CAPORALATO e CRIMINALITÀ ORGANIZZATA – La storia di ANA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La triste storia di Ana, sfuggita dalle bombe del Donbass e finita nella tela del caporalato: “A Trebisacce per raccogliere fave lavorando in nero”

Sfuggita alle bombe, ma non al caporalato. È riuscita a scappare dalla guerra dal suo paese nel Donbass e a mettere in salvo suo figlio, ma non dalle vessazioni, gli abusi e gli insulti del caporale che la portava con un pulmino nei campi trattenendo ogni giorno 8 euro dalla già misera paga. È la storia di Ana, una rifugiata ucraina di 40 anni, divorziata e con figlio di 15 anni con una salute precaria che la costringe a sostenere molte spese per le medicine.
Nell’aprile del 2022 ha deciso di raggiungere la sua famiglia, che da anni vive in Italia; dopo un viaggio di oltre una settimana è giunta a Trebisacce, in provincia di Cosenza, in Calabria. Da quando è in Italia, dopo aver fatto tutte le pratiche burocratiche per la protezione temporanea, ha raccolto fave, mandarini, fragole e pesche nelle serre e nei campi in Calabria e Basilicata. Come lei centinaia di donne ucraine hanno dovuto subire tutto ciò ed alcune hanno preferito sfidare le bombe pur di non rimanere in Italia in queste condizioni.
«Mio fratello e sua moglie sono braccianti agricoli, e io ho deciso di andare a cercare lavoro con loro. Ci siamo unite io e altre donne ucraine – racconta Ana – arrivate insieme a me, qua siamo tantissime. Siamo andate a fare la raccolta delle fave. Eravamo tutte in nero. Era aprile 2022. Le fave fanno diventare
le mani tutte rosse, bruciano, ma non ci davano i guanti, dovevamo mantenere le mani sensibili e non ammaccare le fave. Senza sapere ancora la lingua italiana, dovevamo stare zitte, piegate e non c’erano i bagni, dalle 7 di mattina alle 5 di pomeriggio. Siamo rifugiate, non ci aspettavamo un trattamento
così crudele, disumano. È stato un altro choc scoprire che l’unica cosa che potevamo fare per lavorare era essere maltrattate e senza diritti. Due delle mie compagne – spiega – sono ritornate in Ucraina, hanno preferito rinunciare alla protezione e tornare sotto le bombe, mi dicevano ‘non possiamo vivere così, lontane dai figli a soffrire, meglio rischiare la vita ma con dignità a casa nostra’. Ma Ana non può tornare in Ucraina, non ha più nulla, nemmeno la casa.
«Dopo le fave in estate – sottolinea -, ho fatto la campagna dei mandarini in autunno, con la pioggia e il freddo. Nel 2023 sono andata in Basilicata, a Policoro a raccogliere albicocche e pesche, partendo dalla Piana di Sibari. Dopo gennaio iniziano le fragole e li ci sono tante donne che lavorano nelle serre. Solo che per spostarci verso la Basilicata e fare avanti e indietro ogni giorno ci siamo affidati a un ragazzo romeno che ci portava con un furgoncino, praticamente siamo finiti sotto il caporalato. Gli davamo 8 euro a testa, li prendeva dalla nostra paga. Non ci sono bus o altri mezzi pubblici o dell’azienda agricola per andare nei campi».
«Il ragazzo – prosegue Ana – ci insultava, ci ha tirato le cassette della frutta addosso, ma non solo a noi, nei campi non c’è differenza tra italiani e stranieri, solo che noi non denunciamo mai nulla, abbiamo paura di perdere la protezione e di essere cacciati. Alla fine, siamo andati via. Il datore di lavoro non sapeva niente di cosa avveniva nei campi, ci ha pagato tutto e ci ha chiesto di tornare l’anno prossimo senza nessun intermediario».
Ana è una delle donne ucraine che si è rivolta alla Cittadella della condivisione a Schiavonea in Calabria, dove ActionAid e una rete di associazioni, sindacati e il Comune forniscono servizi di orientamento al lavoro, supporto all’accesso ai servizi sociali e tutela legale, mediazione linguistica. «Nella Piana di Sibari – puntualizza Grazia Moschetti, responsabile dei progetti di ActionAid nell’Arco Ionico – si sta verificando un effetto di ‘sostituzione’: un cambio di nazionalità nella catena di sfruttamento, le donne romene se ne sono andate ma la frutta è comunque da raccogliere, e lo fa chi ha più necessità, oggi sono le rifugiate ucraine ad essere le più sfruttate». 19.8.2023 GAZZETTA DEL SUD

