soltanto Calabria.

Dunque, c’erano Vincenzo Sinacori e Renzo Tinnirello, detto ’u Turchiceddu, perché era scuro scuro di carnagione e sembrava proprio un turco, e poi Giuseppe Graviano e Fifetto Cannella, che tutti chiamavamo Castagna, perché preciso al presentatore televisivo. Dei Graviano vi abbiamo parlato? I fratelli Graviano erano i capi mandamento di Brancaccio, su decisione del signor Riina.

Prima aveva messo a capo Benedetto, il fratello più grande. Poi, siccome non lo vedeva sveglio, gli aveva affiancato Filippo e Giuseppe. Prima ancora il mandamento era a Ciaculli, poi c’erano stati degli arresti, e il signor Riina aveva detto: questi di Ciaculli sono quelli che ci hanno portato sempre danno a Cosa nostra… Addirittura qualcuno lo avevo sentito dire che ci voleva portare un trattore, che voleva portare il paese tutto a suolo, diciamo. E quindi poi appunto aveva deciso così: questo mandamento non si chiama più Ciaculli, si deve chiamare Brancaccio. Giuseppe Graviano era legatissimo a Matteo Messina Denaro. E lo avevamo capito da alcune cose.

Come quella volta che Matteo gli fa al nostro amico gioielliere, Geraci: «Mi devi trovare una collana per un regalo importante, una cosa che vale almeno cento milioni di lire». «Ma è per te, Matteo?». «No, per un amico. Ma i soldi te li do io». Ed era vero. La collana non era per lui, ma per Giuseppe Graviano, che la doveva regalare alla sua zita e aveva chiesto la cortesia a Matteo di vedere un po’ lui, tramite le sue conoscenze.

Geraci trovò la collana e gli fece pure lo sconto: 50 milioni. Pagava Matteo. Graviano fece un figurone. E quando andò da Matteo per dargli i soldi che aveva anticipato, quello non ne volle sapere: «Ma stai scherzando? Noi siamo amici inseparabili».

E dalle cave di Mazara era partito anche l’esplosivo che doveva servirci nel caso in cui avremmo voluto fare una cosa non pulita, ma di quelle potenti, con il botto. Matteo in quei giorni era inquieto. Prima parlava di Maurizio Costanzo e ci diceva che anche lui doveva saltare in aria perché in televisione parlava male dei mafiosi.

C’era stata infatti questa cosa del commerciante ucciso a Palermo, l’estate prima, quello che faceva pigiami e non voleva pagare il pizzo, e Costanzo e l’altro, Michele Santoro, avevano fatto pure una puntata speciale, che manco se giocava il Palermo in coppa Uefa. Poi invece cercava di capire i movimenti del dottore Falcone, che in quel periodo aveva preso servizio al ministero della Giustizia.

Poi ancora era convinto che gli agguati da fare erano tanti. E poi c’era questo Scarano, che nessuno di noi conosceva, e fu uno dei tanti conigli che Matteo, come un prestigiatore, tirava fuori dal suo cilindro. Non sappiamo come si erano conosciuti, ma dal momento in cui ce l’aveva presentato per noi era diventato uno dei nostri, come Geraci.

Era calabrese, Scarano, ed era già stato in carcere tre anni per furto, e in carcere aveva conosciuto il boss Stefano Accardo, di Partanna. Ne era nata un’amicizia, e lui, dopo che era uscito, era andato anche a trovarlo, e si era fidanzato con una picciotta di Partanna. E Accardo gli aveva anche preso una casa al mare alla Triscina, tanto ormai erano amici, e gli aveva anche presentato Matteo, un giorno.

E quando Scarano ci raccontava l’inizio di questa loro amicizia, diceva che, la prima volta che l’aveva visto, mica aveva capito che era ’u Siccu in persona; gli sembrava uno studente: magro, alto, con gli occhiali. Invece in poco tempo si ritrovò coinvolto nella guerra di mafia, con Matteo che gli aveva fatto fare anche due omicidi, giusto per provarlo sul campo.

Era stato Scarano a trovare l’altro appartamento a Roma per noi, il secondo, dove andammo a stare dopo aver scoperto la topaia che era quella «bella sistemazione» che Agate ci aveva promesso e che invece sarebbe stata schifiata pure da una buttana di Campobello. Era stato sempre lui a nascondere le armi nel suo scantinato. E, come sempre, non sapeva nulla, se non che doveva obbedire a Matteo. E quando tutto fu sistemato, Matteo gli disse: ora vattene, e non tornare più qui.

Se ho bisogno, mi faccio vivo io. Il primo appartamento romano era in Viale Alessandrino, e apparteneva a un dentista, La Mantia, che era originario di Mazara e amico di Mariano Agate. Manco a farlo apposta (o fu fatto apposta? ah, saperlo…), Mariano Agate aveva trascorso un periodo di soggiorno obbligato a Roma, e lì aveva incontrato La Mantia per avere poi l’appartamento.

Solo che, minchia, arriviamo là, e ok, noi non è che volevamo l’appartamento extralusso con la Jacuzzi nella stanza da letto e il televisore a cinquanta pollici, ma, minchia, manco i cessi funzionavano! Manco acqua corrente c’era. E quando arrivammo tutti a Roma, ci demmo appuntamento alla Fontana di Trevi per confonderci tra i turisti, perché per noi quello era il posto turistico per eccellenza di Roma. E la prima questione fu quella dell’appartamento.

Chi era arrivato un paio di giorni prima aveva fatto un’esperienza terribile, non si poteva stare. «Non vi preoccupate, c’è Gesù» disse Matteo. Qualcuno di noi pensò a un’improvvisa crisi mistica del nostro capo, che magari credeva in un Gesù tubista che miracolosamente allacciava acqua e corrente con una preghiera, ma in realtà apprendemmo subito che il Gesù di Matteo si chiamava Giacomino, ed era un altro siciliano a Roma, amico di Scarano, che ci venne presentato tra l’altro la prima volta da Matteo proprio di fronte alla Fontana di Trevi.

E questo Giacomino Gesù, contattato da Matteo e Scarano, metteva a disposizione un appartamento con tre camere da letto, un bel salotto con le tende, sempre in una zona buona, e provvisto anche di una bella cucina, cosa che a noi importava poco perché avremmo sempre mangiato fuori, ma era meglio averla, no? La casa era della mamma di Gesù, che non sappiamo se si chiamava Maria, e avremmo magari potuto chiederglielo, però la signora era in Abruzzo da dei parenti e proprio per questo la casa era libera.

Quel Gesù fu molto generoso con noi, e per sdebitarci gli regalammo un po’ di cocaina, così magari se la vendeva e ci tirava su due lire, o faceva un miracolo come il suo omonimo e la moltiplicava come con i pani e i pesci, e ci poteva campare una vita. Amen. E quindi una prima cosa era sistemata.

Le armi e l’esplosivo ce l’avevamo sempre dietro, tipo coperta di Linus. Avevamo scelto tutto con cura, e siccome si trattava di cose importanti non poteva che essere la provincia di Trapani il posto dove cercare.

E così da alcune cave abbandonate, tra Mazara e Castelvetrano, che utilizzavamo come magazzini per quando avremmo dovuto scatenare la guerra, venne fuori l’esplosivo, e poi le armi. Mitra, kalashnikov, fucili. Quindici pezzi, tutti ben conservati, unti di grasso, che ci abbiamo messo ore a pulirli con la benzina, la nausea che ci saliva in testa, e poi, siccome bisognava essere precisi, li abbiamo provati personalmente con Matteo, tra gli uliveti di Castelvetrano, con lepri e piccioni martoriati in nome della nostra efficienza.

E Matteo aveva anche due pistole sue, belle cromate e nuove, e avrebbe voluto provare anche l’esplosivo, ma i mazaresi gli avevano detto che si poteva fidare, e andava bene così.

 

E Totò Riina ordinò: «Tornate in Sicilia, ci sono in ballo cose più grosse»

Le armi – come accennato – erano poi arrivate a Roma a bordo di un furgone frigo che era stato modificato per nasconderle. Arrivò dalla Sicilia Giovan Battista Consiglio con il figlio, che gli aveva fatto compagnia durante il viaggio dato che lui ormai aveva una certa età, e non immaginava tutta la santabarbara che stava nascosta nel camion.

Lo abbiamo aspettato al raccordo anulare, poi da lì siamo andati presso un capannone abbandonato, abbiamo sceso armi ed esplosivo e abbiamo caricato tutto nella macchina di Scarano, che lui si sarebbe portato tutto a casa e nascondeva la roba nello scantinato, tra le damigiane con l’olio buono, gli attrezzi e le cianfrusaglie di sua madre.

Poi abbiamo noleggiato un’auto, una Y10 bianca, targata Roma, con la carta di credito di Geraci che era l’unico ad avere la fedina penale bianca come quell’auto. E diciamo anche che quella carta di credito l’abbiamo prosciugata, in quei giorni. Noi lo prendevamo in giro: Minchia, Gerà, se eri in viaggio di nozze o te ne andavi a buttane ’sto viaggio ti costava meno! Ma Geraci non diceva nulla, anche perché già prima del viaggio aveva dovuto dare su ordine di Matteo 20 milioni di lire a Scarano per il disturbo.

Noi intanto spendevamo: in Via Condotti abbiamo comprato camicie e cravatte, perché ci piaceva fare i pedinamenti eleganti, se no ci avrebbero sgamati subito; Matteo si comprò anche un cappotto colore cammello come in quella canzone «che al Maxiprocesso eravate ’u chiù bello», uè.

Da lì cominciammo a cercare: Falcone, Martelli, Costanzo. Un po’ in Via Arenula, dove c’è il ministero della Giustizia, un po’ nelle zone di Parioli. Siamo stati in giro per una decina di giorni. E, dobbiamo dire, senza grande successo. Ogni mattina si partiva con l’auto, a turno, si andava in Via Arenula, e ogni sera si giravano le zone di Trastevere per capire dove andasse a mangiare il dottore Falcone, se era al Matriciano, o alla Carbonara, o da Sora Lella, o nel locale preferito di Matteo, il ristorante Dei Gracchi.

Eravamo convinti che li avremmo incontrati. Geraci e Sinacori erano quelli che seguivano Costanzo, con l’auto, tra le strade di Roma. Un giorno li ha fermati la polizia. Patente e libretto, prego, come mai a Roma? Faccio il gioielliere, dice Geraci, sono a Roma per incontrare un grossista e per caso ho incontrato questo compaesano mio, ci stavamo facendo un giro. Potete andare, buona permanenza. Grazie.

Per due o tre sere siamo stati a Parioli, abbiamo anche seguito i movimenti di Costanzo, ci mettevamo all’uscita del teatro dove registrava il suo programma, a un certo punto sembravamo quasi fan che aspettavano l’autografo. Nel teatro non siamo entrati. La verità? Ci annoiava. Cioè, a noi il Costanzo Show come programma neanche piaceva, pensate vederlo dal vivo! Una sera ci siamo andati a teatro, ma mica lì, al Bagaglino, che quello ci divertiva anche in televisione, con Pippo Franco e l’attore che faceva sempre la femmina, e un sacco di pilu.

Al Bagaglino, tra l’altro, siccome invitavano spesso i politici, magari avevamo una botta di culo e capitavamo in una puntata in cui invitavano Martelli o qualcun altro che interessava a noi. Comunque, tornando a Costanzo, era quello più facile da fare. Non era scortato, faceva sempre gli stessi movimenti, ci potevamo sparare, ci potevamo mettere l’autobomba, o meglio, piazzare l’esplosivo in un cassonetto che era vicino il teatro, in un vicolo dal quale l’auto ogni sera doveva svoltare. Insomma, potevamo anche chiamare i napoletani.

