Costantino Visconti, professore ordinario di diritto penale nell’Università di Palermo, è stato intervistato da QdS
Costantino Visconti è professore ordinario di diritto penale nell’Università di Palermo.
QdS l’ha intervistato a proposito della sentenza della Corte di Cassazioneemessa lo scorso 27 aprile, relativa al processo “Bagarella e altri”, il cosiddetto, impropriamente, processo “trattativa Stato-mafia”.
Professore, la Suprema Corte ha deciso il non rinvio ai giudici d’appello ma ha modificato il giudizio assolutorio nei confronti dei Ros e derubricato i reati di cui erano imputati Bagarella e Cinà. È un fatto anomalo o esistono precedenti giuridici?
Non è qualcosa di straordinario. Succede, non spesso, ma succede. La VI° sezione, la medesima che si è occupata di questa sentenza, fece qualcosa di analogo nel processo “Mafia Capitale”, quando ridefinì il reato di “associazione mafiosa” derubricandolo a “associazione semplice” e non rinviò ai giudici d’appello il processo”.
In quali casi succede?
Succede quando i giudici della Suprema Corte ritengono che non occorra un nuovo giudizio perché loro stessi, senza entrare nel merito, possono, per dir così, aggiustare la decisione impugnata. I non addetti ai lavori ritengono, erroneamente, che il diritto sia il mondo delle certezze ma, in realtà, non è così: in tal caso, ad esempio, la Corte ha esercitato a fondo i suoi poteri e ha ritenuto che un ulteriore processo non avrebbe avuto alcuna utilità perché nulla avrebbero potuto aggiungere al merito dei fatti processualmente acquisiti. Mentre si è riservata il sindacato in punto di diritto sulla qualificazione giuridica di quegli stessi fatti, derubricando in tentativo i reati contestati ai mafiosi e adottando la più favorevole formula assolutoria “per non avere commesso il fatto” nei riguardi dei carabinieri.
Era un processo da non fare?
Appartengo alla schiera di studiosi (la quasi totalità, credo) che ritenevano probabile questo esito finale. Sin dall’inizio, dalla formulazione del capo imputazione, emergevano contraddizioni e forzature. Va detto, tuttavia, che c’è stata una Corte, quella del primo grado, che ha condannato gli imputati. Piuttosto c’è altro che non andava fatto.
A cosa si riferisce?
A com’è stato gestito questo processo. I pubblici ministeri di allora hanno creato un processo parallelo per accattivarsi la pubblica opinione grazie a giornalisti e organi di informazione compiacenti. A tal fine hanno creato un “brand”, quello della “trattativa”, concetto che a rigor di logica era incompatibile con la loro stessa impostazione perché non si possono considerare vittime e carnefici parti di una stessa trattativa. Ecco, oltre al danno agli imputati, questo processo ha fatto male alla giustizia, alla credibilità delle istituzioni giudiziarie in quanto ha portato fino alle estreme conseguenze il fenomeno delle “mediatizzazione” del processo.
Forse è lo stesso capo d’accusa iniziale che ha portato a questo epilogo. Non avrebbero potuto imputarli per concorso esterno a Cosa nostra?
Qualcuno l’ha sostenuto, ma sicuramente non c’erano le prove. Questi carabinieri sono tra i più processati degli ultimi anni e sono sempre stati assolti.
Nella sentenza del “Borsellino IV” c’è scritto qualcosa di diverso rispetto alle cause della strage Borsellino.
Anche nella sentenza d’appello del processo di cui parliamo si punta il dito verso il “dossier mafia-appalti”. Però appartengo alla vecchia scuola, le sentenze devono riguardare i fatti dedotti nel processo.
Questo processo si lega a tutti i processi relativi alle stragi del ’92 e anche a quelle del ’93. Al di là dei risultati raggiunti dai singoli processi, è arrivato forse il momento di passare la mano agli storici per rileggere quel contesto e quegli accadimenti?
Ho messo in campo l’idea, e non penso di essere l’unico, della creazione di una Commissione Parlamentare d’inchiesta con il corredo e l’ausilio di storici di professione. Credo, cioè, che le indagini penali abbiano dato tutto quel che potevano dare, piaccia o no. parte. ”I guanti di legno del diritto penale” non riescono ad afferrare la complessità di quanto avvenuto in quegli anni perché il giudizio penale ha un obiettivo, quello di contestare un singolo fatto a una singola persona. Quando hai da comprendere macro eventi e, alle spalle di questi accadimenti si snodano catene multieziologiche e multifattoriali, il diritto penale non regge la sfida: e questo è quello che è successo con il processo di cui stiamo parlando: una moltitudine di elementi messi assieme confusamente in un unico calderone, uniti soltanto da un pregiudizio accusatorio. Invece con lo sguardo della ricostruzione storico-politica puoi comprendere quei fatti, fuori dalla necessità penalistica di imputarli a qualcuno. È comunque impossibile, più di trent’anni dopo, trovare la cosiddetta “pistola fumante”, ma è si potrebbe capire il contesto in cui è maturata la decisione stragista di Cosa nostra. Insomma, credo che sia arrivato il momento della comprensione e spiegazione di quegli anni terribili, senza affidarsi più esclusivamente ai pubblici ministeri.