GIUSEPPE MONTALTO vittima della vendetta di Cosa nostra

 
Giuseppe Montalto trovò per puro caso uno di questi pizzini indirizzati al boss Graviano, a Mariano Agate e Raffaele Ganci. Lo sequestrò e denunciò subito l’accaduto. Cosa nostra lo fece uccidere, il 23 dicembre del 1995.
Giuseppe, uomo dello Stato e padre di trent’anni, non si aspettava certamente di essere ucciso alla vigilia di Natale, davanti agli occhi esterrefatti della moglie e della figlioletta di pochi mesi.
Fu ammazzato dal sicario di fiducia della mafia, il valdericino Vito Mazzara.
Giuseppe Montalto fu ucciso perché i mafiosi trapanesi, racconteranno poi i pentiti, volevano fare avere un regalo ai mafiosi detenuti al 41 bis: e lui era inviso alla mafia perché aveva fatto fino in fondo il suo dovere.
Mandati dell’omicidio sono stati riconosciuti il super latitante Matteo Messina Denaro con il capo mafia trapanese Vincenzo Virga e il boss palermitano di Resuttana Nicolò Di Trapani.
Il delitto fu deciso nel corso di un summit di mafia a Salemi, come ha raccontato il pentito Milazzo, queste furono le parole dei boss: “Dobbiamo vedere di fare il più presto possibile, così per Natale ci facciamo un regalo a qualche amico che è in carcere…”.”
I racconti di alcuni collaboratori sull’ omicidio da pag 935 della sentenza Omega
 

Giuseppe Montalto

L’indifferenza non faceva parte della sua vita. Una caratteristica che lo aveva sempre contraddistinto, forse anche il motivo che lo aveva portato a scegliere di indossare una divisa.

Il senso del dovere è un atto di coraggio quotidiano. Lo è a maggior ragione quando hai la sensazione che tutto intorno a te ti induca a fare scelte diverse, a voltare la testa dall’altro lato, a far finta di non vedere. È in quel momento, nella concretezza di situazioni che ti pongono di fronte all’obbligo morale di scegliere da che parte stare, che viene fuori l’essenza della libertà e della dignità dell’uomo. Il senso del dovere, appunto. Ma vale sempre la pena?
Giuseppe Montalto deve essersi posto spesso nella propria vita questa domanda. Una domanda difficile, perché, quando la posta in gioco è molto alta, trovare una risposta adeguata finisce col mettere in discussione dal profondo la propria stessa vita. Eppure la vita di Giuseppe sembra essa stessa una risposta a questa domanda. Lo sono le sue scelte, il suo coraggio, il suo altissimo senso del dovere.
Era trapanese Giuseppe. Nella città dei due mari era nato il 14 maggio del 1965 e qui era cresciuto, scegliendo ben presto di arruolarsi nel corpo della Polizia Penitenziaria. Era diventato Agente scelto e, ancora molto giovane, aveva iniziato la sua carriera nella Casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino, il carcere de Le Vallette, dove aveva lavorato per anni prima del ritorno nella sua Sicilia.   