Qui dobbiamo aprire una parentesi, per una cosa che avevamo notato, e che pensavamo sarebbe stata oggetto di discussione, e invece è finita e morta lì. Noi avevamo le armi, ok, per uccidere il dottore Falcone e tutti gli altri, e all’occorrenza l’esplosivo. Che erano due sacchi belli grossi, tipo cento chili. Solo che non avevamo detonatori, telecomandi, micce, non avevamo nulla, solo la polvere.

Questa cosa ogni tanto tornava nei nostri discorsi, perché qualcuno capitava che lo dicesse: sì, dobbiamo fare l’attentato, ma come? E Matteo diceva di non preoccuparci. E come sempre nessuno osava più continuare. Chi ci avrebbe aiutato? Non lo sapevamo, non lo abbiamo mai saputo… Perché questa è la domanda che vi inquieta più di tutte: ma davvero avete fatto tutto da soli? E la risposta è semplice: noi abbiamo fatto quello che andava fatto. E soli non siamo stati, mai.

La sera poi ci si vedeva in qualche ristorante affollato, e ognuno riferiva a Matteo quello che aveva visto: nessuno ci notava. Geraci faceva sempre teatrino, perché ogni volta, quando c’era da pagare il conto, doveva tirare fuori la sua carta di credito. Ma Matteo glielo diceva: poi ti restituisco tutto.

E a noi picciotti invece ci avrebbero dato cinque milioni di lire a testa. Eravamo eleganti, eravamo bellissimi. Stavamo bene nella capitale d’Italia, eravamo felici. E avremmo voluto anche mandare un telegramma alla mamma per dire di questa città, Roma, grande piena luci gioielli stop.

E il piano cambia all’improvviso

Passeggiando per Roma, a un certo punto, ci venne anche una fantasia. Di conquistarla. Di farla nostra. Avevamo grande stupore nello scorgere il Colosseo, i Fori, le chiese monumentali, il cupolone di San Pietro, tutto arrivato ai giorni nostri, questa Italia di rovine di ogni età e di generi che sembrava offrirsi al nostro desiderio come una buttana, anzi, no… questa città di cadaveri, ecco.

Mai avevamo provato una sensazione così pura e completa. E capitava che ci sorprendevamo fermi, immobili, a contemplare le rovine, immaginando come un giorno, noi, proprio noi, con Matteo, avremmo potuto fare rinascere vita intorno a questi resti superbi e paralitici. Ridando loro magnificenza. Altri anfiteatri, altre chiese, altri palazzi. Altra potenza.

Vi sembrerà strano, ma era un pensiero che ci riempiva di gioia: eravamo di fronte all’infanzia del mondo. E poi Matteo disse: se ci dobbiamo mettere la bomba, ci vuole il permesso di Riina.

E mandò Sinacori a Palermo, per chiedere la specifica autorizzazione. Riina sorprese tutti: non dovete fare nulla, dice, perché ci sono in ballo cose più grosse. E Sinacori tornò subito a Roma che pareva che manco era partito o che l’aveva fatta a piedi correndo come un turco, tanto era trafelato e pallido, quando bussò alla porta del nostro appartamento per dire: picciotti, dobbiamo andare via, lo zio Totuccio mi ha detto che è tutto sospeso. «Dicci a Matteo di tornare indietro», sono state le sue parole. «Dicci ai picciotti di scinnere, me la sbrigo io qua».

Tutto sospeso, ci dice Matteo. Ok. Torniamo giù, in Sicilia, ognuno per i fatti suoi. Scendiamo lenti come i corvi. Qualcuno malignò che Riina era pure insoddisfatto. Troppi costi, troppi rischi, e poi per fare cosa? Per far fare il viaggio di maturità extralusso a un gruppo di picciotti siciliani? Ma Matteo non era preoccupato, perché aveva il piano B, affidato a Giovanni Brusca, ed era quello dell’attentato da fare in Sicilia. Solo che per Brusca magari eravamo noi il piano B, sempre per quella cosa che ognuno sapeva solo lo stretto necessario.

Non fu però un fallimento la missione romana. A parte che abbiamo visto Roma, che non è mai male, perché noi ci teniamo anche a vedere le città importanti e a farci una cultura, che vi pare?, e poi aveva avuto anche dei risvolti pratici. Perché finalmente avevamo visto il dottore Falcone da vicino, che è un po’ come se vedi da vicino una celebrità della quale sei ossessionato, hai magari i poster in camera.

Avevamo misurato i suoi passi, lo avevamo visto come stava composto a tavola, e qualcuno di noi sosteneva di aver potuto anche interpretare il labiale delle sue ordinazioni, ma erano suggestioni. E tutto quell’esplosivo che ci eravamo portati dietro alla fine ci servì, come ci servì conoscere Roma e i suoi quartieri, sotto la guida di Scarano, perché poi l’anno dopo, quando davvero avremmo voluto fare fuori a Roma il presentatore Maurizio Costanzo, quell’esplosivo ci tornò molto utile.

Ci rivedemmo a Palermo, di nuovo nella calda nudità di luce della Sicilia, per aggiornarci. Parlammo poco, ma fu un silenzio vorace. Ognuno sapeva un pezzetto di quello che sarebbe accaduto, lo stretto necessario. Solo Matteo sapeva tutto. E infatti qualche settimana dopo acchiappò a Geraci e gli fece: «È meglio che per un po’ a Palermo non ci vai». «In che senso, Mattè?». «Nel senso che non devi andare a Palermo».

Ma Geraci lavorava, aveva la gioielleria, andava e veniva da Palermo con i suoi fratelli tutti i giorni perché aveva fornitori in zona, e altre faccende. Stava per arrivare maggio, mese di sposalizi e di regali di matrimonio. E allora Matteo gli disse: «Vabbè, fai così, allora, a Palermo ci puoi andare, se proprio devi. Ma non prendere l’autostrada. Esci ad Alcamo, e ti fai tutta la statale, la strada vecchia».

Dopo la strage di Capaci, Matteo poi disse a Geraci: «Adesso puoi andare a Palermo». E gli fece come una specie di sorriso.

Salvo Lima ma non solo lui, la mafia attacca la Democrazia cristiana

Si era deciso di cominciare da Salvo Lima. Sia per il significato e per quello che rappresentava, l’uomo, il politico, lo statista (si coglie l’ironia?), sia perché, obiettivamente, era quello più semplice da fare. Salvo Lima era nel nostro libro nero da tempo, come i cugini Nino e Ignazio Salvo, perché si guardavano solo il loro giardinello, alla faccia di tutti i servizi e di tutti i favori. Lima lo avevamo pure convocato, e non si era presentato. E la rabbia era tanta che magari avremmo voluto uccidergli pure il figlio.

Fu come quando alla festa del santo patrono c’è il gioco di fuoco finale, con tutti che stanno con il naso all’aria, nel fresco della sera di mezza estate, che già ha fatto buio da un pezzo, e si attende che il santo torni in chiesa e che il parrino dia l’ok al presidente del comitato organizzatore, che dice a quello dei fuochi che si può cominciare. E il primo colpo, solitamente, è una specie di colpo d’avvertimento, una cosa a mezza botta, puuum, pam!, ma serve a svegliare i picciriddri e a fare scantare i cani, a interrompere la noia dell’attesa dei mangiatori di simenza e a dire che lo spettacolo sta per cominciare, puuum, pam!, e dopo c’è la masculiata. Viva il santo!

E fu così, per noi, l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima, in Via delle Palme, a Palermo, il 12 marzo del 1992, che veniva di giovedì, e fu poco prima delle dieci del mattino. Come già sapevamo, si fece trovare impreparato, senza possibilità di scampo e di fuga.

Gli sparammo diversi colpi con le nostre scariche di precisione, mentre lui faceva i movimenti di bestia ammazzata: un colpo al sindaco di Palermo, uno al sottosegretario, uno alla punta di diamante della Dc, uno all’europarlamentare. Uno al santo. Uno al traditore. «Tornano, tornano» furono le sue ultime parole. Non un granché come epitaffio. Anche perché noi mica eravamo mai andati via.

Il messaggio fu bello forte per Giulio Andreotti, che l’indomani doveva venire in Sicilia, e anche per farlo desistere nella sua idea di diventare presidente della Repubblica. E sapete quando parli a suocera per fare capire a nuora? La suocera era Andreotti, la nuora era il dottore Falcone, che siccome ci conosceva benissimo sembrava quasi aver capito tutto, e il giorno dopo scrisse un articolo su «La Stampa»: «La mafia vuole comandare. E se la politica non obbedisce, la mafia si apre la strada da sola».

Sul concetto di «strada» forse aveva avuto una mezza visione, che più di strada era un’autostrada quella che si sarebbe aperta, nel vero senso della parola, da lì a breve. Sulla politica, invece, neanche noi ci capivamo più nulla. Perché eravamo in guerra, e ne avremmo voluti eliminare di politici traditori, ma era cominciata quella cosa del pool Mani Pulite, a Milano, e il popolo fibrillava, e i politici un po’ venivano arrestati, qualcuno si ammazzava, altri scomparivano. Che casino.

Gli occhi di Riina facevano come una saetta, nelle riunioni, sembrava avesse un tic, non stava mai fermo, tutta un’eccitazione. Matteo no, Matteo era calmissimo, come sempre, elegante, come lo conoscevamo noi. Aveva sempre la risposta pronta e una pistola carica. Avremmo capito solo dopo che stava preparando il suo regolamento di conti, la sua piccola battaglia nella grande guerra, la rivoluzione silenziosa nella linea di successione.

Il signor Riina pareva sempre più una “cafittera” pronta a esplodere. Anche su ’sta cosa di Mani Pulite non ci vedeva chiaro, gli dava fastidio, e anche se non ce lo voleva dire, perché non poteva dirlo – se no saremmo diventate le bestie che eravamo, lo avremmo scannato, altro che la rivoluzione silenziosa di Matteo – lui sapeva di essere anche lui una pedina di qualche altro tavolo, ed era manovrato, e qualcuno tirava i dadi per lui, e lo faceva avanzare di casella in casella fino all’esplosione finale, alla dissoluzione.

Non solo lo sapeva, e non poteva dirlo, ma sapeva anche che in questo gioco grande in cui era finito non conosceva il regolamento. E quindi, sì, anche ’sta cosa degli arresti di Mani Pulite ci dava fastidio. Innanzitutto, perché ci mancavano gli interlocutori. Se un poco li ammazzavamo noi, un poco li arrestavano, noi con chi dovevamo parlare? Della Dc tra poco non c’era in giro manco l’usciere, Craxi aveva paura a girare per strada che gli lanciavano le monetine.

Chi restava? Vedrete, vedrete, qualcuno di nuovo affaccerà, dicevano quelli di noi più avvezzi alle cose della politica; i Graviano, in particolare, avevano buoni contatti a Milano, e a Milano già le cose si muovevano per non lasciarci orfani: male che vada avremmo rifatto il trucco a qualche troia.

Ma la cosa che ci dava ancora più inquietudine di questa roba di Mani Pulite, di questi pezzenti con il sorcio in bocca, che si facevano prendere mentre buttavano i soldi nel cesso, era il fatto che il nostro sesto senso ci diceva che anche lì c’era lo zampino del dottore Falcone; che quello magari era un giro largo, e anziché partire dalla mafia per arrivare agli imprenditori, voleva partire dagli imprenditori del nord per poi scendere giù giù e arrivare a noi. Anche là, comunque, ci fate un piccolo torto quando parlate solo dell’attentato a Salvo Lima, in quel periodo.

