FAMIGLIA BORSELLINO: “Prima sentenza che conferma partecipazione corpi Stato a strage”
“Questa sentenza è importante perché, al di là degli aspetti connessi alla calunnia che sembrano blindati, è la prima sentenza, in 30 anni, che dice chiaramente che a questa strage hanno concorso, moralmente e materialmente, soggetti appartenenti a corpi istituzionali dello Stato italiano”. A parlare con l’Adnkronos, a nome della famiglia Borsellino, è l’avvocato Fabio Trizzino, genero del giudice ucciso in Via D’Amelio e legale di parte civile nel processo depistaggio. “E, sotto questo profilo – dice Trizzino commentando le motivazioni della sentenza emessa lo scorso luglio e depositate solo ieri sera in cancelleria- i giudici valorizzano la vicenda incredibile connessa al reperto fondamentale della strage, che è a borsa del giudice Borsellino, e la sottrazione immediata dell’agenda rossa”.
“Questa sentenza, a mio giudizio – dice ancora l’avvocato Trizzino, sposato con Lucia Borsellino – è estremamente importante perché amplia lo spettro dello scenario che ha preparato la strage, individuandolo nell’isolamento e nella delegittimazione che il giudice subisce per effetto dell’ostracismo del Procuratore di allora, Pietro Giammanco. E, in questo, la sentenza valorizzando quanto stabilito dalle precedenti sentenze, si attarda molto sulla questione delle indagini relative al dossier ‘Mafia e appalti’, quindi fermo restando che ci possono essere state quelle che si potrebbero definire, come nel caso Moro, ‘convergenze parallele’, finalmente ci concentriamo sul ‘nido di vipere’ e sulle indagini su Mafia e appalti, che il giudice voleva rivitalizzare”.
Era stato proprio Borsellino a parlare, poco prima della strage e dopo la strage di Capaci, di “nido di vipere”, riferendosi al suo ufficio, come ha raccontato in aula il magistrato Massimo Russo. “E qui come va?”, gli aveva chiesto Russo. E la risposta di Borsellino fu: “È un nido di vipere”. Un dettaglio in più per chiarire, a quasi 31 dalla morte di Borsellino e dei 5 agenti di scorta, in quale ambiente si fosse ritrovato a lavorare l’amico di Falcone che fremeva perché non poteva occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci.
“Poi ci sono altre convergenze – spiega ancora il marito di Lucia Borsellino all’Adnkronos – Non sta a me dirlo, ma finalmente ci si concentra su qualcosa di concreto, che non è stato esplorato a sufficienza in questi anni. Speriamo Che la Procura di Caltanissetta si muova perché sono d’accordo con i giudici nisseni quando nelle motivazioni scrivono che ’30 anni sono troppi’ per potere non considerare il quadro probatorio debole. E’ una sentenza che costituisce, dal mio punto di vista, un punto di non ritorno”. 6.4.2023 (Adnkronos) – (di Elvira Terranova) –
«Dietro via d’Amelio gruppi di potere e potentati economici»
Parla l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino: «Ci fu una manovra a tenaglia»
«Questa sentenza è importantissima perché finalmente riconosce il diritto alla verità dei fatti. Quanto accaduto ha segnato la storia recente del nostro Paese, contribuendo ad imprimere una svolta epocale di cui, forse, non tutti hanno ancora piena consapevolezza», afferma l’avvocato Fabio Trizzino, genero di Paolo Borsellino e legale di parte civile della famiglia del magistrato ucciso a Palermo.
Avvocato Trizzino, perché la sentenza della Corte d’assise di Caltanissetta sul depistaggio nelle indagini sulla morte di Borsellino è importante per il nostro Paese? Dopo l’omicidio di Borsellino possiamo tranquillamente affermare che è nata seconda Repubblica. La data del 19 luglio del 1992 è uno spartiacque.
La sentenza dei giudici nisseni ha messo alcuni punti fermi. Certo, il primo è sicuramente che appartenenti alla Polizia di Stato hanno posto in essere un reato gravissimo, quello di calunnia aggravata, depistando fin dall’inizio le indagini per l’identificazione degli assassini del magistrato. Non ci sono più dubbi sul fatto che Mario Bo e Fabrizio Mattei con il loro operato hanno contribuito a “vestire il pupo”, ovvero a “costruire” il falso pentito Vincenzo Scarantino. Dalle dichiarazioni di quest’ultimo, il primo processo, il cosiddetto “Borsellino Uno”, si concluse il 26 gennaio 1996 con condanne all’ergastolo per soggetti che erano invece innocenti e completamente estranei ai fatti. Parliamo di persone che sono rimaste in carcere per quasi venti anni.
Per Bo il procuratore Salvatore De Luca e i sostituti Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso avevano chiesto 11 anni e 10 mesi di carcere, per Mattei 9 anni e mezzo. Reato però prescritto in quanto è caduta l’aggravante mafiosa. L’altro poliziotto coinvolto, Michele Ribaudo, è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”. Tralasciando la prescrizione, non vorrei che qualcuno desse però una ricostruzione ‘minimalista’ di quanto accaduto.
Come si può affrontare un processo del genere a distanza di così tanti anni? E’ ovviamente molto difficile. La difficoltà non è stata solo determinata dal decorso del tempo che ha attenuato i ricordi, ma soprattutto per l’atteggiamento tenuto in aula dai diversi soggetti all’epoca coinvolti a vario titolo: coloro che avrebbero potuto dare un contributo alla esatta ricostruzione dei fatti, dall’ultimo dei poliziotti al capo dello Sco, il Servizio centrale operativo della Polizia di Stato, hanno posto in essere un atteggiamento reticente. Un atteggiamento che ha ricordato molto da vicino quello delle consorterie mafiose.
E’ un giudizio molto duro. Ma è così. La mafia si basa sull’omertà e sulla compartimentazione. In questo processo la logica è stata la stessa. Pensi che le dichiarazioni di alcuni poliziotti sono state trasmesse in Procura per verificare una eventuale ipotesi di falso.
Un altro elemento importante è che collegio ha avuto coraggio. E non era affatto scontato quando si tratta di processi di questo genere. Certo, i giudici sono stati coraggiosissimi, non si sono fermati a condannare l’operato dei poliziotti ma anche a censurare quello dei magistrati.
Questa vicenda ne ricorda altre in cui furono coinvolti apparati dello Stato. Il copione è sempre lo stesso. Senza andare molto lontano, penso al processo sui pestaggi alla caserma Diaz durante il G8 di Genova nel 2001 o la morte di Stefano Cucchi. Concordo. Ma vorrei evidenziare anche un altro aspetto. Il silenzio da parte dei poliziotti in questo processo trova ‘giustificazione’ con il fatto che essi sono stati lasciati soli sul banco degli imputati, dove non vi erano i magistrati che hanno condotto le indagini e, almeno sulla carta, avrebbero dovuto coordinare la polizia giudiziaria. C’è stato timore.
Che spiegazioni si sente di dare? La motivazione di carriera è provata. Il prefetto Arnaldo La Barbera che coordinava il gruppo d’indagine sugli omicidi di Falcone e Borsellino ebbe una carriera fulminante con promozioni rapidissime, arrivando a ricoprire posti di assoluto prestigio.
Chi c’è dietro la morte di Borsellino? Gruppi di potere con interessi convergenti, penso a potentati economici. Ci fu una manovra a tenaglia. Eravamo anche agli inizi di Tangentopoli
E sulla scomparsa dell’agenda rossa di Borsellino? Quello è un altro aspetto inquietante. Non l’ha presa la mafia che non sapeva della sua esistenza. I mafiosi sapevano bene cosa Borsellino pensava di loro. L’ha presa chi aveva da temere da qualche possibile annotazione contenuta al suo interno.
Dopo la morte di Borsellino ci sono diversi episodi rimasti senza risposta. Lucia Borsellino ed il fratello Manfredi si recarono al Palazzo di giustizia dopo qualche giorno dall’attento per andare nell’ufficio del padre a recuperare qualche suo oggetto personale ma trovarono l’ufficio completamente pulito, con la scrivania senza nulla sopra, nemmeno un foglio di carta. Chi è stato? Non si è mai saputo. C’era qualcosa di importante?
Questa sentenza, anche se di primo grado, potrà permettere la riapertura di altre indagini?Credo di si. Penso, ad esempio, alla rivitalizzazione del dossier mafia appalti a cui stavano lavorando i carabinieri del Ros allora comandati. IL DUBBIO 8.4.2023
La famiglia di Borsellino: “La prima sentenza che dice la verità”
Pezzi eccentrici dello Stato al servizio del male, la famiglia di Borsellino: “La prima sentenza che dice la verità“. Le parole arrivano dopo le motivazioni della corte di Caltanissetta sui depistaggi per via D’Amelio. Ad Adnkronos parla a nome dei familiari del giudice ammazzato con la sua scorta a luglio 92, è l’avvocato Fabio Trizzino, genero del giudice. Che ha detto: “Questa sentenza è importante perché, al di là degli aspetti connessi alla calunnia che sembrano blindati, è la prima sentenza, in 30 anni, che dice chiaramente che a questa strage hanno concorso, moralmente e materialmente, soggetti appartenenti a corpi istituzionali dello Stato italiano“.
“La prima sentenza che dice la verità”
Trizzino è anche legale di parte civile nel processo depistaggio. “E, sotto questo profilo i giudici valorizzano la vicenda incredibile connessa al reperto fondamentale della strage, che è a borsa del giudice Borsellino, e la sottrazione immediata dell’agenda rossa“. E in chiosa: “Questa sentenza, a mio giudizio è estremamente importante perché amplia lo spettro dello scenario che ha preparato la strage, individuandolo nell’isolamento e nella delegittimazione che il giudice subisce per effetto dell’ostracismo del Procuratore di allora, Pietro Giammanco”.
