Trattativa, il processo ha svelato fatti e verità

 

Marco Lillo sul Fatto del 29/04/2023
 
Il processo Trattativa è finito con un’assoluzione definitiva e piena per Marcello Dell’Utri e per i Carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno. Per gli ufficiali dell’Arma si passa dalla formula dell’assoluzione in appello (‘il fatto non costituisce reato’) a quella ‘non hanno commesso il fatto’, più ampia, che già nel 2021 era usata per assolvere Marcello Dell’Utri.
I boss dunque hanno provato a trasmettere il messaggio delle bombe per piegare lo Stato ma né i Carabinieri né Dell’Utri hanno veicolato la minaccia.
Questo si può solo intuire leggendo il dispositivo della Suprema Corte ma bisognerà aspettare le motivazioni della sentenza per capire.
Una cosa è certa, i fatti avvenuti tra il 1992 e il 1994 in Italia sono stati letti in tre modi diversi nei tre gradi di giudizio.
In primo grado i carabinieri e Dell’Utri erano tutti stati condannati perché avevano concorso a portare la minaccia dei boss rispettivamente ai governi di Carlo Azeglio Ciampi nel 1992-93 e di Silvio Berlusconi nel 1994.
In secondo grado i giudici hanno assolto tutti ma con motivazioni diverse.
Dell’Utri non aveva commesso il fatto perché non era provato che avesse portato il messaggio intimidatorio a Berlusconi invece i Carabinieri erano assolti perché il fatto non costituiva reato.
Sintetizzando brutalmente le migliaia di pagine della sentenza, i carabinieri avevano trattato con Vito Ciancimino puntando a dialogare solo con l’ala ‘moderata’ guidata da Bernardo Provenzano non con il ‘Capo dei Capi’, Totò Riina.
Per i giudici di appello lo scopo del generale Mori non era quello (meno nobile) di salvare i politici più vicini ai vertici del Ros nel mirino di Riina ma quello nobile di fermare le stragi, nell’interesse dello Stato.
Quello scopo sarebbe stato perseguito arrestando Riina anche mediante un’operazione di polizia particolare che puntava a incunearsi nella frattura tra ala stragista di Riina e l’ala meno efferata, guidata da Provenzano.
Per la Corte di Assise di Appello non c’era quindi nell’animo dei Carabinieri il dolo di partecipare alla minaccia. Magari un approccio alla lotta alla mafia criticabile ma non un reato. Di qui l’assoluzione.
Quella sentenza era stata criticata perché sembrava ammettere e legittimare la trattativa con Provenzano nella logica del ‘meno peggio’.
Ora la Cassazione accoglie il ricorso di Mori e compagni e riabilita completamente i Carabinieri: non hanno fatto niente di quel che gli veniva contestato.
I mafiosi defunti come Riina e quelli vivi e imputati, come Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, per effetto di questa diversa ricostruzione hanno solo tentato la minaccia allo Stato mediante i Carabinieri senza riuscirci. Quindi grazie alla riqualificazione del reato possono fruire della prescrizione.
Immediatamente è partito un attacco mediatico e la richiesta di scuse contro i magistrati che hanno voluto il processo e anche contro i giornalisti, pochi per la verità, che lo hanno raccontato, esaminato e commentato.
Dal punto di vista degli imputati è comprensibile una simile posizione.
Mori, De Donno, Subranni e dell’Utri (come già Calogero Mannino nell’abbreviato anni fa) hanno ragione a gridare che sono innocenti e che hanno subito un calvario ingiusto. Il colonnello De Donno per esempio ha perso la moglie dopo la condanna in primo grado e prima della sentenza che lo ha assolto.
Nessuno potrà restituirgli i giorni sereni che non ha vissuto, perché non è sereno chi è imputato o condannato in primo grado. De Donno e gli altri possono lamentarsi del processo che è di per sé una pena.
Possono farlo come tantissimi cittadini che hanno subito indagini, condanne e perquisizioni poi annullate dalle decisioni successive della magistratura.
Purché si tenga a mente che l’assoluzione in appello (ora persino ‘ampliata in Cassazione’) dopo un rinvio a giudizio e una condanna in primo grado, rappresenta la fisiologia e non la patologia del sistema.
I pm hanno chiesto il processo perché pensavano di poter provare nell’aula bunker di Palermo le loro ricostruzioni in fatto e in diritto.
In primo grado hanno avuto ragione. In appello e Cassazione no.
Resta il fatto che, grazie a questo processo, sono emersi fatti molto importanti.
Basti ricordare le testimonianze dei protagonisti della politica che mai avevano raccontato i retroscena dei loro rapporti con i carabinieri o le intercettazioni delle conversazioni in cella di Riina che ammette le sue responsabilità o quelle del boss Graviano che svela la sua versione su una Trattativa mai finita.
Il piano della ricostruzione dei fatti dovrebbe essere separato da quello delle responsabilità penali.
Eppure l’Italia è piena di giornalisti, politici e storici che non vogliono più sentir parlare dei fatti emersi in questo processo come se la loro irrilevanza penale li condannasse all’oblio.
Così facendo costoro rendono inutile non solo lo sforzo dei pm ma anche quello dei legali degli imputati e soprattutto i sacrifici di tempo, salute e vita degli assolti.
Gli articoli e i libri su un processo come questo rappresentano un segnale di salute della democrazia. Inquietante sarebbe il calare del silenzio dopo l’assoluzione definitiva. I processi sulla strage di Bologna del 1980 o di Piazza Fontana del 1969 hanno avuto risultati altalenanti.
Eppure dobbiamo essere grati a giudici come Guido Salvini che hanno dedicato una vita a cercare i colpevoli delle stragi che hanno insanguinato l’Italia anche se non sempre i processi sono finiti con condanne.
Nella sentenza di primo grado contro Paolo Bellini per la strage di Bologna i giudici ringraziano i giornalisti e gli storici che hanno scritto libri e articoli per raccontare i fatti emersi da vecchie indagini e vecchi processi mettendoli in relazione ad altri fatti emersi dalle loro ricerche più recenti.
In una democrazia che funziona gli storici e gli intellettuali dovrebbero raccogliere il testimone di questa staffetta tra inchieste giornalistiche e giudiziarie. Non girarsi dall’altra parte.