28 luglio 1985 – Cosa nostra uccide BEPPE MONTANA, il cacciatore di latitanti

 

 

 

 

#pernondimenticare #inostricaduti Il 28 luglio 1985 un commando di sicari armati sorprese il commissario Giuseppe “Beppe” Montana mentre stava sistemando la sua barca in un rimessaggio di Porticello, Palermo, uccidendolo a sangue freddo. Capo della sezione “catturandi” della Squadra mobile di Palermo è stato un implacabile investigatore, che nel corso degli anni è riuscito a colpire le fila di cosa nostra con numerosi arresti di latitanti, componenti di spicco della mafia palermitana. Grazie alla mostra “la stanza della memoria”, inaugurata di recente nella questura di Palermo, la sua storia potrà essere conosciuta dai più giovani. Con loro saranno condivisi i valori di impegno, sacrificio e passione che caratterizzavano l’agire del commissario Montana e che, ancora oggi, sono d’esempio per i poliziotti nella lotta alla criminalità organizzata.
 

 

 

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Audio processo d’appello omicido Cassarà e Montana

 

A Palermo siamo poco più d’una decina a costituire un reale pericolo per la mafia. E i loro killer ci conoscono tutti. Siamo bersagli facili, purtroppo. E se i mafiosi decidono di ammazzarci possono farlo senza difficoltà.  (Beppe Montana)

 
“Alla fine di luglio, il 28, venne ucciso Beppe Montana, il giovane commissario di polizia che da un anno era a capo della “catturandi” della squadra Mobile. Il braccio destro di Ninni Cassarà. Aveva appena portato a compimento l’ennesimo blitz, sorprendendo in una villa a Buonfornello, alle porte di Palermo, un summit tra otto uomini di Michele Greco, ed era riuscito a mettere le manette ai polsi di un capomafia del calibro di Tommaso Cannella. Da quando era arrivato a Palermo, tre anni prima, di colpi ne aveva messi a segno parecchi,Montana. Un poliziotto brillante e coraggioso, uno “«tosto»” che andava di persona a caccia dei latitanti, al rione della Kalsa, dove aveva acciuffato Masino Spadaro, o a Ciaculli dove cercava di stanare i due superkiller Pinuzzo Greco, “Scarpuzzedda”, e Mario Prestifilippo, gli spietati cecchini delle cosche vincenti che, durante la guerra di mafia, si erano guadagnati sul campo i galloni da boss. Diceva sempre che tutti i pezzi grossi si nascondevano nei dintorni della città e che per prenderli, non bisognava andare tanto lontano. Lo chiamavano “«Serpico”, », la sua abitudine a stare sempre in prima linea. Dopo l’ultimo arresto, sarebbe dovuto partire per le ferie. I sicari l’avevano beccato in uno dei rari momenti in cui aveva abbassato la guardia, una domenica sera, mentre si rilassava facendo una passeggiata al mare a Porticello, una frazione del comune di Santa Flavia. Gli avevano sparato in faccia, senza pietà, in mezzo a una folla di turisti.

«Sa quante volte al giorno ci sentivamo?» mi raccontò il mio vice, Thomas, tra le lacrime. “ Lui chiamava me o io chiamavo lui. Per qualunque cosa, per scambiarci informazioni, notizie…, per confrontarci… E quante volte ci siamo presi per il culo a vicenda quando uno dei due riusciva ad arrivare prima dell’altro a prendere un latitante. Non ci posso credere, non ci posso credere che quei bastardi lo hanno ammazzato…prima Zucchetto, adesso anche lui…». Senza il sangue di noi poliziotti –  “Noi, gli uomini di Falcone” di Angiolo Pellegrini e Francesco Condoluci

 

A Porticello, vicino Palermo, viene ucciso il commissario Beppe Montana, che dirigeva la sezione catturandi della squadra mobile.
Montana, a 34 anni, era uno degli investigatori più abili e temuti da Cosa nostra.
A spiegare il delitto sarà Francesco Marino Mannoia quando decide di collaborare e viene interrogato da Giovanni Falcone G.I. presso il Tribunale di Palermo. 


