20.7.2023 Paolo Borsellino, Sallusti: nelle lettere della famiglia, la verità su chi lo osteggiava
Vincenzo Scarantino, classe 1965, mafioso di basso livello, viene arrestato per spaccio di droga il 29 settembre 1992. Due mesi dopo si dichiara pentito e inizia a collaborare sostenendo che il suo clan riforniva di droga Silvio Berlusconi, una accusa incredibile subito scartata. Nel giugno del 1994 il colpo di scena: Scarantino si autoaccusa della strage in cui morì il giudice Borsellino e fa i nomi dei complici. Al processo, iniziato nel 1999, il tribunale di Caltanissetta emetterà nove sentenze di ergastolo e una a 18 anni per Scarantino. Ma c’è un problema: non era vero nulla, proprio nulla. E lo si scopre solo nel 2008 quando un altro pentito, Gaspare Spatuzza, sbugiarda Scarantino e racconta un’altra verità.
Di fronte all’evidenza lo stesso Scarantino ammetterà di essersi inventato tutto. È una delle pagine più buie e vergognose della giustizia italiana costretta a scusarsi pubblicamente e a liberare gli ergastolani per caso.
Che Scarantino non fosse attendibile se ne era accorta all’epoca dei fatti anche Ilda Boccassini che, non ascoltata, lasciò proprio per questo la procura di Caltanissetta. Ma nonostante ciò la macchina infernale della giustizia impazzita continuò la sua corsa guidata dai procuratori Giovanni Tinebra, Carmelo Petralia e Annamaria Palma assistiti da un giovane pm, quel Nino Di Matteo che diventerà poi una star della magistratura antimafia fino ad approdare al Csm.
Nel 2017, Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato, nel venticinquesimo anniversario dell’uccisione del padre, scrive una accorata lettera al Csm nella quale si chiede di fare chiarezza anche all’interno della magistratura su quanto successo. E cosa accade? Lo racconta Luca Palamara, allora potente membro del Csm: «Acquisimmo gli atti del processo Borsellino e aprimmo una discussione in prima commissione, quella che si occupa dei procedimenti disciplinari. Fu una discussione molto accesa ma detto in onestà non ci fu mai l’intenzione di andare fino in fondo. Primo perché era passato troppo tempo per accertare una verità oggettiva, secondo perché sulla vicenda aleggiava il nome di Nino Di Matteo, in quel momento tra i più potenti e protetti magistrati italiani. Insomma, abbiamo fatto ammuina, come si dice a Napoli. Non abbiamo neppure convocato, almeno per dare un segnale alla famiglia Borsellino e al Paese, i magistrati che gestirono quel depistaggio, tantomeno Di Matteo».
Fiammetta Borsellino e la sorella Lucia però non si arrendono e l’anno successivo, siamo nel 2018, si recano nell’ufficio del procuratore generale Riccardo Fuzio, in quel momento la massima autorità giudiziaria italiana, fornendo elementi che a loro dire avrebbero potuto dare avvio a una istruttoria, a una azione di accertamento delle responsabilità sul piano disciplinare dei magistrati coinvolti. Vengono sentite, raccontano fatti, vicende e situazioni. Passa un anno senza che nulla accada e nel 2019 poco prima di lasciare l’incarico Fuzio scrive una lettera di scuse alle sorelle Borsellino per non essere riuscito a dare seguito alla loro sete di verità e giustizia, lettera alla quale le due signore rispondono con fredda lucidità e in modo esemplare.
Le tre lettere di cui abbiamo parlato, sconosciute ai più e pubblicate per la prima volta nel libro Lobby e Logge che ho scritto raccogliendo i ricordi di Luca Palamara, sono parole che smascherano più di qualsiasi altra cosa l’ipocrisia di queste ore su chi è stato in questi anni dalla parte di Borsellino e chi no. Perché provano che tra “chi no” c’è un bel pezzo di quella magistratura di sinistra (Borsellino era uomo convintamente di destra) che sostenuta da tanti giornalisti complici, millantando il nome di Borsellino e usando come scusa la lotta alla mafia, rifiuta di essere riformata.
