Borsellino, in cima all’olimpo del coraggio

 

Da ormai un quarto di secolo, in ogni commemorazione, in ogni ricordo, in ogni discorso, i nomi di Falcone e Borsellino non vengono mai scissi, bensì pronunciati sempre e solo insieme, quasi a rafforzare, amplificare, sublimare l’idea che, effettivamente, i due giudici siano stati un’unica persona ed è giusto che ciò avvenga perché, per certi versi, è stato proprio così. 

Tuttavia, a volte, è bene e doveroso ricordarli separatamente. Perché, oltre l’obiettivo comune che li ha associati fino all’ultimo anelito di vita, c’è stato anche altro. Le loro sensibilità, le loro differenti ideologie politiche, gli amori, le paure, le innumerevoli sigarette, il loro coraggio ed i momenti, seppur fugaci, di normalità e spensieratezza, vissuti al di fuori del Tribunale di Palermo.

Compresi i ricordi risalenti alla loro infanzia quando, bambini, giocavano insieme nell’antico quartiere, sorto durante la dominazione islamica, de “La Kalsa” (dall’arabo “al Khalisa”, “la pura” o “l’eletta”) a pochi metri da altri bambini che presero, poi, strade diametralmente opposte, Buscetta e Spadaro, su tutti (Falcone, appassionato di ping-pong, in parrocchia giocò anche una partita con quest’ultimo).

Se Giovanni Falcone non volle mai diventare genitore, il motivo risiede nel fatto che “non si mettono al mondo orfani”.
Paolo Borsellino, al contrario, fu padre di tre figli e negli ultimi giorni prima del già scritto appuntamento con la morte, iniziò, volutamente, ad allontanarsi dai suoi ragazzi, assumendo un atteggiamento freddo e distaccato, per abituarli all’assenza che, di lì a poco, si sarebbe puntualmente concretizzata. In ambedue i gesti vi è racchiuso il concetto d’amore, nella sua accezione più nobile. 

Analoghe considerazioni sorgono spontanee affrontando il tema del coraggio, che nel caso di Borsellino, a mio avviso, raggiunse vette inarrivabili.
Continuò la sua missione, dopo aver visto il suo amico, il suo scudo, spirare tra le sue braccia, sapendo perfettamente di raggiungerlo a brevissimo, dopo esser stato avvertito da un rapporto del Ros, dell’arrivo del carico di tritolo.
“Il tritolo è arrivato anche per me, lunedì scorso”, confidò, appena qualche ora prima di saltare in aria, al suo amico Giuseppe Tricoli.
Ed essendo cosciente di dover fronteggiare non solo la mafia, ma anche i tanti “Giuda”, come lui stesso li definì, è davvero fuori dal comune.
Facile da raccontare, difficile non commuoversi, impossibile da comprendere a pieno, perché eccessivamente alto. 

Dopo il funerale di Falcone – che sostanzialmente fu anche il suo – a sua moglie Agnese disse che presto sarebbe toccata a lui, inevitabilmente
Rappresentava la chiusura del cerchio delle stragi mafiose, l’ultimo morto ancora in vita. E si sa, la mafia di quell’epoca non si fermava dinanzi a nulla e a nessuno.
Di quegli anni terribili che misero in ginocchio la Sicilia intera, non dimenticare gli angeli delle scorte che vegliarono giorno e notte su tutti gli uomini uccisi dalla mafia, è un dovere.
Nel plotone di Borsellino c’era anche una ragazza sarda di ventiquattro anni – Emanuela Loi – promessa sposa, non giungerà mai all’altare, divenendo la prima agente donna della Polizia di Stato a restare uccisa in servizio.

Il giudice per non far rischiare la vita anche agli uomini che lo proteggevano provò, invano, ad allontanarli, muovendosi, solo!, con la propria automobile per le vie di una Palermo che sempre più assumeva le sembianze di una pentola a pressione, pronta ad esplodere – ma non ci fu nulla da fare, perché, per spirito di servizio, i cinque poliziotti si imposero, tornando a scortarlo.

Un gesto simile, paragonato ai tempi attuali, di ricorrente abuso di “auto blu”, fa amaramente riflettere. 
Il giorno della fine, quel 19 luglio di un quarto di secolo fa, il giudice dopo essersi congedato per sempre dal “suo” mare, partì per accompagnare la madre dal cardiologo. 
Inizialmente era prevista una visita domiciliare, se non fosse che il giorno precedente la mafia aveva incendiato la vettura dello specialista per lasciarlo a piedi.
Via D’Amelio è una trappola per topi. Strada senza uscita, stretta e sempre ricolma di automobili.
Praticamente il luogo ideale per organizzare un attentato dinamitardo. Ragion per cui, mesi addietro, fu richiesta l’ordinanza di istituzione del divieto di sosta.
Tale provvedimento non fu mai emanato e quella bomba, dall’innocuo volto di una Fiat 126, poté trovarsi parcheggiata lì, pronta per esplodere. 

Il nostro Paese ha un grande difetto, purtroppo; quello di tendere ad esaltare le gesta di tanti grandi uomini altrui, a discapito dei nostri Eroi, troppo – e troppo spesso – banalizzati, normalizzati o, in alcuni casi, addirittura dimenticati.
Volendo limitarmi a scrivere tre nomi, cito Giorgio Perlasca, Salvo D’Acquisto e Falcone e Borsellino. Perché sì, la loro, è stata un’unica figura, un alieno caduto sul luogo sbagliato.
Venticinque anni sono un’eternità e quelle stragi sono ormai lontanissime.

Altri tempi rispetto ad ora, per fortuna. Altri personaggi rispetto ad adesso, purtroppo.

L’OPINIONE  DELLA LIBERTÀ 15 luglio 2017