In uno dei primi interrogatori dell’Ottobre 1989 Mannoia, spiegherà al Giudice i motivi per cui cosa nostra aveva deciso di uccidere quello sbirro così capace che i colleghi chiamavano “Serpico”.
In pratica Montana, insieme a Cassarà, era molto temuto
da Cosa Nostra. Ai due si addebitava di avere ecceduto nell’esercizio delle loro funzioni. In particolare, dalla Questura di Palermo era filtrata la notizia che Montana e Cassarà avevano dato disposizioni che per alcuni personaggi mafiosi bisognava sparare a vista anzichè provvedere alla loro cattura; ciò riguardava, in particolare, Greco Pino Scarpuzzedda, Prestifilippo Mario, e Lucchese Giuseppe. Le sue dichiarazioni arrivavano sulla base di ciò che gli aveva raccontato il fratello Agostino che aveva partecipato all’omicidio, mentre Marino Mannoia, quell’estate, era detenuto essendo stato arrestato proprio dal dottore Montana nel gennaio di quell’anno.
In verità Montana e Cassarà non avevano dato alcun ordine di sparare ai latitanti. Era una voce che si era diffusa quasi a rafforzare la loro indole indomabile di segugi della Mobile. Negli anni, e mesi, precedenti avevano partecipato ad indagini che avevano poi inferto grossi colpi all’organizzazione mafiosa e i mafiosi volevano fermarli. 
Era già deciso da tempo..
A uccidere Montana, riferiva Marino Mannoia, era stato suo fratello Agostino, insieme con Greco Pino detto Scarpuzzedda, Prestifilippo Mario e Lucchese Giuseppe. Sempre secondo Mannoia,Salvatore Marino(uomo d’onore della famiglia di Ciaculli, arrestato subito dopo l’omicidio Montana e ucciso in questura) aveva partecipato controllando i movimenti del dottore Montana. Per l’omicidio di Beppe Montana furono condannati all’ergastolo: Totò Riina, Michele Greco, Francesco ed Antonio Madonia, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Raffaele e Domenico Ganci, Salvatore Buscemi, Giuseppe e Vincenzo Galatolo e Giuseppe Lucchese.

 


Dalla pag. 204 di “Noi, gli uomini di Falcone” 
Alla fine di luglio, il 28, venne ucciso Beppe Montana, il giovane commissario di polizia che da un anno era a capo della “catturandi” della squadra Mobile. Il braccio destro di Ninni Cassarà. Aveva appena portato a compimento l’ennesimo blitz, sorprendendo in una villa a Buonfornello, alle porte di Palermo, un summit tra otto uomini di Michele Greco, ed era riuscito a mettere le manette ai polsi di un capomafia del calibro di Tommaso Cannella. Da quando era arrivato a Palermo, tre anni prima, di colpi ne aveva messi a segno parecchi,Montana. Un poliziotto brillante e coraggioso, uno “«tosto»” che andava di persona a caccia dei latitanti, al rione della Kalsa, dove aveva acciuffato Masino Spadaro, o a Ciaculli dove cercava di stanare i due superkiller Pinuzzo Greco, “Scarpuzzedda”, e Mario Prestifilippo, gli spietati cecchini delle cosche vincenti che, durante la guerra di mafia, si erano guadagnati sul campo i galloni da boss. Diceva sempre che tutti i pezzi grossi si nascondevano nei dintorni della città e che per prenderli, non bisognava andare tanto lontano. Lo chiamavano “«Serpico”, », la sua abitudine a stare sempre in prima linea. Dopo l’ultimo arresto, sarebbe dovuto partire per le ferie. I sicari l’avevano beccato in uno dei rari momenti in cui aveva abbassato la guardia, una domenica sera, mentre si rilassava facendo una passeggiata al mare a Porticello, una frazione del comune di Santa Flavia. Gli avevano sparato in faccia, senza pietà, in mezzo a una folla di turisti.