Capiamo che era la portata principale, ma c’erano tanti contorni, perché avevamo deciso di mandare segnali precisi alla fu Democrazia cristiana e ai suoi esponenti, con tutta una serie di attentati: il 31 marzo a Misilmeri, al comitato elettorale di Calogero Mannino, il 1 aprile a Monreale alla sede della Dc; sempre il 1 aprile, ma a Partinico, abbiamo dato fuoco all’auto di un assessore Dc; il 3 aprile a Messina, altra sede della Dc, stessa data a Scicli, a casa del vicepresidente della Provincia di Ragusa, democristiano.

Erano piccole cose, si dirà; certo, erano puntini, come un segnale in codice morse, e il messaggio era: il peggio deve ancora venire. E Matteo è stato bravo anche in questa pianificazione di piccoli attentati, perché abbiamo delegato le famiglie di ogni parte della Sicilia, abbiamo individuato sedi di partito e comitati elettorali in ogni angolo, ma non in provincia di Trapani.

Ancora una volta, stava in prima fila, Matteo, ma mandando avanti gli altri; voleva mantenerci nel nostro cono d’ombra, coccolati fin quando era possibile dalla mamma, sconosciuti al mondo. Era come se non esistessero obiettivi sensibili da colpire in provincia di Trapani, come se non esistesse la Dc. Come se non esistesse la mafia.

Quei giorni “sospesi” prima del grande attentato di maggio

Lo avevamo fatto. Avevamo cominciato a uccidere ancora prima di accorgerci che eravamo diventati assassini. Ci rivedemmo, dopo l’omicidio di Salvo Lima. Eravamo già stanchi, ma eravamo solo all’inizio. Le parole furono poche, come se tutto avesse già preso una piega. Altre cose tinte erano in arrivo, e non stava a noi né cambiare né tantomeno fermare il corso degli eventi. Le cose indietro non le lasciamo, ci dissero i palermitani.

Quello che è successo non è niente. E ancora: È una guerra contro lo Stato. Infine: Accadranno cose importantissime. Non per la Sicilia, per l’Italia. Il signor Riina era contento. Si sono aperti dei canali, diceva, e alcuni di noi pensavano, nella loro ignoranza, a dighe e campi da coltivare, e chissà, qualcuno tra noi borbottava anche: vuoi vedere che è già finita e ce ne torniamo tutti a fare i contadini come i nostri padri, finalmente, e tutto questo sbattuliamento della guerra allo stato magari è servito solo per avere un pezzo di terra? Che poi, alla fine, se ci pensate, è da sempre per questo che si fanno le guerre, per la terra, ed è per questo che è nata la mafia, per la terra, ed era sempre questo l’orrore che ci portavamo dietro, il selvaggiume della terra.

Ma non eravamo così ingenui e sempliciotti: sapevamo che i canali di cui si parlava non erano irrigui. Lui, lo zio Totuccio, si riferiva ad altro, al mondo politico. E la teoria era: vedrete che ora succederà un terremoto e qualcuno ci cercherà per avere i nostri voti.

Erano i mesi in cui forze politiche nuove, in effetti, stavano prendendo campo, e tra questi partiti nuovi ce n’era uno del nord che andava molto forte, e Matteo lo seguiva con attenzione perché lui da tempo propugnava l’idea di un partito del Sud, anzi, della Sicilia, tutto nostro, indipendentista, autonomista, sicilianista, e più parole in -ista ci vengono meglio è. E in -ista era l’altra parola con la quale cominciarono ad associarci: stragista. La mafia stragista.

L’ala stragista di Cosa nostra. Qualcuno aveva capito: vedrete che Lima è solo l’inizio. Cose grosse erano in serbo, come recita quel detto: il meglio deve ancora venire. E se dobbiamo ricordare quelle settimane, il periodo tra marzo e maggio, era come essere attraversati da una continua scarica elettrica.

Sembrava che il mondo fosse piccolo, e che avremmo potuto contenerlo nel pugno di una mano. Sì, sembrava che con le nostre mani avremmo potuto sradicare Palermo e il parlamento, ogni aula di giustizia e tutto il ministero. Sembrava che tenessimo in pugno non solo Andreotti ma tutta la Repubblica che stava morendo e quella che doveva nascere; sì, anche quella era nelle nostre mani, rantoli e vagiti, tutto si confondeva, nella nostra annacata.

E quelle nostre mani, che per la prima volta ci sembravano fiere e grandi e non più callose e nodose, non erano mani da contadini o di assassini, erano le mani del potere che tutto può e che decide vita e morte e miracoli. In quelle nostre mani c’era pure il dottore Falcone. Era venuto il momento di serrare il pugno.

Cominciarono così i preparativi per il fatto grande che avrebbe sconvolto il mondo intero. Prima però le famiglie di Agrigento avevano organizzato tutto per un altro obiettivo: il maresciallo maggiore Giuliano Guazzelli. Anche lui era nel nostro elenco. Lo conoscevano bene le famiglie mafiose di mezza Sicilia. E anche se era vicino alla pensione, ci faceva paura la sua memoria portentosa, il modo in cui metteva insieme parentele e relazioni, da Palermo ad Agrigento fino a Trapani.

Fu ucciso sul viadotto Morandi, prima di entrare ad Agrigento, con un armamentario di tutto rispetto: mitra, kalashnikov, un fucile a pompa. Era il 4 aprile. Il giorno dopo si votava per le elezioni politiche. E quei colpi mortali servirono anche per rompere il silenzio elettorale e fare arrivare il nostro messaggio ancora più forte a chi doveva ascoltare.

La guerra allo Stato

Vennero giorni sospesi, lattiginosi, tra aprile e maggio del 1992. La Sicilia sembrava immersa in un bicchiere di acqua e zammù, di quelli che a Palermo si bevono per strada per calmare i tormenti dell’estate.

Qualcuno era anche deluso: come? ci avete fatto credere alla grande abbuffata, e invece vi siete fermati all’antipasto, e a un paio di contorni? Dov’è il piatto di portata, il cinghiale arrosto, il vitello grasso, dov’è? Intorno tutto si muoveva come se nulla fosse. Tirava un vento di scirocco, vento pieno di rabbia. E noi la sentivamo, comunque, l’energia. Sembrava che ci fosse come un’onda, potentissima eppure leggera, una marea, ecco, che si disperdeva dal cratere che stavamo preparando.

Sotto quel pezzetto bello e tondo del cielo di primavera, vedevamo Cossiga, Craxi, Andreotti, e i comunisti e la Dc, i giudici della Cassazione e quelli del Maxi, i questori e le squadre mobili, la Rai e Canale 5. Mentre acconciavamo per loro la nostra coreografia, sentivamo bisbigliare, avanzando, sul luogo del disastro, i pompieri e i carabinieri, il papa polacco e i servizi segreti. Scivolavano, come ipnotizzati da un pensiero gelido, «Repubblica» e il «Corriere», i corrispondenti e gli inviati, tutte le vittime e i martiri, le sacerdotesse dell’Ave Maria e il Padre Nostro che sia fatta la tua volontà, ma solo in cielo, però, perché in terra comandavamo noi.

Era nostra la volontà, nostro era il destino, nostro era il dito che muoveva il mondo. Tutti, li aspettavamo tutti, pronti a misurare il vuoto. In tanti erano coinvolti nella preparazione dell’attentato al dottore Falcone, e ognuno sapeva un pezzetto di storia, ma non tutta la messa.

A ciascuno il verso di un salmo che tutti insieme stavamo mandando a memoria. L’Italia continuava come prima, nel suo contorcersi tra arresti eclatanti e crisi economica, le dimissioni del presidente della Repubblica, la guerra in Serbia, la Disney che apriva un mirabolante parco giochi a Parigi.

Il dottore Falcone tenne quello che sarebbe diventato il suo ultimo incontro pubblico, all’università di Pavia. Parlò giusto giusto della famiglia mafiosa di Castelvetrano, «messa con le spalle al muro dalla Procura distrettuale di Palermo».

Tutti i piani mafiosi per uccidere il giudice Paolo Borsellino

Noi dunque lo conoscevamo bene il dottore Paolo Borsellino, ancora meglio del dottore Falcone, e anche per lui era dall’inizio degli anni Ottanta che pensavamo di combinare qualcosa, perché aveva cominciato anche a fare indagini sulla famiglia Riina, aveva arrestato anche il fratello di zio Totò, Giacomo, a Bologna, e aveva svolto indagini particolari con quel capitano dei carabinieri, Emanuele Basile – che poi era stato ucciso – che aveva portato all’arresto di Francesco Madonia e di suo figlio.

E i palermitani ce lo dicevano sempre: se abbiamo dovuto uccidere il capitano Basile, la colpa è del dottore Borsellino, che se si stava un poco buono e non dava fastidio ai nostri vecchi amici, ai soci di combriccola, non creava tutti questi macelli. E quindi dopo Basile, per noi, era venuto il momento di Borsellino, solo che l’occasione non c’era stata mai. Avevamo anche tentato di avvicinarlo in qualche modo: c’eravamo mossi a Palermo, a chiedere: la famiglia, qualche compagno di scuola, un abboccamento, un’amicizia, ma, come per il dottore Falcone, non c’era possibilità; anzi, Borsellino si era messo in testa che doveva arrivare a prendere i killer di Basile, e non voleva essere accomodante. E ancora doveva esserci tutta la vicenda del Maxiprocesso… Comunque, per lui la sentenza era stata emessa da tempo.

Era stata rinviata solo l’esecuzione. Ogni volta che lo vedevamo, ripetevamo la stessa frase: rompiamoci le corna. Quando Borsellino arrivò a Marsala, ci sembrò quasi una provocazione. E quindi cercammo di capire il da farsi. Studiammo i suoi passi, la scorta, il viaggio che faceva da Palermo, a che ora era a Marsala, dove pranzava, se il caffè lo pigliava al bar. Scoprimmo che amava fare certe passiate tipo il commissario Montalbano, quello di Camilleri, a piedi, al lungomare della Spagnola, dopo pranzo.

Ci si poteva lavorare, come idea. Nel 1988 avevamo tutto pronto, e una mano amica sembrava volerci indicare la strada. Non lo sapete, ma in quel periodo al dottore Borsellino stavano quasi per levare la scorta ‒ a uno dei magistrati più a rischio in Italia ‒ e si discuteva di «alleggerire» la sua protezione. E così fu. Fu revocato il presidio fisso sotto casa sua. Non c’era più nessuno a fare da guardia. Buono.

Poi lui era abitudinario: andava sempre a messa la domenica, comprava ogni giorno i quotidiani alla stessa edicola. Sapevamo pure da quale pollaio comprava le uova fresche. Aveva questo pallino delle uova, gli piacevano a sucare, sarà. Ci faceva il buco, e poi se le beveva ancora calde del culo di gallina.

Magari come noi ci metteva dentro un goccio di vino marsala, quando nei rigori dell’inverno uno starnuto o un raschiamento della gola annunciavano un possibile raffreddore ed era il caso di metterci un rinforzino.

Un giorno era fatta. Fatta, vi dico, fatta. Ci partimmo, ognuno con il suo compito, muovendoci a bordo di un motorino dalla nostra base, che era vicino un negozio di mobili in Viale delle Alpi, a Palermo, e andammo sotto casa del dottore Borsellino.

Lo vedemmo scendere dall’auto, accelerammo mentre lui si guardava attorno, mettemmo le mani nella giacca, il ferro era pronto e muto come sempre, stavamo per sparare, ma Borsellino ebbe come un presentimento, accelerò il passo, entrò nel portone e se lo chiuse dietro con un grande sbam. A noi non rimase che ricacciare indietro la delusione, restare agghiuttuti giusto una frazione di secondo, e poi ripartire, e andare via di là senza fare capire niente a nessuno, prendendoci anche un colpo di «cornuti!» per un sorpasso avventato. Anche qui, non dovete pensare che era tutto improvvisato. Avevamo studiato. E avevamo scelto questa formula, i colpi da un motorino in corsa, perché volevamo confondere le acque.

