32 attentati, VINCENZO CERAVOLO denuncia gli estorsori della ‘ndrangheta e fallisce

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Lotta alla ‘ndrangheta, la storia dell’imprenditore vibonese Vincenzo Ceravolo sbarca su Rai 1

 

La storia di Vincenzo Ceravolo, imprenditore ittico della provincia di Vibo Valentia: la ripropone “Cose Nostre” con Emilia Brandi, in onda lunedì 24 luglio, alle 23.30 su Rai 1.
La Marenostro, che produce tonno in scatola, è un’azienda leader del settore, un fiore all’occhiello della produzione industriale calabrese.
Ma Ceravolo non è l’unico ad avere a cuore la propria azienda; nel suo territorio, infatti, agisce il potente clan Mancuso, un’organizzazione ai vertici del traffico internazionale di cocaina che ha il suo quartier generale nel paese di Limbadi, tanto che nell’aprile 2018 il consiglio comunale di Limbadi verrà nuovamente sciolto per infiltrazioni mafiose. In questo contesto criminale, dove il mercato del pesce riscontra grande interesse nel clan Mancuso, Ceravolo è per anni vittima di estorsione da parte dell’esponente di spicco, Pantaleone Mancuso detto Luni Scarpuni.
Ma nel 2001 l’imprenditore decide di denunciare il suo aguzzino, che viene arrestato, dando inizio ad una lunga battaglia giudiziaria che si conclude solo nel 2017 con l’assoluzione del boss.
Nel frattempo, per i continui attacchi subiti, la Marenostro ha dovuto dichiarare fallimento.
Nonostante tutto Ceravolo non si arrende e continua ancora oggi la sua impari lotta contro il clan di Limbadi.


28.5.2015 Vibo Valentia, fallisce l’azienda Marenostro. Lavoratori senza stipendio da più di un anno e produzione ferma. Si attende ora la nomina, da parte del tribunale, del curatore fallimentare

Chiude un’altra azienda storica del Vibonese: la “Marenostro”. Ieri, infatti, il Tribunale di Vibo Valentia ha decretato il fallimento dell’Azienda di Portosalvo mettendo la parola fine ad una lunga e difficile vertenza iniziata nel 2006 subito dopo che la stessa aveva rilevato l’ex Nostromo.
I lavoratori ormai da più di un anno non percepivano lo stipendio e la produzione era ferma da giugno 2014.
In questo periodo si è cercato di mettere in campo una serie di interventi per rilanciare l’attività produttiva in collaborazione con il prefetto Giovanni Bruno.
Adesso si apre una fase nuova quando sarà ufficializzato il curatore fallimentare nominato dal Tribunale.
La chiusura dell’azienda ittica di proprietà del testimone di giustizia Vincenzo Ceravolo segue quella della Gam Oil di Rombiolo, che operava nel settore metalmeccanico, che ha lasciato a casa 120 persone.

Lavoro: Tribunale di Vibo dichiara fallita l’azienda ittica

Il Tribunale di Vibo Valentia ha decretato il fallimento dell’azienda ittica “Marenostro” attiva nella lavorazione del tonno ed ubicata nella frazione di Portosalvo di Vibo. Da aprile dello scorso anno i dipendenti non ricevevano più la stipendio ed erano rimasti senza materia prima da lavorare, vale a dire il tonno che non arrivava più nello stabilimento. L’istanza fallimentare era stata depositata nel luglio dello scorso anno, mentre la Corte dei Conti aveva condannato l’imprenditore Vincenzo Ceravolo, proprietario dello stabilimento, a restituire parte dei finanziamenti (7 milioni di euro solo da “Vibo Sviluppo spa”), ottenuti – secondo l’accusa – in maniera illegittima.
Nei mesi scorsi i 45 lavoratori dell’azienda avevano messo in piedi delle forme di protesta dinanzi alla Prefettura di Vibo Valentia, avevano poi interpellato il presidente della Regione, Mario Oliverio, ed avevano infine presentato un esposto alla Procura di Vibo chiedendo ai magistrati di far luce su tutti i finanziamenti pubblici ricevuti dallo stabilimento che anni addietro ha rilevato la Nostromo. Il curatore fallimentare nominato dal Tribunale dovrà ora occuparsi dell’azienda vagliando la possibilità di mantenerla in vita cedendola a qualche altro imprenditore disposto a mantenere in vita lo stabilimento. GIORNALE DI CALABRIA


