La vita invisibile di un agente della Dia nella Palermo delle stragi

 

 

 

VIDEO PRESENTAZIONE Ministero dell’Interno

 

 



La storia mai conosciuta degli invisibili, gli agenti della DIA, istituzione voluta da Giovanni Falcone, e insieme il romanzo di quattro investigatori diventati come fratelli e quello di un padre che racconta a suo figlio la lotta intima di chi si mette fino in fondo al servizio dello Stato.

Per le strade di Palermo, nell’estate del 1992, rimbomba ancora l’eco dell’esplosione di via D’Amelio, delle sirene che da Capaci corrono invano verso gli ospedali. Sembra che il male abbia trionfato, ma per rispondere a questo attacco durissimo lo Stato sta silenziosamente mettendo in campo un corpo speciale, nato da un progetto dello stesso Giovanni Falcone: la DIA, Direzione investigativa antimafia, che riunisce i migliori uomini di tutte le forze dell’ordine.
Sono uomini che per mettersi in caccia di chi ha ucciso Falcone e Borsellino lasciano le famiglie, vivono sotto copertura in alberghi di quart’ordine, hanno a disposizione strumenti rudimentali ma sono animati dal sentimento altissimo di una missione che li unisce come fratelli. In questo romanzo uno di loro trova il coraggio di raccontare le indagini, le ore di ascolto delle voci intercettate, l’adrenalina dei blitz, le ossessioni e le emozioni di quei giorni cruciali: le racconta a suo figlio, che a quel tempo era un bambino pieno di nostalgia per il padre sempre lontano.
Allora, a quel bimbo aveva raccontato di essere un animale speciale, dotato degli occhi feroci di un lupo ma del cuore fedele di un cane: oggi gli spiega come diventare invisibile sia stato l’unico modo per proteggere lui e sua madre mentre lavorava per catturare gli assassini di Giovanni Falcone. Con precisione e passione Diana Ligorio dà vita a un romanzo che è al tempo stesso una emozionante avventura investigativa e lo struggente viaggio dentro un rapporto tra un padre e un figlio. E illumina le gesta di uomini destinati a rimanere per noi senza volto ma che sono stati capaci di sacrificare tutto per consegnarci un mondo più giusto.

 

Scrivere questo romanzo è stato un tormento e una cura per ragioni che non riguardano lo scrivere ma che inevitabilmente poi hanno riguardato anche lo scrivere. L’esperienza di questo romanzo mi ha insegnato tante cose. Intanto che scrivere per me è un’urgenza. Che la parte più forte è assumere i panni di un personaggio, guardare come guarda lui, parlare come parla lui. Qui ho provato a mettermi nei panni di un uomo di sessant’anni e seguire il flusso dei suoi pensieri. Che la letteratura anticipa la realtà: scrivere nelle pagine cose che poi accadranno nella vita oppure scrivere cose per me inventate ma che poi scopro essere successe veramente nella vita dei personaggi a cui mi sono ispirata. Che i libri, quelli che scrivo e quelli che leggo, in questo momento sono una grazia ricevuta.
Spero tanto che questo romanzo venga accolto con lo stesso amore con cui l’ho pensato e scritto.
La copertina è bellissima e sono onorata che questo libro dia inizio alla nuova veste grafica della collana Munizioni.
I ringraziamenti sono tanti e voglio farli tutti. Gli investigatori e le investigatrici della DIA che mi hanno raccontato le loro storie con generosità e passione. Pietro Balla che starà sorridendo in questo momento: sì, avevi ragione tu. Mauro Parissone per avermi fatto incontrare questa storia e per aver sostenuto il mio pensiero in tutti questi anni. Maurizio Vallone, Direttore della DIA, per avermi aperto le porte dell’istituzione. Alessandra Mele, la mia agente, per avermi cercata, scelta e sostenuta. Giulia Ichino per la fiducia assoluta che ha avuto nel mio lavoro. Solo oggi capisco che lei ha visto questo libro molto prima di me. Tommaso Maiorelli per la cura attentissima al testo. Roberto Saviano per aver voluto questo romanzo nella sua collana. Bompiani tutta. L’Ufficio stampa. Silvia Ferrari e Costanza Elmi a cui ho la fortuna di affidare la buona strada di questo romanzo.
Grazie a mio padre, Mimino Ligorio, che mi ha insegnato la postura con cui cammino per il mondo, lo sguardo di lato, quel modo silenzioso di osservare, quel sentimento altissimo della giustizia.
Ma il ringraziamento più importante, oggi e sempre, è per Andrea, il padre di mio figlio, senza il quale questo romanzo non avrebbe avuto quella spinta, quell’urgenza anche qui, quel desiderio di esserci per il proprio figlio, di capirlo, di cercarlo e lasciarlo andare per questo mondo che vorremmo per lui più giusto. Da Pagina FB 
 