«Non e’ facile ripensare al 28 luglio, quel giorno anche io ero con Beppe. Avevamo trascorso una serena domenica al mare, in motoscafo nel tratto di mare davanti la sua casa ad Aspra e a fine giornata doveva riposare il motoscafo a Porticello.
Il motoscafo faceva qualche capriccio e chiese a me e a un altro nostro amico se avevamo voglia di fargli compagnia. Si offrì il nostro amico di accompagnarlo e io rimasi ad Aspra. Dopo un tempo che non so quantificare, venne una macchina della polizia e mi portò a Porticello da Beppe. Non ho ricordi dell’arrivo a Porticello, qualche flash. Forse è la mia mente che si difende.
Il tempo si dice che aiuta a dimenticare. Non è vero. Il ricordo di Beppe è costantemente con me, c’è il dolore per la mancanza, ma il ricordo non è triste.
E’ il ricordo di un uomo che ha sempre fatto quello che desiderava, era sempre dentro le scelte che faceva e non potevano essere diverse.
Le mie figlie non lo hanno visto lo zio Beppe, ma lo conoscono e lui continua a far parte della nostra famiglia.
Beppe, Ninni, Roberto, Calogero, Natale, tutti poliziotti della mobile di Palermo uccisi in un breve periodo, i giornalisti (Francese, De Mauro), Paolo Giaccone, i magistrati e tanti altri. Tutto questo non è normale in un Paese che si dichiara civile.
Il dolore sarà lenito quando la società siciliana sentirà che questi morti gli appartengono e riuscirà a fare scelte coerenti non considerandoli eroi lontani.
Per adesso il dolore è lenito dalle facce pulite dei ragazzi che ascoltano con attenzione le nostre testimonianze e chiedono con generosità cosa posso fare io, e da chi non parla ma ti guarda con affetto.
Chissà quanti di loro continueranno a farsi questa domanda e manterranno nella loro vita quello sguardo.» 
Gerlando Montana – fratello di Beppe 28.7.2020 – Da Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino


Era appena rientrato da una gita in barca, il commissario Beppe Montana, quando venne trafitto dai colpi di pistola dei killer mafiosi, sotto gli occhi della fidanzata.
Il 28 luglio del 1985, 35 anni fa oggi, era una calda domenica. Montana scese dal motoscafo a Porticello (poco distante da Palermo) con il costume e le ciabatte, ovviamente disarmato. I mafiosi non gli lasciarono scampo, sparandogli in faccia. Le lancette del suo orologio si fermarono alle 21.
Il dottor Montana era il capo della ‘Catturandi’ della squadra mobile di Palermo, amico e collega di Ninni Cassarà. Solo una settimana prima, Montana aveva arrestato otto persone appartenenti alla famiglia mafiosa di Pino Greco (detto Scarpuzzedda). Solo anni dopo si seppe che i delitti Montana e Cassarà furono eseguiti grazie a “una talpa nella mafia” negli uffici della polizia di Palermo.
Un vero poliziotto, un esempio per tanti giovani che sognano di indossare una Divisa. 
Paolo Borrometi