Torna il dossier “Mafia e appalti”
“E, in questo, la sentenza valorizzando quanto stabilito dalle precedenti sentenze, si attarda molto sulla questione delle indagini relative al dossier ‘Mafia e appalti’, quindi fermo restando che ci possono essere state quelle che si potrebbero definire, come nel caso Moro, ‘convergenze parallele’, finalmente ci concentriamo sul ‘nido di vipere’ e sulle indagini su Mafia e appalti, che il giudice voleva rivitalizzare“. Giampiero Casoni 6.4.2023 NOTIZIA.IT
“L’agenda rossa di Borsellino non sparì per mano mafiosa”
E’ uno dei passaggi delle motivazioni della sentenza sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio
“A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di esponenti delle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile ad una attività materiale di cosa nostra”. E’ uno dei passaggi delle motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio dedicato alla sparizione dell’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino.
“Ne discendono due ulteriori logiche conseguenze. In primo luogo, l’appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda.- scrive il tribunale – Gli elementi in campo non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda, ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e, per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario o opportuno sottrarre”. “In secondo luogo,- concludono- un intervento così invasivo, tempestivo (e purtroppo efficace) nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire – non oggi, ma già 1992 – il movente dell’eccidio di Via D’Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a cosa nostra di intervenire per alterare il quadro delle investigazioni, evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage ( che si aggiungono, come già detto a quella mafiosa) e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di Via D’Amelio”. RAI NEWS 6.4.2023
Strage via d’Amelio, le “matrici non mafiose”: Borsellino “tradito da membro delle istituzioni”
Sparisce, tra le possibili cause della decisione di realizzare la strage di via d’Amelio, il teorema della “trattativa Stato-mafia” e riemerge quello della presunta “talpa”.
Nelle quasi 1500 pagine delle motivazioni relative alla sentenza del processo “Bo Mario + 2”, i giudici hanno offerto un affresco del contesto relativo alla strage di via d’Amelio che contiene, a pochi mesi dal 31° anniversario, significative novità.
Non una parola è scritta dai giudici relativamente al teorema – oggi possiamo chiamarlo così – della “trattativa Stato-mafia”, già smentito dalla sentenza di secondo grado del processo “Bagarella e altri”. E si è esclusa la responsabilità di Cosa nostra nella sottrazione dell’agenda rossa del dottor Paolo Borsellino: “a meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di esponenti delle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile a un’attività materiale di Cosa nostra”, scrivono i giudici.
Strage di via d’Amelio, le novità sulla presunta “talpa” tra le istituzioni
L’istruttoria dibattimentale – si legge nelle motivazioni – ha consentito di rendere concreta “la tesi della partecipazione morale e materiale alla strage di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all’eliminazione di Borsellino”. Da quanto scritto dai giudici emerge chiaramente che Paolo Borsellino “si sentì tradito da un soggetto inserito in un contesto istituzionale”.
Individuato, inoltre, il ruolo che non solo gli imputati hanno avuto nel depistaggio, ma anche quello di Arnaldo La Barbera, che guidò il “gruppo d’indagine Falcone-Borsellino” della Polizia di Stato. Un dato emerge in maniera prepotente: se La Barbera non era, e non poteva esserlo, il dominus delle indagini non poteva certo essere il dominus del depistaggio segno che altri hanno deciso, formalizzato e addirittura sponsorizzato le propalazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino, il picciotto della Guadagna, che non solo indirizzarono le indagini ma condizionarono l’esito dei processi Borsellino 1 e bis.
Lo sguardo della Corte nel caso delle indagini sulla strage di via d’Amelio è puntato non solo sugli imputati ma anche sui testimoni sentiti nel corso degli anni che “consegnano un quadro per niente chiaro, fatto di insanabili contraddizioni tra le varie versioni, tra l’altro più volte rivedute e stravolte, che non permettono una lettura certa degli eventi aumentando la fallacia di qualsiasi conclusione”, scrivono i giudici evidenziando inoltre lo spropositato utilizzo della frase “non ricordo” da parte dei testimoni e le eccessive e divergenti “versioni dei fatti”.
Il ruolo dei “servizi” nelle indagini sulla strage
Il Tribunale di Caltanissetta mette nero su bianco che i servizi segreti non avrebbero potuto partecipare alle indagini sulla strage. Ma un’irrituale partecipazione del Sisde ci fu e non ne era al corrente solo il procuratore Tinebra che la sollecitò, ma anche il vertice dei servizi di sicurezza. Tant’è, si legge, che “è legittimo ritenere che il capo della Polizia di Stato e i vertici dei servizi segreti non potessero assumere un’iniziativa senza un minimo avallo istituzionale che non poteva che provenire dall’organo di vertice politico dell’epoca, cioè l’allora ministro dell’Interno Mancino”, spiegano i giudici, aggiungendo nuovi tasselli e novità sulle indagini relative alla strage di via d’Amelio.
Nessuno dei magistrati d’ufficio si oppose, probabilmente perché si trattava di un’iniziativa promossa dal capo d’ufficio.
Il ruolo di Bruno Contrada, “il diversivo giusto”
“Segnatamente ci si chiede – scrivono i Giudici – perché in un arco temporale prossimo alla strage ci sia dedicati a diffondere la notizia, poi rivelatasi falsa, della presenza di Bruno Contrada in via D’Amelio poco dopo l’esplosione? A vantaggio di chi? Alla luce di tutte le circostanze di cui si è dato conto si ritiene che se ne giovò chi aveva tutto l’interesse a far sì che le matrici non mafiose della strage (che si aggiungono, come già detto a quella mafiosa) di via D’Amelio non venissero svelate nella loro reale consistenza. Come ben evidenziato da talune parti civili Bruno Contrada era ‘il diversivo giusto’: un soggetto, nel frattempo caduto in disgrazia per le confidenze rivelate da Gaspare Mutolo al dottor Borsellino circa una contiguità del Contrada medesimo con l’organizzazione mafiosa, da collocare immediatamente sulla scena del crimine subito dopo l’esplosione”.
“Inoltre – si legge nelle motivazioni della sentenza sulla strage di via d’Amelio -, il riferire circostanze così importanti a distanza di un notevole decorso di tempo (Maggi, nonostante fosse stato già sentito in altre occasioni, non ha mai rivelato tale circostanza prima del processo Borsellino quater) rende ancora più dubbia la credibilità di un dichiarante (Francesco Paolo Maggi, ndr) che è comunque stato destituito dalla Polizia di Stato nel 2001 a causa dell’abuso di sostanze stupefacenti e che sulla borsa del dottor Borsellino ha fornito una versione che contrasta con i dati oggettivi provenienti dai filmati”.
Non solo. I giudici evidenziano come Maggi, appartenente all’organo di polizia giudiziaria incaricato di svolgere le indagini, non abbia redatto alcuna relazione di servizio fino al 21 dicembre 1992 senza fornire, di fatto, alcuna spiegazione del ritardo di oltre cinque mesi nella redazione di tale atto. “Rimane il dubbio se si tratti di una ‘negligenza’ nella tecnica investigativa – l’ennesima accertata in questo processo – o se vi sia di più”, scrivono i giudici.
Strage di via d’Amelio e dossier mafia-appalti
Nell’ambito di questo filone d’indagini sulla strage di via d’Amelio, varie deposizioni dimostrano che Borsellino aveva mostrato particolare interesse – dopo la morte di Falcone – alle inchieste riguardanti il coinvolgimento di Cosa nostra nel settore degli appalti, e ciò non solo perché lo riteneva di fondamentale importanza per quella organizzazione ma anche perché convinto che lì potesse trovarsi una delle principali ragioni della strage di Capaci.
“Il senatore Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione. Ha altresì riferito il teste che, mentre a Milano e nella maggior parte del territorio nazionale si stava registrando in misura massiccia il fenomeno della collaborazione con la giustizia di molti degli imprenditori che erano rimasti coinvolti nel circuito tangentizio, ciò non si era verificato in Sicilia. E Borsellino spiegava tale diversità con la peculiarità del circuito siciliano, in cui l’accordo non si basava solo due poli, quello politico e quello imprenditoriale, ma era tripolare, in quanto Cosa nostra interveniva direttamente per gestire e assicurare il funzionamento del meccanismo e con la sua forza di intimidazione determinava così l’omertà di quegli stessi imprenditori che non avevano, invece, remore a denunciare l’esistenza di quel sistema in relazione agli appalti loro assegnati nel resto d’Italia”.
“Intenzione di Borsellino e Di Pietro – si legge ancora – era quella di sviluppare di comune intesa delle modalità investigative, fondate anche sulle conoscenze già acquisite, per ottenere anche in Sicilia i risultati conseguiti altrove”. E Borsellino stava già traducendo in atto questo progetto.
Il ruolo di Pietro Giammanco nella strage di via d’Amelio
“È però è innegabile che Pietro Giammanco (‘santo cristiano’ e ‘uomo di Lima’) è, come visto, il procuratore della Repubblica di Palermo che non avvertì Paolo Borsellino dell’arrivo dell’esplosivo, (…) che ne mortificò la storia professionale imbrigliandone le iniziative investigative (…) e che non gli conferì la delega a indagare su Palermo fino alla mattina del 19 Luglio 1992”.
Inoltre, la sua figura non può non legarsi all’inadeguata protezionedi Paolo Borsellino, ancora una volta ben ricostruita dal Borsellino Quater anche sulla scorta del Borsellino ter, in cui si legge: “La già grave omissione di ogni comunicazione al dottor Borsellino delle informazioni relative all’attentato programmato contro di lui fu, poi, seguita da un comportamento ancora più grave, consistente nella sottovalutazione delle sue esigenze di sicurezza, con la mancata predisposizione di una ‘zona rimozione’ in via D’Amelio, nonostante tale esigenza fosse stata segnalata dal personale di tutela presentando una relazione a ciò diretta”, anche perché “le visite del dottor Borsellino alla propria madre avevano un carattere di abitualità nella giornata di domenica, quando ella risiedeva di solito dalla figlia Rita nella sua casa di via D’Amelio, e tale abitudine era sicuramente osservabile da parte del vicinato o da chi avesse studiato gli spostamenti del magistrato; tuttavia in tale luogo non era stata istituita una ‘zona rimozione’”.
Il ruolo di Arnaldo La Barbera, l’anello intermedio
“Gli elementi probatori partitamente analizzati finora non consentono di ritenere – al di là di ogni dubbio ragionevole – che Arnaldo La Barbera fosse concorrente esterno all’associazione mafiosa Cosa nostra o che l’abbia agevolata favorendo il perdurare dell’occultamento delle convergenze dell’associazione con soggetti o di gruppi di potere cointeressati all’eliminazione di Paolo Borsellino e dei poliziotti della sua scorta”.