 
 

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Intervista a Diana Ligorio, sceneggiatrice, già autrice del film DIA 1991. Parlare poco, apparire mai, ha pubblicato “Occhi di lupo, cuore di cane. La vita invisibile di un agente della DIA” (Bompiani)


Come e quando nasce l’idea di scrivere questo libro?

Nel 2021 ho curato la scrittura del docufilm “DIA 1991 – Parlare poco, apparire mai”, prodotto da RaiCinema e 42°Parallelo e realizzato per il trentennale della Direzione investigativa antimafia, l’istituzione creata e voluta da Giovanni Falcone.
In quella occasione avevo conosciuto gli agenti della DIA, molti dei quali in pensione, ed ero rimasta fortemente colpita dalle loro storie e dall’emotività che attraversava il loro presente come se il passato delle inchieste fosse ancora vivo e continuasse a compiersi davanti ai loro occhi. Confesso che all’inizio non avevo molta voglia di occuparmi di questo progetto, mi aspettavo la solita retorica sbirresca e invece la postura di questi investigatori, i segni che si portano addosso, il prezzo che hanno pagato, le emozioni che non temono di nascondere, la loro generosità sono stati elementi che mi hanno agganciata e mi facevano sentire l’urgenza di un racconto.
Un racconto che inevitabilmente volevo far vivere non solo sullo schermo per un documentario ma anche sulla pagina perché il libro offre un altro passo e ancor più lo fa il romanzo: dà profondità, ampiezza e universalità alle vicende narrate tutelando l’identità delle persone coinvolte e consentendo uno slancio narrativo che potenzialmente può arrivare a tanti tipi di lettori, non solo quelli appassionati di storie di mafia.
Infatti, la forma narrativa che ho scelto (un agente della DIA in pensione racconta al figlio la sua vita da investigatore che fino a quel momento gli ha tenuto nascosta per ragioni di sicurezza) consente l’ingresso nell’inchiesta che porta alla cattura di Bagarella ad un pubblico molto ampio: i padri, i cercatori di pezzi inediti di storia italiana, le nuove generazioni per via del linguaggio scelto e per l’adrenalina dell’inchiesta, moltissime donne che si ritrovano nello sguardo femminile di chi scrive a conoscere l’universo maschile di questo racconto.
Ho scelto quindi come oggetto del racconto l’inchiesta e la città da cui l’esperienza della DIA ha avuto inizio: Palermo. L’idea di questo libro è stato un modo per restituire non solo l’impegno di uno Stato silenzioso ma anche un punto di vista diverso per raccontare lo stesso Giovanni Falcone attraverso l’istituzione da lui voluta e creata, diventata operativa solo dopo le stragi del 1992.
Un’istituzione, direi piuttosto un corpo composto da questi giovanissimi investigatori che hanno riscattato un padre dello Stato catturando i suoi assassini.  
Per questo il libro racconta l’inchiesta vera e documentata della cattura di Leoluca Bagarella ma è anche il romanzo del rapporto struggente tra un padre e un figlio perché fin dai primi incontri con questi investigatori sono rimasta colpita da una condizione che ha attraversato tutta la loro esistenza: loro hanno sacrificato la loro vita e i loro affetti non per la gloria ma per il sentimento della giustizia e per consegnare un mondo più giusto anche ai loro figli ma proprio con questi figli che non hanno mai potuto dare un significato pieno all’assenza dei loro padri si trovano ad essere in conflitto. Questo conflitto, straziante a livello umano, narrativamente è diventato il perno attorno a cui far girare le pagine di “Occhi di lupo, cuore di cane”. Il romanzo è sempre la possibilità di dire cose che altrimenti non si possono dire.
Per questo nel libro ho immaginato un padre, investigatore della DIA in pensione, che scrive una lettera al proprio figlio per raccontargli la vita che ha condotto e lasciargli una sorta di eredità con l’invito a ristabilire un rapporto.

