Il dovere morale continuare a ricordare le vittime della strage di via d’Amelio

 

Il criminologo Vincenzo Musacchio ricorda Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina

 

Dopo trentuno anni dalla strage di via d’Amelio ha ancora senso commemorare le vittime senza aver ancora raggiunto la verità?

È una domanda che mi sono fatto più volte in questi trentuno anni. La mia risposta è duplice. Se il ricordo si limita alle passerelle teatrali finalizzate ai propri tornaconti, non ha alcun senso. Qualora, invece, il ricordo diventa occasione per la ricerca quotidiana di verità e giustizia, in tal caso la commemorazione acquisisce un senso compiuto e rispetta la memoria delle vittime. 

Pochi mesi fa la sentenza sul depistaggio. Secondo lei ha portato un po’ di luce sulle tante tenebre che avvolgono la strage di via d’Amelio?

La mia lettura è molto semplice e si desume leggendo proprio la motivazione della sentenza del processo sul “depistaggio” di via d’Amelio. In quella strage – io aggiungerei anche nelle precedenti – ha giocato un ruolo primario, nell’ideazione, nella preparazione e nell’esecuzione, anche una parte corrotta delle nostre istituzioni. Non è stato, a mio parere, solo un “fatto di mafia”.

La strage di via d’Amelio, quindi, è stata una strage di Stato?

Su questo non ho il minimo dubbio. Non parlerei però di Stato ma di pezzi deviati e infedeli. Non dobbiamo commettere l’errore di fare di tutt’erba un fascio. Salvatore Borsellino che conosco da oltre trent’anni mi confermò che fu proprio Agnese Piraino Leto, consorte di Paolo Borsellino, ad affermare che ad uccidere il marito non sarebbe stata solo la mafia. “Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere”. Su questa terribile e angosciante affermazione io non nutro più alcun dubbio. In questo contesto mi tornano in mente le “menti raffinatissime” di cui parlò Giovanni Falcone dopo l’attentato all’Addaura.

Alla luce di queste nuove verità, come ricordare oggi Paolo Borsellino?

Mi piace in tale circostanza richiamare il pensiero di Fiammetta. Per ricordare il padre secondo lei bisognerebbe “riappropriarsi delle testimonianze di vita di alcuni uomini e farli diventare patrimonio di tutti noi”.  Queste persone dovrebbero costituire un faro per le nuove generazioni. Solo così il ricordo ha un senso e una dimensione edificante. “Ricordare – aggiunge Fiammetta –  non può essere una mera celebrazione, non può essere una santificazione perenne perché quando accade ciò si cade nella retorica”. Il ricordo e la ricerca della verità, a mio giudizio, devono andare sempre di pari passo. 

La verità secondo lei quanto è vicina?

Non credo sia vicina, anzi, penso che la strada da percorrere sia ancora lunga poiché questo diritto alla verità e alla giustizia dovuto alle vittime e ai loro familiari è stato continuamente ostacolato attraverso azioni di depistaggio che hanno inesorabilmente allontanato dall’accertamento dei fatti. La storia di via D’Amelio è la storia di una grande bugia di Stato che purtroppo continua dal 19 luglio 1992 e che spero tanto un giorno termini e si arrivi finalmente a conoscere la verità.

Perché parla di “bugia di Stato”?

Lo confermano i fatti, non è una mia opinione. Rappresentanti dello Stato hanno individuato – con dolo o colpa, non spetta a me accertarlo – dei falsi colpevoli e li hanno perseguiti e fatti condannare non permettendo così di individuare i mandanti e i veri colpevoli di quella ignobile strage. È una bruttissima pagina della storia di questo Paese dove pezzi di Stato si sono rivelati infedeli ed eversivi non indagando adeguatamente per scoprire i colpevoli. Si sono messi a fabbricare prove false per arrestare persone sbagliate. Quel Vincenzo Scarantino fatto passare come “il nuovo Tommaso Buscetta”, cucendogli addosso i panni di uno spietato stragista, si è dimostrato, di fatto, un semplice “ruba galline”. Questo è davvero un fatto intollerabile e imperdonabile in una democrazia evoluta come la nostra.

Paolo Borsellino più volte parlò di “nido di vipere”, secondo lei a chi si riferiva?