Non vi è dubbio che La Barbera abbia agito “anche” per finalità di carriera e – dopo essere stato “posato” alla fine del 1992 in corrispondenza con l’arresto di Contrada – una volta “rientrato” nel circuito abbia fatto letteralmente “carte false” al fine di mantenere e accrescere la propria posizione all’interno della Polizia di Stato e nell’establishment del tempo.
La posizione di Mario Bo’
“Deve – scrivono i giudici – ritenersi provato un sicuro protagonismo di Mario Bo’ non svalutabile a mera responsabilità di posizione, ma ancorato a specifiche condotte poste in essere dall’odierno imputato. La ritenuta inattendibilità di Scarantino nelle sue propalazioni etero accusatorie impedisce di trarre considerazioni a carico in ordine alla responsabilità di Mario Bo’ per l’attività (che svolse, ndr) effettuando colloqui investigativi prima che Scarantino iniziasse a collaborare falsamente con l’autorità giudiziaria nel corso dei quali gli rappresentava anche attraverso la sottoposizione di album fotografici le circostanze che avrebbe dovuto riferire agli inquirenti e successivamente fornendogli anche attraverso la visione di ulteriori riproduzioni fotografiche le indicazioni necessarie al riconoscimento delle fattezze fisiche di Scotto Gaetano e delle caratteristiche dei luoghi ove era ubicata la carrozzeria di Orofino Giuseppe in esito a un sopralluogo compiuto con esito negativo e interloquendo con lo stesso Scarantino negli intervalli tra un atto istruttorio e l’altro e anche nelle pause degli interrogatori sostenuti con l’autorità giudiziaria al fine di consentirgli di superare le contraddizioni in cui incorreva nelle dichiarazioni rese anche rispetto alle circostanze riferite da altri soggetti, in specie Candura Salvatore e Andriotta Francesco”.
Strage di via d’Amelio, le novità e le posizioni di Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo
A proposito, invece, delle responsabilità dell’imputato Fabrizio Matteinell’ambito della strage di via d’Amelio, i giudici ritengono che “sotto il profilo materiale la condotta posta in essere dall’ex appartenente alla Polizia di Stato deve ritenersi non solo pienamente provata, ma quasi fatto notorio. È bene precisare che tra la tesi di chi ritenne allora che l’attività di Mattei fosse ‘quasi imposta’ dalla necessità di far sentire al collaboratore la vicinanza dello Stato (…) nel momento in cui questi doveva prepararsi all’esame dibattimentale”.
La Corte “ritiene preferibile l’opzione intermedia in base alla quale la significanza materiale dell’attività di studio svolta da Mattei è certamente un indice a carico – dotato di ancora maggior pregnanza dove si dia credito alla stessa versione originariamente resa dall’imputato in ordine all’effettuazione dell’attività di ausilio allo studio di Scarantino in più turni – ma non può da solo essere ritenuto sufficiente dovendo necessariamente essere adeguatamente ‘pesato’ assieme a tutti gli altri”. E ritiene anche che “l’attività di Mattei è totalmente ‘cieca’ rispetto alle false collaborazioni di Candura e Andriotta. In relazione a esse, Mattei non ha svolto nessun tipo di attività trovandosi nelle condizioni di chi dovesse considerare tali attività un presupposto da considerare assodato nella propria valutazione”.
“Deve poi evidenziarsi che Ribaudo – a differenza di Mattei – non solo non ha svolto gli interrogatori riepilogativi della collaborazione di Scarantino ma non ha partecipato a nessuno degli interrogatori che riguardavano l’ex falso collaboratore della Guadagna”, scrivono i giudici.
“Ne discende conclusivamente, che l’assenza di elementi a carico che possano anche solo colorare un principio di prova in ordine alla consapevolezza di Michele Ribaudo in ordine alla falsità della collaborazione di Vincenzo Scarantino, e la compresenza dei diversi elementi a discarico sopra evidenziati, non possono che indurre a ritenere l’assenza dell’elemento soggettivo del reato, con conseguente proscioglimento nel merito dell’imputato”
QUOTIDIANO DI SICILIA 9.4.2023
“Nella strage di via d’Amelio ci fu una convergenza d’interessi tra Cosa nostra e gruppi di potere esterni. L’agenda rossa rubata da un uomo delle istituzioni”
Dopo la strage di via d’Amelio non fu Cosa nostra a fare sparire l’agenda rossa di Paolo Borsellino. Ed estranei alla mafia erano anche i soggetti che idearono la morte del giudice, assassinato il 19 luglio del 1992. Lo scrivono i giudici di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza del processo per il depistaggio delle indagini. Il 12 luglio del 2022 il Tribunale aveva dichiarato prescritte le accuse contestate a Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti accusati di avere depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio costata la vita al giudice Borsellino e a cinque agenti della scorta. Assolto il terzo imputato, Michele Ribaudo: la caduta dell’aggravante ha determinato la prescrizione del reato di calunnia. Oggi, a distanza di dieci mesi, sono state depositate in cancelleria le motivazioni, lunghe quasi 1.434 pagine.
La ritrosia dei testimoni – Il tribunale sottolinea che il processo “si colloca a distanza di circa 30 anni dalla strage di via D’Amelio e sconta dei limiti strutturali non oltrepassabili poiché più ci si allontana dai fatti e più è difficile recuperare il tempo perduto”. I giudici riconoscono come la strage di Via D’Amelio ponga “un tema fondamentale, quello della verità nascosta, o meglio non completamente disvelata. Il collegio ritiene che il diritto alla verità possa definirsi un fondamentale diritto della persona umana nell’ambito del quale si fondono sia la prospettiva individuale che quella collettiva”. Anche per questo motivo, il tribunale mette nero su bianco critiche aspre ad alcuni testimoni: “Non può in alcun modo essere sottaciuta e merita, anzi, di essere ben sottolineata, l’obiettiva ritrosia di molti soggetti escussi a rendere testimonianze integralmente genuine che potessero consentire una ricostruzione processuale dei fatti che fosse il più possibile vicina alla realtà di quegli accadimenti”. A chi si riferiscono i giudici? “Tra amnesie generalizzate di molti soggetti appartenenti alle istituzioni, soprattutto componenti del Gruppo Falcone e Borsellino della Polizia di Stato e dichiarazioni testimoniali palesemente smentite da risultanze oggettive e da inspiegabili incongruenze logiche, l’accertamento istruttorio sconta gli inevitabili limiti derivanti dal velo di reticenza cucito da diverse fonti dichiarative, rispetto alle quali si profila problematico e insoddisfacente il riscontro incrociato”.
“Agenda rossa non fu rubata dai boss” – Anche per questo motivo non è stato possibile ricostruire come maturò il depistaggio. Che scatta subito dopo la strage, quando qualcuno recupera la borsa del giudice Borsellino, cerca la sua agenda rossa e la porta via, tra i rottami delle automobili, le fiamme e i cadaveri delle vittime ancora a terra. “A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di appartenenti alle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile a una attività materiale di Cosa nostra“, scrivono i giudici nelle motivazioni, visionate dall’agenzia Adnkronos. “Ne discendono due ulteriori logiche conseguenze – proseguono – In primo luogo, l’appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda. Gli elementi in capo non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda senza cadere nella pletora delle alternative logicamente possibili ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario e opportuno sottrarre”.
“Convergenza d’interessi tra mafia e altri gruppi di potere”- E dunque a sottrarre l’agenda fu sicuramente un uomo delle istituzioni. “In secondo luogo – continuano le motivazioni – un intervento così invasivo, tempestivo e purtroppo efficace nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire – non oggi ma nel 1992 – il movente dell’eccidio di via D’Ameliocertifica la necessità per soggetti esterni a Cosa nostra di intervenire per alterare il quadro delle investigazioni evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di via d’Amelio”. Per i giudici di Caltanissetta, “movente della strage e finalità criminale di tutte le iniziative volte allo sviamento delle indagini su via D’Amelio sono intimamente connesse”. Nelle quasi 1.500 pagine delle motivazioni, i giudici parlano poi “della presenza di altri soggetti o gruppi di potere co-interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino con un ruolo nella ideazione, preparazione ed esecuzione della strage di via D’Amelio“. Il tribunale scrive di “plurimi elementi che inducono a ritenere prospettabile un ruolo, tanto nella fase ideativa, quando nella esecutiva, svolto da soggetti estranei a Cosa nostra nella strage, vero e proprio punto di svolta nella realizzazione della strategia stragista dei primi anni Novanta”. E ancora, proseguono, “anche senza volere ritenere scontato che si possa parlare di accelerazione, più o meno repentina, non è aleatorio sostenere che la tempistica della strage di via D’Amelio rappresenta un elemento di anomalia rispetto al tradizionale contegno di Cosa nostra volto, di regola, a diluire nel tempo le azioni delittuose nel caso di bersagli istituzionali e ciò nella logica di frenare l’attività di reazione delle istituzioni”. E a questo proposito, insistono, parlando “di convergenze di interessi nella ideazione della strage di via D’Amelio tra Cosa nostra ed ambienti esterni ad essa. Oltre ai tempi della strage, oggettivamente distonici rispetto all’interesse di Cosa nostra, vi sono ulteriori elementi che inducono a ritenere asfittica la tesi che si arresta al riconoscimento della paternità mafiosa dell’attentato di via D’Amelio e della sua riconducibilità alla strategia stragista deliberata da Cosa nostra, prima di tutto, come ‘rispostà all’esito del maxiprocesso e ‘resa dei contì con i suoi nemici storici”.