Paolo Borsellino, come Giovanni Falcone, all’epoca fu osteggiato e lasciato solo dai colleghi magistrati, le indagini sulla sua morte furono prima clamorosamente sbagliate e poi insabbiate dagli stessi colleghi, per lo più quelli che non hanno ritenuto degna Giorgia Meloni di partecipare da premier alla fiaccolata di commemorazione che si è svolta ieri, giorno del trentunesimo anniversario della strage. A leggere le tre lettere viene da dire che questa magistratura non andrebbe riformata bensì rivoltata come un calzino, rivoltata proprio nel nome di Paolo Borsellino. 20 luglio 2023 LIBERO
19.7.2023 1992-2023. Paolo Borsellino e gli agenti vanno ricordati senza retorica e parate
Per una qualità della memoria e un’antimafia vera, trentuno anni dopo la strage di via D’Amelio Trentuno anni dopo. 19 luglio 1992: un attentato mafioso in via D’Amelio, a Palermo, provoca la morte del magistrato Paolo Borsellino e di cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Oggi, a distanza da quegli anni Novanta, quanto poco sappiamo ancora delle stragi di Capaci e via D’Amelio? Come reazione alla disinformazione e alla retorica, ieri come oggi, l’importante è privilegiare la qualità della memoria. La qualità di un impegno politico, culturale e sociale, sul versante dell’antimafia, solido, vero.
Quanto rimane, dopo tutti questi anni?
Cosa resta dei processi agli innocenti condannati, dei depistaggi, delle complicità ad alto livello mai svelate, dell’agenda rossa, della rabbia di Salvatore Borsellino, della mite ostinazione di Rita Borsellino?
Rimane tutto quello che riusciamo a sottrarre alle parole vacue e ai facili protagonismi.
Rimane la lucidità e il coraggio di Fiammetta Borsellino nello spezzare le messe cantate degli stanchi rituali dell’antimafia.
Basta con le grandi menzogne, le grida di facile indignazione, le frasi fatte, i luoghi comuni e le carriere costruite senza contenuti e senza vero coraggio.
Basta le parate, la retorica e i riflessi condizionati di un’informazione, di una magistratura, di una politica, di un mondo associativo, culturale e sociale, che si devono, al contrario, nutrire di spirito critico, giustizia e verità.
“Un esercito di maestri elementari per sconfiggere la mafia”
Serve uno studio serio sulla mafia, la borghesia mafiosa, le connessioni internazionali, il locale e il globale. E, senza “quell‘esercito di maestri elementari” di cui parlava lo scrittore Gesualdo Bufalino nessun crimine organizzato potrà essere sconfitto.
Giustizia sociale, legalità, Stato di diritto, educazione e libertà devono essere alleati per emancipare le nuove generazioni dalla sottocultura ereditaria della morte e della distruzione. Oggi, più che mai, verità e memoria devono essere sottratti allo scempio a cui spesso sono stati sottoposti dagli stessi rappresentanti delle istituzioni e delle classi dirigenti. Da qui si deve ripartire per intravedere una luce in un buio e in vuoto ancora potenti. Ancora pericolosi. TEMPO STRETTO 19.7.2023
La passerella di Scarpinato, il sacerdote dell’Antimafia che dissacra successi e sentenze dello Stato che rappresenta.
L’eroe Borsellino e le puntuali polemiche
PAOLO BORSELLINO, UN UOMO LASCIATO SOLO (di Jacopo Cosenza)
PAOLO BORSELLINO, UN UOMO LASCIATO SOLO (di Jacopo Cosenza)
Il 19 Gennaio del 1992 morirono in un attentato a Palermo il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta nella cosiddetta “Strage di Via D’Amelio”, facendo esplodere una Fiat 126 piena di tritolo all’altezza del numero 21 della suddetta via dove si trovava la casa dell’anziana madre.
Da quel giorno si apre una delle vicende più controverse nella storia del nostro paese, dai presunti depistaggi, alle relazioni Stato-Mafia fino alla scomparsa della famosa agenda rossa di Borsellino dove annotava informazioni sulle sue indagini di mafia.