Il trasferimento a Palermo

A Palermo Giuseppe Montalto arriva nel 1993. È in quest’anno, poco dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio e mentre ancora la mafia siciliana macchia di sangue le strade di mezza Italia, che viene trasferito all’Ucciardone. Non è un carcere qualunque quello di Palermo. E non è una sezione qualunque quella a cui viene destinato Giuseppe: sezione di massima sicurezza. È l’ala della casa di reclusione in cui sono ristretti i boss più spietati, quelli detenuti al regime duro del 41 bis. Gente potente e pericolosa, capace di controllare affari e delitti anche dall’interno di una cella. Per loro, l’ordinamento penitenziario prevede condizioni durissime di detenzione: isolamento, colloqui limitati, visto di controllo della posta in uscita e in entrata, sorveglianza costante da parte di agenti scelti e con pochissimi contatti con i colleghi. Dopo la morte di Giovanni Falcone, il regime del carcere duro fu esteso anche ai mafiosi. Fu la risposta dello Stato all’attentato di Capaci e forse, al contempo, tra le ragioni che determinarono le stragi successive. Un affronto insopportabile per Cosa nostra.
Ecco, era con questa gente che Giuseppe Montalto aveva a che fare. Ed era lì, tra le mura dell’Ucciardone, che questo giovane agente scelto si confrontava, ogni giorno, col suo senso del dovere. Eppure Giuseppe non si era lasciato condizionare dalla durezza di quel lavoro. Era un uomo generoso e buono, capace di gesti di comprensione verso i detenuti, anche della peggior specie. Buono ma intransigente, incapace di restare indifferente. Perché lì, tra quelle mura, il suo senso del dovere incontrava un altro valore fondamentale, quello della giustizia: fare sempre la cosa giusta.
E se è vero che indifferenza e pigrizia morale non possono andare d’accordo con il senso del dovere e della giustizia, quel giorno di aprile del 1995 Giuseppe non dovette avere dubbi quando si accorse che tra i detenuti all’ora d’aria c’erano dei movimenti strani. Sì perché, nonostante il carcere duro, quella di passarsi informazioni attraverso bigliettini di carta e pizzini era evidentemente un’abitudine ben collaudata. Accadde così anche quel giorno. Ma Giuseppe non si voltò dall’altra parte e mentre i suoi colleghi perquisivano Mariano Agate, capo della mafia di Mazara, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano e Raffaele Ganci, tutti e tre boss palermitani, lui si accorse che quest’ultimo aveva lasciato scivolare un foglietto, forse indirizzato al catanese Nitto Santapaola. Lo raccolse senza pensarci su due volte, lo consegnò al suo superiore e denunciò tutto. Fu la sua condanna a morte.
Secondo i giornali dell’epoca, ai funerali di Stato celebrati qualche giorno dopo Natale nella piccola chiesa di Piatratagliata c’erano più di mille persone. Tra loro, in lacrime, tanti colleghi. Accanto alla bara, la giovane vedova di Giuseppe, Liliana. 

Ricordare significa non far morire un’altra volta la persona che è stata uccisa. È importante fare gruppo e combattere la mafia, ma la mafia – dice – dobbiamo saperla combattere anche in modo individuale. È per questo che invito i giovani ad avere sempre voglia di fare delle cose buone, belle e importanti.

Liliana – moglie di Giuseppe

Il 23 dicembre del 1995

La sera del 23 dicembre 1995 Giuseppe era appena fuori dalla casa di suo suocero, in località Palma di Trapani. Era sceso dalla sua Fiat Tipo targata Torino per portare dentro una bombola del gas. Quella macchina era stata segnalata da una gola profonda interna alla motorizzazione. Con Giuseppe, sul sedile del passeggero, sua moglie Liliana. Dietro, nel seggiolino, Federica, la loro prima figlia, di appena 10 mesi. In realtà in quell’auto quella sera erano in quattro, ma ancora nessuno lo sapeva. C’era anche Ilenia nel grembo di Liliana. Sarebbe nata orfana. Contro Giuseppe furono esplosi alcuni colpi di fucile a canne mozze. Nessuno scampo per lui, che spirò tra le braccia di sua moglie.
Federica non ha memoria di quel giovane trentenne ucciso davanti a lei quando lei di anni non ne aveva ancora nemmeno uno. Ma 15 anni dopo quella tragica sera al padre ha voluto rivolgere una lettera.

Non mi ricordo il momento in cui hanno detto che non c’eri più e sono cresciuta con il vuoto della tua assenza. Tante volte mi sono chiesta perché ti hanno portato via da me e a questa domanda non ho mai saputo rispondere. Ogni volta che ti penso, ti immagino felice e sorridente, come nelle poche foto che abbiamo insieme. Per quello che sei stato, ti voglio bene e sei il mio eroe.