Lavoro: Tribunale di Vibo dichiara fallita l’azienda ittica

VIBO VALENTIA. Il Tribunale di Vibo Valentia ha decretato il fallimento dell’azienda ittica “Marenostro” attiva nella lavorazione del tonno ed ubicata nella frazione di Portosalvo di Vibo. Da aprile dello scorso anno i dipendenti non ricevevano più la stipendio ed erano rimasti senza materia prima da lavorare, vale a dire il tonno che non arrivava più nello stabilimento. L’istanza fallimentare era stata depositata nel luglio dello scorso anno, mentre la Corte dei Conti aveva condannato l’imprenditore Vincenzo Ceravolo, proprietario dello stabilimento, a restituire parte dei finanziamenti (7 milioni di euro solo da “Vibo Sviluppo spa”), ottenuti – secondo l’accusa – in maniera illegittima. Nei mesi scorsi i 45 lavoratori dell’azienda avevano messo in piedi delle forme di protesta dinanzi alla Prefettura di Vibo Valentia, avevano poi interpellato il presidente della Regione, Mario Oliverio, ed avevano infine presentato un esposto alla Procura di Vibo chiedendo ai magistrati di far luce su tutti i finanziamenti pubblici ricevuti dallo stabilimento che anni addietro ha rilevato la Nostromo. Il curatore fallimentare nominato dal Tribunale dovrà ora occuparsi dell’azienda vagliando la possibilità di mantenerla in vita cedendola a qualche altro imprenditore disposto a mantenere in vita lo stabilimento.



25.10.2013 Sono ben 32 nell’arco di dieci anni, dal 2003 allo scorso mese di aprile, gli atti intimidatori subiti dall’imprenditore ittico di Vibo Marina e Pizzo, Vincenzo Ceravolo, “tutti regolarmente denunciati”.

E’ quanto si evince dal decreto di fermo dell’operazione “Never Ending” che evidenzia la distruzione a mare delle gabbie per l’allevamento dei tonni della famiglia Ceravolo, l’incendio del capannone della “Marenostro” nell’ottobre 2003, il rinvenimento davanti ai cancelli delle aziende di taniche piene benzina con accanto fiori e proiettili, e poi numerosi furti e danneggiamenti. Dalle dichiarazioni rese dall’imprenditore Vincenzo Ceravolo agli inquirenti nell’aprile scorso, ed ora non più coperte da segreto in quanto parti integranti del decreto di fermo, si apprende inoltre che non solo i furti ed i danneggiamenti ad opera della ‘ndrangheta avrebbero causato alle aziende dei Ceravolo rilevanti perdite economiche, ma anche quella che lo stesso imprenditore definisce come “un’ostilità dimostrata da alcuni soggetti delle istituzioni i quali – ha dichiarato Ceravolo a verbale – piuttosto che trattare con un soggetto da tutelare, con il loro comportamento hanno peggiorato le mie condizioni concorrendo, alcuni di loro spero inconsapevolmente, alle rappresaglie della famiglia Mancuso”. AGI


25.10.2013 ‘Ndrangheta: Costringono collaboratore a ritrattare, 7 arresti

La Polizia di Stato ha arrestato 7 persone residenti nelle province di Vibo Valentia e Reggio Calabria. In seguito alle indagini, condotte dalla squadra mobile e coordinate dalla Dda catanzarese.
Gli indagati sono accusati, a vario titolo, di tentata estorsione, rapina e lesioni, tutti aggravati dalla metodologia mafiosa, a carico di un imprenditore di Vibo Valentia.
Alcuni arrestati, inoltre, sono accusati di aver anche costretto un collaboratore di giustizia che aveva fatto condannare esponenti di spicco della cosca Mancuso di Limbadi a ritrattare le accuse in una fase successiva del processo.

Minacciavano testimone giustizia Vincenzo Ceravolo

Alcune delle persone arrestate avrebbero minacciato il testimone di giustizia Vincenzo Ceravolo per costringerlo a ritrattare le sue accuse contro un boss della cosca Mancuso di Limbadi. Ceravolo, imprenditore vibonese leader nell’export del tonno fresco del Mediterraneo, è sotto protezione dal 28 maggio del 2003 dopo che denunciò un boss della cosca Mancuso che, insieme ad un suo affiliato, fu processato e condannato per estorsione aggravata dalle modalità mafiose.
La condanna fu confermata in appello nel 2004 ma poi la Cassazione, per una questione tecnica, annullò la sentenza disponendo un nuovo processo che però non è stato ancora celebrato.
Proprio in questo periodo si sarebbero verificate le minacce e le intimidazioni. L’imprenditore, nel corso degli anni, ha denunciato di avere subito danneggiamenti per circa 20 milioni di euro.
Nel corso dell’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto della Dda di Catanzaro Giuseppe Borrelli e dai pm Simona Rossi e Carlo Villani, gli investigatori della squadra mobile hanno anche portato alla luce un tentativo di estorsione ai danni di un altro imprenditore del vibonese evidenziando un legame tra personaggi legati alla criminalità di Gioia Tauro e quelli di Vibo.

