11.3.2023 FQ – Messina Denaro: consiglio a certi professionisti di stare in silenzio quando non conoscono i fatti
Pippo Giordano
Piazzisti di illusioni, venditori di fumo, esperti – noti e non – di cose di mafia, ove la dietrologia viene prodotta a carattere industriale dovrebbero leggere un articolo a firma della giornalista palermitana Sandra Figliolo di PalermoToday. Figliolo finalmente ci dice che stiamo coi piedi per terra e racconta che le stupidate dette sulla cattura di Matteo Messina Denaro erano fake news. Per quanto mi riguarda, due giorni dopo la cattura di Messina Denaro ho detto semplicemente “Grazie Ros”. E l’ho detto a oltre 500 studenti mentre io e Fiammetta Borsellino li incontravamo in un Teatro della Romagna. Quel mio grazie non era di circostanza, ma era onesto e sinceroperché so cosa significa lavorare in silenzio dimenticando gli affetti familiari per giorni e giorni se non per mesi. E immagino, dopo la cattura di Messina Denaro, la rabbia e la frustrazione degli uomini del Ros nel leggere fantasiose ricostruzioni fatte persino da personaggi esperti di cose di mafia. Capisco gli esperti facebookiani di mafia, ma non capisco come certuni professionisti non perdano l’occasione per stare zitti quando non si conoscono i fatti. Parafrasando il titolo della canzone dei Maneskin: state Zitti e buoni. La giornalista Figliolo ci suggerisce di leggere l’arresto senza dietrologie: arresto operato con alta professionalità, altro che gelato alla Baiardo. Gelato che si è sciolto come neve al sole. Il compianto mio corregionale Leonardo Sciasciadisse: “a ciascuno il suo” e allora mi rivolgo a tutti, oltre che a me stesso. Ognuno parli del suo sapere e senza strumentalizzare fatti – peraltro privi di elementi fattuali. Se volete aumentare l’audience datevi al gossip, ma non gettate fango su chi la mattina esce per lavorare e non sa se farà ritorno a casa: il riferimento è al Ros e a chi svolge le investigazioni per garantire sicurezza. Un’ultima cosa: basta con questa tiritera dei servizi deviati. Un personaggio – pentito? – qualche anno fa ha detto che nella strage di Capaci c’era il Mossad, la Cia e ovviamente i nostrani regolarmente deviati. Matrimia che minkiata colossale. Come l’altro che ha raccontato baggianate sul suo rapporto con Paolo Borsellino: il tizio è stato enfatizzato in tv nonostante Giovanni Falconel’avesse definito inaffidabile e mitomane. A me sorge un dubbio. Ma prima di mandare in onda un servizio sulla mafia, gli autori leggono o non leggono le carte processuali.
9.3.2023 “Apriamo gli occhi e non cadiamo nell’indifferenza, il male deve essere smascherato e demolito”
Gli studenti: “Faremo tesoro della giornata a teatro dove abbiamo appreso tanto sull’amore e l’onesta”.
Nell’incontro sulla mafia al teatro Moderno gli studenti hanno avuto la possibilità di porgere domande. A distanza di due giorni dall’arresto del super latitante Matteo Messina Denaro un nostro compagno di classe, Gianluca, ha chiesto alla figlia di Borsellino un parere sulla vicenda e lei ha risposto che “era un atto dovuto da parte dello Stato. In uno Stato sano si dovrebbe arrivare in tempi più celeri all’arresto di persone che hanno seminato morte”.Anche Pippo Giordano è intervenuto per rispondere alle nostre domande e per riportare la sua esperienza: come ispettore della Polizia di Stato ha operato in prima linea nella lotta contro la mafia nei momenti più duri e sanguinosi, con incarichi nella Direzione Investigativa Antimafia (Dia). Oggi, da pensionato, racconta agli studenti le storie di quegli uomini che hanno scritto col loro sangue la lotta alla mafia. In conclusione dell’incontro a teatro i bambini della primaria delle classi V A e V B della primaria Ilario Fioravanti hanno realizzato uno spettacolo: guidati dalla regia delle insegnanti Antonietta Garbuglia e Teresa Casalaspro, hanno rappresentato delle persone con una maschera, che costruivano nell’oscurità il potere del male con dei mattoni e lo facevano con la complicità di altri con gli occhi bendati che, omertosi, non ostacolavano questa situazione; in seguito sono arrivati dei ragazzi che, a viso aperto, hanno smontato i mattoni con cui si era costruito il potere delle tenebre; è stata una metafora per far capire che, se si vede qualcosa, non bisogna far finta di niente, ma bisogna agire o dirlo a qualcuno più grande perché agisca: ciascuno nel suo piccolo può contrastare questo fenomeno e insieme lo si può demolire. Lo spettacolo è terminato con i ragazzi che rappresentavano la legalità, i quali hanno tolto le maschere a coloro che ce l’avevano: il male deve essere smascherato e si deve lottare anche nel nostro piccolo ad esempio con la tolleranza, il rispetto, con il ’no al bullismo e al razzismo’, parole che sono state infine mostrate, innalzandole. Intanto un bambino recitava una bellissima poesia su Paolo Borsellino, scritta dall’insegnante Marianna Casadei.