Raccontare “da dentro” il mondo della Dia. Quali sono gli obiettivi che volevi fare emergere e quali anche le “emozioni” che volevi suscitare nel lettore?

Volevo far compiere un’esperienza al lettore: vivere come vive un agente della DIA, pensare come pensa lui, sentire quello che sente lui. In questo modo il lettore viene calato in una “guerra” come direbbe il protagonista di “Occhi di lupo, cuore di cane”. In un conflitto, preferisco dire io. Un conflitto che è tra lo Stato e la mafia ma è anche tra un uomo con la sua famiglia, tra un padre e un figlio. In questa immersione nella mente di un investigatore la prima regola che si apprende è l’abnegazione, il sacrificio della propria vita privata a favore dei ritmi, dei tempi e delle esigenze dell’inchiesta. Prima viene l’attività investigativa, dopo tutto il resto.
Si entra corpo a corpo nel “dietro le quinte” dell’indagine venendo a conoscenza anche di alcuni elementi inediti. Questa urgenza che gli agenti hanno vissuto e che ho cercato di restituire nella pagine del libro con un ritmo agganciante richiedeva l’uso del tempo presente perché era l’unico modo per tirare dentro il lettore: stare in quella Peugeot durante i pedinamenti per le strade di Palermo dopo le stragi, conoscere la famiglia scelta dei fratelli colleghi, sentire lo strappo dalla moglie e il figlio lontani. Ed è sempre il tempo presente che porta il lettore all’oggi, alla realtà del protagonista in pensione che fa i conti con la sua vita privata a pezzi e che si trova a compiere un viaggio a Palermo dopo trent’anni per il funerale di un suo collega fraterno. È questa l’occasione per rivivere attraverso dei flashback l’inchiesta degli anni Novanta. In questo montaggio delle pagine che vanno avanti e indietro tra presente e passato questa prima persona con cui l’investigatore si racconta, rivolgendosi al figlio, spesso diventa una seconda persona. Ed è proprio questo “tu” a interrogare il lettore, ad afferrarlo nelle contraddizioni emotive di questa vita avventurosa e nelle scelte dilanianti sul campo. Alla fine, immerso nella piccola storia di un investigatore della DIA il lettore avrà la sensazione di aver attraversato la Storia di questo Paese.

Un tuo commento sul difficile lavoro dell’agente della Dia in quegli anni a Palermo

All’indomani delle stragi del 1992 nessun poliziotto o carabiniere o finanziere voleva andare a Palermo. La città veniva da anni di ammazzamenti prima ancora delle stragi in cui hanno perso la vita Falcone e Borsellino.
Per le strade di Palermo c’erano i blindati e l’esercito con i mitra spianati.
Questa era la Sicilia di quegli anni ed è in quel clima che arrivano gli investigatori della DIA, scelti tra i migliori tra le diverse forze di polizia.
Sono giovanissimi, hanno tra i 25 e i 35 anni, lasciano famiglie e figli e arrivano in Sicilia dove troveranno altri colleghi che hanno già lavorato sul campo nella lotta alla mafia e hanno la memoria storica del contesto. Vivono sotto copertura in alberghi di quart’ordine e iniziano a fare la stessa vita dei latitanti che devono catturare “perché se non vivi come loro non li prenderai mai”.
Vivono nell’ombra, hanno a disposizione mezzi rudimentali.
I cellulari li hanno i mafiosi, loro devono andare alle cabine telefoniche per chiamare a casa. Ma hanno intuito, spirito di sacrificio e sono animati dal sentimento altissimo di una missione che li unisce come fratelli. In più vengono da forze diverse e devono trovare per la prima volta un modo di lavorare insieme. E dopo aver passato trent’anni a vivere la vita degli altri, Franco Lomuto (il nome fittizio del protagonista del romanzo) quando va in pensione e ritorna a essere se stesso, si chiede chi sia lui adesso. Senza il lavoro si sente di non servire più a niente.
Restano i ricordi, la convinzione di aver fatto la scelta giusta. E restano le parole di Giovanni Falcone che nel libro il protagonista ascolta attraverso un walkman: “Si è istituita una rete di solidarietà di amicizia e di comune credo negli stessi ideali che prescinde dalla mia persona e che non sarà disperso.”