Improprio il ruolo dei servizi” – A proposito del depistaggio, il tribunale sottolinea che i servizi segreti parteciparono “impropriamente” alle indagini sulla strage di via D’Amelio. “Dell’impropria partecipazione del Sisde alle indagini non era al corrente solo il procuratore Tinebra (deceduto nel 2017 ndr) ma anche il vertice dei servizi di sicurezza. E’ legittimo ritenere che il capo della Polizia e i vertici dei servizi segreti non potessero assumere una iniziativa così ‘extra-ordinem‘ senza un minimo avallo istituzionale che non poteva che provenire dall’organo di vertice politico dell’epoca”. I giudici parlano di una “irrituale collaborazione“. di F. Q.| 5 Aprile 2023
Strage di via d’Amelio, i giudici: “Ci fu una convergenza d’interessi tra Cosa nostra e gruppi di potere esterni”
Le motivazioni della sentenza del processo per il depistaggio a carico di tre poliziotti, depositate ieri in cancelleria: “Non sono stati i boss a fare sparire l’agenda rossa di Paolo Borsellino”
Non è stata Cosa nostra a fare sparire, dopo la strage di via D’Amelio, l’agenda rossa di Paolo Borsellino. A metterlo nero su bianco sono i giudici del processo per il depistaggio sulle indagini della strage che uccise, il 19 luglio del 1992, il giudice Borsellino e cinque agenti della scorta, nelle motivazioni della sentenza del processo a carico di tre poliziotti, depositate ieri in cancelleria.
Ecco cosa scrivono i giudici nelle motivazioni visionate dall’Adnkronos: “A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di appartenenti alle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile a una attività materiale di Cosa nostra”. “Ne discendono due ulteriori logiche conseguenze – scrivono i giudici – In primo luogo, l’appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda. Gli elementi in capo non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda senza cadere nella pletora delle alternative logicamente possibili ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario e opportuno sottrarre”.
“In secondo luogo – dicono i giudici del processo depistaggio – un intervento così invasivo, tempestivo e purtroppo efficace nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire – non oggi ma nel 1992 – il movente dell’eccidio di via D’Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a Cosa nostra di intervenire per ‘alterare’ il quadro delle investigazioni evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di via d’Amelio”. Per i giudici di Caltanissetta, “movente della strage e finalità criminale di tutte le iniziative volte allo sviamento delle indagini su via D’Amelio sono intimamente connesse”.
Nelle quasi 1.500 pagine delle motivazioni, i giudici parlano poi “della presenza di altri soggetti o gruppi di potere co-interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino con un ruolo nella ideazione, preparazione ed esecuzione della strage di via D’Amelio”. I giudici di Caltanissetta parlano di “plurimi elementi che inducono a ritenere prospettabile un ruolo, tanto nella fase ideativa, quando nella esecutiva, svolto da soggetti estranei a Cosa nostra nella strage, vero e proprio punto di svolta nella realizzazione della strategia stragista dei primi anni Novanta”. “Anche senza volere ritenere scontato che si possa parlare di ‘accelerazione’, più o meno repentina, non è aleatorio sostenere che la tempistica della strage di voa D’Amelio rappresenta un elemento di anomalia rispetto al tradizionale contegno di Cosa nostra volto,di regola, a diluire nel tempo le azioni delittuose nel caso di bersagli istituzionali e ciò nella logica di frenare l’attività di reazione delle istituzioni”.
I giudici di Caltanissetta, nelle motivazioni della sentenza del processo sul depistaggio, visionate dall’Adnkronos, parlano poi “di convergenze di interessi nella ideazione della strage di via D’Amelio tra Cosa nostra ed ambienti esterni ad essa”. “Oltre ai tempi della strage, oggettivamente ‘distonici’ rispetto all’interesse di Cosa nostra, vi sono ulteriori elementi che inducono a ritenere asfittica la tesi che si arresta al riconoscimento della ‘paternità mafiosa’ dell’attentato di via D’Amelio e della sua riconducibilità alla strategia stragista deliberata da Cosa nostra, prima di tutto, come ‘risposta’ all’esito del maxiprocesso e ‘resa dei conti’ con i suoi nemici storici”.
Occhi puntati soprattutto sulla sparizione dell’agenda rossa del giudici. “In sintesi – dicono i giudici – alla luce delle testimonianze raccolte non sono emersi nuovi elementi che consentano di dipanare l’intricata vicenda relativa alla scomparsa dell’agenda rossa di Borsellino”. E bacchettano alcuni testimoni sentiti nel corso degli anni che “consegnano un quadro per niente chiaro, fatto di insanabili contraddizioni tra le varie versioni, tra l’altro più volte rivedute e stravolte, rese dai protagonisti della vicenda che non permettono una lettura certa degli eventi aumentando la fallacia di qualsivoglia conclusione tratta sulla sola base della combinazione tra le varie testimonianze”
In particolare, i giudici nisseni se la prendono con l’ex giudice Giuseppe Ayala. “Pur comprendendone lo stato emotivo profondamente alterato appare inspiegabile il numero di mutamenti di versione rese nel corso degli anni in ordine alla medesima vicenda”. Per i giudici “restano insondabili le ragioni di un numero così elevato di cambi di versione, peraltro su plurime circostanze del narrato”. Secondo i giudici nisseni, Paolo Borsellino, “si sentì tradito da un soggetto inserito in un contesto istituzionale”. PALERMO TODAY
Depistaggio Borsellino, depositate le motivazioni della sentenza sugli ex poliziotti del pool stragi del 92′: «Semplici anelli di una catena»
Gli agenti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo erano finiti a processo perché accusati di aver costretto dei falsi pentiti a raccontare bugie in aula per coprire i veri responsabili.
Trent’anni di indagini e ancora non si conoscono i nomi di chi, per anni, ha coperto i veri mandanti dell’attentato al giudice Paolo Borsellino, avvenuto nel luglio del 1992, indirizzando la giustizia su false piste e falsi colpevoli durante le prime indagini.
I giudici del tribunale di Caltanissetta hanno depositato ieri le motivazioni della sentenza, emessa a luglio 2022, sul presunto depistaggio delle indagini sulla strage di via D’ Amelio. Nella circostanza, la Corte d’assise di Caltanissetta aveva dichiarato prescritte le accuse contestate ai poliziotti Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti finiti sotto processo per l’inquinamento dell’inchiesta, e aveva assolto il terzo imputato, Michele Ribaudo.
I tre agenti, ex appartenenti al pool incaricato di indagare sulle stragi del ’92, erano imputati di calunnia aggravata dal favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra. Caduta l’aggravante, era sopraggiunta anche la prescrizione del reato di calunnia.
Le ragioni della sentenza
Nelle oltre 1400 pagine depositate dai giudici in cancelleria, si legge: «Non vi è dubbio alcuno che» l’ex dirigente della Squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera – il capo del gruppo investigativo Falcone e Borsellino, poi deceduto nel 2002 – «Fu interprete di un modo di svolgere le indagini di polizia giudiziaria in contrasto, non solo oggi ma anche nel tempo, con gli stessi dettami costituzionali prima ancora che con la legge». Nel farlo, La Barbera «pose consapevolmente in essere una lunga serie di forzature, abusi e condotte certamente dotate di rilevanza penale».Tuttavia, precisano sempre i togati, «gli elementi probatori analizzati non consentono di ritenere che La Barbera fosse concorrente esterno all’associazione mafiosa o che l’abbia agevolata, favorendo il perdurare dell’occultamento delle convergenze dell’associazione con soggetti o di gruppi di potere interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino e dei poliziotti della sua scorta». Per i giudici infine La Barbera era «anch’gli un anellointermedio di quella catena, a cui sarebbe stato importante risalire per poter apprendere appieno scopi e obiettivi dell’attività di cui si discute».
Il processo: come si è arrivati alla sentenza
Secondo l’accusa, rappresentata in aula dal Pm Stefano Luciani, gli imputati Bo, Matteo e Ribaudo, avrebbero creato a tavolino dei “falsi pentiti”: Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, ex affiliati a Cosa Nostra, costretti a mentire e ad accusare della strage persone poi rivelatesi innocenti. Un piano che sarebbe stato attuato, dai tre poliziotti, a suon di minacce, maltrattamenti e pressioni psicologiche ai danni dei falsi pentiti. Un fatto peraltro già ammesso gli stessi ex affiliati nel 2009, nel corso del processo “Borsellino quater”. Da qui la contestazione di calunnia ai danni dei poliziotti. Il castello di menzogne, secondo la Procura, era stato costruito ad hoc sotto la regia di La Barbera, che avrebbe dunque aiutato i veri colpevoli a sfuggire alle maglie della giustizia e coperto per anni le responsabilità dei clan mafiosi di Brancaccio e dei suoi capi, i fratelli Graviano, nell’ambito della cosiddetta “trattativa Stato-mafia”. Con questa espressione, ricordiamo, si intendono una serie di incontri segreti tra rappresentanti di Cosa Nostra e vertici istituzionali, avvvenuti proprio a cavallo tra il 1992 e il 1993: stop agli attentati in cambio di concessioni e benefici a Cosa Nostra. Questa la posta in gioco. E in queste trattative occulte consisteva – secondo i giudici di Caltanissetta – la “catena” di cui avrebbe fatto parte anche La Barbera e i suoi tre poliziotti. Ma soltanto come pedina di un gioco più grande di loro. IL GAZZETTINO Giovedì 6 Aprile 2023
I giudici sulla strage di via D’Amelio: «L’agenda rossa di Borsellino fu rubata, ma non da Cosa Nostra»
Le motivazione della sentenza che ha assolto per prescrizione i poliziotti accusati di inquinamento delle prove. Ma i magistrati denunciano «ricostruzioni manipolate» e «amnesie istituzionali»
Nella nebbia di una verità nascosta per 30 anni si intravedono sprazzi di luce inquietanti che raccontano di entità esterne a Cosa nostra dietro uno dei fatti più dolorosi e oscuri della storia del Paese, la strage di via D’Amelio. Ancora una volta è una sentenza a dipingere, pur senza accertare responsabilità individuali, gli scenari dell’attentato costato la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della sua scorta. Oltre 1400 pagine che gettano ombre e sospetti e parlano di «ricostruzioni manipolate», di «amnesie istituzionali», di fatti troppo distanti nel tempo per poter essere accertati con pienezza. L’ultimo capitolo della lunghissima e travagliata storia processuale dell’attentato è scritto nelle motivazioni del verdetto, emesso a luglio scorso, sul depistaggio delle indagini sulla strage, depositate ieri.