Insomma, se fosse stata un’autobomba, o un’azione come si deve, come con il prefetto Dalla Chiesa o il dottore Chinnici, tutti avrebbero capito che c’era la nostra firma. In quel modo, invece, volevamo ingenerare confusione: chi ha ammazzato Borsellino? Mah, due picciottazzi a bordo di un motorino rubato. E infatti anche la pistola era stata scelta con cura.

Avevamo il bendidio di armi, e ci piacevano moltissimo i kalashnikov come le P38, ma in quell’occasione avevamo optato per una banale calibro 7 e 65, corta e semiautomatica, un giocattolino, roba da delinquenti di strada. Fallito quel colpo, avevamo ripreso gli appostamenti, soprattutto nei giorni festivi. Chissà perché, non solo era scritto che avremmo ucciso prima o poi il dottore Borsellino, ma che lo avremmo fatto di domenica.

Ma era in corso il processo d’appello del Maxi, e a un certo punto pensammo che uccidere Borsellino poteva comunque essere, in quel periodo, una cattiva pubblicità per tutti noi. Era meglio aspettare. Intanto non solo Borsellino non si calmava, anzi, aumentava il suo lavoro, e la cosa ci dava sempre più fastidio, perché qui dobbiamo dire un’altra cosa. Che i due magistrati, Falcone e Borsellino, non erano la stessa cosa.

Oggi siete abituati a vederli insieme nella vostra toponomastica con cui lastricate i sensi di colpa, ma non è così. Noi li conoscevamo bene. Erano persone diverse, con caratteri diversi, e idee molto diverse, a volte anche in contrasto. Il dottore Borsellino era assai più irruente dell’amico, ad esempio, e anche più operativo.

Il dottore Falcone era più un tipo da grandi strategie, relazioni. Spesso avevamo la sensazione che Borsellino, quando parlava e lanciava i suoi strali sul «calo di attenzione nella lotta alla mafia», avesse dato voce al pensiero di Falcone, che era più cauto. E infatti li chiamavamo «il braccio e la mente».

Gli avvertimenti di Siino

Un altro attentato allora volevamo farlo nella casa a mare di Borsellino, a Marinalonga, nei pressi di Carini. Era vicino del nostro Angelo Siino, sembrava cosa facile anche lì. Andò Di Maggio a casa di Siino a fare una serie di appostamenti, per capire se si poteva fare la cosa.

Il residence, infatti, aveva una sola uscita, e in pratica dalla rete metallica della villa di Siino si vedevano proprio tutti gli spostamenti e i movimenti di Borsellino, le occasioni in cui si allontanava dai due che gli facevano la scorta, tutte le volte che usciva con il vespino.

Tanto che Di Maggio ci aveva preso gusto, sembrava un lavoro facile; e tra un bagno e una mangiata di pesce questo vai e vieni da casa di Siino era durato due settimane. E Di Maggio poi aveva riferito tutto. Ma siccome Siino conosceva al dottore Borsellino, l’ha visto e l’ha messo in guardia. Siino infatti pensava: qui, se succede qualcosa, il primo che si inculano sono io. E allora, mentre c’era Di Maggio, chiamò Borsellino nel bungalow di suo fratello e cercò di parlargli per avvisarlo.

Ma la cosa fu tragica, perché Siino era convinto di poter parlare molto in amicizia, di dirgli: «Ma chi glielo fa fare, ma perché sta facendo tutte queste cose», «Ma dottore, perché…». E invece Borsellino impazzì e si mise a urlare: «Ora lei mi deve dire chi la manda, che cosa vuole dire!». E Siino: «Dottore, non c’è nessuno motivo… era per parlare». Morale: Borsellino si infuriò, e anche Siino ci rimase male. Ma come, pensava, io ti sto dicendo questa cosa, di stare attento, anche perché qui a Marinalonga non hai nessun tipo di scorta, e tu reagisci così? Siino dopo l’incontro si pigliò di confusione.

Lui non era cosa di fare mediazioni e sensalie, ogni volta combinava danno. E qui il danno era grosso. Perché aveva fatto saltare l’attentato al giudice, e come ringrazio quello lo aveva sicuramente già segnalato. Convinto che lo arrestassero, per sì e per no, Siino fece la cosa che sapeva fare meglio: tagliare la corda. E se ne andò con la barca in Tunisia. Anche perché, pensava, se davvero fanno a Borsellino, è meglio che mi levo dai piedi.

E saltò anche questo progetto. In qualche modo avevamo capito che se dovevamo liberarci del dottore Borsellino, l’attentato, alla fine, avremmo dovuto farlo noi, senza delegare ad altri. La cosa non ci calava molto, perché significava uscire dalla nostra invisibilità, ma Borsellino era procuratore a Marsala, a casa nostra, e se avessimo aspettato che se ne ritornava a Palermo, gli amici di lì non ce l’avrebbero mai perdonato.

Il gioco degli inganni e l’omicidio di un boss vicino ai “servizi”

A Marsala i rappresentanti delle famiglie erano Vincenzo D’Amico e Francesco Craparotta. Gli spiegammo il da farsi, la necessità di compiere l’attentato. Gli potevamo mettere a disposizione Vito Mazzara, che era campione sportivo di tiro a piattello, oltre a essere un pezzo importante della storia di tutti i trapanesi. Sparava da vero professionista. E già ci fu un primo no. Loro non si sentivano minacciati da Borsellino.

Avevano agganci con tutti, con i politici, con uomini delle istituzioni, e tutti avevano garantito che loro, comunque, erano intoccabili. Anzi, nell’occasione ci avevano ribadito che non era cambiato molto dai tempi di Mariano Licari, il mitico capomafia degli anni Cinquanta.

Più volte qualche giudice aveva cercato di arrestarlo, per «i reati più obbrobriosi», come scrivevano ai tempi, e più volte carabinieri e polizia avevano ribadito per iscritto che Licari godeva di «stima e reputazione» e «non era mafioso». Ecco perché i marsalesi ci dicevano: Cu ni ci porta? Siamo a posto, non abbiamo nessun tipo di problema con Borsellino. Fare una cosa di questo genere ci porterebbe solo problemi. Non avete nessun problema con Borsellino? ’Stu cornuto? ’Stu tinto? ’Stu disonorato?

E pensare che avremmo fornito tutto noi, c’era già una mezza idea: un’autobomba sotto il tribunale, che poi era un’ex scuola, in una piazzetta angusta. Oppure al commissariato di polizia, dove Borsellino dormiva. Ma loro insistevano: Non possiamo mettere Marsala sottosopra, noi stiamo bene qui, stiamo tranquilli. Perché non cerchiamo un altro posto dove c’è meno clamore? Qua non muore solo Borsellino, muoiono magari decine e decine di persone. Con i marsalesi c’erano problemi ogni volta.

Facevano affari in zone non loro senza dare preavviso, si erano appropriati di soldi che servivano per pagare gli avvocati e sostenere le famiglie dei detenuti, pestavano i piedi alla famiglia di Mazara. Questo primo no di quei disgraziati aveva insomma creato un po’ di tensione. E poi qualcuno se l’era cantata. Perché a un certo punto a Borsellino fu rafforzata la scorta.

Quindi, è vero, c’era chi parlava con la famiglia di Marsala, ma c’era anche chi riceveva messaggi. Quattro cornuti ci ero a cuntare tutti cose, commentò Matteo con disprezzo. Ma c’era anche un’altra cosa. Che i marsalesi avevano detto no a Riina e a Matteo.

Avevano espresso il loro parere contrario. E quindi, lo sapete già come poteva andare a finire, no? Perché a un certo momento le strade erano due: o non si faceva l’attentato, o si eliminavano le persone contrarie e poi si andava a fare l’attentato. E noi l’attentato dovevamo farlo, punto.

L’idea iniziale era di sterminare tutta la famiglia di Marsala. Una strage. Troppo bordello. Allora passammo a più miti consigli. Fu così che l’11 gennaio del 1992 furono uccisi Vincenzo D’Amico e Francesco Craparotta. Si era ancora nel clima delle feste di Natale, anche perché a Marsala si usa aspettare la festa della Santa Patrona, la Madonna della Cava, che è il 19 gennaio, per smontare alberi e presepi, rimettere in soffitta statuine e lucine intermittenti, e chiudere i tavoli di cucù e sciumè. Se la prendono comoda.

Un paio di settimane prima, a Tonnarella, in una villa sul mare a Mazara del Vallo, Matteo organizzò una schiticchiata, una mangiata con Totò Riina. Matteo era elegante, sembrava un figurino. Il signor Riina era di buonumore. Venne con una Alfa 164 bianca, e regalò un milione di lire a ognuno dei partecipanti, per comprare un pensiero per le nostre famiglie – che magari in un altro momento avremmo potuto coinvolgere in una bella tombolata tutti insieme, oppure a giocare all’asso che corre o a bestia.

Ma non era questa la serata adatta. E lì Riina si girò verso Antonio Patti e gli disse: Dobbiamo levarci queste spine a Marsala. E poi offrì spumante: mosciandò per tutti. Il 12 gennaio 1992 un tale, Francesco D’Amico, andò dalla polizia. Mio fratello Vincenzo, disse, questa notte non è tornato a casa. È uscito di casa alle sette del mattino, e non è più tornato. Vabbè, sarà in giro. Il fatto è che abbiamo trovato l’auto, lui no. Malamente, pensò il poliziotto.

A compiere l’omicidio fu Antonio Patti, al quale Matteo aveva promesso che sarebbe diventato il nuovo reggente della famiglia mafiosa di Marsala. E alla famiglia di Marsala, in regalo, sarebbero andate anche tutte le estorsioni fatte nel paese di Petrosino e che finora erano competenza dei mazaresi. E così fu stabilito in una riunione che, dopo gli omicidi, abbiamo tenuto all’hotel Hopps di Mazara.

In contemporanea una signora andò dai carabinieri: mi presento, sono la moglie di Francesco Craparotta. Mio marito questa notte non ha fatto ritorno a casa. Anche gli sbirri sapevano che i due non erano persone qualunque. E qualcosa di grave doveva essere successo. Ma gli faceva strano, perché non c’erano stati segnali di una guerra di mafia in arrivo.

Non sapevano che erano vittime del nostro ragionamento gelido, e che li avevamo uccisi perché erano delle crepe nel nostro svolgimento perfetto delle ammazzatine che volevamo fare. Poi il 7 febbraio, infine, il terzo omicidio. Gaetano D’Amico. Gli sparammo al bar. A questi omicidi partecipava anche un grande amico di Matteo, Vincenzo Milazzo, coetaneo suo, astro nascente della famiglia mafiosa di Alcamo. Che bello che era, Vincenzo. Era tutto: enologo, chimico, sicario, sperto, fimminaro, vincente.

Conosceva tutti nella Alcamo bene: politici, senatori. Faceva la bella vita. Anche lui venne ucciso, da Matteo, a luglio di quell’anno 1992, perché anche lui aveva cominciato ad avere perplessità sulle stragi. E in quel caso Matteo agiva come una specie di ministro dei Temporali. Perché poi avete bisogno di dare etichette, voi. E allora sì, se Siino era il ministro dei Lavori Pubblici di Cosa nostra, se lo zio Ciccio era quello degli Esteri, potete scrivere tranquillamente che Matteo era ed è il ministro dei Temporali, perché arrivava come una saetta e colpiva chi tradiva, in questo caso il povero Vincenzo Milazzo, che si era messo in testa non solo di mettersi contro la nostra strategia, ma anche di diventare lui, il capo.