Le indagini sono partiti dopo nuova denuncia testimone

E’ stata una nuova denuncia del testimone di giustizia Vincenzo Ceravolo a fare scattare le indagini della squadra mobile di Catanzaro, coordinate dalla Dda. Ceravolo, nel febbraio scorso, si è presentato al dirigente della squadra mobile di Catanzaro Rodolfo Ruperti, che già nel 2001 aveva raccolto le dichiarazioni accusatorie dell’imprenditore quando dirigeva la mobile vibonese. Accuse che avevano portato alla condanna, in primo e secondo grado, del boss di Limbadi (Vibo Valentia) Pantaleone Mancuso, detto ”luni scarpuni”, e di un suo affiliato, Nazzareno Colace.
Ceravolo ha riferito che la Cassazione, nel 2009, aveva annullato la sentenza d’appello emessa lo stesso anno disponendo un nuovo processo che però non è ancora iniziato. Nelle more, ha detto l’imprenditore, il fratello è stato avvicinato da un soggetto che, a nome di Mancuso, gli ha detto ”tu ritratta e torniamo tutti amici”.
Gli investigatori sono risaliti alla persona in questione come a Raffaele Fiumara detto ”Lello”, indicato come il referente dei Mancuso per le zone di Filadelfia e Pizzo.
Dalle intercettazioni telefoniche è venuta la conferma delle accuse. Dagli stessi accertamenti è emerso anche un tentativo di estorsione ai danni di un altro imprenditore da parte dello stesso Fiumara e delle altre sette persone per le quali la Dda ha emesso il provvedimento di fermo: Eugenio Gentiluomo (59); Rocco De Maio (43), Domenico Pardea (46), Massimo Patamia (43), Carlo Riso (35) e Antonio Vacatello (49). Riso e Vacatello risultano irreperibili. I sette, secondo l’accusa, avrebbero preteso la restituzione di somme di denaro anticipate alla vittima per il rilascio di certificati necessari all’abilitazione all’imbarco ai quali avevano poi rinunciato.

Borrelli: “La mancata celebrazione processi è fallimento”

“La mancata celebrazione dei processi determina il fallimento della politica giudiziaria. A dirlo è stato il procuratore aggiunto della Repubblica di Catanzaro Giuseppe Borrelli.
L’inchiesta, coordinata dallo stesso Borrelli insieme ai pm Simona Rossi e Carlo Villani, infatti, ha portato alla luce le minacce e le intimidazioni subite da un imprenditore, Vincenzo Ceravolo, che nel 2001 aveva denunciato per estorsione un boss della cosca Mancuso di Limbadi (Vibo Valentia) ed un suo affiliato.
La condanna d’appello è stata annullata dalla Cassazione nel 2009 ma il nuovo processo non è ancora iniziato. “La mancata celebrazione del processo è colpa dei carichi di lavoro, della situazione complessiva nella gestione dei ruoli del dibattimento.
Non è addebitabile a singoli operatori a Catanzaro ma evidenzia l’insufficienza degli organici nella gestione dell’arretrato. A Vibo Valentia gli organici sono tali che il presidente del Tribunale ha disposto di celebrare per primo i processi con detenuti visto che entro la fine dell’anno quasi tutti i giudici se ne andranno e dovranno essere sostituiti nei dibattimenti.
Non fare i processi influisce anche sulle indagini, perché un testimone od un collaboratore non può essere gestito per 12 anni. La credibilità di un collaboratore non viene mai sancita e questo influisce anche sull’esito dei processi”.
“La bontà della strategia messa in campo dal procuratore Vincenzo Antonio Lombardo, di privilegiare i reati associativi anche per colpire i reati fine.
Ciò ha fatto sì che nel periodo 2009-2014, nel vibonese ci sia stato un numero decisamente superiore di arresti per 416 bis rispetto ai 25 anni precedenti. L’unica eccezione è stata l’inchiesta Dinasty contro la cosca Mancuso”. Lombardo, dal canto suo, ha rimarcato come la lentezza dei processi comporti ”una distorsione: la lunghezza della carcerazione preventiva”.
Il procuratore ha poi sottolineato la rapidità dell’azione della squadra mobile di Catanzaro e della Dda di sventare un’estorsione in corso.
Il questore Guido Marino, dopo avere ricordato le tappe della vicenda giudiziaria innescata dal testimone di giustizia ha detto: ”è una vicenda che si commenta da sola”.
Il capo della squadra mobile catanzarese Rodolfo Ruperti, che nel 2001 dirigeva la mobile di Vibo, non ha potuto non rilevare la sorpresa vedendosi davanti l’imprenditore tornare a raccontare fatti legati ancora alla vicenda di 12 anni fa. Venerdì, 25 Ottobre 2013 Il LAMENTINO