Vicenda giudiziaria

Anni dopo, il movente del pizzino fu confermato dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Milazzo. Quel delitto fu deciso nel corso di vari summit di mafia in una villetta di Salemi, alla presenza, tra gli altri, di Matteo Messina Denaro. L’ordine di morte era arrivato dai Madonia, proprio dall’interno dell’Ucciardone: «Ninuccio manda a dire che vuole fatta una cortesia, vuole eliminata una guardia carceraria che “si comporta male”». Doveva essere un avvertimento, un gesto dimostrativo contro le restrizioni del carcere duro. Si doveva uccidere una guardia carceraria per «fare un regalo a qualche amico che è in carcere», rivelò il pentito Giovanni Brusca in Corte di Assise. «Il regalo di Natale ai detenuti, così si fanno il Natale più allegro», raccontarono al processo i pentiti.
Giuseppe è stato un “eroe silenzioso di questa terra”, dissero nella loro requisitoria i pm Ignazio De Francisci e Andrea Tarondo. Un omicidio da inserire nel contesto della strategia stragista di Cosa nostra. Forse, l’ultimo atto di quella stagione di sangue, l’ultima sfida allo Stato cominciata tre anni prima a Capaci e in via D’Amelio. 
A sparare fu Vito Mazzara, capo famiglia di Valderice, un professionista che frequentava i campionati nazionali di tiro a volo. Fu condannato all’ergastolo come esecutore materiale del delitto. Con lui, secondo gli inquirenti, c’era anche un altro killer, rimasto però senza volto. L’arma, il fucile a canne mozze, sarebbe la stessa utilizzata da Mazzara per l’omicidio del giornalista Mauro Rostagno. Il processo ha individuato e condannato all’ergastolo anche i mandanti Matteo Messina Denaro, il capo mafia di Trapani ancora latitante, Vincenzo Virga, e il palermitano Nicolò Di Trapani, boss di Resuttana.

Memoria viva

Nell’ottobre del 2011, a Giuseppe Montalo è stata intitolata la Cosa circondariale di Alba. A lui sono intitolate anche le caserme degli agenti dei reparti di Palermo Ucciardone e Agrigento. La Provincia regionale di Trapani dal 2007 ha istituito la borsa di studio Giuseppe Montaltoassegnata ogni anno a parenti di vittime della mafia o di incidenti sul lavoro.
Il 19 novembre del 1997 gli è stata conferita la Medaglia d’oro al merito civile alla memoria per avere assolto “il proprio compito con fermezza, abnegazione e alto senso del dovere. Proditoriamente fatto segno a colpi d’arma da fuoco in un vile attentato tesogli con efferata ferocia da appartenenti all’organizzazione criminosa, sacrificava la vita a difesa dello Stato e delle istituzioni”.  VIVI LIBERA


“Ricordatevi di Giuseppe”

Ventidue anni fa l’omicidio dell’agente della polizia penitenziaria Giuseppe Montalto: i mafiosi presero la sua vita per farne un “regalo di Natale” ai boss reclusi al 41 bis