Amo a virere – diceva – quando cominciano a piovere gli ergastoli… E pensare che con Matteo erano grandi amici, e che insieme avrebbero potuto fare grandi cose. Ma faceva il gioco delle tre carte, un po’ diceva sì, un po’ diceva no. E conosceva gente nei servizi, così dicevano, e si faceva delle riunioni tutte sue. Un tale, non si capisce se per prenderlo per fissa o perché ci credeva davvero, gli aveva anche prospettato l’idea di una guerra batteriologica, avvelenando degli acquedotti, e lui era sbottato: ma siete dei pazzi!

Matteo non poteva permettere che si facessero queste deviazioni, queste trattative nelle trattative, che si poteva finire in un labirinto, come quello che hanno fatto a Gibellina dopo il terremoto. E proprio da Gibellina stava tornando l’amico nostro Vincenzo, quando lo incrociammo con l’auto per dire che Matteo lo aspettava al solito posto per un chiarimento.

E il solito posto era questo malaseno che utilizzavamo per la droga, e quando Milazzo arrivò non ebbe tempo di dire né ai né bai. Aprì la porta. Ci vide tutti in piedi ad aspettarlo, uno di noi con l’arma già pronta. Disse soltanto: Spara, cornuto.

E gli sparammo. Certo, con un po’ di dispiacere. Ma il nostro motto era: non essere deboli. Infilammo il corpo in un sacco nero. Matteo fece una fossa con l’escavatore. E addio Milazzo. Qualche giorno dopo, nella stessa fossa ci infilammo un altro sacco nero. Dentro, c’era la fidanzata Antonella. Lei la strangolammo. Faceva troppe domande, era squieta, ci conosceva tutti. Sì, la strangolammo. Anche lei, su appuntamento, nello stesso posto. Alle donne noi non abbiamo mai sparato.

E Totò Riina disse: “A Sarajevo muoiono tanti bambini, che problema c’è?”

In quell’estate del 1992 continuammo a vederci e a riunirci, forse anche con meno precauzioni rispetto a prima, perché avevamo fatto saltare in aria l’Italia e ci sentivamo potenti e intoccabili. La nostra natura predatoria aveva preso il sopravvento. Assistevamo ai funerali di Stato, ai cortei dei «Buffoni! Buffoni!», ai cuori vibranti di protesta. Vedevamo le strade invase da militari e carabinieri.

Peccato che all’epoca non ci fosse ancora internet perché avremmo fatto una diretta in streaming per urlare al mondo: siamo noi. E avremmo voluto continuare, e abbiamo continuato. Eravamo dentro una specie di incantesimo, una ruota che girava nella ruota, un inizio senza fine.

Alcuni proponevano di portare le bombe sul continente. Matteo e i Graviano cominciavano già a valutare questa opzione: tanto a Roma l’esplosivo lo avevamo lasciato, e poi non sarebbe stato un problema spostarlo qua e là. E in effetti verrà il turno dei luoghi d’arte e dei musei. Come se fossimo fatti di acido, avevamo delle visioni: ci ubriacavamo spesso, in quel periodo, cercavamo una magica regressione nel ventre protettore dell’ebbrezza, che ci ricordava quello della mamma.

Arrivavamo già ubriachi agli appuntamenti con le nostre ragazze per portarle in motoscafo a fare il bagno dietro l’isola di Favignana, consumavamo litri di vino bianco con la scusa di accompagnare due fili di busiate allo scoglio nei ristoranti vista mare di Mazara, passavamo i pomeriggi di caldo e polvere scandendo il tempo a suon di birre. Nel delirio ognuno la sparava grossa, su come dare un altro colpetto.

Qualcuno diceva: perché non avveleniamo le merendine dei distributori delle scuole? Qualcun altro voleva mettere le siringhe infette di Aids nascoste nella sabbia di Rimini. Qualcun altro voleva distruggere i templi di Selinunte. Oppure mettere una bomba nel centro di Trapani. Ma sarebbero morte tante persone innocenti, avevamo obiettato. E Riina: A Sarajevo muoiono tanti bambini innocenti, per ora. Che problema c’è?

Ci mancava solo che qualcuno diceva: togliamo i sassi alla Luna, a poco a poco, per farla crollare sull’Italia. Per fortuna che c’era Matteo a riportarci sulla Terra. Lui stava a Bagheria, oppure a Brancaccio. Lì un giorno i poliziotti fecero irruzione nell’appartamento dove era ospitato, convinti però di trovare Giuseppe Graviano. Per fortuna non c’era nessuno, ma a ogni modo a Graviano viene la prescia, appena la polizia se ne va, di svuotare l’appartamento, soprattutto perché c’era un mobiletto con tutte le foto e i documenti di Matteo.

Nella vostra memoria rimane il ricordo di quelle stragi: e Falcone & Borsellino, e Giovanni & Paolo sempre con noi, e i cortei, e le foto – una in particolare che sembrava fatta apposta per il necrologio combinato dei due – ma per noi era chiaro che la cosa non finiva lì. E quell’anno, come vi abbiamo spiegato, fu pieno di altri eventi importanti, che servirono eccome per gli scopi che ci eravamo prefissi, per il cambio generazionale, strategico, che Matteo stava portando avanti. Quindi parlare di quelle stragi senza coinvolgere il resto è come farci un torto.

Perché il mosaico è unico e, anche se avete in mano le tessere più grosse, è dai particolari che si apprezza la visione di insieme, no? E Matteo la visione di insieme l’aveva chiara. Noi con l’adrenalina in corpo a volte ragionavamo davvero come bestie, sembravamo cani da caccia incontenibili dopo aver azzannato le prime fagianelle, e avremmo voluto continuare, per quel senso di onnipotenza che ci dava l’intera operazione. Eravamo diventati, improvvisamente, un’arma mortale, distruttiva, potentissima, da gestire con cura, perché qualcuno si sarebbe potuto fare male.

E non bastava neanche l’esperienza, per gestirci, perché eravamo qualcosa di nuovo, un improvviso fuoco di sant’Antonio nella storia di Cosa nostra, ed è per questo che anche il signor Riina ne è stato travolto, perché è stato vittima dello stesso mostro che aveva creato, convinto di poter dominare il mondo a furia di colpi e colpetti, e invece poi il colpo lo ha preso lui, tradito dai suoi, preso, buttato in carcere, finito, stop. Matteo no.

Aveva pensieri nuovi e splendidi, Matteo, vedeva tutto con chiarezza, sembrava sempre sapere. Ed è per questo che cavalcò questo tsunami con posa plastica da surfista, portandoci tutti dentro il nuovo corso che lui stava creando per noi.

Serviva al cambio di passo, ad esempio, l’omicidio di Ignazio Salvo, uomo d’onore del nostro territorio, e come tale potente e segreto. Grazie a noi la sua fortuna era stata grassa e sfacciata, tanto che lo chiamavamo «Il barone del 10 per cento». Dalla montagna di gesso della sua Salemi aveva costruito con suo cugino Nino un impero. Era caduto in disgrazia, era inaffidabile, e ci siamo andati a casa, il 17 settembre di quell’anno 1992, con un commando di uomini d’onore di tutto rispetto.

Per noi Ignazio Salvo era il tramite per Lima. Ucciso Salvo Lima a marzo, Ignazio Salvo era da mesi un morto che camminava, e lo sapeva, e aveva pure delle guardie del corpo armate fino ai denti, ma erano persone di buon senso e avevano capito che se non volevano appizzarci oltre lo stipendio anche la vita, era meglio lasciarci fare. L’Italia era nella tempesta perfetta, perché tante cose stavano accadendo insieme, e se il destino è un regista, ha proprio talento.

Perché c’era la nostra guerra, c’era Tangentopoli, e c’era la più grave crisi economica mai vista, con la lira svalutata. In effetti era proprio come se la Luna stesse crollando sul nostro Paese. E in quel caos ne approfittammo ancora, perché il caos non è disordine, il caos è una scala. E il gradino successivo era proprio Ignazio Salvo, che fu ucciso a Bagheria, e siccome valeva sempre quanto avevamo deciso mesi prima, non ci fu bisogno di chiedere alcun permesso al capo mandamento della zona.

Per queste operazioni ognuno dava carta bianca nel proprio territorio: ciascuna delle famiglie, all’occorrenza, avrebbe messo a disposizione uomini e mezzi. Era non solo una regola, di più, era l’essenza di Cosa nostra. È come quando viene deliberato lo «stato di emergenza», e saltano tutte le regole e i protocolli, per essere più veloci e operativi.

Arrivammo dal mare, ancora una volta, come i pirati a Palermo «cu li facci d’inferno» e nel buio della notte. Lui era fuori casa, lo sapevamo. Sarebbe rientrato di lì a poco. Lo aspettammo nel giardino della sua villa. Gli svuotammo addosso i caricatori delle nostre pistole automatiche non appena scese dalla sua Mercedes bianca, con le mani ancora in tasca, tra il cancello di ferro battuto e gli scalini della veranda.

Matteo Messina Denaro e l’agguato contro il commissario Rino Germanà

Stava anche attento, però, a non sporcarsi le mani. Lo faceva per noi, per il nostro bene: più il suo nome rimaneva nell’ombra, più nel nostro territorio potevamo continuare ad agire nella più assoluta indifferenza.

Era incredibile; eravamo in trincea, ma era una trincea tranquilla – in doppiopetto, potremmo dire –, giravamo alla luce del sole, senza che nessuno dicesse né ai né bai, e se qualcosa ci tradiva non era mica per la spirtizza di chi avrebbe dovuto fermarci, ma per la nostra euforia, che a volte ci portava a commettere errori.

Errori Matteo non ne faceva, teneva tutto sotto controllo, sembrava sempre con il pensiero altrove. Però anche lui aveva le sue debolezze. E non parliamo né di auto né di orologi, né di donne o stecche di sigarette intere da fumarsi tra un appostamento e l’altro.

La debolezza di Matteo era consumare qualche piccola vende personale. Anche lui aveva una sua lista nera, solo che non la tirava fuori, non voleva creare confusione nella mischia che c’era. E fu quando il signor Riina disse che sì, era venuto il momento di levarci qualche spina – non solo per senso di vendetta, ma anche per tenerci in allenamento nell’attesa che gli eventi si chiarissero, e per far fare un po’ di festa ai cani che tenevamo al posto del cuore –, che Matteo finalmente accennò un sorriso, e pensò a un uomo in particolare, un ispettore di polizia o commissario o quello che è, catanese, il dottore Rino Germanà, che gli stava molto sui coglioni, anche troppo, per diversi motivi.

Perché era un’anima inquieta, faceva troppe domande, e aveva capito qualcosa della guerra di mafia, e dei Messina Denaro. Ora, in questo caso, la prima cosa che si faceva con un poliziotto che era bravo era di delegittimarlo, con esposti anonimi, lettere, qualche calunnia. La seconda cosa era trasferirlo. E così era stato anche per Germanà.

Però il suo trasferimento per noi fu una punizione, perché nel suo girovagare tra Questura di Trapani e Commissariato di Mazara, tra Castelvetrano e procura di Marsala, in realtà Germanà andava mettendo pezzi su pezzi, ci stava mappando. Aveva scoperto, ad esempio, che eravamo pure dentro le istituzioni, con i nostri suggeritori, e faceva gli schemini con i perdenti e i vincenti della guerra di mafia, e pareva giocasse a quel gioco, nome, cose, città, e a ogni città cominciava ad associare un nome, e una cosa, e poi a tutte le cose il nome dei Messina Denaro.