24 giugno 2023  EDITORIALE DOMANI

 

Occhi di lupo, cuore di cane: un romanzo per raccontare gli sguardi dietro ai passamontagna degli agenti della DIA

Che vite hanno gli uomini della Direzione Investigativa Antimafia voluta Giovanni Falcone? Cosa significa vivere da invisibile, se sei un padre, se hai dei figli, una famiglia? E la paura, si può avere? Ne abbiamo parlato con l’autrice Diana Ligorio

Le parole custodite in Occhi di lupo, cuore di cane, scritto da Diana Ligorio ed edito da Bompiani, sono nate tutte lì. In quel luogo e in quel tempo. In quella città piena di sirene, macchine blindate e angoli di strada ricordati per i morti ammazzati. E per una parole che si poteva pronunciare solo sottovoce, fino a un certo momento: mafia. Quando è nata la Direzione Investigativa Antimafia voluta da Giovanni Falcone, gli uomini migliori delle forze dell’ordine si sono riuniti lì. Li stessi che hanno assicurato al carcere il boss Matteo Messina Denaro.

E quasi come in un macabro gioco del destino, nei giorni subito successivi alle stragi di Capaci e via D’Amelio, quegli stessi uomini si sono messi in caccia di chi ha ucciso Falcone e Borsellino. Per farlo, hanno lasciato le loro famiglie, vissuto sotto copertura in alberghi di quart’ordine, uniti da una missione che li consacra come fratelli. Dopo averli incontrati, Diana Ligorio, ha visto in quegli uomini non solo degli agenti specializzati ma degli uomini in carne ed ossa, dei padri di famiglia in alcuni casi, dei mariti, dei figli.

Perché questo libro?

«Ascoltando le storie degli investigatori della DIA ho sentito un’urgenza che all’inizio non riuscivo a decifrare. Era sì, l’impellenza di entrare in profondità in questa guerra tra Stato e mafia per conoscere quello Stato a cui voglio appartenere; era sì, il bisogno di ritrovare i padri, anche il mio, con il senso del giusto. Ma poi questa urgenza mi richiedeva di fare qualcosa. E nel mio caso poteva dire solo una cosa: raccontare questa storia. Perché raccontare vuol dire illuminare una storia e consentire alla memoria di essere trasmessa. Per questo nel romanzo ho avuto chiarissimo fin da subito che era necessario dialogare con un figlio, rivolgersi a lui come in un’idea di futuro, come una forma di eredità».

Chi sono gli uomini della DIA?

«Sono giovani investigatori che fanno parte di un corpo speciale, nato da un progetto dello stesso Giovanni Falcone e che riunisce i migliori uomini di tutte le forze dell’ordine. Così all’indomani della strage di Capaci per mettersi in caccia di chi ha ucciso Falcone e Borsellino questi agenti lasciano le loro famiglie e arrivano a Palermo, vivono sotto copertura in alberghi di quart’ordine e iniziano a fare la stessa vita dei latitanti che devono catturare. Vivono nell’ombra, hanno a disposizione mezzi rudimentali. I cellulari li hanno i mafiosi, loro devono andare alle cabine telefoniche per chiamare a casa. Ma sono animati dal sentimento altissimo di una missione che li unisce come fratelli. In più vengono da forze diverse e devono trovare un modo di lavorare insieme. All’inizio sono un foglio bianco».

E cosa diventano?

«Mettono in campo abnegazione, sacrificio, intuito, desiderio di vincere questa guerra. E un fattore fondamentale che per me è uno dei valori altissimi di questo romanzo: l’io viene sostituito dal noi. Il gruppo. E da qui quindi lo Stato. Uno Stato invisibile. Su quel foglio bianco hanno scritto la Storia».

Come ha lavorato insieme agli investigatori che ha scelto di raccontare?

«Intanto stabilendo un patto di fiducia tra me e loro. Abbiamo sentito fin da subito che potevamo fidarci. Sono stati incontri intensi ed emotivamente coinvolgenti. Loro per la prima volta si sono raccontati perché mi hanno sentita entrare in empatia con i loro conflitti e le loro missioni. Il mio desiderio di conoscere la loro storia si è trasformato in un vero e proprio bisogno: dovevo sapere, non perdermi nulla delle loro parole. Io dal lato mio mi sono fidata dei loro ricordi, delle loro sensazioni, della narrazione che non è solo di un’inchiesta, non è solo dei loro vissuti privati ma è anche di un pezzo di storia di un Paese intero, il nostro».

Cosa l’ha colpita di più dei loro racconti?