Oggi all’interno della casa di reclusione di Trapani Libera, il Dap, i poliziotti penitenziari, ricorderanno Giuseppe Montalto. Si farà un importante esercizio di memoria per dar merito a Giuseppe Montalto un uomo, agente della polizia penitenziaria, ammazzato a 31 anni dai mafiosi trapanesi, un omicidio voluto dal latitante Matteo Messina Denaro, eseguito dal killer di fiducia della “famiglia” trapanese, quel Vito Mazzara all’ergastolo oggi anche per l’omicidio del sociologo e giornalista Mauro Rostagno. Per uccidere Giuseppe Montalto e Mauro Rostagno, Vito Mazzara utilizzò la stessa arma, un fucile a canne mozze, agì in tutte e due i delitti con assoluta precisione, uccidendo Giuseppe Montalto e riuscendo a non colpire la moglie, Liliana Riccobene che si trovava in auto col marito, stessa cosa per Rostagno uccise lui e risparmiò la donna, Monica Serra, che si trovava in auto col giornalista. «Ricordati di Giuseppe, uomo giusto, onesto, stroncato dalla mafia. Che il suo sacrificio possa essere d’esempio a tutti noi e che ci induca a combatterla». L’affermazione è di Liliana Riccobene. Giuseppe Montalto lavorava all’Ucciardone, nel braccio del 41 bis. La sua morte per mano assassina si scoprì essere stata «il regalo di Natale» del 1995 fatto dai boss in libertà, e tra questi il super latitante Matteo Messina Denaro, ai mafiosi reclusi, un omicidio per contestare l’odiato carcere duro e per colpire un agente che aveva fatto il suo dovere, impedire cioè a due boss reclusi di riuscire a passarsi un «pizzino». All’Ucciardone il boss Raffaele Ganci stava facendo arrivare una lettera al boss catanese Nitto Santapaola. Giuseppe Montalto fu barbaramente ucciso nella frazione trapanese di Palma il 23 dicembre del 1995: ucciso davanti gli occhi della moglie Liliana Riccobene: erano in auto, fermi, sul sedile posteriore la loro figlioletta, Federica di 10 mesi. Liliana ancora non lo sapeva ma in grembo stava crescendo un’altra loro figlia, Ilenia. Un omicidio per il quale i boss si erano messi a gara per eseguirlo. L’alcamese Nino Melodia ebbe a lamentarsi del fatto che alla fine Giovanni Brusca, uomo d’onore di San Giuseppe Jato, che nel 95 faceva il latitante tra le campagne di Trapani e Valderice, non gli disse più nulla di andare a fare quell’omicidio. L’ordine di morte era arrivato dall’Ucciardone. Dai boss palermitani, dai Madonia: «Ninuccio manda a dire che vuole fatta una cortesia, vuole eliminata una guardia carceraria che “si comporta male”». A Salemi si svolsero i «summit» per decidere e organizzare l’omicidio di Giuseppe Montalto: nella villetta di Rosario Calandrino si trovarono i capi mafia di Trapani con Matteo Messina Denaro, ebbero anche l’aiuto di una «gola profonda» dentro l’ufficio della Motorizzazione per individuare chi fosse quell’agente, dal carcere, infatti, avevano fatto sapere che il poliziotto da uccidere aveva una Fiat Tipo targato Torino, e così qualcuno si occupò di individuare chi fosse il proprietario dell’auto, così da permettere ai killer di andare a cercarlo. Lo andarono a cercare e lo trovarono. Vito Mazzara sparò ma non era da solo, con lui c’era un’altra persona che si occupò di coprirlo mentre sparava, il sospetto degli investigatori, grazie alla testimonianza del pentito Ciccio Milazzo, fu quello che si poteva trattare di Franco Orlando, politico, fu consigliere comunale a Trapani del Psi, segretario particolare dell’allora deputato Bartolo Pellegrino, e uomo d’onore riservato. Orlando fu condannato solo per associazione mafiosa e assolto dal delitto. Orlando oggi è libero, è uno dei 200 mafiosi che sono tornanti liberi e vivono nell’hinterland trapanese. I killer attesero Giuseppe Montalto la sera del 23 dicembre 1995, appostati davanti casa dei suoi suoceri. Montalto arrivò, portò una bombola del gas a casa dei suoceri, tornando sui suoi passi Non fece in tempo a salire in auto, fu ucciso con due colpi di arma da fuoco, riuscì a salire sulla vettura ma cadde addosso alla giovane moglie che sedeva nel sedile di fianco. «Il regalo di Natale ai detenuti» raccontarono poi i pentiti durante il processo, «si fanno (i detenuti