Lo avevano spostato a Catania, alla fine, ed eravamo tutti convinti che fosse finita lì, anche perché era stato nominato dirigente della sezione della Criminalpol di Caltagirone, incarico prestigioso se non fosse per il fatto che quella sezione non esisteva e non sarebbe mai stata costituita. E nonostante doveva timbrare il cartellino dall’altra parte della Sicilia, lui quando poteva era sempre tra i piedi a Mazara e Castelvetrano, e continuava a girare, a fare domande.

Aveva messo il naso nelle banche, cominciato a indagare su certi notai e logge massoniche. E quindi Matteo decise che la sua spina da levare era Germanà, e che avremmo dovuto ucciderlo. Era tutto pianificato, il 14 settembre del 1992.

L’Italia era nel suo solito caos, con i politici che venivano arrestati, altri che si suicidavano, e ad aggiungere ancora più confusione era arrivata quella specie di guerra civile in Jugoslavia, dove un aereo italiano che doveva portare coperte e aiuti era pure caduto. Quel giorno, al lungomare di Mazara del Vallo, Germanà era a bordo della sua Panda bianca come l’innocenza.

Lo affiancammo con una Fiat Tipo, il motore che accelerava, la marcia in seconda, poi la terza, poi più forte, poi di nuovo la seconda per rallentare, un colpo di clacson, un altro, per farlo girare. Sembrava fatta. Primo colpo di fucile. Mancato. Secondo colpo. Vetro dell’auto in frantumi. Lui, ferito alla testa dalle schegge, accosta e riesce a fuggire. Una scena che pare un cinema. Altri colpi: il commissario è in spiaggia che corre, e ha anche il coraggio di girarsi e rispondere al fuoco. Si getta in mare. Non resta che scappare. Ma questa volta a scappare siamo noi.

E pensare che era stato tutto preparato nel dettaglio, nel villino del fratello di Giovanni Bastone, a Mazara, e Matteo aveva scelto gli uomini migliori tra noi, pure Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano aveva voluto nella squadra: aveva pensato a chi doveva fare da staffetta, a chi avrebbe dovuto «pulire» il luogo dell’attentato. Ma niente, non fu cosa, il diavolo ci aveva messo lo zampino.

E anzi Matteo, dopo, aveva la stessa faccia di uno che il diavolo l’aveva visto in persona, perché ne andava del suo onore e della sua reputazione, e gli veniva in mente quella frase: ci vogliono venti anni per farsi una reputazione, e cinque minuti per distruggerla. È andata male, ripeteva, è rimasto vivo, mentre le radio già davano la notizia, e la storia dell’attentato a Germanà apriva i telegiornali della sera, e qualcuno di noi che commentava, amaro: «Vuol dire che il suo destino era di restare in vita». […].

 

Il covo del capo dei capi svuotato e il “passaggio di consegne” all’erede

 

Sembrava incredibile, ma il 1992 stava per terminare. A noi era sembrato un anno eterno, per tutto quello che avevamo combinato, per l’estate infinita in cui sembrava avessimo intrappolato l’Italia. Poi era arrivato l’autunno, era calata una strana sensazione di tregua. Tante cose si muovevano, lo sapevamo.

Ci interessava poco. La mamma ci aveva insegnato a curarci solo dello stretto necessario, per non fare mala vita, prenderci pensieri che non erano nostri e poi perché per ogni cosa il Signore manda qualche provvidenza. Non si era fatta la tradizionale riunione prima di Natale, e un po’ ci era mancata. Niente passito con i tagliancozzi, niente mangiate, niente dolci con i fichi, niente porcospini.

Ognuno rimaneva a casa sua, chi da latitante, chi da uomo libero ma ancora per poco, tutti confortati e annoiati dai nostri affetti. Guardavamo i presepi, ci sembravano un carcere. Ogni tanto ci concedevamo la tv; le donne quell’anno impazzivano per il film della guardia del corpo, quello con la cantante famosa. E a noi facevano sorridere tutte queste americanate di grandi amori e sparatine, noi che le guardie del corpo sapevamo davvero come farle fuori, senza ultimi baci, canzoni strappalacrime e battute memorabili.

Anzi, se avessimo dovuto mettere in fila tutte le ultime parole che avevamo sentito, a parte i «vi prego, pietà», i «nooo» con abbondanza di vocali e di spavento, i pianti, i singhiozzi, la bava e il piscio, a parte tutto questo, sarebbe venuta una serie di banalità terribili.

A ogni modo, nessuno si azzardava a convocare riunioni: saremmo stati un obiettivo troppo facile, per quella metà di Stato che aveva deciso di farci la guerra (l’altra metà, l’avete capito, ci cercava per ben altro…). «Dopo le feste, dopo le feste», ripeteva Matteo a chi di noi gli chiedeva se c’era in ballo altro, quali erano le prossime tappe della nostra guerra, i fortini da espugnare, le persone da fare: l’elenco era lungo, avevamo appena cominciato.

Ma niente, Matteo ci diceva: pensate a passare delle buone feste a casa, riposatevi, ne avete di bisogno, poi vedremo. E dopo le feste in effetti la riunione fu convocata: non era la Commissione, non era la Supercosa, non aveva più nome né identità ed erano saltate anche le forme, e questa già era una cosa rivoluzionaria. Tant’è che non sapevamo che nome dare a quell’incontro e l’avevamo chiamato «incontro in grande stile».

Si decise per vederci a gennaio, il 15 a Palermo, nella zona di San Lorenzo. Sapete com’è finita, no? Quel giorno Totò Riina venne arrestato. Con Matteo eravamo a Palermo proprio quella mattina. Avevamo appuntamento nello spiazzale di un centro commerciale, in periferia, per cambiare auto e giro.

Piccole prudenze: non sapevamo mai il luogo esatto delle riunioni. Solitamente posteggiavamo in un punto e ci venivano a prendere. Aspettammo qualche minuto. Alla radio si parlava della crisi del partito socialista di Craxi, dei nuovi arresti di Tangentopoli, della crisi economica. I picciotti di San Lorenzo arrivarono con molto ritardo, ma non vennero a prenderci. Già ancora prima di scendere dall’auto ci urlarono: «Hanno arrestato lo zio Totuccio! Andate! Andate! ’U pigliaru!».

Alle otto del mattino di quel venerdì, i carabinieri dei reparti speciali avevano preso Totò Riina fra i palazzi della rotonda di Via Leonardo da Vinci, vicino il Motel Agip. Già giravano voci di come lo avevano catturato: messo a terra, la faccia nella polvere, una pistola automatica puntata alla tempia. Lui che aveva prima mostrato una patente falsa, e poi era stato costretto ad ammettere: sì, sono io. Eravamo nel panico, Matteo invece no. Ci disse: restiamo. Ma dove? Qui, aspettiamo.

Ma aspettiamo cosa? Viremo se è vero, innanzitutto. Ed era vero. Perché poi arrivò la notizia alla radio, con il signor Riina che era stato seguito dai carabinieri su dritta di Balduccio Di Maggio (che si era pentito), e non aveva opposto resistenza ma si era limitato a dire: state sbagliando persona. E i giovani che scendevano in strada a festeggiare. E magari anche da dove ci eravamo nascosti sentivamo gli strombazzamenti lancinanti dalla Questura, le code festose tipo che l’Italia aveva vinto i Mondiali.

E per un momento ci guardammo tutti, per un altro pensiero che ci era venuto in testa. Ed era un ricordo di qualche mese prima, subito dopo l’attentato al giudice Paolo Borsellino.

La gente non sembrava più n noi. C’erano le manifestazioni, le catene umane. E ci eravamo detti: passerà, come sempre. Calati junco. Solo che poi, a un certo punto, erano spuntati pure i lenzuoli bianchi dai balconi, e anche se non ne capivamo il significato, ci sembrava un affronto, ci faceva un po’ paura. Non ricordavamo che il colore bianco potesse essere così minaccioso. Ma la cosa allucinante è che pure nel quartiere di Brancaccio, regno dei fratelli Graviano, c’erano persone che mettevano lenzuola ai balconi per dire no alla mafia, e questo non era sopportabile.

Su suggerimento di Matteo, che nel frattempo li ospitava al mare da noi, i Graviano acchiapparono a Gaspare Spatuzza, uno che non si scantava di nulla, e gli dissero: segnati nome e cognome e attività e patronimico e magari quanti peli nel culo hanno di tutte le famiglie che osano esporre i lenzuoli a Brancaccio, così si insegnano. Vacci a tuppuliare.

Spatuzza, che venerava Matteo, aveva accettato di buon grado l’incarico, ma era tornato sconfortato qualche giorno dopo: non posso appuntarmi tutti i nomi, sono troppi. Questo pensavamo, mentre intorno tutto il mondo girava, e per la prima volta da un po’ di tempo sembrava non girare a verso nostro. Matteo ci richiamò alla realtà: ora possiamo andare. Ma dove? A Castelvetrano? No, a casa di Riina.

Ma ci vuoi morti? Ma non è che Matteo ci aveva venduti come qualche cornuto aveva fatto con lo zio Totuccio? Era un pensiero che ci faceva sudare freddo. Nel villino dove abitava la famiglia di Riina, quando arrivammo, pensavamo di trovare la polizia, e che gli avremmo fatto questo bel regalo di Natale in ritardo con la nostra cattura, pure. E invece trovammo i nostri. C’era un gran traffico.

Qualcuno era addirittura con il furgone. Avevano scardinato pure una cassaforte da una parete con la fiamma ossidrica. Stavano ripulendo tutto. Biglietti, pizzini, documenti. Tutto. Magari imbiancavano le pareti. Matteo fu chiamato in disparte. Molte carte se le prese lui. Ormai il passaggio di consegne si era consumato.

La mafia siciliana divisa fra nuove bombe e antichi accordi

Matteo era dunque deciso a continuare, perché voleva portare avanti la sua opera di trasformazione, e aveva bisogno che il corpo malato di Cosa nostra, che si offriva alla vendetta dello Stato, emettesse alcuni colpi di tosse. Noi pure volevamo continuare, perché avevamo un imperativo, che non era solo il vecchio adagio del futti futti che dio perdona a tutti, ma uno più spicciolo.

E si sa, le grandi tragedie non accadono con spirito nobile o ampie vedute, quella è virtù di pochi; le grandi tragedie accadono da pensieri banali, piccole intenzioni. E la nostra intenzione era quella di rispondere a quel finimondo che lo stato stava mettendo contro di noi, il carcere duro, innanzitutto, dal quale ci arrivavano racconti terribili: i nostri parenti privati di luce, aria, compagnia, roba che non si fa neanche ai cristiani più tinti; insomma, con tutti i violentatori di picciriddi e i corrotti che sono liberi, voi ve la pigliate con quattro animelle che non hanno fatto mai nulla di male nella loro vita, se non un poco di sventura? I racconti che arrivavano da posti come Pianosa o l’Asinara sembravano davvero descrivere l’anticamera dell’inferno. […].

E noi stavamo per morire, inutile girarci intorno, bisognava respingere quel massacro che stavamo subendo. Dobbiamo portare avanti la guerra, ci incitava Matteo, forza, qualcuno ci verrà a cercare, qualcuno ci verrà a dire: perché non la smettete? E tutti fantasticavamo il momento in cui qualcuno si sarebbe seduto alla tavolata con noi, e ci avrebbe detto: picciotti miei, allora mettiamoci d’accordo, non è che possiamo continuare all’infinito con queste ammazzatine.