Ana, fugge dal Donbass e si ritrova vittima del caporalato
Ucraina di 40 anni, divorziata e con un figlio di 15 anni con problemi di salute, da rifugiata a bracciante vessata.

Ana, il nome è di fantasia, da quando è arrivata in Italia ha raccolto fave, mandarini, fragole e pesche nelle serre e nei campi in Calabria e Basilicata.

Ha subito vessazioni e abusi, insulti dal caporale che la portava con un pulmino a lavoro e che le tratteneva ogni giorno 8 euro dalla paga. E’ scappata dalla guerra dal suo paese nel Donbass nell’aprile del 2022 e dopo un viaggio di oltre una settimana è arrivata a Trebisacce in Calabria.    “Mio fratello e sua moglie – racconta – sono braccianti agricoli, e io ho deciso di andare a cercare lavoro con loro”.
Con altre donne ucraine nell’aprile del 2022 ha fatto la raccolta delle fave. Tutte le donne lavoravano in nero. “Le fave – spiega – fanno diventare le mani tutte rosse, bruciano, ma non ci davano i guanti, dovevamo mantenere le mani sensibili e non ammaccare le fave. Senza sapere ancora la lingua italiana, dovevamo stare zitte, piegate e senza poterci dar un aiuto tra noi donne, non c’erano i bagni. Dalle 7 di mattina alle 5 di pomeriggio”.
In Basilicata a Policoro Ana ha raccolto albicocche e pesche, poi a gennaio le fragole nelle serre. “Solo che per spostarci verso la Basilicata e fare avanti e indietro ogni giorno ci siamo affidati a un ragazzo romeno che ci portava con un furgoncino, praticamente siamo finiti sotto caporalato. Gli davamo 8 euro a testa, li prendeva dalla nostra paga. Non c’è alternativa, non ci sono bus o altri mezzi pubblici o dell’azienda agricola per andare nei campi” sottolinea Ana.       ANSA 18.8.2022


Ecomafia, agromafia e caporalato: quanto incide la criminalità organizzata sulla filiera agricola?

 

Quando parliamo di caporalato, dobbiamo pensare a forme di criminalità che lucrano sui poveri braccianti per ottenere forme di ricchezza e creare business su quei pochi euro che guadagna un giornaliero, sottopagato e sfruttato.

 