ndr) il Natale più allegro» fu l’affermazione dei mafiosi che avevano voluto quel delitto, cenando la sera della vigila di Natale tutti assieme a Valderice. Quei giorni del 1995 erano stati «pesanti» per gli agenti dell’Ucciardone, più volte avevano ricevuto chiari segnali di «pressione» da parte dei detenuti al 41 bis. Un agente trovò uno sportello della propria auto aperto: all’interno c’erano tre proiettili ed un giornale con la foto di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Un altro agente ha raccontato, invece, che mentre si trovava in servizio due persone si recarono nella sua abitazione. «Affermarono che erano due poliziotti che dovevano fare una perquisizione, ma mia madre non voleva aprire la porta: gli dissero che erano due mafiosi e che avrebbero sfondato l’uscio… Fortunatamente mio figlio riuscì ad avvertirmi, ma quando arrivai a casa i due uomini erano fuggiti». In questo clima, da aprile 95 in poi, maturò il delitto di Giuseppe Montalto. A scatenarlo fu il fatto che Montalto impedì al boss palermitano Raffaele Ganci di passare una lettera al catanese Nitto Santapaola. Ilenia per colpa di quei mafiosi non ha potuto conoscere il padre, Federica ne parla come se fosse stato «Aladino». Gli è rimasta impressa l’immagine del padre oramai senza vita, composto nella camera ardente con una sorta di turbante alla testa (gli era stato messo per nascondere le ferite che gli squarciarono il capo).
Giuseppe Montalto aveva avuto contrasti con alcuni detenuti della nona sezione del carcere dell’Ucciardone, in cui vengono reclusi coloro che sono sottoposti al regime del 41bis. Problemi che lo avevano a chiedere di essere trasferito in un’altra sezione del carcere. Confidenze che Liliana Riccobene ricevette, dopo l’uccisione del marito, da un collega Giuseppe Zambito, ma questo agente davanti ai giudici, durante il processo, negò.
Il «regalo» di Natale del 1995 ai mafiosi al 41 bis, l’odiato carcere duro, per Cosa nostra doveva arrivare sotto forma di un omicidio «come segnale» contro ogni rigidità dello Stato. E così fu. Sono stati condannati all’ergastolo Matteo Messina Denaro. Vincenzo Virga e Vito Mazzara di Custonaci, che sparò. Mafia sprezzante. Anni dopo quel delitto, nel 1999 grazie ad una intercettazione fatta dai poliziotti della Squadra Mobile di Trapani, fu colto il colloquio tra due cugini del capo mafia Vincenzo Virga, Franco e Baldassare. «A pecora mia “dammaggio” (danno ndr) non ne fa, ma sempre pecora è», così Vincenzo Virga avrebbe spiegato perché Montalto era stato ucciso, era una pecora che faceva danno.
Quel 23 dicembre 1995, Liliana lo ricorda spesso così: «… ero rimasta sulla vettura. Sentii un colpo, pensai soltanto a coprire la mia bambina. Mio marito crollò sul mio corpo, sentii un altro sparo. Lo chiamai, ma non rispondeva». Maria Gabriella Riccobene, cognata dell’agente ucciso raccontò, «dopo avere parlato con mia sorella ero rientrata a casa, ma quando chiusi la porta sentii un boato. Tornai fuori e vidi una persona, con la testa coperta da un passamontagna, protesa all’interno della vettura di mio cognato: voleva accertare, probabilmente, il risultato della propria azione. Successivamente l’uomo fuggì verso la strada con un’altra persona… Non vidi altro perché il lampione, che si trova dinanzi la nostra abitazione, era stranamente spento».
Quanto è importante ricordare? «Ricordare – dice Liliana Riccobene – significa non far morire un’altra volta la persona che è stata uccisa, ma avverto oggi che spesso le morti di mafia non sono considerate tutte uguali». «La mafia – dice – dobbiamo saperla combattere anche in modo individuale. Invito i giovani ad avere sempre voglia di fare delle cose buone, belle e importanti».
Talvolta sei nelle scuole, agli studenti cosa dici?
«Che è importante fare gruppo e combattere la mafia, ma la mafia dobbiamo saperla combattere anche in modo individuale. Invito i giovani ad avere sempre voglia di fare delle cose buone, belle e importanti. Rispetto a quel 1995 lo Stato oggi c’è di più e se qualcuno oggi manca sono i politici, spero che presto questi giovani si facciano avanti». ALQAMA H