E noi avremmo fatto le nostre richieste. Bagarella, ad esempio, aveva il chiodo fisso del 41 bis, il carcere duro, era quello più impressionato. E aveva tante altre idee, che magari se uno gli dava spago capace che ci metteva come richiesta che sua moglie doveva rimanere incinta una volta per tutte. Altri ancora ce l’avevano con i collaboratori di giustizia.

Dobbiamo fare cambiare la legge sui pentiti, dicevano. Ancora una volta, eravamo chiamati a seminare il terrore per stabilire la pace, a destabilizzare per mettere ordine, a depistare per dare una via. Che poi, a pensarci bene, era tutta una follia, non c’era logica – sì, adesso possiamo dirlo, con la serenità dei superstiti –, non c’era alcuna logica. Ma volete fermarvi un attimo a riflettere su questo paradosso?

Noi chiedevamo allo Stato di abolire delle misure repressive che erano nate proprio a causa di quelle stragi che noi avevamo voluto ed effettuato. Il primo provvedimento che trasferisce 55 mafiosi detenuti dal carcere dell’Ucciardone a Pianosa il ministro della Giustizia Martelli lo ha firmato a Palermo, la sera del 19 luglio.

E senza la strage di Via D’Amelio molti provvedimenti in Parlamento non sarebbero passati, perché le resistenze garantiste erano tante. E allora tanto valeva non fare le stragi direttamente… Le cose devono continuare – ci esortava Provenzano – un po’ di pazienza che tutto si risolve in bene.

Provenzano adesso era il primo a essere convinto che bisognava continuare, ma a modo suo. Ci convinse a spostare gli obiettivi fuori dalla Sicilia. E certo, voleva campo libero da noi. Matteo apprezzava e incoraggiava. Provenzano credeva di poter inaugurare un nuovo regno, non capiva che anche per lui era cominciato il conto alla rovescia.

Sognavamo questo incontro: ci saremmo messi il vestito buono, ci avrebbero invitato in qualche stanza dall’argenteria in vetrina, i passi morbidi sulla moquette, noi con le scarpe buone, non quelle marroni, le altre, come Matteo ci aveva insegnato.

L’accordo in realtà si stava facendo. Ma a nostra insaputa. Noi non eravamo al tavolo. Eravamo parte dell’accordo.

Il piccolo Di Matteo e gli altri omicidi che chiudono l’era corleonese

Più andavamo avanti, più Matteo ci appariva per quello che è: un vero, nuovo, capo. Lo capimmo quando ci convocò, in un’altra occasione. E c’erano tutti, Ferro, Gioè, gli altri. E, come sempre, siccome il tempo era poco, e i cani di mànnara che ci seguivano avrebbero potuto già fiutare i nostri passi, non si fece l’analisi di quello che era successo, non eravamo un circolo di dopolavoro né una sezione di partito, e Matteo come sempre non ci diceva tutto, ma solo il necessario.

E, in quell’occasione, il necessario era che bisognava eliminare alcuni agenti di polizia penitenziaria, che non se ne poteva più del modo in cui trattavano i nostri, perché sì, è vero, erano lontani i tempi dello champagne e delle buttane dentro il grand hotel Ucciardone, quando organizzavamo mangiate da fare restare a bocca aperta le guardie carcerarie, e ci tiravamo addosso le aragoste, ma una mezza misura ci voleva.

Arrivavano racconti agghiaccianti: chi si pisciava addosso per la paura, e non era nemmeno concessa la facoltà di cambiarsi, altri lasciati senza cesso, o con la luce sempre accesa, o senz’acqua, o prelevati di notte, e picchiati, e poi riportati in cella, come se nulla fosse. Lo stato era diventato improvvisamente cattivo con noi, e questo non andava bene.

Ci mancava, il carcere del passato, perché per noi non era solo la bella vita che serviva a irrobustire il mito sfacciato della nostra impunità: il carcere per noi era anche una specie di centrale per la diramazione degli ordini. A volte si trovavano insieme capi mandamento o capi famiglia, e da dietro le sbarre – si fa per dire – trovavano la quiete necessaria per gestire le proprie cose, dare compiti, ordinare omicidi.

A parte che poi, col tempo, ci siamo presi gioco anche della massima sorveglianza. I fratelli Graviano, ad esempio, sono stati dei maghi. Per dire, sono riusciti a mettere incinta le rispettive mogli nonostante la regola dei colloqui separati dal vetro. E poi, tutti a raccontare degli agi dell’Ucciardone, ma vedete che anche al carcere di Trapani il trattamento per noi era da cinque stelle. Se uno voleva parlare con Mariano Agate, ad esempio, quando era rinchiuso lì, veniva ricevuto da lui in una stanzetta appartata, in vestaglia elegante e pantofole che neanche un viceré o Don Raffaè, quello della canzone. E gli veniva offerto anche il caffè, e si discuteva con calma dei problemi che neanche al circolo nobili.

Quando si decise di posare Cola Buccellato, e fare capo della provincia Francesco Messina Denaro, la riunione dove fu fatta? In una cava? In un centro congressi? In campagna? No. Al carcere di Trapani. Cola Buccellato era lì, e Mariano Agate gli venne a fare visita per dirgli che l’avevano buttato fuori, dalla famiglia e da tutto. Mancava poco che lo buttavano pure fuori dal carcere… Ci vorrebbe un altro colpetto, disse qualcuno di noi, con gusto della citazione per il signor Riina e le sue ultime parole famose, adesso che era ospite dello stato e si era fatto muto, e rimaneva intoccabile anche in cella.

No, disse Matteo, stanno accadendo tante cose, e non sto qui a spiegarvele. Dobbiamo solo ammazzare qualche secondino. Io mi occupo di quelli della provincia di Trapani, i palermitani dei loro, e poi ci sono quattro agenti di Sciacca che ho chiesto a quelli di Agrigento di occuparsene. Ci diede incarico di individuare gli obiettivi, le guardie che davano legnate, e capire come agire. Poi di non fare nulla. Aspettare un suo cenno. […]. Tutto, potevamo fare tutto. E molto in effetti abbiamo fatto.

E ci sembrò pertanto di assecondare questa corrente quando decidemmo di eliminare gli agenti della polizia penitenziaria che avevano cominciato a comportarsi male con noi, a non portarci più rispetto, a picchiarci; anche per loro era venuto il momento della lezione, di fare capire chi comandava in Italia. E l’Italia era anche il metro quadrato delle celle dove avvenivano sevizie che ci facevano venire i brividi a raccontarle, umiliazioni che non erano cose di cristiani.

Che poi era facile prendersela con i poveretti tra noi che erano finiti nelle carceri, farli pisciare addosso, tenerli senza luce in cella, o addirittura al buio per giorni, negare un’ora d’aria o una coperta, accanirsi con piccoli velenosi dispetti. Era un modo di giocare sporco che non ci aspettavamo, e che aveva portato indignazione anche in quelli tra noi che erano più propensi al dialogo.

Ma quei secondini solo un linguaggio capivano, la violenza, ed era il linguaggio che noi, in quel momento, sapevamo usare meglio: una violenza forte, una violenza affamata, che infatti ci mangiò. Così era deciso: gli agenti sarebbero stati le nostre nuove vittime. A ottobre del 1992 uccidemmo a Porto Empedocle Pasquale Di Lorenzo, nel 1994 a Catania l’agente Luigi Bodenza. Tra loro c’era anche Giuseppe Montalto, che lavorava all’Ucciardone, a Palermo.

La sua eliminazione fu decisa durante una riunione a Salemi. Aveva intercettato un pizzino in carcere di Mariano Agate per uno dei fratelli Graviano, roba del genere. Fu ucciso per volere di Matteo con due colpi di fucile da caccia semiautomatico il 23 dicembre del 1995, mentre era in auto con moglie e figlia.

E fu Matteo a organizzare tutto con la saggezza ormai del capo, e la meticolosità di chi non lascia nulla al caso, non solo nei preparativi, ma anche nella data: il 23, ci diceva, tutto deve essere fatto il 23, l’antivigilia, così i picciotti in carcere si sarebbero fatti il Natale più allegro. E così fu. Bisogna aspettare il 1998 per l’assassinio, a Palma di Montechiaro, di Antonino Condello. Non ci riuscì di uccidere Balduccio Di Maggio, che si era buttato pentito, ed era stato lui, di fatto, a dare le informazioni per arrestare Totò Riina. Viveva in una località segreta, come tutti i collaboratori di giustizia. […].

Così come non ci riuscì l’attentato a Salvatore Contorno, che stava da anni a Formello, nel Lazio, a farsi in quel borgo la vita sua con moglie e figlio, a tipo che era una puntata di Linea Verde. Non meritava la pace, Contorno, che aveva detto che eravamo diventati una banda di vigliacchi e di assassini, e che noi eravamo i veri pentiti di Cosa nostra, perché avevamo cambiato tutto. Girava tranquillo e senza scorta.

Potevamo ucciderlo con un colpo di lupara, ma anche lì fu deciso che la sua morte doveva essere una cosa eclatante, perché troppi danni ci aveva fatto. Contorno doveva essere dilaniato da una carica di settanta chili di esplosivo, un omicidio che doveva «fare rumore». E vicino casa sua, in un canale di scolo, avevamo messo dell’esplosivo. Non te lo vanno a scoprire i carabinieri? La bomba esplode e lascia un cratere di cinque metri. E un nuovo indirizzo per Contorno.

E sempre sul finire del 1993 avvenne un altro fatto, per noi importante e doloroso, che fu il sequestro di Giuseppe Di Matteo, che era un bambino, il figlio di Santino Mezzanasca. Lo conoscevamo bene, qualcuno lo aveva anche visto crescere. E infatti non fu un rapimento vero e proprio, non ci fu bisogno della forza.

Lo chiamammo, e lui venne, con la scusa che lo portavamo a fare un giro, magari a insegnargli a fare barchette di carta da fare galleggiare nei canali di scolo ancora pieni dell’acqua, che aveva piovuto in quei giorni. Ci conosceva, si fidava. Ci voleva bene. E ci continuò a volere bene pure durante i giorni della sua lunga prigionia, quando eravamo convinti che per liberarlo il padre, che si era buttato pentito, non avrebbe detto tutto quello che sapeva sulla strage di Capaci.

Invece il padre non si fermava: parlava, parlava, parlava. E Giuseppe ci voleva bene, anche quando era diventato tipo un canuzzo pelle e ossa, che lo facevamo spostare da cantina a cantina, in posti segreti, sempre più bui, nel nostro territorio, in cave e luoghi che avevamo messo a disposizione di Matteo – prima a Castellammare del Golfo, poi a Campobello di Mazara, poi in una frazione di Custonaci che si chiama Purgatorio e che sembrava l’anticamera dell’inferno. Sì, perché poi abbiamo dovuto ucciderlo, il bambino – le mani che affondavano in quel collo di burro –, l’11 gennaio del 1996, il corpo sciolto nell’acido.

Lui che era un canuzzo, per quanto era leggero, e che ci disse, con l’ultimo fiato di voce che gli rimaneva: Ma mi state portando a casa? Fu come se prima del nostro definitivo inabissamento si fosse reso necessario un gesto supremo d’orrore puro, le fauci spalancate del mostro, poi il suo rapido indietreggiare, nascondersi.

Perché noi eravamo questo: divoratori di mondi, e di bambini. E nel sacrificio del piccolo Giuseppe si realizzava la nostra dannazione, e capimmo che sognavamo di essere portati via dal mare perché la nostra condanna era proprio questa: eravamo dei non morti, destinati a non annegare mai. Galleggiavamo. Galleggiavamo tutti.