Allora il collegio dichiarò prescritte le accuse contestate a Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti imputati dell’inquinamento dell’inchiesta, e assolse il terzo imputato, Michele Ribaudo. Rispondevano di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia. Secondo la Procura, rappresentata in aula dal pm Stefano Luciani, gli imputati, che appartenevano al pool incaricato di indagare sulle stragi del ‘92, con la regia del loro capo, Arnaldo La Barbera, poi morto, avrebbero creato a tavolino i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, imbeccandoli e costringendoli a mentire e ad accusare della strage persone poi rivelatesi innocenti: da qui la contestazione di calunnia. Il castello di menzogne costruito grazie ai falsi collaboratori di giustizia avrebbe aiutato, per i pm, i veri colpevoli a farla franca e coperto per anni le responsabilità dei clan mafiosi di Brancaccio e dei suoi capi, i fratelli Graviano. E per questo ai tre poliziotti la Procura imputò l’aggravante di aver favorito Cosa nostra. Aggravante che non resse però al vaglio del tribunale e determinò la prescrizione del reato contestato a due dei tre imputati. Il terzo fu assolto nel merito con la formula «perché il fatto non costituisce reato».
Ma il tribunale non si limita a valutare il ruolo dei poliziotti nella manipolazione della verità e si spinge a svelare «la partecipazione (morale e materiale) alla strage di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino». A dimostrare l’ingerenza di entità estranee alla mafia sarebbero «l’anomala tempistica dell’eccidio (avvenuto a soli 57 giorni da quella di Capaci), la presenza riferita dal pentito Gaspare Spatuzza di una persona estranea alla mafia al momento della consegna della Fiat 126 imbottita di tritolo e la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino». «La presenza anomala e misteriosa di un soggetto estraneo ai clan — dicono — si spiega solo alla luce dell’appartenenza istituzionale del soggetto, non potendo logicamente spiegarsi altrimenti il fatto di consentire a un terzo estraneo alla consorteria mafiosa di venire a conoscenza di circostanze così delicate e pregiudizievoli per i soggetti coinvolti come la preparazione dell’autobomba destinata all’uccisione di Paolo Borsellino». Poi c’è il capitolo scottante dell’agenda rossa, il diario su cui, raccontano tra gli altri i familiari di Borsellino, il giudice appuntava spunti e riflessioni e che sarebbe stato fatto sparire dalla sua borsa dopo l’esplosione. Fu rubata, sì, scrivono i magistrati ma non da uomini di Cosa nostra. «A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti alla mafia che si aggirano in mezzo a decine di esponenti delle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione non è riconducibile ad una attività materiale di cosa nostra».
”Gli elementi in campo non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda, ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e, per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario o opportuno sottrarre», si spingono a ipotizzare tornando su una vicenda che giudicano «incredibile». Il tribunale ammette la difficoltà di ricostruire la storia a distanza di anni e stigmatizza la «ritrosia di molti soggetti escussi — non solo spettatori degli avvenimenti dell’epoca, ma anche attori, più o meno centrali, delle vicende oggetto di esame — a rendere testimonianze integralmente genuine che potessero consentire una ricostruzione processuale dei fatti che fosse il più possibile vicina alla realtà di quegli accadimenti». «Tra amnesie generalizzate di molti soggetti appartenenti alle istituzioni (soprattutto i componenti del Gruppo investigativo specializzato Falcone- Borsellino della Polizia di Stato) — spiegano — e dichiarazioni testimoniali palesemente smentite da risultanze oggettive e da inspiegabili incongruenze logiche, l’accertamento istruttorio sconta gli inevitabili limiti derivanti dal velo di reticenza cucito da diverse fonti dichiarative, rispetto alle quali si profila problematico ed insoddisfacente il riscontro incrociato».
Sull’accertamento della verità pesa come un macigno poi l’assoluta inattendibilità del falso pentito Scarantino definito «mentitore professionista» e non credibile anche nel racconto delle minacce e delle violenze subite in carcere su ordine dell’allora super poliziotto Arnaldo La Barbera, ritenuto dall’accusa il «motore» del depistaggio. «Le prove analizzate non consentono di ritenere che Arnaldo La Barbera fosse concorrente esterno all’associazione mafiosa o che l’abbia agevolata favorendo il perdurare dell’occultamento delle convergenze dell’associazione con soggetti o di gruppi di potere cointeressati all’eliminazione di Paolo Borsellino e dei poliziotti della sua scorta» scrivono i giudici e «non può ritenersi — aggiungono — che i maltrattamenti subiti da Scarantino fossero riconducibili a disposizione impartite da La Barbera o da Mario Bo (tra gli imputati del depistaggio, ndr)». «Se può dirsi inoltre anche logicamente certo che, nell’ottica di un pressing investigativo eufemisticamente duro e spregiudicato (come si è visto, tradottosi anche nella fabbricazione di falsi collaboratori di giustizia come Andriotta al fine di dare la spallata alle resistenze di Scarantino), la sua labilità psicologica sia stata utilizzata dagli investigatori per convincerlo a collaborare (con ogni mezzo), non può però ritenersi provato che le condotte di cui Scarantino fu vittima a Pianosa siano ascrivibili alla longa manus di Arnaldo La Barbera». «Però è tristemente e altamente probabile che quest’ultimo ne fosse quantomeno a conoscenza» concludono i magistrati che parlano di una «disgraziata e devastante gestione penitenziaria che ha realizzato una sospensione dei principi dello Stato di diritto e delle garanzie costituzionali che non può che suscitare indignazione». di Lara Sirignano CORRIERE DELLA SERA 6.4.2023
Dopo anni, scompare definitivamente di scena la tesi della trattativa Stato-mafia come causale dell’accelerazione della strage di Via D’Amelio
In più viene evidenziato che le testimonianze, in seguito totalmente smentite, su Bruno Contrada presente sul luogo del vile attentato, rientrano nel depistaggio.
Lo stesso Di Matteo racconta che nel ’95 decise di riprendere in mano questi fascicoli e propose al capo della procura e agli aggiunti di esplorare questa vicenda. Perfino un collaboratore di giustizia, tale Elmo, aveva riferito che, per circostanze casuali, si trovava nei pressi di via D’Amelio il 19 luglio ’92, e nel momento in cui aveva udito la deflagrazione si era avvicinato e aveva visto Contrada allontanarsi dal luogo teatro della strage con una borsa o con dei documenti in mano. Ovviamente una testimonianza che risulterà del tutto priva di fondamento.
Tra loro emerge Pino Lipari (mafioso dal colletto bianco) e l ’ingegnere capo del comune di Bagheria, Nicolò Giammanco(deceduto nel 2012), figura emblematica e personaggio chiave nell’assegnazione degli appalti nonché legato da rapporti di parentela con l’allora capo procuratore Pietro Giammanco. Ma questo è un altro grande e infinito capitolo.
Il depistaggio su Via D’Amelio, per i giudici «La Barbera non voleva favorire la mafia»
«Gli elementi probatori analizzati finora non consentono di ritenere – al di là di ogni dubbio ragionevole – che Arnaldo La Barbera fosse concorrente esterno all’associazione mafiosa o che l’abbia agevolata favorendo il perdurare dell’occultamento delle convergenze dell’associazione con soggetti o gruppi di potere cointeressati all’eliminazione di Paolo Borsellino e dei poliziotti della sua scorta». Lo scrivono i giudici di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio in riferimento all’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, ritenuto dall’accusa il «motore» dell’inquinamento dell’inchiesta.
«Non vi è dubbio che La Barbera abbia agito anche per finalità di carriera e – dopo essere stato messo da parte alla fine del 1992 in corrispondenza con l’arresto di Contrada – una volta rientrato nel circuito, abbia fatto letteralmente carte false per poter mantenere e accrescere la propria posizione all’interno della polizia di Stato e nell’establishment del tempo», spiegano.
Sui maltrattamenti che il falso pentito Vincenzo Scarantino riferì di aver subito nel carcere di Pianosa dalla polizia che voleva costringerlo ad accusarsi della strage e accusare innocenti «non può ritenersi – aggiungono – che gli stessi fossero riconducibili a disposizione impartite da La Barbera o da Mario Bo (tra gli imputati del depistaggio, ndr)».
«Se può dirsi inoltre anche logicamente certo che, nell’ottica di un pressing investigativo eufemisticamente duro e spregiudicato (come si è visto, tradottosi anche nella fabbricazione di falsi collaboratori di giustizia come Andriotta, al fine di dare la spallata alle resistenze di Scarantino), la sua labilità psicologica sia stata utilizzata dagli investigatori per convincerlo a collaborare (con ogni mezzo), non può però ritenersi provato che le condotte di cui Scarantino fu vittima a Pianosa siano ascrivibili alla longa manus di Arnaldo La Barbera», proseguono.
«Però è tristemente e altamente probabile che quest’ultimo ne fosse quantomeno a conoscenza», concludono i giudici che parlano di una «disgraziata e devastante gestione penitenziaria che ha realizzato una sospensione dei principi dello Stato di diritto e delle garanzie costituzionali che non può che suscitare indignazione». GIORNALE DI SICILIA 6.4.2023
Sentenza Via D’Amelio: “Le bugie su Contrada diversivo per depistare”
Esce di scena la trattativa Stato-mafia, sfatata anche la presenza dei “man in black” sul luogo della strage. Per i giudici di Caltanissetta il depistaggio c’è stato, e viene ribadita la pista mafia-appalti Dopo anni, scompare definitivamente di scena la tesi della trattativa Stato-mafia come causale dell’accelerazione della strage di Via D’Amelio. Non solo. Decostruita totalmente la testimonianza di un ex poliziotto che dice di aver visto un gruppo di uomini in giacca e cravatta rovistare nel luogo della strage di Via D’Amelio, mentre ancora c’erano addirittura le fiamme. In più viene evidenziato che le testimonianze, in seguito totalmente smentite, su Bruno Contrada presente sul luogo del vile attentato, rientrano nel depistaggio.