Oggi vediamo politici e non, citare quasi come uno slogan i nomi di Falcone e Borsellino in nome della lotta alla mafia e della legalità, talvolta romanzando la loro storia e rendendola priva di verità scomode.
La storia di Paolo Borsellino è quella di un magistrato lasciato solo, abbandonato da uno Stato che avrebbe dovuto proteggerlo e che invece, di fatto, lo ha condannato ad una condizione di isolamento.
Borsellino voleva indagare, ma non lo hanno fatto indagare, voleva testimoniare, ma non lo hanno voluto ascoltare, voleva denunciare e combattere con i fatti “Cosa Nostra”, ma hanno liquidato le sue parole.
La stessa figlia del magistrato, Fiammetta Borsellino, ha più volte affermato in varie occasioni che ci sono uomini, il quale hanno lavorato o lavorano ancora oggi per allontanare la verità sulla strage di via D’Amelio.
Nessuno ha voluto guardare dove si doveva fin da subito, a iniziare da quel “palazzo di giustizia covo di vipere” come lo chiamava Borsellino.
Fu umiliato anche dal CSM che nel 1988 gli preferì Antonino Meli alla nomina di capo del pool antimafia di cui era stato un protagonista assoluto.
E forse, ripensando alla frase “Devo sbrigarmi, non ho più tempo” che Borsellino ripeteva da quel maledetto 23 Maggio 1992, giorno in cui sull’autostrada A29 il giudice Falcone venne fatto saltare in aria da Cosa Nostra, si capisce la drammatica solitudine in cui svolgeva la sua attività antimafia, senza il pieno appoggio e sostegno di alcuni suoi colleghi della Magistratura e di uomini dello Stato.
In quei 57 giorni in cui Borsellino non si arrende e continua, nonostante l’amarezza e la sete di verità per la perdita dell’amico e collega Falcone, a portare avanti quella brezza fresca e leggera di legalità in una terra resa così asfissiante da Cosa Nostra.
Per concludere, vorrei ricordare la frase che Paolo Borsellino disse a sua moglie Agnese due giorni prima della sua morte:” Non sarà la mafia ad uccidermi ma saranno altri. E questo accadrà perché c’è qualcuno che lo permetterà. E fra quel qualcuno, ci sono anche i miei colleghi.”
14.7.2023Di Matteo evoca la P2 e attacca il Governo. Parole gravi dal magistrato “smentito” sul generale Mori
Se il dottor Nino Di Matteo, che è stato il magistrato più scortato d’Italia, avesse detto le parole apparse oggi su La Stampa a Parigi (non a Mosca o a Pyongyang), dove il potere giudiziario è sottoposto a quello esecutivo, non solo avrebbe ricevuto una censura ma sarebbe stato certamente oggetto di un procedimento disciplinare. Perché solo in Italia, diceva Leonardo Sciascia, è consentito a chiunque abbia la patente pirandelliana di lottatore della mafia di poter tranquillamente mascariare un altro potere costituzionale, di denigrare un partito politico democratico che vive del consenso popolare, di confondere quei poteri separati che dovrebbero essere garanzia di terzietà e di equilibrio. L’intervista del magistrato ha un incipit inquietante: “C’è un disegno unico nelle riforme che attuano il programma fondativo di Forza Italia e affondano le radici nel disegno della Loggia P2”. Se l’avesse detto oggi Scarpinato, che è diventato senatore dei cinquestelle, sarebbe stata una legittima per quanto non condivisibile critica politica. Pronunciate da un alto magistrato in servizio, impegnato come requirente nella lotta al peggiore avversario della democrazia condivisa, quelle parole assumono un significato inquietante.