Una bomba che non esplode, tutto finisce con un grande mistero

Eravamo noi. Superbi, formidabili e feroci. Stavamo creando un nuovo mondo, noi che eravamo considerati da un certo tipo di mondo come dei rifiuti, e invece volevamo imporre leggi nuove, invertire onore e disonore, dimostrare la nostra potenza, avere mandamenti sconfinati: dove finisce la tua zona? Lì dove finisce la città? No, più avanti, più avanti ancora.

Dove ti sembra che finisca, il nostro mandamento ricomincia migliaia di volte, ogni cantiere è nostro, ogni strada sterrata, ogni trazzera, ogni grattacielo l’abbiamo costruito noi, ogni porto è quello dove partono le nostre navi di droga e sigarette, anche l’orizzonte è nostro, che ti pare? Saremmo tornati ai tempi antichi, di quel Pitrè, il letterato, che aveva capito che la mafia è «sentimento di bellezza», come diceva, e noi ci sentivamo davvero belli e fieri, nelle nebbie in cui ci saremmo avvolti, nello stato che avrebbe perso ancora una volta la sua messa a fuoco, nel riconoscerci, nell’indicarci, nel lottarci.

Fu con questo spirito che portammo la guerra fuori dalla Sicilia, raggiunta la mediazione che metteva d’accordo tutti: bisognava continuare, ma non da noi, intaccando qualcosa di immateriale e prezioso, l’immagine dell’Italia. Ecco allora le bislacche ipotesi, noi seduti a un tavolo, con le guide del Touring in mano, come se avessimo dovuto organizzare un addio al celibato, ma per gente allitrata, colta, e senza puttan tour.

A Pisa c’è la torre, a Roma il Colosseo, a Torino la Mole, a Firenze gli Uffizi, a Milano musei e gallerie e la nebbia. Matteo poi ci disse che eravamo pronti, era tutto deciso. Con fare scenico, come ogni tanto amava fare, ricordandosi di essere siciliano, e quindi un po’ tragediatore anche lui, prese un manuale di storia dell’arte di un nipote liceale, lo aprì alla pagina dedicata agli Uffizi.

Noi vedevamo corridoi lunghissimi, stucchi dorati, quadri importanti, giovinetti in marmo. E il suo indice, come a dire: qui. Matteo ci raccontò anche che si era fieramente opposto all’idea che balenava a qualcuno di fare gli attentati in Sicilia, per comodità di logistica ed economia di pezzi. E la cosa camminava, tanto che era venuta anche la proposta di fare saltare in aria un tempio al parco archeologico di Selinunte. Oh, ma siete impazziti? aveva urlato Matteo, che non perdeva quasi mai la calma.

A casa mia? Volete mettere le bombe a casa mia? I palermitani lo avevano toccato in un punto sbagliato. E siccome ormai eravamo sul punto del crollo nervoso, perché tutti sospettavamo di tutti, Matteo capì che in quell’assurda richiesta c’era una trappola: vi siete fatti i bagni a furia di scavare indisturbati come tombaroli e vendendo tutti i reperti archeologici che trovavate in modo indisturbato, e adesso dovete dimostrare che a qualcosa sapete rinunciare anche voi.

La risposta è no? O ci aiutate a mettere le bombe, allora, o le bombe le mettiamo direttamente nel culo a casa vostra, tra i templi e gli altari sacri.

Il resto, lo sapete. Via dei Georgofili, Firenze, 27 maggio 1993. Cinque persone morte. Ma colpimmo anche la Torre dei Pulci, la Galleria degli Uffizi, Palazzo Vecchio, musei, ponti, opere d’arte, e tutti gli edifici intorno, come se avesse agito una mitragliatrice. Via Palestro, Milano, 27 luglio 1993, il Padiglione di Arte Contemporanea. Cinque vittime.

Nella stessa notte colpimmo la Basilica di San Giovanni in Laterano, Roma, con tanti danni ai monumenti. Tre latrati che hanno squarciato l’Italia. E il capo del governo che per un attimo ha avuto paura e pensato al colpo di Stato. Il 14 maggio avremmo dovuto finalmente fare Maurizio Costanzo, in Via Fauro, nell’elegante quartiere Parioli, a Roma. Una Fiat Uno imbottita con 80 chili di tritolo. Ma non ci riuscimmo. Ma ve lo immaginate che se tutto fosse andato bene oggi avreste venerato Costanzo come un «giornalista vittima della mafia», con la vedova che anziché fare Amici in tv avrebbe fatto magari Amici degli amici nelle aule di tribunale, nei convegni antimafia, nelle scuole? Per sua fortuna, quella sera la sua auto ebbe un guasto, e allora aveva noleggiato un’altra macchina. E noi non lo capimmo, all’inizio, che era lui.

Così azionammo il telecomando troppo tardi. Uno, due secondi decisivi. Nel gennaio dell’anno 1994 altro intoppo, davanti allo Stadio Olimpico, dopo una partita di campionato, in Via dei Gladiatori, dove abitualmente parcheggiavano i pullman che portavano i carabinieri impegnati nel servizio d’ordine. Si giocava Roma-Udinese. Potevamo cominciare l’anno con il botto, davvero, cambiare per sempre le sorti della guerra, colpire l’Italia nel suo ventre più caldo, quello del tifo. Non funzionò il congegno. Eppure eravamo diventati così bravi. Era tutto pronto. Spatuzza e Scarano avevano fatto i sopralluoghi mesi prima.

Pentrite T4, tritolo, nitroglicerina, insieme a dei tondini di ferro, per amplificare ancora di più l’effetto dell’esplosione. Avevamo studiato i particolari, quasi sapevamo quanti carabinieri sarebbero morti, e anche come avremmo rivendicato quel 23 gennaio, un’altra domenica delle salme.

Ma niente, il meccanismo si inceppò. Pochi giorni dopo, i fratelli Graviano vennero presi, a Milano, mentre mangiavano al ristorante. Si chiamava «Il cacciatore», che ironia. Erano clienti fissi, i camerieri se li ricordavano sia per le laute mance, sia per un particolare: ogni volta, prima di sedersi a tavola e ordinare il pranzo, recitavano in piedi le preghiere. E noi con le bombe la chiudemmo lì. Matteo ci disse: non sono più necessarie.

La strategia del terrore, fare attentati in tutta l’Italia

La domanda di Matteo era: Dobbiamo fare degli attentati al nord, cosa ne pensate? Capimmo subito che la domanda era retorica: conteneva già la risposta, e la risposta era sì, perché lui aveva già deciso per noi. Ma non per questo ci precludemmo di capirne di più, e quindi, approfittando dello spazio che ci era stato concesso, porgemmo una domanda: perché? Eh, perché, ci disse Matteo, perché magari ci vengono a trovare e chiedono un compromesso. Altra domanda: chi? Ma Matteo aveva già esaurito le risposte e la pazienza.

Ci fu pertanto una riunione a Mazara del Vallo con Santo Mazzei, che era una figura che avevamo creato noi per fare uno sgarbo ai catanesi. Questo Mazzei aveva l’incarico di andare a Torino da un mazarese, Giovanni Bastone, che lì era sorvegliato speciale e che gli avrebbe fatto trovare dei candelotti di dinamite e dell’esplosivo. Con questo esplosivo Mazzei fece su e giù per l’Italia, il culo stretto per lo scanto di saltare in aria. Fabbricammo una piccola bomba che ci venne anche bene, era graziosa, pareva uscita da un laboratorio d’arte: sembrava una specie di razzo color oro, il nostro Little Boy.

Qualcuno suggerì di scrivere in piccolo qualcosa del tipo «Abbasso la mafia», o «La mafia fa schifo», per sfottere un po’ e anticipare i tempi di qualche anno, quando cioè sarebbe accaduto davvero che i primi a dire «abbasso la mafia» saremmo stati davvero proprio noi.

Su Santo Mazzei vale la pena spendere qualche parola in più, perché lui fu per noi una specie di cavallo di Troia. Avevamo un problema con i catanesi – se non si fosse ancora capito – che non erano proprio entusiasti entusiasti dell’idea di fare la guerra. E benché davanti ci avevano detto di sì, e avevano fatto le loro cosette – a Pippo Baudo, a questo o a quel politico – erano comunque rimasti sempre mezzo passo indietro, quasi a voler avere una via di fuga. Ecco allora l’idea: inserire nelle figure di riferimento catanesi Santo Mazzei, che apparteneva agli storici clan che si opponevano ai Santapaola. Insomma, gli avevamo messo la guerra in casa.

[…] Santo Mazzei, invece, accettava qualunque cosa gli dicessimo. A cominciare dalla bomba che abbiamo fatto mettere al giardino del museo, a Firenze, quella che poi non è esplosa. Ma ancora prima aveva fatto per noi degli omicidi a Rimini come a Torino. Insomma, era un uomo di fiducia. […].

E anche in questa terza parte della nostra storia, quella che ha portato agli attentati del 1993, c’è un punto zero che avete dimenticato, e porta la data del 5 novembre 1992. È lo stesso giorno che a Racalmuto, il paese dello scrittore Leonardo Sciascia, c’è una sparatoria che lascia a terra tre vittime. Ma noi ci muoviamo silenziosi, altrove, a Firenze. Coso, Mazzei, ha il compito di lasciare il nostro bellissimo ordigno d’oro al Giardino di Boboli, vicino Palazzo Pitti (scopriremo dopo che accanto c’era la statua del magistrato Marcus Cautius, l’inventore della cauzione…). Non deve esplodere. Deve solo fare scantare.

Paga pure il biglietto di ingresso al museo, per entrare nel giardino e piazzare la bomba: se la teneva bella dentro il giubbotto. Così ci fu la telefonata da un Autogrill a un giornale per dire che c’era una bomba. E la bomba fu trovata. Il giorno dopo aspettammo il comunicato alla radio per sentire la notizia: nulla. Al telegiornale dell’ora di pranzo, allora: nulla. E nei giornali non c’era nulla, e vabbè, magari sarebbe uscita il giorno dopo, perché non c’erano arrivati la sera prima. Nulla.

Nessuno ci aveva cacato, manco di striscio. Forse perché l’ordine era di non spaventare ancora di più la gente in quell’anno che era stato complicato per tanti motivi. Per noi però il test era andato bene. Avevamo trovato una strada. Dovevamo solo decidere cosa tirare giù. E questa volta davvero. La Torre di Pisa, diceva qualcuno. Il Colosseo, a Roma, aggiungeva un altro, ma quello è già bucato, boh.

Si inserì anche un momento malinconico, in quel ragionare di luoghi d’arte da radere al suolo, di bombe da mettere nei siti archeologici, ed era non il senso di colpa per l’attacco al patrimonio culturale, ma per una sorta di inutilità. In un Paese che da sempre mostra le sue macerie al mondo, noi avremmo contribuito ad aumentare il catalogo dei ruderi da offrire ai visitatori, avremmo aggiornato l’inventario.

Ma era un pensiero di pochi attimi, poi prevaleva la strategia. E ci rivolgevamo a Matteo perché era quello che sapeva, che teneva le fila. Poi ci fu un tale, Paolo Bellini, uno che aveva l’aria di nascondere tanti segreti nel nero della storia d’Italia, che ci contattò per mediare: se lo avessimo aiutato a trovare delle opere d’arte rubate, lui si sarebbe impegnato per favorire le scarcerazioni di alcuni boss.

Ci arrivarono, ’ste foto di oggetti d’arte rubati. Ma Matteo quando le vide ci disse: picciotti, ma vi pare che qui siamo il gruppo Tnt o Diabolik? Non è un fumetto. Noi abbiamo poche cose E ci diede un’altra foto, una specie di statua di un cane senza testa. Poi foto di anfore a gogo, piccole, grandi, pezzi di cose antiche. Questo avevamo. Ma non interessava.