Il caporalato, soprattutto in agricoltura, è una forma di lavoro nero o meglio di sfruttamento lavorativo. Consiste nel reclutamento, da parte di soggetti spesso collegati ad organizzazioni criminali, di lavoratori che vengono condotti sui campi per essere messi a disposizione di un’impresa.  
 Il concetto che si sviluppa con questo tipo di “lavoro” riguarda non l’uomo in quanto soggetto e con diritti e doveri, ma la persona recepita come “oggetto” di chi detiene la sua vita e il suo futuro in cambio di un salario misero e, il più delle volte, non consono al lavoro svolto.
Con il termine ecomafia, invece, si denota quel settore della criminalità organizzata, scelto per la diffusione di merce contraffatta, e riguarda tutti quei crimini contro l’ambiente che vanno dal momento della coltivazione fino all’arrivo sulle nostre tavole. Sulla suddetta filiera agroalimentare, fatta di gestione dell’intermediazione illecita di manodopera e della tratta di esseri umani, anche in collaborazione con le mafie straniere, vi è un business non indifferente, così come fotografato da Legambiente nell’ultimo rapporto ecomafie 2019.
La rete della criminalità si unisce e si inserisce nella filiera agroalimentare fotografando una nuova forma di mafia, quella degli imprenditori che gestiscono in maniera completamente nuova questo business.
Ma come funziona la filiera del caporalato? In maniera molto semplice e con una gerarchia ben definita, quasi come le migliori organizzazioni criminali.
I lavoratori “vittime” dei caporali, sono spesso persone con gravi necessità economiche, immigrati irregolari senza permesso di soggiorno e donne che vengono pagate pochissimo, subendo turni estenuanti sotto il caldo (8-12 h giornaliere) senza poter nemmeno bere.
Sopportano maltrattamenti e violenze e nei casi di migranti esiste anche la possibilità del sequestro dei documenti, con vere e proprie intimidazioni e minacce dalle persone che gestiscono i braccianti.
Queste pratiche di lavoro, prevedono una mancata applicazione dei contratti da parte del caporale, che ovviamente tende ad eludere la legge e finanziare in questo modo il lavoro sommerso. Negli ultimi anni, proprio in virtù di questa nuova attività, si è diffusa anche una nuova forma di caporalato collettiva, di cui i giornalisti hanno parlato spesso.
Questa forma di caporalato utilizza profili apparentemente legali come cooperative e agenzie interinali, per mascherare la cosiddetta ‘intermediazione illecita di manodopera’ che assume con un contratto a chiamata, indicando meno giorni di lavoro rispetto a quelli effettivi.
Il settore agricolo, più di altri, è soggetto ad alcune forme di business in cui la criminalità organizzata o comunque i fenomeni del caporalato agiscono indisturbati. Un fenomeno trasversale che da nord a sud dello stivale interessa tutta la nostra penisola. Non un fatto isolato, certo, ma al sud molto più diffuso che al nord per una serie di motivi che riguardano anche il business delle terre e l’abbandono quasi totale di alcuni appezzamenti che vengono poi “fruiti” da parte di organizzazioni.


AGROMAFIE E CAPORALATO


 

Piantedosi: sfruttamento del lavoro e caporalato sono fenomeni criminali. Massimo lo sforzo per contrastarli

 

 

 

 

 

 

 

 

 


«Lo sfruttamento del lavoro e il caporalato sono fenomeni criminali che impongono condizioni di vita degradanti, approfittando dello stato di vulnerabilità e di bisogno dei lavoratori.
Dinamiche che non solo ledono la dignità delle persone ma che danneggiano le imprese che scelgono di operare nella legalità e sono spesso funzionali ad alimentare gli interessi economici delle criminalità organizzata che, in alcuni settori, sfrutta senza scrupoli anche manodopera di migranti irregolari. Su questo fronte l’operazione condotta oggi dai Carabinieri e dall’Ispettorato del lavoro di Foggia, in esecuzione di una ordinanza di custodia cautelare del tribunale di Foggia, fa segnare ancora una volta un importante risultato in un territorio in cui la magistratura e le forze di polizia stanno profondendo il massimo sforzo contro i sodalizi criminali che, anche facendo ricorso alla violenza, infiltrano l’economia e il tessuto sociale» ha dichiarato il ministro dell’interno Matteo Piantedosi sottolineando come ieri, presenziando a Foggia al comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, ha avuto modo di confrontarsi con il prefetto, il procuratore della Repubblica, i magistrati della direzione distrettuale antimafia (Dda) di Bari e i vertici delle Forze di polizia provinciale sulle iniziative già assunte e da assumere per contrastare la grave pressione criminale.
«Continueremo a dedicare la massima attenzione a questi fenomeni, facendo rete e creando le condizioni per sviluppare le più efficaci sinergie per contrastare ogni forma di illegalità nel settore del lavoro» ha concluso il titolare del Viminale. 7.2.2023 MINISTERO DELL’INTERNO


“Caporalato in agricoltura: invece delle mafie alimentiamo la legalità”. Intervista a Jean-René Bilongo

 

Le mafie si sono sedute da molto tempo alle nostre tavole. Dettano i prezzi, incidono sulla qualità dei prodotti e sullo sfruttamento della terra e di chi vi lavora. E a questa tavola non si può più rimanere seduti senza una presa di coscienza: quelli che si ingoiano sono bocconi di criminalità organizzata.