Il maxiprocesso fu un capolavoro di Falcone e Borsellino
Secondo Di Matteo, la riforma Nordio avrebbe gli obiettivi di “ridimensionare l’indipendenza della magistratura, controllarla direttamente e indirettamente. Questa è la posta. Il sistema di potere intende blindarsi, inattaccabile dal controllo di legalità”. Parole che pesano come pietre e che hanno un vizio genetico . Può un magistrato impegnato in un esercizio cosi importante, per quanto inquirente, esprimersi in questo modo nei confronti di una parte politica che rappresenta milioni di persone? Chi, militante nel centrodestra, si sentirebbe garantito dall’imparzialità di Di Matteo se sottoposto a un’inchiesta? Falcone e Borsellino, ma prima ancora Costa, Chinnici o Terranova, non scesero mai sul terreno dell’invasione politica, pur vivendo un contesto assai più difficile di quello attuale. La stessa cosa hanno fatto magistrati requirenti autorevoli e impegnati ancora più concretamente di Di Matteo nella lotta alle mafie come Gratteri o Bombardieri. Quest’ultimo, procuratore distrettuale a Reggio Calabria, nel circondario che ospita i fulcri vitali della mafia più potente del mondo, la ‘ndrangheta, parla solo con le inchieste. Come, per citare Cassese e Violante, dovrebbe fare ogni magistrato. Di Matteo dovrebbe ricordarsi delle parole di Fiammetta Borsellino al processo Stato-mafia e riflettere profondamente.
Ma anche la citazione del maxiprocesso, purtroppo assai frequente, è sbagliata. Fu proprio la Cassazione nel gennaio del 92 a riconoscere la grandezza e l’unicità giuridica di quella operazione, che non era una pesca a strascico ma un lavoro inquirente certosino e impeccabile. Fatto di prove e non di teoremi. Non a caso Maurizio Gasparri, che di Sicilia e di lotta alla mafia ne capisce, avendo sostanzialmente imposto il 41 bis e la sua reiterazione nel 94, ha detto che “Di Matteo è stato sconfitto clamorosamente nell’accusa persecutoria al Generale Mori e ad altri eroi della lotta alla Mafia che hanno arrestato Riina e gli altri e che per questo, invece di avere una medaglia, hanno subìto 20 anni di processi ingiustificati conclusi con un’assoluzione. Mi aspetto da Di Matteo un’intervista in cui si scusi. Vorrei un confronto ad Agorà con Di Matteo sul caso Mori e su Via D’Amelio”. Certo, il principio universale della democrazia compiuta rende ognuno criticabile. Ma nei modi, nei tempi e con le forme che non portino a un dileggio . Ma il passaggio più inquietante di tutti dell’intervista di Di Matteo è quello in cui dice “Ogni volta che si accerta un fatto, per esempio di contiguità mafiosa, la politica reagisce così, confondendo piani diversi. La responsabilità giuridica risponde al principio di non colpevolezza fino a sentenza definitiva; quella politica dovrebbe scattare a prescindere e prima, sulla base di fatti già conosciuti. Un approccio contraddittorio che di fatto abolisce la responsabilità politica”. Bisognerebbe chiedere una traduzione di tutto ciò a Marco Sorbara, un politico non di destra ma del Pd, valdostano, assolto dopo tre anni di custodia cautelare dall’infamante accusa di concorso esterno per mafia. Sorbara, forse questo Di Matteo non lo sa, aveva tentato il suicidio. Perchè Sorbara, innocente e incensurato, era già stato buttato fuori da tutto per quella indagine sbagliata e tremenda, per la quale nessuno gli pagherà i danni. L’autonomia della magistratura è un cardine giuridico invalicabile. La sua onnipotenza, no. Il principio di garanzia e di presunzione di innocenza è scritto nella carta ma inattuato nei modi e nei costumi. Soprattutto, nella Costituzione c’è scritto che il potere legislativo appartiene al popolo e, attraverso esso, al Parlamento che ne è l’espressione diretta. Il revanscismo mostrato da Di Matteo rattrista, poiché lede quel vincolo storico scaturito da ciò che significa salvaguardare la “moglie di Cesare”. Anche l’apparenza nel dettame costituzionale è sostanza. E in quella Carta che tutti amiamo e rispettiamo la parola che più riecheggia si chiama libertà.
Paolo Borsellino, non fu solo la mafia: fu tradito anche dallo Stato
La morte di Paolo Borsellino non è stata voluta solo dalla mafia. Lo Stato ha le proprie responsabilità, ma i misteri rimangono ancora oggi.