Oggi ricorre il 35° anniversario dell’uccisione del Commmissario Beppe Montana, che dirigeva la sezione catturandi della squadra mobile di Palermo.
Montana, a 34 anni, era uno degli investigatori più abili e temuti da Cosa nostra.
A spiegare il delitto sarà Francesco Marino Mannoia quando decide di collaborare e viene interrogato da Giovanni Falcone, G.I. presso il Tribunale di Palermo.
In uno dei primi interrogatori, l’ 8 ottobre 1989, Mannoia spiegherà al Giudice i motivi per cui cosa nostra aveva deciso di uccidere quello sbirro così capace che i colleghi chiamavano “Serpico”.
In pratica Montana, insieme a Cassarà, era molto temuto
da Cosa Nostra. Ai due si addebitava di avere ecceduto nell’esercizio delle loro funzioni. In particolare, dalla Questura di Palermo era filtrata la notizia che Montana e Cassarà avevano dato disposizioni che per alcuni personaggi mafiosi bisognava sparare a vista anzichè provvedere alla loro cattura; ciò riguardava, in particolare, Greco Pino Scarpuzzedda, Prestifilippo Mario, e Lucchese Giuseppe. Le dichiarazioni di Mannoia arrivavano sulla base di ciò che gli aveva raccontato il fratello Agostino che aveva partecipato all’omicidio, mentre Marino Mannoia, quell’estate, era detenuto essendo stato arrestato proprio dal dottore Montana nel gennaio di quell’anno in un appartamento di Bagheria.
In verità Montana e Cassarà non avevano dato alcun ordine di sparare ai latitanti. Era una voce che si era diffusa quasi a rafforzare la loro indole indomabile di segugi della Mobile. Negli anni, e mesi, precedenti avevano partecipato ad indagini che avevano poi inferto grossi colpi all’organizzazione mafiosa e i mafiosi volevano fermarli.
Era già deciso da tempo..
A uccidere Montana, riferiva Marino Mannoia, era stato suo fratello Agostino, insieme con Greco Pino detto Scarpuzzedda, Prestifilippo Mario e Lucchese Giuseppe. Sempre secondo Mannoia,Salvatore Marino(uomo d’onore della famiglia di Ciaculli, arrestato subito dopo l’omicidio Montana e ucciso in questura) aveva partecipato controllando i movimenti del dottore Montana. Per l’omicidio di Beppe Montana furono condannati all’ergastolo: Totò Riina, Michele Greco, Francesco ed Antonio Madonia, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Raffaele e Domenico Ganci, Salvatore Buscemi, Giuseppe e Vincenzo Galatolo e Giuseppe Lucchese. Gabriella Tassone Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino 28.7.2020


Beppe Montana lo aveva detto ai giornalisti due anni prima, all’epoca della strage Chinnici: <<Lo sapete meglio di me quanti sono quelli che a Palermo fanno davvero la lotta alla mafia. Dieci, quindici persone. Loro, i mafiosi, ci conoscono tutti. Siamo bersagli facili. Se decidono di ammazzarci ci riescono senza problemi>>. Aveva visto troppi colleghi morire ammazzati. Prima Giuliano. E poi Calogero Zucchetto, il picciotto originario di Ciaculli che aveva scelto un’altra strada rispetto a tanti suoi coetanei. Si era fatto sbirro e inseguiva i latitanti, spesso uomini con cui era cresciuto insieme, nelle stesse strade del quartiere in cui si rifugiavano tranquillamente. Giuseppe Montana era arrivato a Palermo nell’estate del 1982, dopo l’omicidio Dalla Chiesa. Subito era stato assegnato alla sezione investigativa. Si era specializzato nella cattura dei latitanti. Nel suo ufficio di tre metri per tre, alla Mobile, aggiornava e sfoltiva l’elenco dei mafiosi ancora da prendere. Duecentocinquanta tra capi e gregari in fuga, dai Greco ai Vernengo, ai corleonesi Riina e Provenzano.
Il 28 luglio del 1985, due sicari uccisero Giuseppe Montana mentre era appena sceso dal motoscafo e si trovava in costume da bagno. Era a Porticello, uno dei rifugi estivi preferiti dai palermitani. Aveva trascorso la giornata con la fidanzata e gli amici. Quel giorno si festeggiava la festa della patrona del paese, sant’Anna, e i duecento anni della costruzione della basilica. La mafia ama uccidere durante le ricorrenze religiose.
A dare credito a un pentito, Leonardo Messina, non ammazza solo il venerdì santo, in cui si ricorda la crocifissione di Gesù Cristo.
(Uomini contro la mafia di Vincenzo Ceruso)

 

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