Fiammetta dopo questo spettacolo si è emozionata, infatti è stato un momento veramente toccante. L’incontro si è concluso con la lettura di un testo scritta da un bambino della 5^A della Dante Alighieri a Paolo Borsellino, con il canto fatto dagli alunni della primaria della canzone ’Pensa’ di Fabrizio Moro, con degli omaggi a Fiammetta: un fumetto realizzato dalla classe III A, dei pensieri da parte della classe III D e di altri doni preparati dai ragazzi delle medie e del Marie Curie. Sicuramente ognuno di noi farà tesoro nel proprio cuore di questa giornata, perché la storia di Paolo Borsellino, di Fiammetta e di tutta la sua famiglia è una storia che può insegnare a tutti qualcosa sull’amore, l’onestà, lo spirito di sacrificio per il proprio lavoro e soprattutto il coraggio che tutti dovremmo avere. Giacomo Semprini, Pietro Semproli, Pietro Arcangeloni, Irene Ventrucci, Vittorio Baiardi Classe 3^C, Scuola “Giulio Cesare” Savignano sul Rubicone. IL RESTO DEL CARLINO
9.3.2023«Io, ergastolano con un dottorato all’Unical»
Il carcere spesso è l’anticamera del cimitero. Per chi è condannato alla pena dell’ergastolo significa essere seppellito vivo. Io sono uno di quelli. Sonoentrato in carcere all’età di 19 anni e non sono più uscito. Sono trascorsi 33 anni, ma non mi sono arreso. Perché il carcere può essere anche un luogo di riscatto. La mia esperienza personale mi dice che molto dipende dalla propria volontà e dalle opportunità che ti offre la società, e che lo studio può essere un potente dispositivo di integrazione.
Oggi vorrei scrivere proprio delle opportunità offerte dalla società, e sotto questo aspetto, di quale terra straordinaria sia la Calabria, nonostante i tanti problemi che ci sono: povertà, criminalità, mancanza di servizi, lavoro etc. di cui nessuno tace l’esistenza. Tuttavia la Calabria è soprattutto altro, se penso alle persone fuori dal comune che “abitano” esercitando una professione nell’ambito di istituzioni e comunità locali calabresi.
Una storia “altra” rispetto alla “narrazione parziale” che si fa di questa bellissima regione.
Bisogna conoscere e vedere prima di parlare, giudicare, se proprio si deve giudicare, come insegnava Piero Calamandrei, uno dei padri della Costituzione. Un po’ come accade con chi è in carcere, dove non ci sono “i detenuti” o “i condannati” ma persone, individui con storie diversissime e un passato che non è solo reato, soprattutto persone che nel tempo cambiano. Calabria e carcere in un certo senso subiscono il pregiudizio di chi non sa ma ritiene di sapere, dimenticando la lezione di Socrate.
Vorrei cominciare ringraziando chi mi ha citato in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Accademico del PUP dell’Università della Calabria che ha visto la partecipazione straordinaria della cara Fiammetta Borsellino su invito del rettore, professore Nicola Leone: il professore Raniolo che ho avuto il privilegio di conoscere (anche se da remoto) in occasione della mia presentazione sull’avanzamento della mia ricerca intrapresa nell’ambito del dottorato in “Politica, società e cultura” presso l’Università della Calabria, certamente la più alta forma di condivisione, di inclusione dei detenuti. Il coordinatore del dottorato ha voluto ricordare che ho uno status di dottorando di ricerca, una delle opportunità ed esperienze inclusive più straordinarie nel panorama accademico italiano. “Straordinario” sottolineo, per le vicende che voglio raccontare parlando della Calabria e dei calabresi.
Sono entrato in carcere con il titolo di licenza media inferiore; ho iniziato a studiare mentre ero in regime di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario. A tale regime fui sottoposto a 21 anni d’età. Anticipo che sia la pesantissima condanna, sia le moltissime restrizioni detentive (e non solo) subite erano a mio parere giustificate nonostante la mia vicenda criminale è da ascriversi a una breve parentesi tardo adolescenziale. I fatti in cui ero rimasto coinvolto erano gravissimi, reati di cui oggi non mi capacito come proprio io sia riuscito a commettere.