Ne parliamo nella rubrica “Cosa vuol dire mafia? – Dialoghi sulla legalità” con Jean-René Bilongo, coordinatore dell’Osservatorio Placido Rizzotto. L’Osservatorio si è dato come compito quello di indagare l’intreccio tra la filiera agroalimentare e la criminalità organizzata, con una particolare attenzione al fenomeno del caporalato e dell’infiltrazione delle mafie nella gestione del mercato del lavoro agricolo. La principale attività dell’Osservatorio è la redazione del Rapporto Agromafie e Caporalato, un rapporto biennale sull’infiltrazione delle mafie nella filiera agroalimentare e sulle condizioni di lavoro nel settore. Bilongo ha lavorato come mediatore culturale a Castel Volturno per diversi anni, constatando di persona i drammatici effetti del caporalato.

Uno dei settori prediletti dalle mafie è la filiera agroalimentare, da cosa nasce questo interesse, quale il vero giro d’affari che la produzione agricola assicura alla criminalità organizzata? 

È ovvio che la filiera agroalimentare fa gola alle mafie, senza distinzione alcuna, suscitandone gli appetiti. Tra la contraffazione, l’agro-pirateria, l’indebito accaparramento dei contributi comunitari iniettati nel settore con la PAC (Politica agricola comune), le ingenti masse di lavoratori manovrate dal caporalato, il lavoro sommerso spesso con tratti para-schiavistici. L’interesse delle organizzazioni criminali, anche in questo settore, è sempre il denaro, la volontà di controllo capillare coercitivo degli assetti produttivi territoriali anche in funzione di riciclaggio di denaro. Le stime dell’Eurispes quantificano in circa 24,5 miliardi di euro il volume d’affari delle agromafie. Una cifra stratosferica per la quale si sacrificano vite, si inquinano irrimediabilmente gli ecosistemi, si schiacciano i diritti dei lavoratori. Basti evocare gli hub ortofrutticoli di Vittoria, in Sicilia, o di Fondi, nel Lazio, per rendere conto del livello di penetrazione delle organizzazioni criminali nella filiera agroalimentare. Penso anche alla nebulosa dei pascoli emersa nel parco dei Nebrodi, di cui si sta celebrando il processo proprio in questi giorni.

Quali sono le relazioni tra caporalato e mafie, ovvero ogni volta che parliamo di caporalato si parla di mafia? Oppure la riduzione in schiavitù di chi lavora non è una prerogativa esclusiva delle mafie?

Il caporalato annulla l’essenza stessa del lavoro, che resta un valore che consente di conseguire l’obiettivo della dignità e della libertà. L’esplosione del caporalato è anche figlia della mancata efficacia operativa delle strutture pubbliche che dovrebbero essere il punto di incontro tra domanda e offerta. Se a questo aggiungiamo altre manchevolezze strutturali in ampie parti del Paese, come il trasporto dei lavoratori dai luoghi in cui risiedono verso i siti produttivi, è chiaro che i caporali fanno leva su queste debolezze, inserendosi negli interstizi aperti in forma organizzata in una funzione di supplenza. È di questi giorni l’allarme lanciato dai Servizi di informazione e sicurezza nel Report annuale presentato al Parlamento: la criminalità organizzata sviluppa relazioni collegate ai cicli colturali stagionali e pilota lo spostamento di imponenti strati di manodopera da una parte all’altra dei territori. Una situazione resa ancor più problematica con l’emergenza sanitaria. I lavoratori agricoli sono un pilastro straordinariamente importante per la salvaguardia della coesione collettiva sociale e non se ne può prescindere. Ovviamente, vi è anche l’imprenditore senza scrupoli, che non è un mafioso, non è collegato a nessuna realtà criminale, che però paga pochi euro per intere giornate in campagna a persone a cui non è riconosciuto nessun diritto. Ecco, come lo vogliamo chiamare, definire, un imprenditore del genere?

Lo sfruttamento dei lavoratori nelle campagne, che siano lavoratori italiani o stranieri, infatti, ha fatto registrare negli ultimi anni molte morti terribili. Si può parlare di una vera e propria tratta di esseri umani e di riduzione in schiavitù che insanguina i prodotti sulle nostre tavole?