9.7.2012 Ceravolo, bersaglio nudo Lo Stato gli toglie la scorta

Vincenzo Ceravolo è un sopravvissuto. La mafia gli ha fatto la guerra. E anche lo Stato. E’ in trincea da una vita. Partì da una piccola pescheria, che poi crebbe. Un punto vendita e poi un altro e un altro ancora.
La pescheria si trasformò in gruppo, gruppo internazionale che dalla costa vibonese ha conquistato il mercato: dall’America latina ai Paesi dell’Asia. Un esempio per capire: il sushi sulle tavole dei giapponesi; il tonno rosso del Mediterraneo, fresco e ingrassato, è suo. Si sa, però, cos’avviene a certe latitudini del globo.
La ‘ndrangheta si fa sempre sotto e, se cresci, si fa sotto ancora di più. Minacce, estorsioni, attentati, danneggiamenti, furti. Una escalation che divenne insopportabile proprio quando Vincenzo Ceravolo si mise in testa di realizzare un miracolo: rilevare e convertire il sito industriale della Nostromo, fuggita dal Vibonese a gambe levate, all’inizio del millennio, per trasferire gli affari in Spagna.
Ci riuscì, malgrado la pressione mafiosa, i risarcimenti non ottenuti e le traversie giudiziarie legate all’impresa compiuta. Da qualunque prospettiva lo si osservi, Ceravolo è un pezzo di storia dell’imprenditoria calabrese.
Anche perché lui fu il primo a denunciare un boss del clan Mancuso, proprio mentre i Mancuso – disse la Commissione parlamentare antimafia – erano «il clan della ‘ndrangheta finanziariamente più potente d’Europa». E non denunciò un boss qualunque, ma Pantaleone detto “Luni Scarpuni”, figura di primaria grandezza della holding criminale calabra, che fu arrestato, processato e condannato in via definitiva, nell’ambito di un processo penale che sembrò rappresentare lo spartiacque tra il passato ed il futuro.
Un futuro che improvvisamente vide il “gigante” di Limbadi vulnerabile ai colpi dello Stato, messo in ginocchio dalle successive operazioni condotte dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro e dalla Squadra mobile di Vibo Valentia.
Altri tempi quelli.
E’ da allora che Ceravolo, anche da testimone di giustizia ripetutamente vittima di attentati ed intimidazioni, vive braccato, bersaglio di una temuta vendetta e controllato a vista dagli uomini della scorta che gli era stata assegnata nel lontano 2003. Sono passati più di nove anni, ma ora, sostiene il competente Ufficio centrale interforze per la sicurezza personale, della protezione non ha più bisogno.
Dal 15 luglio prossimo, quindi, niente più agenti armati ad esorcizzare ogni ritorsione nei suoi confronti: gliel’hanno comunicato pochi giorni addietro, con una nota di diciassette righe scritta in burocratese, dalla quale nulla si evince in ordine ai motivi sottesi alla decisione.
D’altronde chi è stato condannato a causa delle sue denunce ha finito di scontare la pena e, oggi, è libero. D’altronde è come se questi ultimi dieci anni, trascorsi a martellare il potentissimo casato di Limbadi, non siano mai trascorsi. Perché tutto è, ora, punto e a capo. Sempre che anche un’istituzione del contrasto alla ‘ndrangheta – il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Roberto Pennisi – non sbagli quando sostiene che i “padroni”, dal Vibonese al Nord Italia, sono di nuovo, ancora, loro: i Mancuso. «Paura? Ne più né meno di quella vissuta in questi anni», dice l’imprenditore.
E’ nello studio del suo legale, l’avvocato Antonello Fuscà. «Impugneremo questo provvedimento», spiega il noto penalista che assiste Ceravolo sin dall’inizio della sua odissea nelle aule di giustizia.
Sentimenti e intenzioni non mutano lo stato dell’arte: dal 15 luglio niente più scorta. Ciò in una provincia che negli ultimi quattro anni ha visto trenta morti ammazzati, alcuni dei quali caduti – sostiene la Direzione nazionale antimafia – per aver alzato la cresta in un territorio che può avere un solo casato egemone.
Comunicazione glaciale dallo Stato, che così ringrazia per i servigi ricevuti, giunta al sesto anniversario della morte di Fedele Scarcella, testimone di giustizia assassinato ad un tiro di schioppo dalle aziende del gruppo Ceravolo.
Scarcella, vittima dimenticata della mafia, imprenditore agricolo che anni prima aveva denunciato una banda di malavitosi della Piana. Anni dopo la vendetta. «A dimostrazione – disse Tano Grasso ai suoi funerali, a Vibo – che la ‘ndrangheta non dimentica mai». Ceravolo lo sa. Altri invece, nonostante Scarcella, nonostante Lea Garofalo, nonostante altri morti ammazzati, scelgono d’ignorare.  QUOTIDIANO DEL SUD 9.7.2012

 

dal libro