Il passato non si può cambiare ma si può fare qualcosa per riparare e per migliorare il futuro, contribuendo nei modi in cui ci è possibile, anche per non restare imprigionati in quel passato. Questo mi hanno fatto capire le persone a me più vicine, dalla famiglia a quelle che ho avuto la fortuna di incontrare in questo mio “viaggio senza fine” (giudici, avvocati, docenti, operatori penitenziari, volontari), quando hanno inteso che mi ero reso conto del male arrecato e della disperazione provata per l’impossibilità di tornare indietro.
«Indietro non puoi tornare ma puoi ricominciare da dove hai lasciato» – mi dissero i miei familiari, gli unici che potevo vedere per un’ora al mese dietro un vetro. L’abbandono della scuola era stata una scelta che i miei avevano sempre avversato. Da ragazzo avevo fatto mio il detto che «saper fare è meglio che studiare» e così mi ero messo a lavorare nell’attività di famiglia. La mia condizione detentiva comportava una serie infinita di limitazioni ma non quella di poter leggere (si potevano detenere al massimo 3 libri, ma sostituibili). Trovai una frase di Aristotele: «Lo studio non ha bisogno d’altro che dell’intelligenza». Fu illuminante, realizzai che avrei potuto riprendere gli studi facendo la felicità dei miei genitori. L’inizio fu durissimo, non c’era nessuno a cui rivolgermi per le materie scientifiche. Ero un autodidatta, incontravo i docenti solo in occasione degli esami di ammissione, del diploma e poi per quelli universitari, sempre da dietro un vetro, fino a quando non mi hanno revocato definitivamente il regime ex art. 41-bis (durato circa 13 anni). Quando accadde ero nel carcere di Spoleto e iscritto all’Università di Perugiasu “invito” del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP); pensavo alla facoltà di Lettere e Filosofia, «meglio Giurisprudenza» mi disse il mio avvocato dell’epoca, l’indimenticabile professor Fabio Dean: «È una materia umanistica e tecnica che potrà essere utile per aiutare te stesso e gli altri», aggiunse, e con queste parole mi convinse. Con la revoca sopraggiunse il trasferimento al penitenziario di Palmi, in Calabria. Era la prima volta che mettevo piede su questa terra, onestamente ci arrivai con i “pregiudizi” che la fanno conoscere nel mondo. E invece…
Invece scoprii che la civiltà, l’umanità, l’efficienza (anche in carcere) sono in Calabria.
La vulgata vuole che il Sud prenda ad esempio il Nord… Forse solo a livello di infrastrutture, perché a livello di umanità, funzionalità ed efficienza le realtà calabresi che ho conosciuto non hanno nulla da imparare da nessuno, anzi possono insegnare ed estendere le loro buone pratiche.
Dopo un anno, da Palmi fui trasferito a Catanzaro invitato nuovamente dal DAP a iscrivermi all’università più vicina. Dovetti cedere.
Il mondo accademico è stato molto attento nei miei confronti, i docenti dell’UniPG sempre disponibili, ma gli anni di isolamento mi avevano inibito nei rapporti interpersonali. L’iscrizione all’Università di Catanzaro non cambiò di molto le mie abitudini. I contatti li tenevano gli educatori del carcere (la dottoressa Arianna Mazza e poi il dottor Giuseppe Napoli), efficientissimi anche loro, i quali mi reperivano programmi e testi da studiare. Fissavano la data per gli esami che sostenevo in presenza dei docenti nel carcere di Catanzaro. Ebbi modo di conoscere e partecipare ai corsi diretti dal professore Nicola Siciliani de Cumis, un gigante della pedagogia contemporanea, e di incontrare una delle direttrici penitenziarie più capaci che ho avuto modo di conoscere (la dottoressa Angela Paravati), pari solo al direttore del carcere di Spoleto (il dottor Ernesto Padovani) quanto a competenza, capacità organizzative e coraggio nell’assumersi le responsabilità nelle decisioni. Anche qui siamo di fronte allo “straordinario”.
I contatti con l’UniCZ si intensificarono con la preparazione della tesi di laurea e l’esame finale. Seppi che il mio relatore sarebbe stato il professor Luigi Ventura, già preside del dipartimento di Scienze giuridiche, fuori dal comune anche lui come il suo staff di collaboratori.
Con lui pensammo a una tesi multidisciplinare tra diritto costituzionale, europeo e penitenziario. Ne uscirà una tesi avanguardista sull’irretroattività dell’interpretazione sfavorevole in materia penitenziaria (in soldoni l’irretroattività dell’interpretazione dell’art. 4-bis OP che aveva creato l’ergastolo “ostativo giurisprudenziale”).