Non perdiamo mai di vista la complessità della vasta cornice dentro la quale ci muoviamo. Il Rapporto agromafie e caporalato, a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto, da sempre dedica una forte attenzione alla tratta di esseri umani funzionale allo sfruttamento nell’economia primaria. Molti lavoratori perdono la vita nelle nostre campagne. L’esercizio del sindacato di strada, che la Flai- Cgil pratica sistematicamente, ci consegna un quadro reale della situazione che ci pone nella condizione di dover andare oltre il ruolo del sindacato. Ci ritroviamo protagonisti di un bisogno di sussidiarietà sociale molto vasta. Dobbiamo fare i conti con la necessità di essere accanto ai lavoratori anche in quei bisogni basilari che il lavoro dovrebbe dipanare. Ecco, spesso provvediamo noi alla distribuzione di mascherine, di giubbotti catarifrangenti, così come in tante circostanze drammatiche ci siamo fatti carico della traslazione delle salme delle vittime di sfruttamento. Non possiamo essere lasciati soli in questa battaglia che è immane. Ora più che mai occorre una grande assunzione di responsabilità da parte di tutti: intanto, per far funzionare la Rete del Lavoro Agricolo di Qualità il cui decollo sui territori, attraverso le sezioni, non parte. È necessario capire che gli effetti del caporalato e dello sfruttamento sui prodotti agricoli è devastante in quanto i consumatori si nutrono di prodotti macchiati dal sangue e dal sudore di veri e propri schiavi. Ci sono tante, tantissime aziende rispettose del lavoro, della terra e della filiera produttiva. Queste azienda devono essere tutelate dalla concorrenza sleale dei criminali. La concorrenza sleale sui costi di produzione, sulla qualità, permette ad una minoranza di inficiare uno dei settori economici più importanti dell’Italia.

Concretamente e realmente, che cosa si può fare nell’immediato, se non per bloccare, almeno per arginare l’infiltrazione delle mafie nel campo agroalimentare? E questa infiltrazione si limita alle campagne oppure si allarga a tutta la filiera produttiva? 

Non si può commettere l’errore di sottovalutare il problema, né derubricarlo a questione periferica rispetto ad altre. Qui bisogna agire. La confisca dei beni, delle utilità e dei proventi dello sfruttamento e del caporalato è sempre un disincentivo, come succede peraltro in altri àmbiti di lotta alle mafie. La perdita del patrimonio accumulato spaventa, soprattutto perché tutta la capacità di nocumento delle mafie gravita attorno al massimo guadagno. Se colpisci quei flussi, le mafie si preoccupano. Da questo punto di vista, la cronaca è ricca di interventi di Polizia Giudiziaria di contrasto al caporalato. È questo è uno dei due profili della legge 199. La stessa normativa ha anche assetto preventivo ed è qui che si incontrano le maggiori difficoltà. Ma noi insistiamo su tutto quello che si deve ancora implementare per far funzionare la Rete del Lavoro Agricolo di Qualità che non può essere vista come un onere, un’incombenza gravosa.

Quale aspetto del caporalato lo rende un vero e proprio delitto morale nella nostra società e, soprattutto, perché c’è questa volontà di ignorare questo dramma? 

Colpisce la riduzione delle persone a semplici arnesi da lavoro, privi di umanità. Bisogna ascoltare i pianti muti delle vittime dello sfruttamento e del caporalato, le grida di disperazione delle donne. Bisogna entrare in contatto con i ghetti per cogliere la portata del dramma. Il caporalato e lo sfruttamento dei lavoratori sono una vera e propria minaccia alla democrazia e alla civiltà del nostro Paese. Ognuno di noi ha la possibilità di agire e anche nella maniera più semplice: il consumatore deve essere parte attiva di questa lotta per la dignità dei lavoratori quando sceglie con attenzione cosa mangia. Una scelta di cui beneficia in primis proprio il consumatore, che mangia prodotti sani, oltre che etici e legali. Ecco che il contrasto al caporalato appartiene a tutti, prediligendo l’agricoltura che rispetta le persone, i territori. Dobbiamo “alimentare” la legalità.