La morte di Paolo Borsellino non è legata solo alla mafia
Sono passati trentun anni dalla morte di Paolo Borsellino avvenuta per mano della mafia. Il tempo passa e sempre di più emergono i lati oscuri di quelli che sono stati gli anni bui delle stragi in Italia. Domande senza risposte, vittime e famiglie che cercano giustizia. Una ferita che non si è ancora rimarginata, in un Paese dove la giustizia lascia buchi irrisolti all’interno della nostra storia contemporanea.
È evidente che Paolo Borsellino era un personaggio scomodo, da eliminare. Ma forse non solo per la mafia. Così come il collega Giovanni Falcone, morto lo stesso anno in un precedente attentato mafioso, stava per scoprire realtà scomode che andavano ben oltre la mafia. Paolo Borsellino è stato tradito dal suo Stato e da una magistratura che si è rifiutata di restituire la verità.
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Paolo Borsellino: la sua morte poteva essere evitata
Tra l’attentato di Capaci, dove morì Falcone, e quello in Via D’Amelio passarono 57 giorni. In quell’arco di tempo Borsellino indagò senza sosta per far luce sulle trame oscure degli stretti rapporti tra la mafia e lo Stato italiano. Quel 19 luglio 1992, tuttavia, le sue ricerche furono tragicamente interrotte.
Cosa Nostra, più precisamente il Clan dei Corleonesi, da tempo lo voleva morto. E questo aspetto è stato accertato anche dai processi che sono seguiti alla sua morte. Ma rimangono molte domande intorno a tutto il resto. Le indagini sull’uccisione di Borsellino e le relative sentenze hanno portato alla creazione del più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana.
Anzi, i depistaggi su di lui erano già cominciati quando il magistrato era ancora in vita e in qualità di capo della procura di Marsala. Negli anni, infatti, fu personaggio di spicco per aver promosso importanti inchieste sulla mafia.
Chi voleva la morte di Paolo Borsellino oltre alla mafia?
Ma, quindi, per chi era pericoloso Paolo Borsellino oltre alla mafia? Lo era per tutti quegli apparati istituzionali e statali che per decenni avevano tramato insieme alla mafia, godendo della loro protezione e legittimazione a livello istituzionale. Erano uomini dei servizi, delle forze dell’ordine, militari, imprenditori, preti, politici, finanzieri.
A denunciarli è anche Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato, secondo cui il lavoro investigativo è stato mal condotto dagli organi inquirenti. Il percorso verso la ricerca della verità è stato ostacolato da alcuni colleghi dello stesso magistrato, che è così rimasto isolato e tradito anche dopo la morte. Trent’anni contrassegnati da complicità e incompetenza di una macchina giudiziaria che si rifiuta di dare risposte.
Paolo Borsellino: le domande intorno alla sua morte e le proteste della famiglia
Nei giorni che intercorsero tra l’uccisione di Falcone e l’attentato in Via D’Amelio, la Procura di Caltanissetta commise l’errore di non convocare Borsellino come persona informata sui fatti. Era lui l’unico ad aver raccolto riflessioni e confidenze fatte da Falcone, e si trovavano tutte all’interno della sua agenda rossa da cui non si separava mai. Proprio quell’agenda con la strage del 19 luglio venne persa in quel buco nero di storia: fu persa? O fatta sparire?
Fiammetta Borsellino ha deciso di disertare tutte le manifestazioni ufficiali per i trentun anni da Via D’Amelio, “perché lo Stato non ha indagato davvero”, ha detto. “Mio padre pochi giorni prima da quel tragico 19 luglio disse a mia madre che ‘non sarà la mafia ad uccidermi, ma i miei colleghi che glielo permetteranno‘. Bene, qualcuno vuole andare a vedere cosa c’era dentro quel nido di vipere?”, ha denunciato Fiammetta.
Conclusione La morte di Paolo Borsellino non è stata voluta solo dalla mafia. Lo Stato ha le proprie responsabilità, ma i misteri rimangono ancora oggi.
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30 anni dalla strage di Via D’Amelio: la morte di Paolo Borsellino rimasta senza verità né risposte
Editor: Susanna Bosi
Alessandro Dalai 12/07/2023 MAME-IT