di Piero Melati
Sono trascorsi quattro decenni dalla strage di via Pipitone Federico, dove persero la vita il consigliere istruttore Rocco Chinnici, il maresciallo Mario Trapassi, l’appuntato scelto Salvatore Bartolotta, il portiere dello stabileStefano Li Sacchi, mentre l’autista di Chinnici, Giovanni Paparcuri, sopravvisse per miracolo, ma portandone tuttora i segni.
“Palermo come Beirut” titolarono i giornali nell’83. La città aveva alle spalle gli omicidi del giornalista Mario Francese, del giudice Cesare Terranova, del capo della Mobile Boris Giuliano, del capitano dei carabinieri Emanuele Basile, del presidente della Regione Piersanti Mattarella, del segretario del Pci Pio La Torre, del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, del procuratore Gaetano Costa, del capitano Mario D’Aleo. Altri sarebbero seguiti. Ma l’autobomba di via Pipitone Federico fu senz’altro il punto più alto. Anticipò le modalità delle stragi del ’92-93.
Un’autobomba armata con 75 chili di tritolo. Il suo tettuccio fu ritrovato a Villa Sperlinga, dopo aver scavalcato un palazzo di 26 metri. Il quartiere venne devastato. E dire che ancora negli anni Sessanta, ai tempi delle assoluzioni dopo la prima guerra di mafia, negli atti ufficiali dei tribunali Cosa nostra veniva definita genericamente “anonima assassini”. Chinnici, ha raccontato il giudice Leonardo Guarnotta, che portò il “tocco” del consigliere ai suoi funerali, la chiamava invece “maffia”, con due effe, come rafforzativo. In gioventù aveva istruito il processo per la strage di viale Lazio, dove i killer di quel lontano 1969 sarebbero diventati i boss stragisti di domani. Come magistrato, era cresciuto leggendo le prime inchieste giornalistiche di Chilanti e Farinella, i libri di Michele Pantaleone, le grida nel deserto di Danilo Dolci. Ma ci furono anche le serate trascorse a colloquiare sul tema con Cesare Terranova e Leonardo Sciascia. E con questo liquideremmo la questione — pur non secondaria — dell’autobomba: la figura di Chinnici è rimasta legata, per troppo tempo, esclusivamente alla tecnica utilizzata per l’attentato. Niente di più sbagliato.
Chinnici, assassinato Terranova, non solo ebbe il coraggio di prendere in mano l’Ufficio istruzione, ma inventò di sana pianta il pool dei giudici antimafia che avrebbe poi portato al maxiprocesso di Palermo. Fu lui ad avviare Paolo Borsellino alle inchieste su mafia e droga, che a sua volta istruirà Giuseppe Di Lello; fu lui a volere Giovanni Falcone e Guarnotta in quell’ufficio; fu lui ad avere l’dea di coordinare e unificare per la prima volta tutte le indagini su Cosa nostra. Ma c’è di più, in quel magistrato di Misilmeri che — dopo le esperienze di Trapani e Partanna — negli anni ’70 era infine sbarcato a Palermo. Aveva fiuto, naso, collegava i puntini. Si narra che talvolta sentisse “odor di mafia” d’istinto, come un particolare lezzo emanato da certi uomini o ambienti. Aveva imparato molto presto (una “malattia” che mischierà a Falcone) a diffidare di tutti: non solo i colloqui nell’ascensore del tribunale con l’amico procuratore Costa, per non farsi intercettare, ma i viaggi sotto falso nome quando doveva recarsi a Roma, presso il Consiglio superiore della magistratura. Doveva muoversi in incognito, come se fosse lui il criminale o il latitante, e non invece un alto funzionario dello Stato.
Ma il suo maggior pregio è che voleva toccare le cose con mano. Quando Boris Giuliano scoprì quelle strane valigette di dollari all’aeroporto di Punta Raisi, e contemporaneamente in quello di New York le borse cariche di eroina (così partì l’indagine che porterà allo storico mega-processo americano della Pizza Connection), Chinnici iniziò a chiedersi se vi fosse una relazione tra questo traffico internazionale di droga e quei giovani che vedeva ogni mattina, quando si recava in ufficio, caricare le siringhe presso le fontanelle cittadine. Iniziò a interrogare tutti. Poi cominciò a vedere le prime morti per overdose di figli di conoscenti e amici, nascoste da certificati di decesso compiacenti, per via di un sentimento familiare di vergogna. Il consigliere, al contrario, iniziò a battere le scuole, i convegni, i circoli, i giornali. E non parlava d’altro. Ogni tanto strattonava anche Sciascia: «Devi scrivere di questa peste». In quegli anni, fu l’unico a mettere in relazione il diffuso flagello dell’eroina con il nuovo business planetario della mafia. Arrivò più volte pubblicamente a dire che i ragazzi vittime della droga erano vittime di Cosa nostra, come i poliziotti caduti, come i giudici ammazzati.
Poi spinse lo sguardo verso l’alto. I palazzi, i salotti, la finanza. Se le raffinerie di eroina, che spuntavano in Sicilia come funghi, avevano creato un esercito di tossicodipendenti, dove finivano mai i narco-quattrini? Chi ne usufruiva? Chi li riciclava?
Le inchieste del pool iniziarono a dargli le prime risposte. Cominciò a firmare provvedimenti che all’inizio colpirono i mafiosi, ma che poi alzeranno il tiro. Quando, il 13 luglio dell’82, ebbe tra le mani il “rapporto dei 162”, base del successivo maxiprocesso, il consigliere si indirizzò verso i potentati economici. Il resto è storia: salteranno fuori gli esattori Salvo e Michele Sindona. Chinnici ci consegnerà così la radiografia di una città che si era arricchita sulla pelle dei propri figli morti di overdose. Un lascito con cui, quarant’anni dopo, non abbiamo ancora imparato a fare i conti.
LA REPUBBLICA 27 luglio 2023