Lo dice lui stesso poche settimane dopo che la mafia aveva ucciso il suo amico fraterno Giovanni Falcone. Considerava il suo ufficio  a Palermo “un nido di vipere”. 

Cosa Nostra agì da sola oppure fu il braccio militare di altre entità?

Non agì da sola e non solo in questa strage ma credo anche in altri attentati come per esempio quelli a Rocco Chinnici e a Giovanni Falcone. Nello Stato democratico e in alcuni componenti dello stesso si insinuò il virus dell’eversione e della infedeltà ai valori della Costituzione. Molte cose sono da chiarire e temo che su tante non si farà mai luce.

Quale fu il ruolo dei servizi segreti?

Preciserei anche in questo caso che si tratta di una parte dei servizi segreti, quella deviata. Il loro ruolo fu di depistare. Pratica eversiva che ritroviamo nella strage di “Portella della Ginestra, Piazza Fontana, nell’uccisione di Aldo Moro, nell’omicidio di Piersanti Mattarella, nella strage di Brescia, nella strage della stazione di Bologna, e in tutte le stragi di mafia. Un copione che si ripeterà fin quando qualcuno non si deciderà a parlare e a far luce su questo ruolo oscuro dei servizi segreti. È la storia di uomini in giacca e cravatta che svolazzano sui corpi straziati di via D’Amelio attorno alla Fiat Croma blindata a caccia dell’agenda rossa di Borsellino, custode di segreti che minacciavano (e probabilmente minacciano ancora) proprio quella parte dello Stato ancora contigua alla mafia.

Perché la magistratura ha ignorato importanti spunti investigativi dando credito a personaggi privi di ogni credibilità fondando le proprie inchieste sulla base di falsi pentiti?

Non posso sindacare l’operato di un magistrato, non ne ho titolo. Due errori grossolani però sono evidenti a tutti. Il primo è non aver interrogato Pietro Giammanco ex procuratore capo di Palermo e non avergli chiesto  perché impedì a Borsellino di indagare su alcuni fascicoli scottanti. Il secondo è perché i pubblici ministeri di Caltanissetta non convocarono mai Paolo Borsellino, quando disse pubblicamente di avere cose importanti da riferire sulla strage di Capaci. Su quest’ultimo punto mi sento di dire che fu un errore molto grave perché sicuramente avrebbe potuto raccontare fatti di rilevanza straordinaria. Un magistrato attento e scrupoloso avrebbe dovuto ascoltarlo nel più breve tempo possibile e non aspettare tutti quei giorni. Borsellino fu ucciso ventiquattrore prima di parlare dell’omicidio Falcone con i magistrati della Procura di Caltanissetta. Ho sempre pensato che avrebbe rivelato agli inquirenti le confidenze dell’amico fraterno ucciso dalla mafia, se non addirittura i nomi dei probabili mandanti.

Chiudiamo con un messaggio di speranza?

Credo che il messaggio più logico sia quello di non rassegnarsi mai nel perseguimento della ricerca della verità e della giustizia. Sono i due valori che tutti coloro che hanno combattuto le mafie non hanno mai smesso di perseguire. Noi nel rispetto del loro ricordo dobbiamo continuare la loro opera ciascuno nel proprio ruolo. Per con cadere nella retorica però devo anche dire che più passerà il tempo è più diventerà difficile accertare le responsabilità in tutte quelle vicende, come la strage di via d’Amelio, di per sé assai difficili e complesse da ricostruire, in special modo dopo depistaggi mai visti prima in uno Stato che si professa di diritto.

Vincenzo Musacchio, criminologo forense, giurista, associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). È ricercatore indipendente e membro dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Nella sua carriera è stato allievo di Giuliano Vassalli, amico e collaboratore di Antonino Caponnetto, magistrato italiano conosciuto per aver guidato il Pool antimafia con Falcone e Borsellino nella seconda metà degli anni ottanta. È tra i più accreditati studiosi delle nuove mafie transnazionali. Esperto di strategie di lotta al crimine organizzato. Autore di numerosi saggi e di una monografia pubblicata in cinquantaquattro Stati scritta con Franco Roberti dal titolo “La lotta alle nuove mafie combattuta a livello transnazionale”. È considerato il maggior esperto europeo di mafia albanese e i suoi lavori di approfondimento in materia sono stati utilizzati anche da commissioni legislative in ambito europeo.