«Gli investigatori della DIA hanno vissuto nell’ombra e lottato contro la mafia non per la gloria ma per il sentimento della giustizia e anche per il desiderio di consegnare un mondo migliore ai loro figli, però proprio con questi figli si trovano alla fine ad essere in conflitto perché come padri, in virtù della loro missione, sono stati assenti nella vita delle loro famiglie. Questa condizione è una spaccatura lancinante nelle loro esistenze ed è stata indubbiamente per me una chiave narrativa agganciante e struggente».

Cosa ci ha trovato dentro?

«Da una parte, l’abnegazione, la solitudine, il non apparire mai, lo strappo dai rapporti privati, i segni profondi che questa scelta di vita porta con sé. Dall’altra, l’amore incondizionato per la loro missione, il senso altissimo della giustizia, il desiderio di vincere la guerra dello Stato, il legame con i fratelli, la strada come luogo eletto da questo branco di lupi. Più l’inchiesta va bene, più ci si allontana dalle proprie famiglie, dai propri figli. Verrebbe da chiedersi: ma alla fine ne è valsa la pena? La loro risposta è stata molto chiara: “Sì, ne è valsa la pena nonostante tutto.”

Come si parla di mafia ai ragazzi e alle ragazze?

«Scegliendo un punto di vista inedito, un linguaggio potente e una struttura narrativa agganciante. Questi tre aspetti sono diventanti obiettivi per la mia scrittura. Per questo ho scelto di raccontare una storia vera nella forma del romanzo e in particolare delle narrazione del rapporto padre figlio. In Occhi di lupo, cuore di cane il protagonista, un agente della DIA in pensione, si rivolge al figlio per raccontagli una storia che fino ad allora gli aveva tenuto nascosta: una piccola storia che ha fatto la grande Storia».

L’ha scritto al presente.

«Il lettore viene tirato dentro la storia e si trova a compiere un’esperienza immersiva: vive come vive un’agente della DIA, pensa come pensa lui, sente quello che lui sente. Anche la scelta del tempo della storia andava in questo senso: il presente era l’unico tempo possibile per questo romanzo. Tutto si compie sotto lo sguardo di chi legge. Da qui l’uso di un linguaggio diretto e visivo che porta dentro l’azione dell’inchiesta e dentro le emozioni struggenti dei rapporti umani. Infine questi ingredienti avevano bisogno di una struttura narrativa che portasse la linea del tempo avanti e indietro, componendo scene in cui il presente e il passato si alternano e dialogano come nel montaggio di una vera e propria serie televisiva.

Si può spiegare l’azione di uomini che decidono di attaccare lo Stato? E quella di altri che invece decidono di sacrificare tutto per proteggerlo quello Stato?

«Gli uni perseguono un interesse privato e violento di arricchimento, potere e prevaricazione a qualunque costo; gli altri hanno come obiettivo la difesa del bene pubblico che va protetto anche a costo di sacrificare la propria vita. Questi ultimi peraltro ora che sono in pensione si sentono solo dei cittadini che hanno fatto il loro dovere. Il motivo profondo e originario per cui si faccia parte di un gruppo piuttosto che di un altro è una questione complessa. Mi viene però in aiuto una frase di Giovanni Falcone. La domanda della giornalista era: “Si riesce a stabilire un contatto umano con un mafioso?” Il giudice risponde: “Ma certamente, sono uomini come tutti gli altri.” Questo per Falcone significava poter dialogare con un pentito ma a me in questo momento piace pensare che siamo tutti uomini e donne allo stesso modo e scegliamo ogni giorno la nostra esposizione, la nostra postura rispetto alla legge del bene e del male».  di Alessia Arcolaci VANITYFAIR 22.4.2023


DIANA LIGORIO (1982) è cresciuta a San Michele Salentino. Vive a Roma dove lavora come autrice, showrunner e sceneggiatrice. È autrice del film DIA 1991. Parlare poco, apparire mai (2021) prodotto da Rai Cinema e 42° Parallelo. Ha curato i docufilm Nove giorni al Cairo. Tortura e omicidio di Giulio Regeni di Carlo Bonini e Giuliano Foschini, Falcone, Borsellino e gli altri di Attilio Bolzoni (2017), Un unico destino. Tre padri e il naufragio che ha cambiato la nostra storia di Fabrizio Gatti e ES17. Dio non manderà nessuno a salvarci di Roberto Saviano (2018). Ha pubblicato il romanzo Mia e la voragine (TerraRossa Edizioni, 2022).


a cura di Claudio Ramaccini