Tre elementi, quelli evidenziati dai giudici del tribunale di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, che azzerano le narrazioni mass mediatiche su un tema tuttora rimasto pieno di buchi neri. E che sicuramente, riempiendoli di racconti romanzeschi, non aiutano alla verità. Ma dopo trent’anni dai fatti, e dopo averli sprecati a causa delle prime indagini che portarono all’arresto, con tanto di condanna sigillata dalla Cassazione, di persone totalmente innocenti, il diritto alla verità è menomata. E sono proprio i giudici di Caltanissetta che aprono le motivazioni con una premessa a tal proposito, sottolineando che questo procedimento si colloca a distanza di circa 30 anni dalla strage di Via D’Amelio e sconta dei limiti strutturali non oltrepassabili poiché più ci si allontana dai fatti più è difficile “recuperare” il tempo perduto. Così come, evidenziano sempre i giudici, il decorso di questo lungo lasso temporale ha comportato il venir meno di fonti dichiarative (le persone invecchiano e muoiono) come i decessi dell’allora capo procuratore nisseno Giovanni Tinebra e di Arnaldo La Barbera, capo della squadra “Falcone Borsellino” che condusse le prime indagini. Senza contare che il tempo ha logorato anche i ricordi delle fonti dichiarative ancora in vita.
Secondo i giudici, la matrice dell’attentato non è esclusivamente mafiosa e il depistaggio è servito ad allontanare anche l’altra verità, ovvero la complicità di soggetti istituzionali. Ma nel contempo, risultano forme di depistaggio anche l’aver messo in mezzo persone istituzionali, ma totalmente estranee ai fatti. Primo tra tutti l’asserita presenza di Bruno Contrada sul luogo della strage poco dopo la deflagrazione. Per i giudici della corte è un elemento significativo. Partono dalle dichiarazioni del magistrato Nino Di Matteo che all’epoca raccolse quelle testimonianze, poi rivelatesi totalmente prive di veridicità. Tutto nasce, ha raccontato Di Matteo, «dalla deposizione e i verbali di alcuni magistrati, Antonio Ingroia era uno di questi, la rappresentazione di un dato, che era stato detto da alcuni ufficiali del Ros, e in particolare, se non ricordo male, dal capitano Sinico, ai magistrati che la prima pattuglia intervenuta subito dopo l’esplosione in via D’Amelio aveva notato il dottore Contrada allontanarsi dal luogo dell’esplosione».
Lo stesso Di Matteo racconta che nel ’95 decise di riprendere in mano questi fascicoli e propose al capo della procura e agli aggiunti di esplorare questa vicenda. Perfino un collaboratore di giustizia, tale Elmo, aveva riferito che, per circostanze casuali, si trovava nei pressi di via D’Amelio il 19 luglio ’92, e nel momento in cui aveva udito la deflagrazione si era avvicinato e aveva visto Contrada allontanarsi dal luogo teatro della strage con una borsa o con dei documenti in mano. Ovviamente una testimonianza che risulterà del tutto priva di fondamento. I giudici, nelle odierne motivazioni, osservano che rimangono dei quesiti che – ci si rende conto (allo stato) sono destinati a rimanere irrisolti – «ma non por(se)li sarebbe un ulteriore errore di prospettiva che espungerebbe inopinatamente dal raggio di valutazione degli elementi rilevanti».
Segnatamente i giudici si chiedono perché in un arco temporale prossimo alla strage ci sia dedicati a diffondere la notizia, poi rivelatasi falsa, della presenza di Bruno Contrada in via D’Amelio poco dopo l’esplosione. A vantaggio di chi? Alla luce di tutte le circostanze i giudici ritengono che se ne giovò chi aveva tutto l’interesse a far sì che le matrici non mafiose della strage (che si aggiungono a quella mafiosa) di Via D’Amelio non venissero svelate nella loro reale consistenza. «Come ben evidenziato da talune parti civili (in primis l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, ndr) Bruno Contrada era “il diversivo giusto”: un soggetto – nel frattempo caduto in disgrazia per le confidenze rivelate da Gaspare Mutolo al dottor Borsellino circa una contiguità del Contrada medesimo con l’organizzazione mafiosa – da collocare immediatamente sulla scena del crimine subito dopo l’esplosione».
Emerge anche la decostruzione di un’altra narrazione. Nei programmi in prima serata, podcast, giornali e anche nei convegni pubblici, viene data per certa la storia della presenza di persone vestite come i “man in black”, a 40 gradi all’ombra, rovistare senza una goccia di sudore nell’auto ancora in fiamme di Borsellino. Questo è il racconto dato da Francesco Paolo Maggi, uno dei primi poliziotti ad arrivare sul luogo della strage. Ebbene i giudici sono chiari a tal proposito: non può essere credibile il racconto. «Inoltre – scrivono nelle motivazioni -, il riferire circostanze così importanti a distanza di un notevole decorso di tempo (Maggi nonostante fosse stato già sentito in altre occasioni non ha mai rivelato tale circostanza prima del processo Borsellino quater) rende ancora più dubbia la credibilità di un dichiarante che è comunque stato destituito dalla Polizia di Stato nel 2001 a causa dell’abuso di sostanze stupefacenti e che sulla borsa del dottor Borsellino ha fornito una versione che contrasta con i dati oggettivi provenienti dai filmati».
Non solo. I giudici ricordano come Maggi, appartenente all’organo di polizia giudiziaria incaricato di svolgere le indagini, non abbia redatto alcuna relazione di servizio fino al 21 dicembre 1992 senza fornire, di fatto, alcuna spiegazione del ritardo di oltre cinque mesi nella redazione di tale atto. «Rimane il dubbio se si tratti di una “negligenza” nella tecnica investigativa – l’ennesima accertata in questo processo – o se vi sia di più», chiosano i giudici. Osservano che non è possibile aggiungere altro senza scivolare nel rischio di fallacia causato «dalla pletora delle possibili ricostruzioni alternative anche in considerazione del fatto che non sono state acquisite nell’odierno procedimento tutte le precedenti dichiarazioni rese da Maggi prima della deposizione nell’odierno dibattimento».
Rimangono però delle certezze per la corte. Che il depistaggio c’è stato, le indagini svolte dalla squadra mobile capitanata da La Barbera sono costellate da forzature e abusi, che la mafia ha agito con la complicità di altri settori esterni. Tra le casuali della strage, non è contemplata la trattativa Stato-mafia, ma viene ad esempio ribadita la pista mafia-appalti come causa preventiva riportando le argomentazioni delle sentenze precedenti. Così come vengono riportate le dichiarazioni del pentito Giuffrè, il quale parla dei sondaggi pre attento che la mafia fece con personaggi del mondo politico e imprenditoriale. Tra loro emerge Pino Lipari (mafioso dal colletto bianco) e l ’ingegnere capo del comune di Bagheria, Nicolò Giammanco (deceduto nel 2012), figura emblematica e personaggio chiave nell’assegnazione degli appalti nonché legato da rapporti di parentela con l’allora capo procuratore Pietro Giammanco. Ma questo è un altro grande e infinito capitolo. 6 aprile, 2023 DOMANI
Volevano fermare il Dossier Mori
Depistaggio Borsellino, fu strage di Stato: le responsabilità di mafia, polizia, servizi segreti, pm e giornali
Depistaggio Borsellino, fu strage di Stato: le responsabilità di mafia, polizia, servizi segreti, pm e giorn
Sono state depositate le motivazioni della sentenza sul depistaggio-Borsellino. Sono clamorose. Dicono in modo esplicito che si trattò di una strage di stato seguita da un depistaggio di Stato, dicono che Borsellino non fu ucciso solo dalla mafia, dicono che nel depistaggio e forse nell’omicidio furono coinvolte persone delle istituzioni, in particolare – la cosa appare molto chiara – della polizia, dei servizi segreti e della magistratura, dicono che una delle ragioni della strage fu la necessità di fermare il dossier mafia-appalti al quale stava lavorando il generale Mori e che interessava a Borsellino e che avrebbe travolto il castello dei rapporti tra corleonesi e imprese del Nord. Descrivono un devastante scenario istituzionale, accennano all’ostracismo del procuratore di Palermo (Giammanco) nei confronti di Borsellino, sono severissime nei confronti dei Pm Patralia e Palma. L’unico che ne esce bene è Bruno Contrada, l’ex numero 2 del Sisde, che fu messo in mezzo dai depistatori e pagò con dieci anni di prigione, e ne dovette aspettare 25 prima di essere riabilitato, e ancora aspetta di essere risarcito. Poi c’è un’altra verità che emerge: la trattativa stato-mafia (alla quale mai si accenna in queste motivazioni e che invece fu indicata come uno dei motivi dell’attentato) è una pura invenzione mediatico-giudiziaria. Costruita da giornalisti un po’ inetti e magistrati magari in buona fede ma molto pasticcioni. In sostanza fu un ulteriore – seppure oggettivo e non intenzionale – depistaggio. Diciamo che queste motivazioni, che ora andranno lette con attenzione (sono più di 1500 pagine) ci dicono essenzialmente una cosa: che non sapremo mai esattamente come e da chi e perché furono uccisi Falcone e Borsellino e poi proseguirono le stragi di mafia; ma ci dicono anche che il quadro è abbastanza chiaro: la mafia agì con coperture istituzionali, e non politiche, e furono proprio quelle forze deviate dello Stato che avevano aiutato le stragi a permettere poi che una coltre di fumo avvolgesse le indagini. Nella sostanza sono confermate tutte le responsabilità della mafia stragista, e ne escono malissimo pezzi della polizia, dei servizi segreti e della magistratura. Male male escono anche gran parte dei giornali. Piero Sansonetti — 7 Aprile 2023 IL RIFORMISTA
Sentenza via D’Amelio, la grande truffa durata trenta anni
Depistaggi, bugie, visionari, protagonismo e incapacità, hanno permesso di portare avanti per trenta anni le tesi più strampalate di chi a tutti i costi doveva crocifiggere chi provava soltanto a fare il proprio dovere, ovvero combattere la mafia.
La sentenza su via D’Amelio ha messo in chiaro alcuni aspetti del depistaggio sulla strage nella quale morirono Paolo Borsellino e i componenti della sua scorta.
Con la complicità di molti giornalisti – obbedienti alla regia – per tre lunghi decenni abbiamo assistito al più grave depistaggio mai avvenuto dal dopoguerra.