Sfruttamento lavorativo, criminalità organizzata e attività di contrasto in Veneto

In questo contesto è comprovato il ruolo delle organizzazioni criminali in Veneto nella fornitura di manodopera, anche se non direttamente connesso alla sfruttamento in agricoltura: l’abbiamo desunto dalle carte dell’inchiesta sul Veneto orientale che squadernano l’attivismo del gruppo capeggiato da Luciano Donadio nella fornitura di squadre di operai nei diversi cantieri edili del territorio o dall’inchiesta Porto Franco, della procura di Reggio Calabria, sulle cooperative che facevano capo alla cosca Pesce attive anche a Verona. Nel 2019 un’inchiesta della Guardia di Finanza di Soave nel veronese riguardante un imponente giro di fatture false che ha coinvolto personaggi legati alla criminalità organizzata calabrese ha portato alla luce l’attività di reclutamento di manodopera in nero da impiegare nel settore edile. O nell’attività della famiglia Giardino sempre nell’area scaligera o, riandando indietro negli anni, emerge da un’altra importante inchiesta giudiziaria intrapresa nell’alto trevigiano: Angelo Pittaresi, legato a Cosa Nostra, avviò una grossa attività di intermediazione di manodopera fiutando la richiesta da parte delle imprese di manodopera a intermittenza., Una testimonianza inquietante l’ha offerta sei anni fa l’allora procuratore capo di Verona, Guido Papalia: «A Verona esiste un forte bisogno di manodopera che viene soddisfatto da organizzazioni criminali. Esse creano imprese e cooperative che lavorano in subappalto o forniscono lavoro nero».
E in agricoltura che cosa è successo in Veneto in questi anni? Lo racconta un lavoratore intervistato dieci anni fa per un’inchiesta condotta dalla Flai Cgil di Padova: “Pensa, gli viene domandato, che rispetto al passato ci sia stato un cambiamento nelle condizioni di lavoro in agricoltura? Totale, un cambiamento totale – risponde – perché io ho cominciato nel 1981 e la paga era più congrua, prima di tutto. Seconda cosa, i datori di lavoro avevano meno pretese. Una volta per raccogliere una cassetta di insalata ti ci volevano 5 minuti, per dire, adesso devi farla in due minuti. Ora è un lavoro oltre che un po’ faticoso di schiena, dove ti corrono dietro.. “fai presto altrimenti quella lì è la strada”. E dopo naturalmente ho capito anche un’altra cosa, ovvero che i datori di lavoro assumono sempre una terza persona, cioè, mettono un capo azienda..Usano un’intermediazione e, guarda caso, scelgono sempre un intermediario che fa gli affari suoi.. cioè che ti fa fare delle cose per farti lavorare di più o per spingerti sempre oltre”.  
C’entrano le “mafie” in tutto questo? Probabile. In Veneto, in particolare nella province di Verona e Vicenza sono, in alcune enclave territoriali, insediate nel corpo vivo della società locale e, tradizionalmente, cercano di trarre vantaggio da situazioni di cattiva regolazione e di crisi. Si ritagliano il loro ruolo regolando a loro modo il mercato del lavoro oppure, come accertato da recenti inchieste anche in Veneto, presidiando gli snodi del commercio, come il trasporto e i mercati ortofrutticoli. Praticando azioni illegali che magari da domani, al variare della legislazione, illegali non saranno più. Ma quello che emerge dalle inchieste della magistratura non è tanto spia della presenza mafiosa, ma del riprodursi di un sistema che concepisce lo sfruttamento lavorativo come componente essenziale per la sua riproduzione. La rappresentazione del caporalato, come espressione della criminalità mafiosa lascia sullo sfondo le pratiche e le responsabilità di tanti che si tengono lontani dall’essere (definiti) mafiosi. Lì dove le condizioni di sfruttamento del lavoro agricolo vengono imputate all’azione di gruppi criminali permane una lunga lista di figure che, ciascuno nel proprio campo di azione, perpetua forme di ingiustizia sociale. Attraverso queste complicità si realizza una precisa modalità di organizzazione del lavoro, alla quale partecipano il piccolo proprietario terriero, le cooperative agricole (talvolta anche le cooperative incaricate dell’accoglienza dei migranti), le catene di supermercati, i responsabili delle piccole e grandi aziende di trasformazione e distribuzione dei prodotti e, infine, il singolo cittadino che, con i propri acquisti, legittima questa forma di produzione e sfruttamento. *saggio presente nel Quinto Rapporto Agromafie e Caporalato a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil Gianni Belloni Antonella Rizzello