Una tesi di laurea che vedrà la pubblicazione come Manuale sulla pena dell’ergastolo, e verrà premiata come migliore tesi di laurea dell’anno. Basterà dire che dopo 6 anni la Corte costituzionale (nn. 32/2020 e 17/2021) è arrivata ad affermare i principi ivi espressi come diritto applicabile nel nostro ordinamento, anche se non ancora in relazione all’ergastolo ostativo; per questo probabilmente bisognerà aspettare la Corte di Strasburgo, innanzi alla quale pende un ricorso, già dichiarato ammissibile, se lo accoglierà.
Questo è il prodotto di una ricerca, uno studio realizzato in Calabria. È bene sottolinearlo.
Dopo la mia laurea, come tutte le cose belle, la mia permanenza nella vostra straordinaria terra finisce. Vengo trasferito in Emilia Romagna, a Parma, dove in ambito penitenziario trovo ad attendermi il medioevo.
Il carcere parmense era (oggi è cambiato) veramente indietro rispetto a quelli calabresi di mia conoscenza, solo che questa arretratezza mi permetterà di entrare in contatto con l’università. Con alcuni studenti detenuti, chiediamo di modernizzare culturalmente chi è detenuto e chi ci lavora.
L’Università di Parma, o meglio una sua docente di punta, la professoressaVincenza Pellegrino, organizza dei Laboratori di sociologia, e insieme investiamo nella creazione del Polo Universitario Penitenziario (PUP)reclamato dagli studenti detenuti già presenti. Partecipo ai Laboratori con studenti esterni e continuo nei miei studi. Sperimentiamo nuove forme di didattica mista verticale-orizzontale. È lei insieme alla professoressa Franca Garreffa dell’Università della Calabria, anche qui l’aggettivo “straordinarie” è d’obbligo, che mi guidano all’interno di questa nuova e indefinibile avventura del ‘dottorato’.
Mi incontrano per preparare la mia candidatura e studiare nuove materie che mi aprono a nuovi mondi, nuovi modi di comprendere finanche il diritto, che illuminato da queste nuovi luci sociologiche mostra altre dimensioni, si arricchisce.
Le professoresse Garreffa e Pellegrino sono le mie tutor del dottorato, insieme alla dottoressa Clizia Cantarelli, tutor del Pup di Parma. Sono loro i miei occhi, le mie orecchie, le mie gambe, le mie braccia: senza di loro non potrei “muovermi”, esisto per interposta persona. È grazie a loro se posso fare questa esperienza, un sostegno che passa dal reperimento del materiale a quello dei contatti con docenti di altre università e con i membri del Collegio del dottorato dell’UniCal e della CNUPP presieduta dal professore Franco Prina sempre presente alle varie manifestazioni ed eventi che riguardano i Pup in Calabria. L’esperienza del dottorato mi ha regalato, oltre a queste donne eccezionali, anche una “classe”.
Per la prima volta faccio parte di una “classe”, i miei colleghi dottorandi mi hanno quasi adottato, seppur più piccoli d’età, con la loro disponibilità e facendomi sentire ben accetto. A farmi sentire parte dell’Università della Calabria ci pensano persone come il professore Paolo Jedlowsky, che scoprirò essere uno dei più grandi sociologi contemporanei, capace di rispondere in maniera convincente anche alle mie domande più assurde. È sempre lui a volermi presente (anche se da remoto) all’inaugurazione del nuovo anno del dottorato, per sostanziare quell’uguaglianza nelle opportunità di cui parla la Costituzione. Piccole grandi cose che trasformano il carcere e danno un’altra dimensione di chi è detenuto e di chi detiene. Col progetto di dottorato mi trovo a essere, allo stesso tempo, ricercatore e ricercato, immerso nel campo di ricerca che è il mio ambiente, ricercatore che studia sé stesso e i suoi simili, e attraverso sé stesso la società in cui vive. Mi trovo a osservare le interazioni e la produzione di sapere come dispositivi trasformativi individuali e delle “istituzioni totali”, dei “miti”, dei “luoghi comuni”, e svelare quegli “artefatti culturali” che come potenti sovrastrutture impediscono, invece di favorire, i cambiamenti sociali.
Concludo riflettendo sul fatto che ancora una volta la Calabria, in particolare l’Università di Cosenza, mi ha aperto a una possibilità inimmaginabile per me, per chi è in carcere, realizzando qualcosa che va oltre la prima, la seconda e la Terza missione cui è chiamata l’università, ponendola, probabilmente, tra gli atenei con i programmi più avanzati al mondo devo pensare perché in questo modo realizza per i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, come previsto all’art. 34 della nostra Costituzione.
La Calabria, appunto, che da Pitagora in poi ha sempre qualcosa da insegnare.
Claudio Conte