Finalmente scompaiono dalla scena la cosiddetta trattativa Stato-mafia come causale dell’accelerazione della strage di Via D’Amelio,e Bruno Contrada, la cui presenza sul luogo dell’attentato non solo è stata smentita, ma le dichiarazioni di chi lo voleva sul posto vengono ritenute dai giudici funzionali a nascondere la verità, con il coinvolgimento di altri soggetti istituzionali.
Tra dichiarazioni di collaboratori di giustizia, uomini in divisa e magistrati poco accorti, “Bruno Contrada – come riportato in sentenza – era ‘il diversivo giusto’: un soggetto – nel frattempo caduto in disgrazia per le confidenze rivelate da Gaspare Mutolo al dottor Borsellino circa una contiguità del Contrada medesimo con l’organizzazione mafiosa – da collocare immediatamente sulla scena del crimine subito dopo l’esplosione”.
Dieci anni fa, quando intervistammo Bruno Contrada, l’ex uomo del Sisde a proposito di Gaspare Mutolo, che fu il primo ad accusarlo di avere rapporti con “cosa nostra”, ci narrò delle diverse indagini svolte sul suo conto che portarono all’arresto e alla sua condanna: “L’ho arrestato per vari reati – disse Contrada – e fatto condannare.
Una condanna che lui ha espiato a 9 anni per tutta una serie di estorsioni; lo avevo anche arrestato e denunciato per l’omicidio di un agente della Polizia di Stato. Un ragazzo di 20 anni, napoletano come me… un ragazzo a cui tenevo moltissimo….
Però da questa imputazione fu assolto e nell’occasione fu anche assolto per associazione mafiosa in un processo che aveva subito nella seconda metà degli anni settanta ed esattamente nel 1977. Fu assolto per insufficienza di prove dallo stesso magistrato che poi ha condannato me, stabilendo nella sentenza che io ero amico di questo mafioso…”
Per il magistrato Contrada era amico di Mutolo, eppure sarebbe stato sufficiente riflettere sul fatto che Mutolo l’aveva con Contrada anche perché era convinto che lui avesse dato ordine ai suoi uomini di sparargli addosso a vista, per l’odio che nutriva verso di lui, visto che lo riteneva responsabile dell’uccisione di un agente di polizia suo dipendente a cui teneva moltissimo. La combinazione volle che per ben 3 volte uomini della squadra mobile sparassero contro Mutolo.
‘Amici e guardati’ – diremmo in siciliano, ovvero amici dai quali stare attenti. Se Contrada era così tanto amico di Mutolo, a tal punto – a dire di quest’ultimo – da volerlo morto e fargli sparare per ben tre volte, il magistrato forse avrebbe fatto bene a immaginare cosa sarebbe accaduto se non fossero stati ‘amici’…
Le accuse di Mutolo vennero comunque smontate anche sentenza della Corte d’appello, che condannò Contrada, confermando però che le accuse di Mutolo erano infondate.
Un conto è discutere i metodi utilizzati nella lotta alla mafia, un altro quello di accusare di collusioni chi la mafia l’ha combattuta davvero.
Raccontare i fatti reali, però non fa audience, non è funzionale a brillanti carriere e non fa scrivere libri di successo.
False propalazioni di pentiti, poliziotti che recuperano la memoria dopo trent’anni – mentre c’è chi la perde – e i nomi di uomini da infangare ai vertici dei servizi (che se non sono “deviati” non se ne parla neppure), hanno costruito la storia della più grande truffa in danno della verità e del popolo italiano, mai avvenuta nella storia moderna.
Nell’infangare uomini in divisa, non si corre neppure il rischio di una querela, che se Contrada, Mori, De Donno e altri, avessero dovuto querelare tutti quei giornalisti che hanno scritto romanzi sulle loro storie, avremmo i tribunali intasati dai processi, mentre viceversa, il solo criticare l’operato di un magistrato porta dritto dritto alla sbarra, con la quasi certezza della condanna.
Possiamo dire che tra le casuali della strage la trattativa Stato-mafia non viene contemplata come fattore che portò all’accelerazione di via D’Amelio, o è motivo per ritrovarsi imputati?
Possiamo dire che viceversa in sentenza viene ribadita la pista mafia-appalti, o anche questo è motivo valido per comparire dinanzi un giudice?
E qui mi fermo, prima di sentire i carabinieri che bussano alla mia porta…
Gian J. Morici 8 Aprile 2023 | LA VALLE DEI TEMPLI
8.4.2023 “Non fu la mafia a far sparire l’agenda rossa di Paolo Borsellino”
Nelle motivazioni della sentenza sul depistaggio nella strage di via D’Amelio i giudici sono chiari: non è stata attività di cosa nostra
L’agenda rossa di Paolo Borsellino non fu fatta sparire da uomini di cosa nostra. I giudici del tribunale di Caltanissetta lo mettono nero su bianco nelle motivazioni della sentenza emessa lo scorso luglio nell’ambito del processo sui depistaggi della strage in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino ed i cinque agenti della sua scora. Era il 19 luglio del 1992.
Secondo i giudici nisseni infatti non sarebbe stata la mafia a mettere le mani sull’agenda dove il magistrato annotava ogni sua intuizione investigativa e dove forse aveva scritto qualcosa di molto importante che aveva scoperto sui mandati della strage di Capaci. “A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di appartenenti alle forze dell’ordine – scrivono i magistrati nelle oltre 1500 pagine di motivazione della sentenza – può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile a una attività materiale di Cosa nostra”. Dunque qualcun altro si sarebbe occupato di farla sparire. Chi? Questo purtroppo è ancora un mistero. In questi anni sono state fatte mille ipotesi ma, almeno fino ad oggi, la verità non è mai venuta a galla. Le piste battute dai magistrati di diverse procure sono state tantissime ma adesso, almeno per i giudici nisseni, unaertezza c’è: non è stata la mafia.
L’idea che ha preso sempre più campo è quella che a fare sparire l’agenda rossa del magistrato, siano stati esponenti dei servizi segreti deviati. Ma anche su questo non ci sono mai state prove sufficienti. Di certo c’è che i 3 poliziotti indagati in questo processo per il depistaggio non sono stati condannati. Due perché i retai contestati sono stati prescritti ed un assolto. Ma le loro testimonianze al processo erano piene di “non ricordo”. Ed è su questi “non ricordo” che adesso potrebbe aprirsi una nuova inchiesta per falsa testimonianza.
Dunque, per i giudici, dietro la sparizione ci sarebbe la mano di qualche rappresentate delle istituzioni. Scrivono ancora: “Gli elementi in capo non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda senza cadere nella pletora delle alternative logicamente possibili ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario e opportuno sottrarre”. Insomma una certezza questa per il collegio giudicante, ma senza un sospettato preciso. Ma c’è di più. La strage, scrivono ancora, non fu pensata e messa in atto solo da cosa nostra. Nero su bianco c’è anche questo: “plurimi elementi che inducono a ritenere prospettabile un ruolo, tanto nella fase ideativa, quando nella esecutiva, svolto da soggetti estranei a Cosa nostra nella strage, vero e proprio punto di svolta nella realizzazione della strategia stragista dei primi anni Novanta”. Insomma Paolo Borsellino aveva scoperto troppo e questo non faceva comodo alla mafia, ma non solo alla mafia. TG24 SKY
Le motivazioni. «L’agenda rossa di Borsellino? Non l’ha rubata Cosa nostra»
Le parole dei magistrati circoscrivono una densa nebulosa, intorno alla stagione delle stragi del ‘92. Cosa accadde davvero, negli attimi concitati dell’eccidio di Paolo Borsellino e della sua scorta, in via D’Amelio? Chi, oltre alla mafia, era interessato a togliere di mezzo quel servitore dello Stato? I giudici del tribunale di Caltanissetta hanno depositato le motivazioni della sentenza, emessa a luglio scorso, sul depistaggio delle indagini relative alla strage del 19 luglio del ‘92, appena qualche tempo dopo l’attentato di Capaci del 23 maggio precedente. Furono dichiarate prescritte le accuse contestate a Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti finiti sotto processo e venne assolto, nel merito, il terzo, Michele Ribaudo.
Le pagine della sentenza, nella rilettura di un contesto, lasciano intatto uno scenario di ombre. «La ricostruzione del passato è stata spesso manipolata al fine di fornire una interpretazione dei fatti che è funzionale alla tutela di interessi non alti, ma altri rispetto alla ricostruzione autentica di tanti eventi cruciali e cupi degli ultimi decenni di storia del nostro Paese. La strage di via D’Amelio, tragica nel suo esito umano e deflagrante sul piano politico istituzionale dell’epoca in cui si consumò, ne è esempio paradigmatico e pone un tema fondamentale, quello della verità nascosta, o meglio non completamente disvelata». Ecco uno degli snodi delle motivazioni.
Si entra nel dettaglio: «L’istruttoria dibattimentale ha consentito di apprezzare una serie di elementi utili a dare concretezza alla tesi della partecipazione (morale e materiale) alla strage di Via D’Amelio di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino». A rivelare quell’ingerenza sarebbero «l’anomala tempistica della strage di Via D’Amelio (avvenuta a soli 57 giorni da quella di Capaci) la presenza riferita dal collaboratore Gaspare Spatuzza di una persona estranea alla mafia al momento della consegna della Fiat 126 imbottita di tritolo e la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino».
«Non è aleatorio sostenere – si legge – che la tempistica della strage di via D’Amelio rappresenta un elemento di anomalia rispetto al tradizionale contegno di cosa nostra volto, di regola, a diluire nel tempo le sue azioni delittuose nel caso di bersagli istituzionali (soprattutto nel caso di magistrati) e ciò nella logica di frenare l’attività di reazione delle istituzioni». A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di esponenti delle forze dell’ordine, «può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile ad una attività materiale di Cosa nostra». Ne discendono due ulteriori logiche conseguenze.
«In primo luogo, l’appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda- scrive il tribunale -. Gli elementi in campo non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda, ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e, per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario o opportuno sottrarre». «In secondo luogo- concludono i giudici – un intervento così invasivo, tempestivo (e purtroppo efficace) nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire – non oggi, ma già nel 1992 – il movente dell’eccidio di via D’Amelio, certifica la necessità per soggetti esterni a Cosa nostra di intervenire per alterare il quadro delle investigazioni, evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage (che si aggiungono, come già detto a quella mafiosa) e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage».