Caporalato – legislazione

ll divieto di svolgere attività destinate al collocamento dei lavoratori nel mondo del lavoro trova le proprie origini nell’art. 27, Legge n. 264/1949 (Provvedimenti in materia di avviamento al lavoro e di assistenza dei lavoratori involontariamente disoccupati), che puniva le violazioni con un’ammenda e con il sequestro del mezzo di trasporto utilizzato al fine dell’attività illecita, divieto poi ribadito dagli artt. 1 e 2, l. n. 1369/1960 (Divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell’impiego di mano d’opera negli appalti di opere e di servizi). 

Tale divieto venne formalmente abolito a seguito del D.lgs. n. 276/2003 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla l. 14 febbraio 2003, n. 30) che riformulava gli strumenti lavoristici di contrasto al fenomeno. Sarà poi il D.l. n. 138/2011, convertito in Legge n. 148/2011, a seguito della pressione delle forze sindacali, che introdurrà nel nostro ordinamento il reato di “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” (art. 603 bis c.p.).
Il D.lgs. n. 109/2012, con cui è stata recepita la Direttiva Comunitaria 2009/52/CE (c.d. Direttiva sanzioni), ha inasprito le sanzioni nei confronti dei datori di lavoro che assumono lavoratori in posizione irregolare, prevedendo delle ipotesi aggravanti (con pene aumentate da un terzo alla metà) nei casi in cui il divieto di impiego di cittadini stranieri il cui soggiorno è irregolare, sia caratterizzato da “particolare sfruttamento”. Tale decreto, inoltre, al fine di favorire l’emersione degli illeciti ha previsto, per le ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo, che lo straniero che presenta denuncia o coopera nel procedimento penale instaurato nei confronti del datore di lavoro, possa ottenere, su proposta o con il parere favorevole del giudice, il rilascio di un PERMESSO DI SOGGIORNO DENOMINATO “PER CASI SPECIALI” ai sensi dell’articolo 22, comma 12 sexies del D.lgs n. 286/1998 (così come da ultimo modificato dalla legge  n. 132 del 1° dicembre 2018).
Nel 2014 (con l’art. 6, D.l. n. 91/2014, convertito con modificazioni dalla Legge n. 116/2014), invece, l’intervento del legislatore si è concretizzato nel tentativo di responsabilizzare le aziende agricole alla creazione di una filiera produttiva eticamente orientata, attraverso la creazione di una Rete del lavoro agricolo di qualità a cui possono iscriversi le imprese agricole che non abbiano riportato condanne penali e non abbiano procedimenti penali in corso per violazioni della normativa in materia di lavoro e legislazione sociale e in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, e che non siano destinatarie di sanzioni amministrative definitive e in regola con il versamento dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi. L’istituzione della Rete del lavoro agricolo di qualità si propone di improntare la domanda di prodotti agricoli all’eticità dei metodi produttivi attraverso la pubblicazione, a cura dell’Inps, di un elenco delle imprese agricole che aderiscono alla Rete, così da incentivare i datori di lavoro a comportamenti virtuosi e rispondere, al contempo, alle critiche sullo scarso rispetto dei diritti umani degli operai agricoli che lavorano in Italia, provenienti anche da altri Paesi europei.
Con l’entrata in vigore del Jobs Act, il D.Lgs n. 149/15 introduce l’Ispettorato Nazionale del Lavoro quale Agenzia unica di diritto pubblico che integra i servizi ispettivi del Ministero del Lavoro, dell’INPS e dell’INAIL. Esso, tra l’altro, svolge le attività di prevenzione e promozione della legalità presso Enti, datori di lavoro e associazioni finalizzate al contrasto del lavoro sommerso e irregolare. Inoltre esercita e coordina su tutto il territorio nazionale la vigilanza in materia di lavoro, contribuzione e assicurazione obbligatoria, nonché legislazione sociale, nei limiti delle competenze già attribuite al personale ispettivo del Ministero del Lavoro.
Successivamente, la Legge n. 199/2016, recante “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”, ha previsto specifiche misure per i lavoratori stagionali in agricoltura ed esteso responsabilità e sanzioni per i caporali e gli imprenditori che fanno ricorso alla loro intermediazione. I principali filoni di intervento della legge riguardano:

  • la riscrittura del reato di caporalato (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro), che introduce la sanzionabilità anche del datore di lavoro;
  • l’applicazione di un’attenuante in caso di collaborazione con le autorità;
  • l’arresto obbligatorio in flagranza di reato;
  • il rafforzamento dell’istituto della confisca;
  • l’adozione di misure cautelari relative all’azienda agricola in cui è commesso il reato;
  • l’estensione alle persone giuridiche della responsabilità per il reato di caporalato;
  • l’estensione alle vittime del caporalato delle provvidenze del Fondo anti tratta;
  • il potenziamento della Rete del lavoro agricolo di qualità, in funzione di strumento di controllo e prevenzione del lavoro nero in agricoltura;
  • il graduale riallineamento delle retribuzioni nel settore agricolo.

Nello specifico, tale legge riformula, aggiorna e inasprisce il dettato dell’art. 603-bis del Codice Penaleche prevede sanzioni in presenza di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. La responsabilità e le sanzioni sono quindi estese sia ai caporali che agli imprenditori che ricorrono alla loro intermediazione. Per un approfondimento sull’attività di vigilanza portata avanti dall’INL vai a Linee Guida Infine, il Protocollo sperimentale contro il caporalato e lo sfruttamento lavorativo in agricoltura (Cura – Legalità – Uscita dal Ghetto), sottoscritto il 27 maggio 2016 e in vigore sino a Dicembre 2017, ha rappresentato uno primo impegno istituzionale e interregionale. Dal 3 settembre 2018 inoltre, il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali ha convocato un primo tavolo tecnico di coordinamento per definire una strategia nazionale, attraverso un piano triennale, per il contrasto al fenomeno del grave sfruttamento lavorativo. L’articolo 25 quater della Legge n. 136/2018, con cui è stato convertito in legge il D.L. n. 119/2018 , ha ufficialmente istituito presso il Ministero del Lavoro il TAVOLO SUL CAPORALATO “allo scopo di promuovere la programmazione di una proficua strategia per il contrasto al fenomeno del caporalato e del connesso sfruttamento lavorativo in agricoltura”. Il nuovo Tavolo, presieduto dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, è composto da rappresentanti di vari Ministeri (Interno, Giustizia, Politiche agricole, Infrastrutture e dei trasporti), dell’ANPAL, dell’Ispettorato nazionale del lavoro, dell’INPS, del Comando Carabinieri per la tutela del lavoro, del Corpo della guardia di finanza, delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano e dell’Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI). Con le modifiche introdotte dal D.L. n. 34 del 19 maggio 2020, come convertito dalla l. n. 77 del 17 luglio 2020, la composizione del Tavolo è stata estesa anche a rappresentanti nominati dall’ Autorità politica delegata per la coesione territoriale e dall’ Autorità politica delegata per le pari opportunità. Possono partecipare alle riunioni del Tavolo rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori del settore nonche’ delle organizzazioni del Terzo settore.

Il Tavolo, inizialmente previsto per un triennio sino al mese di settembre 2022, è stato prorogato sino al 3 settembre 2025. Il Decreto Interministeriale del 17 giugno 2022, con il quale è stata disposta la proroga, ha aggiornato, inoltre, il Decreto Interministeriale del 4 luglio 2019di organizzazione e funzionamento. GOVERNO.IT