Accredita molti, ma non tutti, i brandelli di verità che a fatica si sono rintracciati in questi trentuno anni: il depistaggio, la presenza di elementi estranei a Cosa nostra, l’omertà diffusa di pezzi dello Stato, l’illegittimo coinvolgimento dei Servizi nelle indagini, l’isolamento di Paolo Borsellino e la sua esposizione al rischio da parte del capo della procura di Palermo, Piero Giammanco.
Pur dovendosi concentrare sulla responsabilità individuale di tre poliziotti nell’opaca gestione del falso pentito Vincenzo Scarantino, le motivazioni del tribunale di Caltanissetta, presidente Francesco D’Arrigo, consacrano in oltre 1400 pagine di sentenza molto di quanto resta da capire della strage del 19 luglio del 1992, costata la vita al procuratore aggiunto di Palermo e alla sua scorta: i poliziotti Emanuela Loi, Agostino Catalano, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli e Walter Eddie Cosina.
I giudici indicano dove si addensa il grumo di interessi che ha allontanato la verità. Non diradano le nebbie ma, se è possibile, definiscono i contorni «della verità nascosta o quantomeno non compiutamente disvelata», complice l’enorme lasso di tempo trascorso «poiché più ci si allontana dai fatti e più è difficile recuperare il tempo perduto».
Il tribunale era chiamato a giudicare per calunnia aggravata dall’aver agevolato la mafia, il funzionario Mario Bo, l’ispettore Fabrizio Mattei e il sovrintendente Michele Ribaudo. Bo e Mattei a luglio hanno beneficiato dell’intervenuta prescrizione perché la calunnia è stata declassata a semplice mentre Ribaudo è stato assolto.
Scarantino, insomma, fu indotto a ribadire le sue prime accuse, poi ritrattate, ma solo per ansia di risultato investigativo e non per lasciare in ombra le responsabilità di altri mafiosi, primi fra tutti i fratelli Graviano, rimasti estranei alle prime contestazioni.
Pur circoscritto al movente della calunnia nei confronti degli innocenti, scagionati e scarcerati dopo anni di carcere duro, il processo ha fatto però emergere molto altro e i giudici, su input del pm Stefano Luciani e delle parti civili, non si sono sottratti.
La strage non fu voluta solo da Cosa nostra, ribadisce il tribunale perché «plurimi elementi inducono a ritenere prospettabile un ruolo, tanto nella fase ideativa, quando nella esecutiva, svolto da soggetti estranei a Cosa nostra nella strage». In via D’Amelio si sarebbe realizzata una precisa «convergenza di interessi».
I giudici si soffermano sulla presenza di estranei all’organizzazione nelle ore in cui si preparava la 126 imbottita di tritolo ma anche sulla stessa scelta di eseguire la strage a 57 giorni di distanza dall’attentato di Capaci costato la vita al giudice Giovanni Falcone. Una accelerazione sospetta del piano di morte che tradisce la necessità di guardare oltre alla accomodante versione della vendetta mafiosa. Non solo l’odio per i due nemici giurati, protagonisti del maxiprocesso alla mafia, già concluso a inizio del 1992, quanto, piuttosto, la necessità di prevenire danni futuri, ovvero impedire che tanto Falcone, quanto Borsellino arrivassero a nuove verità, soprattutto sul crinale dei rapporti tra mafia e politica.
E questo spiega il perché a tremare non fossero solo gli uomini di Cosa nostra. La rete di chi avrebbe ricavato danno dall’azione di Borsellino è vasta. E si annida nei palazzi del potere. A questo scenario si ricollega la sparizione dell’agenda rossa del giudice dal teatro della strage: «A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di appartenenti alle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile a una attività materiale di Cosa nostra».
Se «gli elementi in capo non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda», se ne può comunque tracciare un identikit: «È indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario e opportuno sottrarre».
Un uomo dello Stato, probabilmente dei Servizi che compaiono ovunque negli accertamenti processuali. E non hanno aiutato a capire le parole dell’ex magistrato Giuseppe Ayala ai cui ricordi contraddittori sul prelievo della borsa del magistrato ucciso dalla macchina distrutta e che si dice amareggiato per i rilievi dei giudici, si sommano le reticenze e «l’omertà diffusa» che ha coperto la sparizione dell’agenda e in definitiva la manomissione della verità. E se alle indagini sulla strage il magistrato titolare, Giovanni Tinebra coinvolse l’ex numero tre del Sisde Bruno Contrada, difficile per i giudici che una simile scelta del tutto «impropria» non fosse stata avallata dal massimo livello politico.
Ma è su tutta la gestione delle indagini, anche e soprattutto di quelle affidate al gruppo stragi guidato da Arnaldo La Barbera e a cui appartenevano gli imputati del processo che si è registrato un clima di «diffusa omertà istituzionale». Tuttavia, i poliziotti che agirono su mandato di La Barbera, condividevano con lui la scelta di assicurare in fretta alla giustizia i presunti colpevoli e in alcun modo la volontà di agevolare gruppi mafiosi. La Barbera è scomparso ormai da molti anni ma ha rappresentato l’anello di congiunzione degli apparati dei Servizi con gli investigatori incaricati ufficialmente di far luce sulla strage.
Quanto ciò che accadde prima della strage e le manovre per allontanare la verità siano interconnesse i giudici lo ribadiscono più volte. I depistaggi furono la diretta conseguenza, una necessità quasi, di confinare alla responsabilità mafiosa la strage evitando di risalire al livello della compartecipazione di soggetti istituzionali. Illuminante in questo senso il colloquio intercettato tra il collaboratore Santino Di Matteo e la moglie. Quest’ultima accennava alla necessità che il marito non svelasse nulla di via d’Amelio per ottenere il rilascio del figlio, a quel tempo tenuto in ostaggio da Cosa nostra per indurre il padre a ritrattare e poi ucciso dopo oltre due anni di prigionia.
Ma non solo i mafiosi hanno taciuto. Soprattutto «i protagonisti di livello apicale di quella stagione, ove non deceduti non hanno fornito alcun elemento utile alla ricostruzione dei fatti e si sono potuti trincerare, talvolta con malcelata stizza, dietro l’età avanzata e il tempo lungamente decorso». Da loro solo versioni «precostituite e poco credibili». «Strage di Stato», ribadisce il fratello di Paolo Borsellino, Salvatore che sulla frammentazione dei processi trova uno degli elementi che impediscono una ricostruzione piena di quel che accadde. Allontanando la verità, proprio in virtù dei silenzi istituzionali, come nota Roberto Avellone, legale delle vittime e del superstite Antonio Vullo.