La sentenza su via D’Amelio è il trionfo della dietrologia antimafia
Giovedì non sono state depositate soltanto le motivazioni del “processo Bellini” relativo alla strage di Bologna (1.472 pagine in cui i giudici della Corte d’assise di Bologna si sono sbizzarriti attorno allo storytelling del “doppio stato”: da Moro all’omicidio di Piersanti Mattarella, da Ustica a Pecorelli, da Sindona a Pinelli), ma anche le motivazioni della sentenza del tribunale di Caltanissetta, emessa lo scorso luglio, sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. Anche in questo caso i giudici hanno dato sfogo a tutta la loro vocazione narrativa, vergando 1.434 pagine di motivazioni, anche qui lanciandosi in considerazioni che vanno ben oltre la valutazione della condotta degli imputati, cioè i tre ex poliziotti assolti dall’accusa di aver indottrinato il falso pentito Vincenzo Scarantino per depistare le indagini sulla strage costata la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta.
Legale innocenti condannati: “Ora Procura sani buchi strage Borsellino”
Il depistaggio sulla strage di Via D’Amelio “nasce in alto” e i due poliziotti le cui posizioni sono state prescritte nella sentenza “erano solo due anelli deboli”. A dirlo all’Adnkronos è l’avvocata Rosalba Di Gregorio, legale di parte civile di alcuni degli innocenti accusati ingiustamente da Scarantino della strage di via D’Amelio, che hanno scontato anche 15 anni in carcere al 41 bis.
Sono sette in tutto gli innocenti condannati ingiustamente per l’attentato al giudice Borsellino. Si tratta di Salvatore Profeta, Gaetano Scotto, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana e Giuseppe Urso. Lo scorso 12 luglio il tribunale di Caltanissetta aveva dichiarato prescritte le accuse contestate a Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti accusati di avere depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio costata la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta. Assolto il terzo imputato, Michele Ribaudo. Erano imputati di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia. Il venire meno dell’aggravante ha determinato la prescrizione del reato di calunnia.
I tre erano accusati di aver costruito, anche attraverso falsi pentiti, un castello di menzogne sull’eccidio costato la vita al giudice Paolo Borsellino e alla sua scorta. Secondo l’avvocata Di Gregorio “ci sono tanti di quei buchi, cercassero di capire adesso come è successo. Se non si guarda il livello di Polizia infiltrata nella strage, di buchi ne restano tanti. Dalla sentenza emerge motivata la responsabilità di questi soggetti imputati. Ora tocca alla Procura di De Luca sanare i buchi con gli elementi che, peraltro, agli atti ci sono”.
Il falso pentito Vincenzo Scarantino, che nella sentenza viene bollato come “mentitore professionista”, “ogni volta che ha potuto ritrattare lo ha fatto, l’unica cosa su cui non ha mai ritrattato nulla è l’accusa ai poliziotti imputati nel processo depistaggio Borsellino”, dice la legale. Secondo l’avvocata Di Gregorio, “l’aggravante deve essere rivalutata”. E ricorda alcuni passi delle motivazioni della sentenza depositata pochi giorni fa dai giudici del Tribunale di Caltanissetta. Oltre 1.400 pagine in cui spiegano i motivi della sentenza emessa nove mesi fa. “A fronte di tutto il percorso che i giudici hanno descritto nella sentenza – spiega la legale di parte civile – parlando delle connivenze istituzionali, facendo anche nomi e cognomi, a partire dal Prefetto Luigi Rossi”, che viene più volte citato nelle motivazioni. “I protagonisti di livello apicale di quella stagione, ove non deceduti non hanno fornito alcun elemento utile alla ricostruzione dei fatti e si sono potuti trincerare, talvolta con malcelata stizza, dietro l’età avanzata e il tempo lungamente decorso”, scrivono i giudici.
E sull’ex vicecapo della Polizia Rossi dicono: “Ha riferito circostanze non pienamente corrispondenti alla realtà in ordine a pregresse competenze specifiche del dottor La Barbera ha riferito di non avere saputo della collaborazione del Sisde, di non avere ricordi in ordine alla formazione dei gruppi di lavoro che si occupavano delle stragi”. “Risposte preconfezionate”, secondo i giudici, “in concreto poco credibili”. “I giudici parlano di una ‘copertura alta’ che individuano in soggetti istituzionali, con ulteriori anelli di riferimento”, spiega l’avvocata Di Gregorio. E ricorsa anche la frase dei giudici sulla “amnesia collettiva” di alcuni esponenti delle istituzioni nel processo. “Non è indice di estraneità dei fatti, tanto è vero che mandano gli atti in Procura”. Il riferimento è ai quattro poliziotti che ora rischiano di finire a processo per falsa testimonianza.
“Il problema non è l’ex capo della Mobile Arnaldo La Barbera”, dice. “Non è lui l’ideatore del depistaggio, lui può essere che lo metta in atto come anello della catena” e ricorda le dichiarazioni rese dall’ex poliziotto Gioacchino Genchi durante il processo. “Lo esclude che La Barbera abbia agito per motivi di carriera. E che Roma centri lo sappiamo, così come sappiamo che il gruppo investigativo ‘Falcone e Borsellino’ è stato fatto apposta…”. La legale, che ha seguito tutti i processi sulle stragi, a partire dal ‘Borsellino uno’, e che conosce tutti gli atti, ricorda ancora l’episodio in cui la “Polizia di Palermo avverte il Sisde il 13 agosto del 1992 – dice – c’è una informativa di Ruggeri, che poi in aula non ricorda neppure la sua firma. Nella informativa scrive: ‘Abbiamo appreso che sono in possesso di elementi’, insomma il copione che poi faranno recitare ai collaboratori Candura e Scarantino. Evidentemente, la Polizia queste notizie le avrà apprese da una fonte che ha compiuto la strage…”.
E l’avvocata Di Gregorio ricorda anche un lancio di agenzia di “un’ora dopo la strage quando i giornalisti scrissero che a scoppiare era stata una 126 o comunque una auto di piccole dimensioni. Lo avranno appreso da una fonte di Polizia, come faceva a sapere la Polizia che era una 126, dal momento che era impossibile capirlo pochi istanti dopo l’esplosione?”. Pone anche altre domande, l’avvocata: “Perché nonostante Franca Castellese, la moglie del collaboratore Mario Santo Di Matteo in una conversazione intercettata tra la coppia parla di polizia ‘infiltrata’ nella strage, poi verrà sentita dai magistrati insieme con i poliziotti? La stessa Polizia che con i suoi vertici si occupava di intercettazioni e che non voleva acquisire i tabulati”.
Ritiene, poi, parlando dell’agenda rossa di Borsellino che, secondo i giudici non sarebbe stata fatta sparire da Cosa nostra ma da “uomini delle istituzioni”, “noi lo abbiamo sempre detto”. “Sul piano dell’acquisizione probatoria l’unico passo avanti rispetto al Borsellino quater è che la strage è anche istituzionale. Questo lo dicono chiare convergenze di interessi. Questa affermazione in sentenza al quater non era stata fatta”.
Si pone altre domande, la legale: “Chi ha avvertito il commando degli spostamento del dottor Borsellino? Perché Salvatore Biondino dice ai suoi uomini di potere andare a mangiare perché il giudice avrebbe lasciato la sua abitazione solo dopo pranzo?”. “La telefonata alla madre di Borsellino era della sera prima, a quest punto è stato qualcuno che sapeva alla perfezione gli spostamenti di Borsellino, in tempo reale. Che a sua volta lo comunica a Biondino, che lo dirà alla staffetta della morte, rinviando tutto a dopo pranzo”.
E ancora: “Borsellino il 25 giugno, parlando alla Biblioteca comunale, dopo la strage Capaci, disse: ‘Io sono testimone di alcuni fatti che non posso dire qui perché li devo rassegnare alla Procura di Caltanissetta’, ma i magistrati nisseni non lo chiamarono mai. Evidentemente Borsellino si è reso conto di qualcosa, quindi viene eliminato perché testimone diretto”.
Insomma, secondo l’avvocata “ci sono tanti di quei buchi, cercassero di capire adesso come è successo”. E ribadisce il suo appello al Procuratore di Caltanissetta Salvatore De Luca: “Ora tocca a lui sanare quei buchi. Gli elementi ci sono agli atti…”.
(Adnkronos) – (di Elvira Terranova) 9.3.2023
I giudici: «L’isolamento di Falcone e Borsellino favorì la scelta di ucciderli»
«La mafia prima delle stragi del 1992, effettuò dei “sondaggi” con “persone importanti” appartenenti al mondo economico e politico», ha detto sempre Giuffrè, il quale ha anche riferito che «in quel periodo erano ben pochi i sostenitori di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino», i quali «non interessavano proprio a nessuno» e non erano ben visti neppure all’interno della magistratura. Nella decisione di eliminare i due magistrati palermitani aveva avuto un peso proprio il loro isolamento. La strategia terroristica di Salvatore Riina traeva la sua forza dalla previsione (rivelatasi poi infondata anche a causa della paura insorta in buona parte del mondo politico e della conseguente reazione dello Stato) che passato il periodo delle stragi si sarebbe ritornati alla normalità». «Riina e Provenzano – ha aggiunto Giuffrè – erano in contatto con personaggi importanti».
A parlare dell’isolamento di Borsellino, anche la moglie, Agnese Piraino Leto. «Ricordo perfettamente – aveva detto la consorte di Borsellino – che sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini senza essere seguiti dalla scorta. In tale circostanza, Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere».
«Egli avrebbe dunque espresso la convinzione – scrivono i giudici di Caltanissetta – secondo cui personaggi estranei a cosa nostra avrebbero, di lì a poco, organizzato o comunque partecipato alla sua eliminazione, percependo dunque come proveniente da “fuoco amico” le minacce rivolte nei suoi confronti». GDS 8.4.2023
I giudici: «In via D’Amelio 4 o 5 uomini dello Stato, tutti in giacca e cravatta»
Omicidio Borsellino, il depistaggio di Stato organizzato prima della morte del magistrato: la terribile verità
Le clamorose motivazioni della sentenza